Ecco La Prima Ristampa Inutile Del 2018! Grateful Dead – Best Of Grateful Dead Live

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Grateful Dead – The Best Of The Grateful Dead Live – 2 CD Grateful Dead/Rhino

Dalla scomparsa del grande Jerry Garcia, avvenuta nel 1995, le uscite d’archivio dei Grateful Dead si sono moltiplicate a dismisura, fino a far diventare quasi impossibile tenerne una contabilità completa. Il 99% di questi CD, quasi sempre multipli e spesso in mega-cofanetti anche parecchio costosi, sono composti da materiale dal vivo, e la lista viene aggiornata ogni anno con almeno due nuove uscite (e mi limito a quelle targate Rhino, poi ci sono i Dave’s Picks, ed in passato i Dick’s Picks e la serie Road Trips). Ora la casa discografica californiana ha avuto una pensata “originale” (prego leggere ironia in queste mie parole), decidendo di pubblicare una bella antologia live doppia con il meglio di quanto è stato pubblicato ufficialmente dai Dead, privilegiando la discografia di quando il gruppo era attivo (1967-1995), ma aggiungendo anche qualcosa tratto dagli album usciti dopo la morte di Garcia (escludendo però le tre diverse serie da me citate poc’anzi). La domanda però è: a chi si rivolge questa antologia, dato che nessuna delle performances incluse è inedita? Non ai Deadheads, in quanto saranno già in possesso anche dei bootlegs, oltre che dei dischi ufficiali. Non ai fans “normali” del gruppo (tra i quali ricade anche il sottoscritto), che comunque queste uscite le posseggono almeno all’80%; forse neppure ai neofiti, che probabilmente preferiscono rivolgersi ad una antologia di studio, o magari ad un live storico della loro discografia (penso a Live/Dead, Grateful Dead (Skull & Roses) e Europe 72, tutti e tre imperdibili). Questa comunque la tracklist: come vedete è stato seguito un criterio cronologico di performance.

Disc One
1. “St. Stephen” – Fillmore West (2/27/69) from Live/Dead (1969)
2. “Bertha” – Fillmore East (4/27/71) from Grateful Dead (Skull & Roses) (1971)
3. “Wharf Rat” – Fillmore East (4/26/71) from Grateful Dead (Skull & Roses) (1971)
4. “Sugar Magnolia” – Olympia Theatre (5/4/72) from Europe ’72 (1972)
5. “Jack Straw” – Olympia Theatre (5/3/72) from Europe ’72 (1972)
6. “Truckin’” – Lyceum Theatre (5/26/72) from Europe ’72 (1972)
7. “Morning Dew” – Lyceum Theatre (5/26/72) from Europe ’72 (1972)
8. “Brown Eyed Women” – Tivoli Concert Hall (4/14/72) from Europe ’72 (1972)
9. “The Music Never Stopped” – Great American Music Hall (8/13/75), One From The Vault (1991)
10. “Estimated Prophet” – Barton Hall (5/8/77) from Cornell 5/8/77 (2017)

Disc Two
1. “Friend Of The Devil” – Radio City Music Hall (10/27/80) from Dead Set (1981)
2. “Feel Like A Stranger” – Warfield Theatre (10/4/80) from Dead Set (1981)
3. “Fire On The Mountain” – Radio City Music Hall (10/31/80) from Dead Set (1981)
4. “Bird Song” – Warfield Theatre (10/14/80) from Reckoning (1981)
5. “Ripple” – Warfield Theatre (10/4/80) from Reckoning (1981)
6. “Eyes Of The World” – Nassau Coliseum (3/29/90) from Wake Up To Find Out (2014)
7. “Touch Of Grey” – Rich Stadium (7/4/89) from Truckin’ Up To Buffalo (2005)
8. “Blow Away” – JFK Stadium (7/7/89) from Crimson, White & Indigo (2010)
9. “So Many Roads” – Soldier Field (7/9/95) from So Many Roads (1999)

A occhio mi vengono in mente alcune considerazioni, in ordine sparso:

  • Il live del 1976, Steal Your Face, è stato giustamente ignorato (credo sia il loro peggiore in assoluto)
  • Mancano anche brani da Without A Net del 1990, che era invece ottimo
  • Sia Live/Dead che Reckoning, lo splendido live acustico del 1981, meritavano più spazio, ma in questo caso ci voleva almeno un triplo, ed infatti
  • Proporre solo un doppio è una cosa abbastanza ridicola
  • E’ stato completamente ignorato il quadruplo Ladies And Gentlemen, secondo me il disco dal vivo più bello di sempre dei nostri (quello sì da avere se non si possiede ancora nulla del gruppo)

Potrei andare avanti, ma preferisco fermarmi qui: se proprio ci tenete, il doppio CD (o quadruplo LP, che però sarà diviso in due volumi da due LP ciascuno) uscirà il 23 Marzo p.v. (anche se alcuni siti americani riportano il 23 febbraio, vi terremo informati, ammesso che qualcuno lo voglia mai comprare)!

Marco Verdi

*NDB E in un Best Of Live non c’è Dark Star?

E Questo Se Lo Erano Dimenticato? Fleetwood Mac – Fleetwood Mac

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Fleetwood Mac – Fleetwood Mac – Reprise/Warner CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/DVD/LP

Quando nel 2013 la Reprise decise di riservare il trattamento “deluxe box set” a Rumors, il disco più bello e più famoso dei Fleetwood Mac, a tutti sembrò semplicemente un omaggio ad uno degli album più venduti di tutti i tempi. Col tempo però il piano della casa discografica è stato rivelato, cioè trattare allo stesso modo tutti i dischi in studio della lineup più popolare del gruppo (cioè quella formata dai britannici Mick Fleetwood, John McVie e dall’allora moglie Christine Perfect McVie e dagli americani Lindsay Buckingham e Stevie Nicks): a Rumors sono seguite quindi le versioni deluxe dell’ambizioso Tusk e dei due episodi degli anni ottanta, il poco considerato Mirage ed il popolarissimo (e commerciale) Tango In The Night. Era però inspiegabilmente assente l’album che diede il via a tutto, cioè l’omonimo Fleetwood Mac del 1975 (o “White Album” come lo hanno soprannominato i fans), mancanza fortunatamente riparata oggi, con l’ultimo (?) episodio di questa serie di box deluxe che contengono anche il vinile originale rimasterizzato (esiste anche la versione in singolo e doppio CD).

E Fleetwood Mac è a mio parere, e non solo mio, il lavoro migliore del gruppo dopo Rumors, un delizioso disco di puro pop-rock californiano in cui le tre anime creative della band (Buckingham e le due ragazze) si amalgamano alla perfezione fin dal primo momento, pur mantenendo ognuno dei tre il proprio stile (il primo incontro tra i tre inglesi ed i due americani in un ristorante messicano di Los Angeles, con conseguente “colpo di fulmine” tra le due fazioni – specie tra la McVie e la Nicks, dato che Fleetwood non voleva nel gruppo due donne che non andassero d’accordo fin da subito – e ben narrato nelle note di David Wild nel libretto allegato). Il primo CD ripropone l’album originale, con i due nuovi arrivati già perfettamente integrati, e che anzi portano un fresco vento di novità nel sound. Buckingham arriva con in dote subito due pezzi da novanta: l’opening track Monday Morning, un perfetto ed orecchiabile pop-rock tipico del suo stile, che stranamente non uscirà su singolo ma diventerà negli anni uno dei pezzi più popolari del quintetto, e la conclusiva I’m So Afraid, rock song tesa e potente, che dal vivo diventerà un momento imperdibile per godere delle evoluzioni chitarristiche di Lindsay. Al riccioluto musicista di Palo Alto è affidata anche Blue Letter (un brano scritto dai fratelli Richard e Michael Curtis per il mai realizzato secondo album della coppia Buckingham-Nicks), un trascinante pezzo di puro rock californiano anni settanta e la ficcante e vigorosa World Turning, scritta e cantata con la McVie.

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Stevie Nicks si comporta ancora meglio, in quanto scrive due dei brani più belli della storia del gruppo: Rhiannon, una delle signature songs della bionda cantante e decisamente il pezzo più famoso del disco, un vero classico, con uno dei riff chitarristici più riconoscibili di sempre, e la splendida Landslide, uno slow acustico che è anch’esso tra le sue più belle canzoni in assoluto. In più, Stevie riesuma Crystal, che appariva anche su Buckingham-Nicks (del quale si attende ancora una ristampa in CD), una dolcissima ballata che viene però cantata da Buckingham. La McVie è sempre stata quella dei Mac che ho amato meno, troppo soft-pop il suo stile per i miei gusti, anche se qui mi smentisce in parte con Say You Love Me, irresistibile uptempo pianistico tra pop e rock’n’roll, un altro classico della band; per contro, Christine offre anche la raffinata (anche troppo) Warm Ways, la cadenzata ed immediata Over My Head, uscita come primo singolo in America (scelta strana, c’era di meglio), ma poi chiude con la deliziosa Sugar Daddy, solare e gradevolissima (e con Waddy Wachtel alla chitarra ritmica). Completano il primo CD le single versions di Over My Head, Rhiannon, Say You Love Me e Blue Letter. Il secondo dischetto, nei primi undici brani, propone versioni alternate (tutte inedite) dei pezzi originali, a dire il vero mai troppo diverse, ma che forniscono comunque un ascolto piacevole: alcune non sono ancora rifinite, altre (Blue Letter, Rhiannon e Say You Love Me, nella quale si sente di più la chitarra) andavano già bene così, mentre Crystal e Landslide in versione spoglia, voce e chitarra, sono lo stesso bellissime, e World Turning, con una lunga coda strumentale, è persino meglio.

A seguire abbiamo quattro brani ripresi dal vivo, tre da questo disco ed uno, Why (una rock ballad che non sfigura affatto), da Mystery To Me; chiudono il CD una fluida e rilassata jam collettiva (già uscita però su una precedente ristampa) e soprattutto una formidabile take strumentale di I’m So Afraid, con una performance mostruosa di Lindsay, un pezzo che da solo vale il dischetto e che forse è persino migliore di quella cantata. Il terzo CD (esclusivo per il box) è decisamente interessante, in quanto propone 14 brani dal vivo registrati nel tour promozionale dell’album, tutti inediti (tranne Don’t Let Me Down Again, uscita su Fleetwood Mac Live del 1980). Ho detto interessante perché ci sono diversi brani appartenenti alle lineup precedenti del gruppo, in quanto questa configurazione anglo-americana non aveva ancora un repertorio così ampio da riempire un intero concerto. Il CD si apre addirittura con un pezzo dei Chicken Shack (la prima band della McVie), la bluesata e trascinante Get Like You Used To Be, e poi prende due canzoni dal periodo “di mezzo”, l’intrigante rock song tinta di blues Station Man (in origine cantata da Danny Kirwan, qui da Buckingham e Nicks all’unisono) e la discreta Spare Me A Little (ce ne sono altre due appartenenti alla stessa fase della band, cioè la già citata Why e l’insinuante Hypnotized, scritta da Bob Welch). Sei pezzi arrivano da Fleetwood Mac, tra cui una scintillante Rhiannon, la solita strepitosa I’m So Afraid ed una spettacolare Blue Letter, con un grande finale chitarristico; completano la già citata Don’t Let Me Down Again, un saltellante pop-rock tratto da Buckingham-Nicks e due tra i pezzi più noti del primo periodo, quello con Peter Green, il rock-boogie Oh Well e la maestosa The Green Manalishi, nelle quali Lindsay fa di tutto per non far rimpiangere il grandissimo chitarrista inglese. Il DVD, solo audio, offre la versione 5.1 surround del disco originale più i soliti quattro singoli in stereo alta risoluzione.

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Ora la “golden age” dei Fleetwood Mac dovrebbe essere al completo, a meno che la Reprise non decida di rimettere fuori anche i due live, quello già citato del 1980 e The Dance del 1997. E non sarebbe affatto una cattiva idea.

Marco Verdi

Il Ritorno Del Figliol Prodigo. James Maddock – Insanity Vs. Humanity

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James Maddock – Insanity Vs. Humanity – Appaloosa Records

Nel 2010, Sunrise On Avenue C fu un vero e proprio colpo di fulmine per il sottoscritto. James Maddock, con le sue ammalianti rock ballads costruite su piano e chitarre e quella voce gradevolmente roca alla Ian Hunter, mi aveva subito conquistato e aggiunto il proprio nome alla lunga lista di beautiful losers che sanno regalare emozioni vere, ispirati dai grandi maestri Dylan, Springsteen e Van Morrison. Seguirono altre belle conferme, lo spumeggiante Live At Rockwood Music Hall, l’ottimo Wake Up And Dream dell’anno successivo, Another Life del 2013, più folk ed intimista dei suoi predecessori. Dopo una serie di prove tanto convincenti, grande fu la delusione che mi procurò l’ascolto di The Green, l’album del 2015, in buona parte rovinato da campionamenti e suoni fasulli. Per fortuna, dubbi e timori sono stati spazzati via come una folata d’aria fresca appena ho inserito nel lettore il nuovo Insanity Vs. Humanity e la limpida melodia dell’iniziale I Can’t Settle ha cominciato a diffondersi. Come negli episodi migliori dei vecchi dischi è il pianoforte a condurre le danze, e intorno chitarre acustiche, mandolino, organo e tastiere accompagnano la voce del protagonista nel suo racconto che tanto richiama alla memoria i personaggi delle backstreets springsteeniane. Subito dopo, altro bel colpo di acceleratore per la trascinante Watch It Burn, davvero irresistibile nel suo ritornello:

james maddock insanity

https://www.youtube.com/watch?v=ZPdEP-mlVDE

Burn Burn Burn urla James Maddock sostenuto da voci femminili e non posso evitare di pensare alle infuocate performances del grandissimo Dirk Hamilton nei suoi brillanti esordi degli anni settanta. Cambio di passo nella successiva Leave Me Down, soul ballad ad altissimo tasso emotivo con un crescendo paragonabile al repertorio del miglior Southside Johnny. Il binomio voce e chitarra elettrica nel finale del pezzo è da pelle d’oca. Basterebbero questi tre brani per convincerci della ritrovata vena del suo autore, ma le buone notizie proseguono con il country rock ruspante della seguente What The Elephants Know, anch’essa sostenuta dal gran lavoro alla sei corde del fido John Shannon. Kick The Can è l’ennesima composizione vincente col piano di Oli Rockberger ancora sugli scudi e un impeto degno delle migliori ballads di Bob Seger. Tre anni fa Maddock collaborò attivamente alla riuscita del positivo penultimo album dei Waterboys, Modern Blues (quanto scarso è invece l’ultimo Out Of All This Blue, una delle peggiori delusioni dell’anno appena concluso!) scrivendo insieme a Mike Scott tre dei migliori episodi di quel lavoro. Ora James si riappropria di due di quelle canzoni modificandone l’arrangiamento con ottimi risultati: November Tale è rallentata accentuandone il malinconico fascino che ti entra sotto pelle,. Mentre Nearest Thing to Hip, impreziosita dallo splendido apporto del piano, è una canzone che veniva eseguita dal vivo già da molto tempo, e ci offre una delle migliori interpretazioni del suo autore che cita nel testo Charlie Parker, Davis e Coltrane modulando la voce con un seducente sussurro nello stile del maestro Van Morrison, fino all’esaltante conclusione affidata alle lancinanti note dell’armonica.

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https://www.youtube.com/watch?v=_blB8xjMyTU

The Old Rocker diventerà sicuramente uno degli highlights nei concerti del songwriter inglese (ma ormai newyorkese d’adozione) col suo refrain fatto apposta per essere cantato insieme al pubblico, un piccolo divertissement che profuma di anni sessanta e non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Faces di Rod Stewart. La title track è un’altra perla, una canzone dall’incedere solenne e dal testo significativo che si colora di gospel nel finale, grazie al bell’intervento di un coro. Insanity Vs. Humanity fa il paio con la seguente The Mathematician, una classica ballata ad ampio respiro dalla  linea melodica che si fa apprezzare al primo ascolto. Fucked Up World è più arrabbiata, come suggerisce il titolo, e si movimenta nella seconda metà con l’ingresso dell’elettrica che si sovrappone al resto. The Flame, se mi passate il gioco di parole, non infiamma più di tanto, con gli archi ed il piano dal tocco jazzato a creare un’atmosfera da musical di Broadway, un po’ troppo zuccherosa. Torniamo comunque su livelli elevatissimi con la superlativa Nearest Thing To Hip di cui vi ho già parlato, e con la conclusiva Fairytale Of Love, personale rivisitazione della fiaba di Hansel e Gretel, delicato acquarello suonato in punta di spazzole dal batterista degli Spin Doctors Aaron Comess e con ricami deliziosi di Rockberger che fa il verso al professor Roy Bittan. Davvero un gran bel ritorno, James Maddock è vivo e in piena forma!

P.S.: Se ci riuscite, procuratevi anche il Live At Daryl’s House, già uscito da tempo e venduto solo sul sito  http://jamesmaddock.net oppure nelle sedi dei concerti che speriamo possano presto toccare anche la nostra penisola. Ne vale assolutamente la pena, come potete verificare nella nostra recensione http://discoclub.myblog.it/2017/03/25/un-rocker-inglese-di-casa-a-new-york-james-maddock-live-at-daryls-house/ !

Marco Frosi

Supplemento Della Domenica: Di Nuovo Insieme Alla Grande, Anteprima Nuovo Album. Beth Hart & Joe Bonamassa – Black Coffee

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Beth Hart & Joe Bonamassa – Black Coffee – Mascot/Provogue

Beth Hart e Joe Bonamassa presi singolarmente sono, rispettivamente, la prima, una delle più belle voci prodotte dalla musica rock negli ultimi venti anni, potente, grintosa, espressiva, eclettica, con una voce naturale e non costruita,, il secondo, forse il miglior chitarrista in ambito blues-rock (ma non solamente) attualmente in circolazione, entrambi degni eredi di quella grande tradizione che negli anni gloriosi della musica rock, quindi i ’60 e i ’70, sfornava di continuo nuovi talenti che ancora oggi sono i punti di riferimento per chi vuole ascoltare della buona musica. Messi insieme i due, grazie ad una indubbia chimica personale ed artistica, hanno dato vita ad un sodalizio che fino ad ora ci ha regalato tre album, due in studio ed uno dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/04/11/potrebbe-il-miglior-live-del-2014-beth-hart-joe-bonamassa-live-amsterdam/ , incentrati su una formula che fonde soul, blues, rock, R&B, qualche pizzico di jazz, uno stile ed un modo di concepire lo spettacolo che una volta si chiamava “soul revue”, quella di Ike & Tina Turner, del Joe Cocker di Mad Dog, o del Leon Russell della stessa epoca, di Eric Clapton con Delaney & Bonnie, forse anche della Band.. Nel caso di Beth e Joe in coppia, a differenza dei loro dischi solisti, il repertorio è formato rigorosamente da cover, non ci sono brani originali, quindi l’arte dell’interpretazione è fondamentale in questo approccio: i primi due dischi di studio, Don’t Explain del 2011 e Seesaw del 2013, ne erano fulgidi esempi, mentre lo splendido Live In Amsterdam del 2014, ne era la sublimazione in concerto.

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A distanza di quasi quattro anni i due hanno deciso di dare finalmente un seguito a quelle ottime prove: hanno chiamato ancora il produttore Kevin Shirley, che si conferma sempre più ottimo alchimista di suoni e persone, in grado di fondere il rock classico con un approccio moderno, l’irruenza vocale di Beth Hart ed il virtuosismo chitarristico di Joe Bonamassa in un tutt’uno di grande valore artistico, ma perfettamente ed immediatamente fruibile. L’eccellente band  di Bonamassa (che è superiore a quella che abitualmente accompagna la Hart) fa il resto: con qualche new entry rispetto ai dischi passati troviamo, in ordine sparso, Anton Fig (batteria, percussioni), Ron Dziubla (Sax), Lee Thornburg (Tromba/Trombone), Reese Wynans (Tastiere), Michael Rhodes (Basso), Rob McNelley (chitarra ritmica), Paulie Cerra (Sax), e le tre ragazze alle armonie vocali Mahalia Barnes, Jade Macrae e Juanita Tippins. Il resto lo fanno le dieci ottime canzoni scelte per questo Black Coffee (undici nella versione deluxe): non ci sono brani celeberrimi (forse a parte uno), ma l’equilibrio tra rock’n’soul e blues è perfetto, tra brani più mossi e tirati e qualche ballata o “lentone” blues. Il brano d’apertura è subito esuberante, una Give It Everything You Got di Edgar Winter, che si trovava su White Trash. disco del 1971 che fondeva classico soul alla Stax e hard rock, anche l’approccio di questa nuova versione è quello, chitarra con wah-wah a manetta, fiati sincopati, la voce poderosa e scatenata di Beth sostenuta dalle tre coriste e un groove estremamente godibile, che poi lascia spazio alla solista di Bonamassa che inchioda un assolo dei suoi, breve ma intenso.

https://www.youtube.com/watch?v=pELav-8aLeY

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Damn Your Eyes è l’ennesimo tributo di Beth Hart a Etta James, uno dei suoi idoli assoluti, una ballata blues intensa che si trovava su Seven Year Itch il disco del 1988 che segnava il ritorno sulle scene di una delle regine del soul, versione eccellente con la solista fluida ed intrigante di Bonamassa che sottolinea la voce dei Beth con una serie di soli ficcanti e pungenti, mentre le tastiere di Wynans e i fiati regalano un arrangiamento ricco e complesso. Black Coffee era proprio un brano di Ike & Tina Turner, che molti forse, spero, ricordano nella versione di Steve Marriott con i suoi Humble Pie, su cui è costruita questa rivisitazione in cui Beth cerca di emulare, riuscendoci, una delle più grandi voci “nere” di un bianco; Lullaby Of The Leaves era un vecchio brano, poco conosciuto, di Ella Fitzgerald, che qui diventa una splendida ballata pianistica intima e jazzy, sulla falsariga dei tributi a Billie Holiday dei dischi passati, cantata con misura e pathos dalla Hart, che qui mi ha ricordato la bravissima Mary Coughlan, molto bello anche l’assolo di Bonamassa, improvviso, torrenziale e lancinante. Why Don’t You Do It Right? è un oscuro pezzo degli anni ’40, swingato e divertente, modellato sulla versione di Peggy Lee, con i due e il gruppo in grande souplesse; Saved è uno dei brani ripresi dal repertorio di Lavern Baker,  una delle prime grandi cantanti del R&B.

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https://www.youtube.com/watch?v=NooMzmbE0xc

L’altro è Soul On Fire, entrambi permettono di gustare la maturità vocale raggiunta dalla Hart, prima scatenata in un pezzo che ricorda le evoluzioni dei primi Isley Brothers, quelli di Shout, poi felpata ed incantevole nel secondo brano, un vera delizia per i padiglioni auricolari degli ascoltatori, con Bonamassa che incornicia entrambi i brani con degli interventi dove si apprezza l’eccellente tocco della sua solista. In grande spolvero pure in una versione splendida di Sittin’ On Top Of The World, uno dei classici del blues che ricordiamo in una memorabile versione dei Cream. Un’altra “cliente” abituale dei due è Lucinda Williams, di cui viene ripresa, con piglio energico, cadenzato e grintoso, molto bluesato, Joy, un brano che si trovava su Car Wheels On A Gravel Road, che quanto a spinta chitarristica non ha nulla da invidiare ai brani più rock della chanteuse americana. Manca l’ultimo brano Addicted, con la coppia, credo su suggestione di Shirley e della casa discografica, che va a pescare questa canzone dal repertorio della band trip-hop elettronica austriaca Waldeck: niente paura è molto meglio dell’originale, però confrontato con il resto solo un onesto pezzo pop-rock, nobilitato dagli assoli della solista di Bonamassa. Comunque non inficia il giudizio molto positivo di Black Coffee, che conferma la validità di questa coppia veramente bene assortita. P.S. La bonus della deluxe edition Baby I Love You non l’ho sentita per cui non vi so dire, presumo sia quella delle Ronettes (o dei Ramones). *NDB E invece era il brano di Aretha Franklin. Esce il 26 gennaio.

Bruno Conti

Gli Ottimi Inizi Country Di Chip Taylor. Last Chance: The Warner Bros Years

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Chip Taylor – Last Chance: The Warner Bros Years – Train Wreck 2 CD+DVD

James Wesley Voight, per tutti Chip Taylor, è il fratello dell’attore Jon Voight e quindi lo zio di Angelina Jolie, ed è stato, nelle sue varie vite musicali, prima autore di canzoni di grande successo negli anni ’60, due per tutte, Angel Of The Night, portata al successo da Merrilee Rush una prima volta nel 1967 e poi di nuovo nel 1981 da Juice Newton, e l’anno precedente Wild Thing, cantata dai Troggs, ma celebre anche nella versione memorabile di Jimi Hendrix al Monterey Pop Festival. Però in effetti la carriera di Chip Taylor è soprattutto legata alla musica country, anche se iniziò a pubblicare 45 giri di R&R come Wes Voight and the Town Three già nel 1958. Originario di Yonkers, New York, la sua carriera solista si avvia proprio all’alba degli anni ’70 con un paio di album in trio, a nome Gorgoni, Martin & Taylor, pubblicati dalla Buddah Records nel 1971 e ’72, più orientati sul country/folk, poi il suo primo disco solo Gasoline, sempre del 1972 su Buddah, dove c’era la sua versione di Angel Of The Morning. A questo punto arriva la proposta di un contratto dalla Warner Bros che vorrebbe lanciare una propria divisione country (e il “successo” arriderà con Emmylou Harris) e Chip Taylor, che aveva pronte molte canzoni decisamente orientate su quel genere, si trova uno studio di registrazione, non a Nashvile, ma a Fayville, Massachussetts e registra quello che con una notevole dose di autoironia (e rassegnazione) si chiamerà Chip Taylor’s Last Chance.

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https://www.youtube.com/watch?v=ICP1Y9FUPpY

Quasi tutti conoscono Taylor per la terza fase della sua carriera, quella iniziata a metà anni ’90, dopo lunghi anni passati come giocatore d’azzardo professionista, e culminata in una splendida serie di album pubblicati, prima in coppia con Carrie Rodriguez e poi in proprio, e che prosegue tuttora con eccellenti risultati, alla ragguardevole età di 77 anni. Comunque quei tre album erano già ottimi, oltre a quello citato, uscito nel 1973, Some Of Us del 1974 e This Side Of The Big River del 1975, con uno stile influenzato dall’outlaw country in auge all’epoca, ma anche vicino a cantautori come Townes Van Zandt, Jerry Jeff Walker e Guy Clark,  e pure a livelli qualitativi ci siamo. Come racconta lo stesso Chip nelle esaustive, affettuose (e divertenti) note riportate nel libretto di questo triplo (ma attenzione i primi due dischi sono stati ristampati in un 2in1 anche dalla Morello Records nel 2016), Taylor rischiò, e in parte ci riuscì, di diventare una sorta di superstar country in Svezia ed in Olanda; nella nuova edizione, molto bella, pubblicata dalla Train Wreck, oltre ai dischi troviamo anche un DVD inedito, registrato all’ Armadillo World Headquarters di Austin, Texas nel 1973 (presumo recuperato da qualche vecchia VHS dei tempi, visto che il filmato è in bianco e nero e la qualità è quasi ai limiti della decenza, con le immagini che ogni tanto partono per la tangente, anche se la musica è ottima). Nei tre dischi di studio Chip Taylor è accompagnato da una band eccellente, dove brillano John Platania, in quegli anni chitarra solista anche nei dischi di Van Morrison, il bravissimo Pete Drake, alla steeel guitar, che suonava all’epoca con tutti, da Bob Dylan e Simon & Garfunkel alle stelle del country, nonché a David Grisman al mandolino e ai Jordanaires ai cori.

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https://www.youtube.com/watch?v=YaZzUGoi6HA

I tre album sono tutti molti buoni, costellati da bellissime canzoni, il suono è a tratti splendido e se dovessi esprimere una preferenza opterei per Last Chance, con ballate veramente evocative, in cui il nostro ha sempre brillato, come Son Of A Rotten Gambler, The Coal Fields Of Shikshinny, I’m Still The Same, la struggente Family Of One ed il valzerone della title track, degno delle più belle canzoni dell’epoca di Willie Nelson, oltre a splendide country songs più mosse, quasi ai limiti dell’honky tonk, con i tre solisti citati spesso in evidenza, anche in quelle che all’epoca si chiamavano “answer songs”, per esempio 101 In Cashbox, sulla storia di Angel Of The Morning, e ancora (I Want) The Real Thing che ricorda il sound di Jim Croce, oppure I Read It  In Rolling Stone, una outlaw soung che Waylon Jennings e Johnny Cash avrebbero cantato a meraviglia, del tutto pari a quanto scriveva Kris Kristofferson in quei tempi. E comunque anche gli altri due dischi sono decisamente buoni: Me As I Am, Early Sunday Morning, Something ‘Bout The Way This Story Ends, Comin’ From Behind, If You’re Ever In Warsaw, da Some Of Us, anche se a tratti appesantite dagli archi sono comunque belle canzoni, e pure Big River, l’unica cover, dal repertorio di Johnny Cash, tratta dal terzo album, oppure la deliziosa Same Ol’ Story, il quasi gospel malinconico di Holding Me Together, la delicata Gettin’ Older Looking Back, la conclusiva splendida You’re Alright Charlie o un’altra bellissima ballata alla Nelson come Sleepy Eyes testimoniano di un cantautore che faceva della country music di qualità già allora, sia pure meno “roots” di quella odierna e che quindi meriterebbe più di un ascolto dagli appassionati del genere (e di Chip Taylor).

Bruno Conti

Una Grande Voce “Omaggia” Un Grande Compositore Irlandese. Mary Black – Mary Black Sings Jimmy MacCarthy

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Mary Black – Mary Black Sings Jimmy MacCarthy – 3u Records/Blix Street

Aveva annunciato il suo ritiro, almeno dalle tournée, ma evidentemente ci ha ripensato (come Tina Turner, Clapton e altri), visto che anche nel 2018 sarà in giro per promuovere questo “nuovo” album. Era inevitabile, direi quasi fisiologico, che Mary Black una delle più belle e leggendarie voci irlandesi, prima o poi rendesse omaggio con un intero album di canzoni a Jimmy MacCarthy, senza dubbio uno dei più grandi compositori della verde isola dello smeraldo (per coloro che non sanno chi sia, potremmo definirlo l’equivalente irlandese del cantautore americano Jimmy Webb). Jimmy MacCarthy è nato a Macroom nella contea di Cork nel 1953, e le sue composizioni rientrano a grandi linee nel genere della canzone folk contemporanea, e nella sua carriera ha scritto molte canzoni che poi sono diventate famose e popolari, cantate da artisti come Christy Moore, Mary Gauthier,  i Corrs, il meno conosciuto Tommy Fleming, e naturalmente Mary Black, che ha cantato le canzoni di questo signore per venticinque anni. Per sviluppare e terminare questo ulteriore “percorso” la Black si è affidata a bravi musicisti fidati, tra i quali Pat Crowley alla fisarmonica, tastiere e piano, Bill Shanley al basso, chitarre e lap-steel, Liam Bradley alla batteria, Martin Ditchay alle percussioni e piatti, Finbar Furey al banjo, Richie Buckley al sax, e un “trio” di valenti violinisti a partire dalla bella e brava Sophie Ryan, Richard George, Matt McGranahan, per un totale di undici canzoni firmate come detto da Jimmy MacCarthy, di cui sei già registrate da Mary nei suoi album precedenti, quattro nuovi brani incisi per l’occasioni, e un duetto di Mary e Jimmy, recuperato da una rara registrazione televisiva.

mary black sings jimmy maccarthy 1

https://www.youtube.com/watch?v=XvABIMOkaGQ

La partenza non poteva essere migliore, Mary recupera dall’album omonimo del lontano ’89 la meravigliosa No Frontiers (ne esiste anche una bella versione acustica delle Corrs), e risentendola si apprezza sempre il suono della fisarmonica su un tappeto di percussioni, brano a cui fanno seguito la sempre dolcissima Adam At The Window (la trovate su Looking Back (95), e due nuove struggenti composizioni come There Is No Night, una ballata pianoforte e voce, e il soave folk irlandese di Love’s Last Chance, dove ancora una volta la Black si dimostra una grande interprete. Sempre dai solchi di  Looking Back viene giustamente estratto il brano dal testo più religioso di MacCarthy, la superba Bright Blue Rose, che qui viene riproposta meritoriamente in un duetto con lo stesso autore, per poi passare ancora ad un altro brano nuovo, con l’arioso incedere di una moderna folk song quale è What We Came Here For, ritornare alle tenui e delicate trame sonore di una sempre verde Wonderchild (cercatela su un album poco conosciuto come Circus (95), e dare giusta gloria ad un brano, Katie, tratto da un album epocale come By The Time It Gets Dark (87), che viene riproposta con l’aggiunta del sax del bravo Richie Buckley ad accompagnare la voce sognante della Black.

Father smiling and holding his son

Jimmy MacCarthy

https://www.youtube.com/watch?v=InS3YsrlgkY

Con Mystic Lipstick arriva il momento di una delle migliori canzoni mai scritte per l’Irlanda (un testo commovente sulla storia intera della nazione), che negli anni è stata riproposta anche da “mostri sacri” come Christy Moore, Mary Coughlan, e la bravissima ma poco conosciuta Maura O’Connell,  brano che trova in questa versione la perfezione, con un arrangiamento dove brillano la fisarmonica di Crowley, i violini della “triade”, e naturalmente l’interpretazione della Black. Ci avviamo alla conclusione con la danzante ed ariosa Another Day (recuperata dal già citato No Frontiers), e chiudere un disco per certi versi magnifico con la chicca di una versione “live” della famosa As I Leave Behind Neidin (un brano sull’emigrazione irlandese), cantata in coppia da cantante e autore, in occasione di una registrazione televisiva (ma la potete anche cercare nella versione originale dall’album Without The Fanfare (85). Quando s’incontrano un grande musicista come Jimmy MacCarthy e una grande cantante come Mary Black (una perfetta simbiosi), il risultato non può che essere la summa di questo lavoro, con canzoni personali ma anche universali, che attraversano tutta l’Irlanda per poi arrivare a farsi conoscere nel mondo, e certamente questo Mary Black Sings Jimmy MacCarthy è un perfetto biglietto da visita per far conoscere il miglior “songwriting” irlandese. Chapeau!

NDT: Per i “completisti” e per chi ama Mary Black, ricordo che nella primavera dello scorso anno è uscito un CD sepciale in occasione del trentennale di By The Time It Gets Dark, con tre bonus che riguardano nuove versioni di Moon River, Copper Kettle, e un nuovo brano Wounded Heart, registrato per l’occasione.

Tino Montanari                     

Una Notevolissima Two-Men Band! The Contenders – Laughing With The Reckless

contenders laughing with the reckless

The Contenders – Laughing With The Reckless – Rock Ridge CD

I Contenders sono un gruppo, o meglio un duo, di recente formazione, ma con le radici profonde. Il deus ex machina è il cantautore Jay Nash, già titolare di diversi album come solista, che qualche anno fa ha conosciuto a Los Angeles il batterista Josh Day, grande appassionato di Levon Helm. Siccome The Band è anche da sempre uno dei gruppi preferiti da Nash, i due hanno unito le forze e dato alle stampe con il nuovo moniker un EP, Meet The Contenders, che ha avuto un positivo riscontro nei circuiti locali. Laughing With The Reckless è il primo full lenght del duo, e devo dire che è un disco di una bellezza sorprendente, nel senso che non mi aspettavo un lavoro di una tale intensità da uno (Nash) che è in giro da diversi anni ma non è mai andato oltre un dignitoso livello medio. Eppure nelle nove canzoni di questo album c’è tutto il microcosmo dei due, che partendo dal loro amore per l’ex gruppo guidato da Robbie Robertson, hanno messo a punto una serie di brani di Americana al 100%, tra rock, country e folk, con bellissimi intrecci di chitarre elettriche ed acustiche, mandolini, banjo e chi più ne ha più ne metta, con uno splendido senso della melodia ed un feeling non comune. Nash si occupa di vari tipi di strumenti a corda, Day suona la batteria, ed i due sono coadiuvati da validi compagni di viaggio che rispondono ai nomi di Daniel Rhine (basso), Phil Krohnengold (piano ed organo hammond), Andy Keenan (slide guitar) e Jens Kruger (banjo). Solo nove canzoni ma, ripeto, una più bella dell’altra: sembra quasi di essere tornati di botto nei primi anni novanta, quando la nuova frontiera della musica americana era rappresentata da gruppi come Jayhawks ed Uncle Tupelo.

contenders laughing with the reckless 2

https://www.youtube.com/watch?v=G6z08I-k7B0

L’opening track Line Across The Water mi fa venire in mente addirittura il miglior Ray Wylie Hubbard, sarà per il timbro di voce “vissuto” o per il suono insinuante tra country, blues e southern, con una bella slide ed un mood di fondo decisamente coinvolgente. Call Me The Lucky One è bellissima, ha uno splendido attacco strumentale che ricorda non poco le cose più bucoliche di The Band, quel suono tipicamente americano tra rock e radici, e poi il brano è servito da una melodia di prim’ordine; l’elettroacustica e cadenzata The Flood è attendista ed intrigante, ma il refrain è di ottimo livello, così come l’intreccio degli strumenti a corda, un altro dei punti di forza del CD https://www.youtube.com/watch?v=nREiHVRcivU . Finer Weather è una roots ballad scintillante, lenta e rilassata, ma con un motivo di cristallina bellezza, mentre The Night That Jackson Fell, ancora a metà tra rock e radici, riporta ancora l’orologio indietro di vent’anni, quando No Depression era la rivista di riferimento di un certo tipo di musica. Uno splendido arpeggio di chitarra acustica introduce la toccante Save A Place At The Table, una ballata folk dal pathos notevole, con una strumentazione acustica ed un banjo a fare capolino, una delle più belle del disco; Something True aumenta il ritmo, puro folk-rock, diretto e godibilissimo, ancora con un gioco di chitarre da applausi, mentre Not Enough è un’altra rock ballad di grande spessore: potente, fluida e vibrante, non è un brano che tutti sono in grado di scrivere (e più va avanti più diventa bella). L’album si chiude con Hills Of Caroline, altro slow dall’ottimo motivo ed un delizioso sapore di honky-tonk classico, con piano e chitarra sugli scudi.

https://www.youtube.com/watch?v=GvKdrxRjQGE

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Una bella ed inattesa sorpresa questi Contenders, un disco targato ancora 2017 ma che ci terrà compagnia per tutto il 2018, ed anche oltre.

Marco Verdi

Il Famoso “Secondo Difficile Album”. Tyler Bryant & The Shakedown – Tyler Bryant & The Shakedown

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Tyler Bryant & The Shakedown – Tyler Bryant & The Shakedown – Spinefarm Records

Dall’esordio Wild Child del 2013 sono passati quattro anni http://discoclub.myblog.it/2013/01/19/una-curiosa-coincidenza-tyler-bryant-the-shakedown-wild-chil/ , quindi i ragazzi texani (almeno il leader è nato laggiù) ma di stanza a Nashville, si sono presi tutto il tempo che occorreva per realizzare il famoso “secondo difficile album”, l’omonimo Tyler Bryant & The Shakedown. Tyler Bryant, chitarrista, cantante e autore dei brani (a rotazione con gli altri componenti della band, soprattutto il batterista Caleb Crosby), non è un più giovincello: l’ex ragazzo prodigio che divideva i palchi con Jeff Beck, Clapton, B.B King e Z.Z. Top, oggi ha 26 anni, ma dalla foto di copertina ne dimostra anche meno, e questo disco dovrebbe essere la conferma di quanto di buono (e meno buono) aveva messo in luce con il primo CD. Aiutato dal secondo chitarrista Graham Whitford (figlio di Brad, degli Aerosmith) e dal nuovo bassista Noah Denney (si sa i bassisti si cambiano spesso), Bryant propone il suo “solito” menu a base di rock-blues, hard rock e classic rock anni ’70 https://www.youtube.com/watch?v=oi1G1_j3hc8 , con risultati in parte apprezzabili per quanto non memorabili, la stoffa c’è, ma un occhio è fin troppo rivolto anche verso il mercato, pure in questi tempi dove la discografia annaspa si spera comunque di vendere, ed è umano. Le chitarre “riffano”, la sezione ritmica picchia, e Bryant e Whitford  si disbrigano con buona lena alle chitarre: i brani magari non sempre sono impeccabili, l’iniziale Heartland non è imparentata con il roots rock di Mellencamp, ma la successiva Don’t Mind The Blood sicuramente qualche spunto dai vecchi Yardbirds di Beck lo prende (e per osmosi dai loro seguaci Aerosmith), con accenti blues-rock e un groove sinuoso, mentre le chitarre iniziano a scaldare il motore.

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https://www.youtube.com/watch?v=menivpp5zzM

Jealous Me con voce filtrata e coretti fastidiosi si avvicina a quel rock misto a pop che ammorba le classifiche, omologato con altri mille brani simili che magari troveranno la loro strada in qualche futuro spot o colonna sonora, il sound della chitarra è interessante, ma basta? Con Backfire siamo dalle parti degli ZZ Top anni ’80, quelli più radiofonici e da MTV (entrambe in via di estinzione), meglio la bluesata Ramblin’ Bones dove Bryant imbraccia una acustica con bottleneck per un tuffo in un suono più roots, ma nulla per cui stracciarsi le vesti. Weak And Weepin’ è un bel rock and roll come usavano fare i vecchi Aerosmith, tutto ritmo e riff con le chitarre che imperversano, finalmente un po’ di vita sul pianeta Shakedown, Anche Manipulate Me più “atmosferica” e con qualche tocco glam, grazie alla voce particolare di Bryant, non è malaccio, con Easy Target che vira verso un rock-blues forse un po’ di maniera ma efficace nelle sue derive chitarristiche. Magnetic Field è la classica ballata che non può mancare in un disco come questo, forse un po’ irrisolta sia pure con il solito buon lavoro delle chitarre, che poi si scatenano nella dura Aftershock. Finale a sorpresa con le atmosfere sospese, leggermente psych, della conclusiva Into The Black. Mi sa che il secondo disco era “difficile” davvero, vedremo il prossimo: se siete proprio in astinenza da rock magari fateci un pensierino.

Bruno Conti

La Scure Ha Colpito Ancora: Questa Volta (A Soli 46 Anni) E’ Toccato A Dolores O’Riordan.

doloresdolores 2

https://www.youtube.com/watch?v=6Ejga4kJUts

Non sono mai stato un fan dei Cranberries, avevo comprato soltanto all’epoca (era il 1994) il loro secondo album, No Need To Argue, incuriosito dal successo planetario del singolo Zombie, un orecchiabile brano di finto-grunge che quell’anno diventò un vero e proprio tormentone (ed ancora oggi rimane il più grande successo del gruppo irlandese), ma sono comunque rimasto di sasso quando due giorni fa, la sera del 15 Gennaio, ho letto della morte improvvisa di Dolores O’Riordan, cantante solista e front-woman della band. Una morte per certi versi misteriosa, in quanto è stata trovata nel bagno di un hotel di Londra dove nessuno sapeva che fosse (Dolores era nella capitale inglese per incidere dei nuovi brani), senza segni particolari che possano far capire la causa del decesso: l’autopsia chiarirà le cose, ma già qualcuno ha avanzato l’ipotesi del suicidio, già tentato dalla cantante nel 2013. La O’Riordan, nativa di Limerick, nonostante il successo ottenuto ha infatti sempre vissuto in compagnia dei suoi demoni personali, e negli anni ha avuto problemi di vario genere, dalla depressione, all’anoressia, fino a disturbi bipolari della personalità, senza farsi mancare neppure alcool e droghe.

cranberries everybody else

https://www.youtube.com/watch?v=Yam5uK6e-bQ

L’esordio coi Cranberries risale al 1993 con l’album Everybody Else Is Doing It, So Why Can’t We? (il loro migliore) https://www.youtube.com/watch?v=G6Kspj3OO0s , trainato dal buon successo del singolo Dreams, ma è l’anno seguente, grazie alla già citata Zombie, che la band diventa una delle più popolari in circolazione (Dolores parteciperà anche al Pavarotti & Friends del 1995, un evento che negli anni ha sempre toccato punte di kitsch notevoli, ma che dava comunque una grande esposizione mediatica ai vari ospiti). Altri tre album con i Cranberries fino al 2001, e se To The Faithful Departed si comporta ancora egregiamente in classifica, altrettanto non si può dire di Bury The Hatchet e Wake Up And Smell The Coffee, dopo il quale Dolores scioglierà il gruppo tentando la via solista con due lavori passati quasi inosservati (ma che venderanno stranamente bene nel nostro paese), per poi tornare insieme ai “Mirtilli Rossi” nel 2012 per Roses, seguito meno di un anno fa da Something Else. Il gruppo, pur non essendo tra i miei preferiti, ha sempre fatto la sua musica senza dare fastidio a nessuno, un rock inizialmente classificato come alternativo, ma con profonde venature pop, fronteggiato da Dolores con stile e compostezza.

cranberries 2018

https://www.youtube.com/watch?v=AUT-wNRKV1c

Divorziata, la O’Riordan lascia tre figli: spero che finalmente adesso possa placare i suoi tormenti, anche se ci ha lasciato decisamente troppo presto.

Marco Verdi

L’Album Precedente Era Bellissimo, Questo E’ Splendido (Anche Se Dura 28 Minuti Scarsi)! Thom Chacon – Blood In The USA

thom chacon blood in the usa

Thom Chacon – Blood In The USA – Appaloosa/IRD CD

Nelle mie classifiche dei migliori del 2013 avevo indicato come sorpresa dell’anno Thom Chacon, singer-songwriter del Colorado che con il suo album omonimo (non il suo esordio, ma comunque il primo disco con una reperibilità buona) mi aveva decisamente stupito, un CD di puro cantautorato folk che aveva iscritto di diritto Thom al club dei “nuovi Dylan”, anche se il ragazzo mostrava comunque di avere una spiccata personalità http://discoclub.myblog.it/2013/04/04/a-proposito-di-nuovi-dylan-tom-chacon/ . Poi il silenzio per quasi cinque lunghi anni, al punto che avevo temuto che il nostro fosse stato colpito dalla “sindrome di Will T. Massey”: ora finalmente Thom ha dato un seguito a quel disco, e Blood In The USA non solo non delude le attese, ma si rivela addirittura superiore. Per la verità Chacon aveva pronto questo disco fin dal 2016, ma un po’ il fatto di aver avuto un bambino (ed aver quindi svolto i compiti di papà a tempo pieno), un po’ l’essere senza un contratto discografico, hanno costretto il nostro a rimandare la pubblicazione fino ad oggi: Blood In The USA (prodotto come il precedente da Perry A. Margouleff) esce per l’italiana Appaloosa, e ad oggi non ha ancora una distribuzione americana.

thom chacon 1

https://www.youtube.com/watch?v=X9WTSXWx2d8

Un peccato quasi mortale, in quanto ci troviamo di fronte ad un grande disco, un lavoro che nelle sue nove canzoni (meno di 28 minuti) è di un’intensità stupefacente, nonostante il ragazzo avesse già fatto vedere le sue capacità cinque anni orsono. Blood In The USA è un lavoro forte, duro e drammatico nei testi (anche in italiano nel libretto), con il nostro che canta le difficoltà di vivere in America al giorno d’oggi se non hai un conto in banca importante, mentre dal punto di vista musicale siamo in presenza di nove brani davvero intensi, nonostante la veste spoglia con la quale Thom si presenta. Infatti nella maggior parte dei casi troviamo solo lui con la sua chitarra (e talvolta l’armonica), spesso doppiato solo dall’organo di Tommy Mandel, uno con un curriculum lungo come da qui a Pechino, mentre la sezione rimica (formata da Tony Garnier, bassista e direttore musicale della live band di Bob Dylan da quasi trent’anni, e da Kevin Twigg alla batteria) è usata con parsimonia. Ma già dopo due canzoni non se ne sente la mancanza, tale è la forza ed il feeling che vengono sprigionati dalle storie cantate da Chacon, che tra l’altro in questo lavoro sembra anche staccarsi con decisione dall’ombra dylaniana. L’avvio è subito ottimo con I Am An Immigrant, lenta, meditata, ma dal pathos notevole: Thom canta con voce arrochita una folk song purissima, voce, chitarra ed un’aggiunta discreta di organo e mandolino che lasciano filtrare un raggio di sole. Siamo più dalle parti di Bruce Springsteen e del suo fantasma di Tom Joad che di Dylan.

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https://www.youtube.com/watch?v=sa7ZUuYnVEQ

Con Union Town siamo ancora in territori cari al Boss, ma Chacon ha comunque un suo stile ed una sua personalità: il brano è vivo, vibrante, ancora suonato con tre strumenti in croce ma decisamente intenso; anche la title track è bellissima, un pezzo folk teso come una lama pur essendo basato solo su voce, chitarra ed organo, uno stile nudo e crudo che mi ricorda anche certe cose dello scomparso Calvin Russell. Splendida Easy Heart, voce, chitarra, armonica ed un feeling immenso, una folk song strepitosa per melodia ed intensità, così come la quasi altrettanto bella Something The Heart Can Only Know, in cui Thom è ancora, per dirla con Warren Zevon, in “splendid isolation”, anche se non gli servono orpelli per emozionare. Il disco cresce brano dopo brano, basti sentire la meravigliosa Empty Pockets, una ballata superba, voce chitarra e piano, con un pathos incredibile, come è incredibile che uno che scrive canzoni di questo livello non trovi un cane che gli pubblichi i dischi in America: Empty Pockets è una grande canzone, tra le migliori che ho ascoltato ultimamente, tanto bella musicalmente quanto dura nel testo. A Bottle, Two Guitars And A Suitcase è più interiore e cupa, anche a causa di un contrabbasso suonato con l’archetto, ma ha comunque il suo perché, mentre Work At Hand, ancora pura e cristallina, è una delle più dylaniane del lavoro. Il CD si chiude (troppo presto) con Big As The Moon, il brano in assoluto più strumentato (elettrico è una parola grossa), ed anche uno dei più belli, ancora con Dylan in mente ma con una melodia straordinaria nella sua semplicità.

https://www.youtube.com/watch?v=iXEZ0ewAGVc

Non ho dubbi: Blood In The USA è il primo grande disco del 2018.

Marco Verdi

*NDB

Thom Chacon è in Tour in Italia in questo periodo per promuovere l’album, ecco le date, ancora poche nei prossimi giorni:

TOUR

1/11/2018
Teatro Del Sale
Firenze, Italy
More Information

1/12/2018
La Vecchia Mandragora
Massa (MS), Italy

1/13/2018
Storie di frontiera e
immigrazione w/ The Gang /ingresso libero
Teatro La Vitoria
Ostra, Italy
9:00 PM
Free Admission / Ingresso Liber

1/14/2018
Città di frontiera. Da Istanbul a
Juarez w/ Andrea Parodi, Federico Donelli, Paolo Ercoli, Flaviano
Braga, Alice Marini
Biblioteca
Verano Brianza, Italy
5:30 PM
Free Admission / Ingress Libero

1/15/2018
w/Dave Keyes
1e35
Cantù (CO), Italy
More Information

1/17/2018
Fondazione Cassa Di Risparmio
Bolzano, Italy

1/18/2018
Steindl’s Boutiquehotel
Vipiteno (BZ), Italy

1/19/2018
Cohen
Verona, Italy
More Information

1/20/2018
Folk Club
Via Perrone, 3 Bis, 10122
Torino TO, Italy
21:30
Buy Tickets