E’ Ora Di Rivalutare Uno Dei Grandi Gruppi Rock “Dimenticati”! Ten Years After – 1967-1974

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Ten Years After – 1967-1974 – Chrysalis/Warner 10CD Box Set

Già annunciato in precedenza da Bruno su questo blog (inizialmente doveva uscire lo scorso Novembre, poi il tutto è stato posticipato di un paio di mesi) è finalmente giunta l’ora di occuparsi di questo bel cofanetto intitolato 1967-1974 dedicato ai Ten Years After, storica band britannica inizialmente associata al British Blues, e guidata dal cantante e chitarrista Alvin Lee (insieme a Leo Lyons al basso, Ric Lee, nessuna parentela, alla batteria e Chick Churchill a piano ed organo), uno dei gruppi migliori del periodo, oggi purtroppo quasi dimenticato, anche se sono ancora attivi seppur con solo due membri originali (Alvin è passato a miglior vita nel 2013). Gruppo che iniziò come band di rock-blues, i TYA (così chiamati perché si formarono nel 1966, dieci anni dopo l’inizio della carriera di Elvis Presley) aggiunsero man mano elementi psichedelici ed anche pop, riuscendo a sfondare anche in America: non hanno mai fatto il classico album da cinque stelle, ma hanno lasciato comunque una serie di bei lavori, tutti con comune denominatore l’eccezionale abilità di Alvin Lee, definito il più veloce chitarrista del mondo (cosa forse non vera, ma all’epoca comunque gli stavano dietro in pochi): la sua performance della celebre I’m Going Home è uno degli episodi più leggendari del mitizzato Festival di Woodstock.

1967-1974 è un box a tiratura limitata (1.500 copie in tutto il mondo), che comprende nei suoi dieci CD quasi tutti gli album della band, in una bella confezione slipcase poco più grande di un 45 giri, e con le note scritte dal giornalista del Melody Maker Chris Welch. Qualcosa manca, come il live del 1973 Recorded Live (ed anche quelli postumi), la compilation di inediti Alvin Lee & Company e la reunion del 1989 dei membri originali About Time (che però uscì per un’altra etichetta), ma la cosa che soprattutto ha fatto discutere è che i dischi sono stati inclusi nella versione originale (seppur rimasterizzati alla grande), senza neanche le bonus tracks aggiunte nelle ristampe di qualche anno fa, anche se una lunga schiera di puristi gli album li ama così come erano in origine. Per giustificare l’alto costo del box però è stato incluso un CD completamente inedito, The Cap Ferrat Sessions, cinque brani mai sentiti prima per 27 minuti di durata incisi dal gruppo nel 1972 in Francia durante le sedute di Rock & Roll Music To The World, registrazioni ritrovate di recente dall’ex moglie di Lee (quando nomino Lee mi riferisco ad Alvin) nella loro villa in Spagna, e ripulite e rimixate dal produttore originale, Chris Kimsey.

E questi cinque brani, tutti molto rock, meritavano certamente di essere pubblicati, essendo alcuni di essi superiori anche al materiale poi finito su Rock & Roll Music To The World, a partire da Look At Yourself, potente rock song con un bel riff insistito, ripreso anche dalla linea melodica vocale, ed un basso molto pronunciato: forse non una perla di songwriting, ma un pezzo dal tiro notevole e con un paio di assoli come solo Lee sapeva fare. Stesso discorso per Running Around, grande rock-blues, vibrante e chitarristico, un brano che avrebbe sicuramente aumentato il valore dell’album poi pubblicato. Holy Shit, ancora bluesata e dal ritmo frenetico, è l’unica di livello inferiore, anche se suonata in maniera inappuntabile, la ficcante There’s A Feeling è un rock’n’roll decisamente bello e coinvolgente, mentre la conclusiva I Hear You Calling My Name è l’highlight assoluto del dischetto, una strepitosa rock song di grande intensità e con Lee che giganteggia con una prestazione mostruosa, undici minuti davvero formidabili che non capisco perché fossero rimasti in un cassetto.

I primi nove CD del box, come ho già detto, comprendono il resto della discografia dei TYA, a partire dal buon esordio di Ten Years After (1967), dal suono ancora molto blues, con higlights come la bella I Can’t Keep From Crying Sometimes (di Al Kooper), tipicamente anni sessanta con i suoi caldi interplay tra chitarra ed organo (ci sono similitudini coi Doors), l’ottima cover di Spoonful di Willie Dixon, anche se non al livello di quella dei Cream, e lo strepitoso slow blues di Sonny Boy Williamson Help Me, con Alvin devastante (all’inizio la band si rivolgeva spesso a brani di altri, ma presto Lee prese in mano il pallino della scrittura). Undead (1968) è dal vivo anche se con brani inediti (e almeno qui, dato che ci sono solo cinque canzoni, qualche bonus track si poteva mettere): è il disco di I’m Going Home, che qui è più swingata di quella di Woodstock, ma anche della lunga I May Be Wrong, But I Won’t Be Wrong Always, tra blues e jazz e con Alvin superlativo, lo strumentale Woodchopper’s Ball e la fluida Spider In My Web, puro blues. In Stonedhenge (1969) c’è un maggior approccio alla psichedelia, con pezzi come l’affascinante Going To Try o la potente e complessa No Title, anche se non mancano blues e derivati, come la swingata Woman Trouble ed il boogie Hear Me Calling, ed anche qualche stranezza o brano minore.

Ssssh (1969) e Cricklewood Green (1970) sono probabilmente i due album migliori del quartetto, roccati e diretti, con perle come il trascinante rock’n’roll Bad Scene (con Lee formidabile), una roboante Good Morning Little Schoolgirl ancora di Williamson e la limpida rock ballad If You Should Love Me nel primo, e la splendida cavalcata elettrica Working On The Road, la magnifica 50.000 Miles Beneath My Brain, grandissimo pezzo rock, tra i più belli del gruppo, e la diretta Love Like A Man, primo loro singolo da Top 10, nel secondo. Watt (1970), considerato dai più un passo falso, non è in realtà così male, soprattutto la fluida I’m Coming On, la solida My Baby Left Me, decisamente trascinante, la diretta e pianistica I Say Yeah e lo splendido intermezzo western The Band With No Name, purtroppo brevissimo. A Space In Time (1971) è il disco con cui i nostri hanno sfondato in America, un album più pop e con la preponderanza di ballate elettroacustiche che riflettono le atmosfere bucoliche della copertina, come I’d Love To Change The World, il loro più grande successo in classifica; ma il rock non è assente, come confermano la potente One Of These Days, la travolgente Once There Was A Time e l’ottima I’ve Been There Too.

I due ultimi lavori prima dello scioglimento, Rock & Roll Music To The World (1972) e Positive Vibrations (1974), sono due buoni album di rock anni settanta, con diversi episodi degni di nota (You Give Me Loving, Religion, l’irresistibile Choo Choo Mama, Positive Vibrations, Going Back To Birmingham e Look Me Straight Into The Eyes), ma anche con qualche sintetizzatore di troppo, che fa sfiorare ai nostri addirittura territori prog. Se siete già fans dei Ten Years After non sono sicuro che questo box faccia per voi, nonostante la bellezza del CD inedito, ma se del gruppo possedete poco o nulla (come il sottoscritto, che aveva appena un paio di album in vinile) allora vale la pena di fare un sacrificio economico.

Marco Verdi

Brevi Sprazzi Di Led Zeppelin E Altre Storie. Robert Plant & The Sensational Space Shifters – Live At David Lynch’s Festival Of Disruption

robert plant live at david lynch dvd

Robert Plant & The Sensational Space Shifters – Live At David Lynch’s Festival Of Disruption – DVD Eagle Rock/Universal

Questo non è sicuramente il primo DVD dal vivo di Robert Plant (esce solo in questo formato, oltre al download) ma è uno dei migliori (anche se forse, anzi sicuramente, non al livello di quello all’Artist Den con i Band Of Joy) ed essendo stato registrato all’interno della prima edizione del Festival Of Disruption di David Lynch (non of destruction, solo di “rottura”) non dura neppure molto: appena 77 minuti, compresi i venti minuti di extra con Lynch, il concerto effettivo 57 minuti scarsi. E’ stato registrato nell’ottobre del 2016, il giorno 8, al teatro dell’Ace Hotel di Los Angeles, quindi un anno prima dell’ultimo controverso Carry Fire http://discoclub.myblog.it/2017/11/15/il-vecchio-sciamano-si-e-un-po-perso-per-strada-robert-plant-carry-fire/ , ed era destinato a raccogliere fondi per una iniziativa di beneficenza di Lynch (anche il ricavato del DVD), se non ho visto male i biglietti costavano da un minimo di 250 dollari in su, quindi il dischetto è più che bene accetto. Plant è accompagnato dai Sensational Space Shifters, ovvero   Liam “Skin” Tyson, chitarre e banjo, Justin Adams, anche lui chitarra e vari strumenti a corda africani, Billy Fuller, al basso, John Baggott, tastiere e tabla, tutti già negli Strange Sensations, oltre a Dave Smith, batteria e Juldeh Camara,  kologo, ritti e Fulani vocals.

Per l’occasione, forse anche per rendere omaggio al suo anfitrione, Plant esegue, in rapporto alla durata del set, “parecchio” materiale dei Led Zeppelin (di cui in questi giorni ha smentito nuovamente varie voci su una probabile reunion per il 50° della band, anche se pare, anzi è certo, che nell’anno uscirà del materiale inedito del gruppo inglese proprio per festeggiare l’Anniversario, per prima, indicata in uscita al 23 marzo, una edizione Super Deluxe potenziata di How The West Was Won ). Il concerto si apre con Poor Howard, tratta dall’album Lullaby And The Ceaseless Roar, uscito nel 2014, e conferma la sempre magnetica presenza sul palco del cantante inglese (oltre alla sua ancora splendida voce), nonché la buona attitudine del gruppo che dal vivo, a mio parere, è molto più brillante che nei dischi in studio, la fusione tra la musica world (o etnica se preferite), folk e il rock funziona alla grande.

Le riprese sono ottime (forse c’è lo zampino di Lynch) e fin dall’inizio si gusta il consueto misto tra rock e altre culture che caratterizza la musica di Plant negli ultimi anni (ma era sempre presente anche in passato), con molto spazio per gli strumenti della tradizione nordafricana e anche intricate armonie vocali; a seguire, sempre da Ceaseless Roar, una potente Turn It Up, dove la quota rock e chitarristica cresce decisamente, ma il groove percussionistico ed etnico è comunque molto vivo. Primo brano dei Led Zeppelin ad apparire in scaletta è una Black Dog “mascherata” e rallentata, ma quando esplode il classico riff la gente è subito catturata, Adams e Tyson, anche insieme, non valgono Page e Smith non è Bonham, però il brano mantiene quasi la potenza dell’originale, e poi la voce è sempre quella, anche se l’intermezzo etnico, per quanto il brano sia conosciuto, è sempre spiazzante. Il medley tra The Enchanter (da Mighty Rearranger) e Rainbow, sempre dall’album del 2014, evidenzia ancora la presenza di Juldeh Camara, uno dei protagonisti principali del concerto, con un forte impatto ritmico nei due brani, anche Plant suona spesso il tamburello, mentre Rainbow è un bel pezzo rock classico con chitarre spiegate.

Babe, I’m Gonna Leave You ce la ricordiamo tutti, era su Led Zeppelin I, un pezzo elettroacustico splendido che miscela raffinatezza ed improvvise esplosioni di impeto rock e la lunga versione presente in questo DVD è veramente notevole, con la voce di Robert che sale e scende in modo impressionante mentre la band lo asseconda alla perfezione, grande musica, molti la fanno dal vivo ma nessuno ha la voce di Plant. Anche Little Maggie, un traditional, conferma l’ottima serata del riccioluto rocker, che esplora anche il suo amore per la musica Appalachiana, scoperta nel suo soggiorno americano e qui rivisitata in una veste più rock, ma sempre vicina alle radici con il banjo di Tyson  e il ritti (una sorta di violino africano) di Camara in evidenza, come pure il synth di Baggott. Altro lungo medley, questo molto più corposo e orientato verso il blues(rock): si parte con una torrida Hoochie Coochie Man, che inizia a citare nel testo quel brano “minore” degli Zeppelin, Whole Lotta Love, che poi esplode in tutta la sua forza dirompente, ed è sempre la voce che fa la differenza, intermezzo etnico, stop e ripartenze, e un breve accenno di Mona, fine del concerto. Poi la band torna sul palco per una bellissima versione di Going To California, con mandolini e chitarre acustiche sugli scudi, titoli di coda. Concerto breve ma intenso.

Bruno Conti

Chi E’ Costui? Forse Il Titolo Dice Tutto. Oscar Benton – I Am Back

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Oscar Benton – I Am Back – Munich Records/V2   

Oscar Benton è uno di quei classici artisti da “chi è costui?”. Non è il soul singer americano, quasi omonimo, Brook Benton, bensì un bluesman olandese, che iniziò la sua carriera già sul finire degli anni ’60, nel 1968 per la precisione, con un disco intitolato Feel So Good, uscito in pieno boom del British Blues, che aveva una sua fiorente controparte anche in Olanda, dove c’erano parecchie band di grande qualità e successo: Cuby+Blizzard i più noti, ma c’erano anche i Livin’ Blues, ed evidentemente la Oscar Benton Blues Band, che ammetto di ricordare poco https://www.youtube.com/watch?v=pVwQKiCRs0I . Ma il nome mi diceva comunque qualcosa: poi scorrendo i titoli di questo nuovo I Am Back, ho visto una canzone Bensonhurst Blues (sia pure revisited) che invece ricordo perfettamente. Un pezzo che ha avuto una vita travagliata: scritta ed incisa per la prima volta dal suo autore Artie Kaplan nel 1973, l’anno successivo era arrivata anche la versione di Benton, ma in entrambi i casi il brano non aveva avuto successo. Poi otto anni dopo viene inserita nella colonna sonora di un film poliziesco con Alain Delon Pour la Peau d’un Flic e diventa un successo europeo (negli anni 2000 ne ha fatta una versione italiana anche Celentano): una sorta di strana ballata di impianto blues/soul cantata con la voce potente e particolare di Benton, con un timbro tra Chris Farlowe e Tom Jones, con una frase musicale accattivante e una bella scrittura.

Ma prima e dopo per Benton (peraltro molto popolare in Olanda), il successo sarà quasi sempre un miraggio: questo pezzo lo ha inciso varie volte durante la sua carriera, che discograficamente si era interrotta nel 1994, ma proseguiva a fatica a livello concertistico, poi nel 2010 Oscar ha avuto un incidente a seguito del quale è entrato in coma, e la sua riabilitazione prosegue faticosamente tuttora; lo scorso anno Johnny La Porte, piccola leggenda del blues olandese, in qualità di leader dei Barrelhouse,, si è recato nella casa di riposo dove vive Oscar Benton, lo ha riportato in studio ed insieme hanno inciso questo I Am Back (anche se qualche anno fa era uscito anche un Oscar Benton Is Still Alive). La voce ovviamente non è più quella potente ed esplosiva di un tempo, ma il nostro amico si difende ancora con classe e mestiere.

LaPorte gli ha scritto dieci brani nuovi per l’occasione, che insieme ad un pezzo dello stesso Benton e alla ennesima ripresa della classica Bensonhurst Blues costituiscono un onesto album di blues e dintorni, più dintorni. Nell’album suona un buon gruppo di musicisti olandesi, con LaPorte alla chitarra e spesso anche al basso, con tastiere, sezione ritmica, voci femminili di supporto, salvo nella rivisitazione della canzone più nota, che viene riproposta con un arrangiamento atmosferico, scarno, solo chitarra, basso e cello, e una voce che assume tonalità quasi alla Tom Waits, bassa e minacciosa, molto diversa da quella più aperta ed invitante che aveva l’originale.

Ma il resto del disco è godibile: Benjamin Wilder, anche con un banjo nella strumentazione, è una bella ballata di stampo roots, con qualche reminiscenza alla Dirk Hamilton o Rod Stewart, addirittura una struttura melodica tipica delle ballate di Ian Hunter, veramente una bella canzone, I Am Back rimane all’incirca da queste parti, più orecchiabile, ma non banale, è una pop song di buona fattura, con la chitarra di LaPorte che la percorre in modo brillante. Like A Howlin’ Wolf, come suggerisce il titolo è decisamente più bluesata, ma siamo dalle parti di un rock-blues chitarristico piuttosto energico, e se l’ululato del lupo riproposto da Benton vocalmente può sembrare un po’ azzoppato, le chitarre e la band tirano di brutto; My Heart Skips A Beat è più sommessa e sognante, con un buon lavoro delle tastiere e della chitarra, e una melodia vincente, Fuzz’n’Fight, va di R&R con gusto e brio, I’ll Come Ridin’ è una canzoncina più innocua, mentre My Love Why, più complessa, melodrammatica ed “europea” è fin troppo carica, Blue Blues Singer remake, che è l’unico contributo di Oscar Benton come autore, francamente se la potevano risparmiare, abbastanza insulsa, la slide e un ritmo blues non la salvano. Meglio Better Stop Cryin’, tirata, bluesy e potente, anche se la voce leggermente filtrata e distorta non mi piace un granché https://www.youtube.com/watch?v=DD7gz7WZwdA, viceversa Brown Eyes è una deliziosa ballata elettroacustica, cantata con pathos e partecipazione da Benton, che conclude questa nuova fatica con Old, But Happy, una sorta di dichiarazione di intenti, dove fa capolino anche una discreta armonica che ne evidenzia il sapore country-blues.

Bruno Conti

Uscite Prossime Venture (E Presenti) 7. Un Altro Cofanetto D’Archivio: Zappa/Mothers – The Roxy Performances

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Frank Zappa & The Mothers Of Invention – The Roxy Performances – 7 CD Zappa Records/Universal – 02-02-2018 USA/23-03-2018 Europe

Non sono passati neppure quattro mesi dal precedente box dedicato all’opera di Frank Zappa ed ecco un altro consistente cofanetto dedicato al materiale Live del baffuto chitarrista. Questa volta il formato è normale (niente chiavette USB, costumi di Halloween e stranezze varie come in http://discoclub.myblog.it/2017/10/01/e-questo-occhio-al-formato-e-alla-confezione-frank-zappa-halloween-77-costume-boxset-e-altre-amenita-famigliari/), ma si tratta pur sempre di sette CD estratti dai concerti tenuti con le vecchie Mothers Of Invention al Roxy di Los Angeles/Hollywood tra il 9 e il 10 Dicembre del 1973, più alcune prove di studio e dal vivo registrate nei giorni precedenti e successivi. Si tratta del materiale da cui venne estratto il celebre doppio vinile Roxy And Elsewhere, uno dei migliori album dal vivo del primo periodo zappiano.

zappa roxy and elsewhere

La variazione parziale del titolo ricorrente del Post, da future a presenti, è dovuta al fatto che l’uscita del cofanetto è differenziata negli Stati Uniti, dove è già stato pubblicato il 2 febbraio, e in Europa (Italia compresa) dove invece sarà disponibile solo del 23 marzo. E per le strane e perverse logiche del mercato discografico cambia di parecchio anche il prezzo: negli States costa circa 50 dollari (poco più dei nostri 40 euro), mentre l’edizione europea dovrebbe costare oltre 70 euro: a chi pensa, allora me lo compro in America, sappia che però poi sarà costretto a pagare le imposte e i diritti doganali, oltre alla spedizione, per cui alla fine si viene a pagare più o meno la stessa cifra della futura uscita nazionale, fate bene i vostro calcoli. E questa dei prezzi differenziati degli stessi prodotti distribuiti dalle multinazionali è veramente spesso incomprensibile: se prendiamo il box di Forever Changes dei Love, di cui al precedente Post, costerà viceversa 50-60 euro in Europa e 90 dollari negli USA, in base a quale logica non ci è chiaro, forse perché per scegliere i prezzi utilizzano i bambini bendati, ora disoccupati, in quanto sostituiti da sistemi digitali, delle vecchie estrazioni del lotto, che estraevano dall’urna il bussolotto con il numero, mentre al momento vengono inserite delle cifre a casaccio da cui ricavare il prezzo. Estremizzo molto, ma ogni tanto mi chiedo se il sistema non sia questo!

Ma torniamo al cofanetto: la formazione che accompagna Zappa è una delle migliori edizioni del suo gruppo di sempre, alle tastiere George Duke, al basso Tom Fowler, trombone Bruce Fowler, tenor sax, flauto e voce Napoleon Murphy Brock, percussioni e vibrafono Ruth Underwood e doppia batteria con Ralph Humphrey e Chester Thompson, voce e chitarra ritmica Jeff Simmons, Don Preston sintetizzatore  Walt Fowler, tromba. Ecco la lista completa dei brani contenuti nei sette CD.

DISC 1
12-9-73 Show 1
1. Sunday Show 1 Start 4:59 
2. Cosmik Debris 11:33 
3. “We’re Makin’ A Movie” 3:16 
4. Pygmy Twylyte 9:08 
5. The Idiot Bastard Son 2:19 
6. Cheepnis 3:44 
7. Hollywood Perverts 1:07 
8. Penguin In Bondage 5:54 
9. T’Mershi Duween 1:56 
10. The Dog Breath Variations 1:44 
11. Uncle Meat 2:29 
12. RDNZL 5:14 
13. Montana 7:49 
14. Dupree’s Paradise 15:25 
TT: 76:43

DISC 2
1. Dickie’s Such An Asshole 10:29 
12-9-73 Show 2
2. Sunday Show 2 Start 4:08 
3. Inca Roads 8:27 
4. Village Of The Sun 4:19 
5. Echidna’s Arf (Of You) 4:01 
6. Don’t You Ever Wash That Thing? 13:22 
7. Slime Intro :59 
8. I’m The Slime 3:34 
9. Big Swifty 9:01 
TT: 58:25

DISC 3
1. Tango #1 Intro 3:50 
2. Be-Bop Tango (Of The Old Jazzmen’s Church) 18:12 
3. Medley:
King Kong 
Chunga’s Revenge 
Son Of Mr. Green Genes 9:46 
12-10-73 Show 1
4. Monday Show 1 Start 5:31 
5. Montana 6:57 
6. Dupree’s Paradise 21:26 
7. Cosmik Intro 1:05 
8. Cosmik Debris 8:05 
TT: 74:57

DISC 4
1. Bondage Intro 1:52 
2. Penguin In Bondage 6:54 
3. T’Mershi Duween 1:52 
4. The Dog Breath Variations 1:48 
5. Uncle Meat 2:29 
6. RDNZL 4:59 
7. Audience Participation – RDNZL 3:08
8. Pygmy Twylyte 4:05 
9. The Idiot Bastard Son 2:21 
10. Cheepnis 4:49 
11. Dickie’s Such An Asshole 10:21
12-10-73 Show 2
12. Monday Show 2 Start 5:13 
13. Penguin In Bondage 6:33 
14. T’Mershi Duween 1:52 
15. The Dog Breath Variations 1:46 
16. Uncle Meat 2:28 
17. RDNZL 5:11 
TT: 67:50

DISC 5
1. Village Of The Sun 4:05 
2. Echidna’s Arf (Of You) 3:54 
3. Don’t You Ever Wash That Thing? 6:56 
4. Cheepnis – Percussion 4:08 
5. “I Love Monster Movies” 2:10 
6. Cheepnis 3:35 
7. “Turn The Light Off”/Pamela’s Intro 3:59 
8. Pygmy Twylyte 7:23 
9. The Idiot Bastard Son 2:22 
10. Tango #2 Intro 2:01 
11. Be-Bop Tango (Of The Old Jazzmen’s Church) 22:08 
TT: 62:46

DISC 6
1. Dickie’s Such An Asshole 15:39
Bonus Section: 12-10-73 Roxy Rehearsal
2. Big Swifty – In Rehearsal 2:50 
3. Village Of The Sun 3:13 
4. Farther O’Blivion – In Rehearsal 5:34 
5. Pygmy Twylyte 6:17 
Unreleased Track
6. That Arrogant Dick Nixon 2:19 
12-12-73 Bolic Studios Recording Session
7. Kung Fu – In Session 4:50 
8. Kung Fu – with guitar overdub 1:17 
9. Tuning and Studio Chatter 3:38 
10. Echidna’s Arf (Of You) – In Session 1:22 
11. Don’t Eat The Yellow Snow – In Session 9:49 
12. Nanook Rubs It – In Session 5:41 
13. St. Alfonzo’s Pancake Breakfast – In Session 2:46 
14. Father O’Blivion – In Session 2:31 
15. Rollo (Be-Bop Version) 2:36 
TT: 70:31

DISC 7
12-8-73 Sound Check/Film Shoot

1. Saturday Show Start 2:20 
2. Pygmy Twylyte/Dummy Up* 20:25 
3. Pygmy Twylyte – Part II 14:25 
4. Echidna’s Arf (Of You) 3:42 
5. Don’t You Ever Wash That Thing? 6:01 
6. Orgy, Orgy 3:39 
7. Penguin In Bondage 6:30 
8. T’Mershi Duween 1:53 
9. The Dog Breath Variations 1:45 
10. Uncle Meat/Show End 4:01 
TT: 64:46

Ok, alcuni pezzi sono ripetuti più volte ma come è noto Frank Zappa e soci eseguivano raramente (o mai) lo stesso brano in versioni del tutto simili, per cui gli appassionati avranno di che godere ancora una volta, senza dimenticare che comunque esiste anche il DVD Roxy The Movie e la relativa colonna sonora. Viene ora solo richiesta una breve pausa per il “fair play finanziario”: non si possono spremere i fan oltre un certo limite.

Bruno Conti

Uscite Prossime Venture 6. Un Grandissimo Disco, Ma Anche Un’Ennesima Ristampa Inutile. Love – Forever Changes 50th Anniversary

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Love – Forever Changes 50th Anniversary – Elektra/Warner Super Deluxe 4CD/DVD/LP – 06-04-2018

Il 6 Aprile di quest’anno la Elektra pubblicherà quella che dovrebbe essere la versione definitiva di uno degli album più ristampati di sempre, cioè il leggendario Forever Changes dei Love, uno dei dischi più belli ed influenti degli anni sessanta (e non solo), il momento migliore di quel geniaccio che rispondeva al nome di Arthur Lee, uno che avrebbe potuto essere nell’olimpo dei grandissimi se solo avesse avuto più cura di sé stesso ed un carattere diverso, ma in quella fase (1967) era un musicista al quale perfino Jimi Hendrix guardava come fonte di ispirazione. Forever Changes ancora oggi è un capolavoro che mischia rock, folk e psichedelia in maniera mirabile, con una serie di canzoni strepitose ed atmosfere quasi oniriche, tipiche del periodo. Il problema però di questa ristampa per il cinquantesimo anniversario (gli anni sarebbero 51, ma ormai a queste ricorrenze decise “ad mentula canis” ci ho fatto l’abitudine) è che aggiunge ben poco a quella già ottima (e su singolo CD) del 2001. Infatti il box propone nel primo CD il disco originale (e fin qui ci siamo), nel secondo il missaggio mono dello stesso “per la prima volta in CD” (e qui ci siamo già di meno), nel terzo di nuovo il medesimo album con tutti missaggi alternati (e la presa per i fondelli comincia a prendere forma), mentre nel quarto ci sono single versions ed outtakes, anche se poi sono le stesse bonus tracks del 2001, con la presenza di “ben” due inediti assoluti, che poi non sono altro che le backing tracks di due pezzi del disco (in parole povere le basi senza le voci). Nel DVD ed LP, ovviamente, ancora l’album originale nudo e crudo: questo comunque l’elenco completo dei brani contenuti nel cofanetto.

[CD1: Original Album]

1. Alone Again Or
2. A House Is Not A Motel
3. Andmoreagain
4. The Daily Planet
5. Old Man
6. The Red Telephone
7. Maybe T People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale
8. Live And Let Live
9. The Good Humor Man He Sees Everything Like This
10. Bummer In The Summer
11. You Set The Scene

[CD2: Mono Mix]
1. Alone Again Or
2. A House Is Not A Motel
3. Andmoreagain
4. The Daily Planet
5. Old Man
6. The Red Telephone
7. Maybe T People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale
8. Live And Let Live
9. The Good Humor Man He Sees Everything Like This
10. Bummer In The Summer
11. You Set The Scene

[CD3: Alternate Mix]
1. Alone Again Or
2. A House Is Not A Motel
3. Andmoreagain
4. The Daily Planet
5. Old Man
6. The Red Telephone
7. Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale
8. Live And Let Live
9. The Good Humor Man He Sees Everything Like This
10. Bummer In The Summer
11. You Set The Scene
12. Wonder People (I Do Wonder) (Outtake, Alternate Mix)

[CD4: Singles And Outtakes]
1. Wonder People (I Do Wonder)
2. Alone Again Or (Single Version)
3. A House Is Not A Motel (Single Version)
4. Hummingbirds (Demo)
5. A House Is Not A Motel (Backing Track)
6. Andmoreagain (Alternate Electric Backing Track)
7. The Red Telephone (Tracking Sessions Highlights)
8. Wooly Bully (Outtake)
9. Live And Let Live (Backing Track) *
10. Wonder People (I Do Wonder) (Outtake, Backing Track) *
11. Your Mind And We Belong Together (Tracking Sessions Highlights)
12. Your Mind And We Belong Together
13. Laughing Stock
14. Alone Again Or (Mono Single Remix)

[DVD: 24/96 Stereo Mix]
1. Alone Again Or
2. A House Is Not A Motel
3. Andmoreagain
4. The Daily Planet
5. Old Man
6. The Red Telephone
7. Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale
8. Live And Let Live
9. The Good Humor Man He Sees Everything Like This
10. Bummer In The Summer
11. You Set The Scene
12. Your Mind And We Belong Together (Video)

[LP: Original Album]
Side One
1. Alone Again Or
2. A House Is Not A Motel
3. Andmoreagain
4. The Daily Planet
5. Old Man
6. The Red Telephone

Side Two
1. Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale
2. Live And Let Live
3. The Good Humor Man He Sees Everything Like This
4. Bummer In The Summer
5. You Set The Scene

* Previously Unreleased

Fortunatamente il costo non dovrebbe essere eccessivo (attorno ai 50/60 euro, comunque non poco per avere le stesse canzoni ripetute all’infinito): se non lo avete è un disco imperdibile, quasi da isola deserta, ma se fossi in voi prenderei l’edizione del 2001, che si trova ancora e pure a prezzi bassi, o meglio ancora quella doppia del 2008.

Marco Verdi

Le Origini Di Un Genio Della Chitarra, Parte Prima. Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part 1)

bert jansch a man i'd rather be part 1

Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part 1) – Earth 4CD Box Set

Quando lo scorso anno la label londinese Earth ha raccolto in due box da quattro CD ciascuno (Living In The Shadows e On The Edge Of A Dream, oltre a Live In Australia pubblicato a parte http://discoclub.myblog.it/2017/07/18/gli-ultimi-bellissimi-episodi-di-una-carriera-luminosa-bert-jansch-on-the-edge-of-a-dream/ ) tutti gli album pubblicati negli anni novanta e duemila dal grande Bert Jansch, non pensavo che ci fosse in previsione anche il recupero del catalogo più antico del chitarrista scozzese. Invece oggi esce, con la medesima veste grafica degli altri due cofanetti, questo A Man I’d Rather Be, che raccoglie i primi tre album pubblicati da Bert negli anni sessanta  prima di unirsi ai Pentangle (Bert Jansch, It Don’t Bother Me e Jack Orion), oltre all’unico album accreditato a lui in duo con John Renbourn, Bert & John. Per chi possiede già questi dischi (la Sanctuary li ha ristampati non molti anni fa) l’acquisto del box non è per nulla essenziale, in quanto non c’è neppure mezzo inedito, mentre nei due pubblicati lo scorso anno il quarto CD era costituito esclusivamente da canzoni mai sentite prima: qua non ci sono nemmeno le bonus tracks incluse nelle ristampe della Sanctuary, e di certo qualcosina in più in tal senso si poteva/doveva fare (a breve, il 23 Febbraio, uscirà la seconda parte di questo box, con i seguenti quattro lavori di Bert come solista, ancora senza inediti però).

Per chi non possedeva queste incisioni, come il sottoscritto, il box è comunque essenziale, in quanto ci mostra i primi passi di un artista sublime, un chitarrista che, pur suonando acustico, ha influenzato gente del calibro di Jimmy Page, Neil Young, Nick Drake e Mike Oldfield. E dire che già all’epoca, quando Bert emigrò da Edimburgo a Londra, non riuscì a trovare una major che scommettesse su un giovane armato solo di chitarra che non scriveva canzoni adatte ad essere pubblicate su singolo, e così si accasò presso l’indipendente Transatlantic, che diede al nostro la possibilità di far sentire la sua musica. Il cofanetto (con le note scritte ex novo da Bill Leader, il produttore originale di questi album) inizia con un vero e proprio classico: Bert Jansch (1965) è stato infatti indicato dalla rivista NME come uno dei venti album di folk più importanti di tutti i tempi, un lavoro che ci mostra un artista in completa solitudine ma già padrone assoluto dello strumento, e già capace di scrivere brani che sembrano dei vecchi traditionals. Quaranta minuti che si ascoltano tutti d’un fiato, con canzoni cristalline sospese tra folk e blues (Strolling Down The Highway, I Have No Time, la bella Rambling’s Going To Be The End Of Me, la purissima Running From Home) e scintillanti strumentali (la strepitosa Smokey River, la complessa Alice’s Wonderland, influenzata da Charlie Mingus, la cover di Angie di Davy Graham, ripresa anche da Simon & Garfunkel col titolo di Anji). E’ anche il disco della celebre Needle Of Death, una drammatica canzone (ma melodicamente splendida) contro la droga, che Neil Young ha volutamente “plagiato” nella sua Ambulance Blues e molti anni dopo ha ripreso nel controverso A Letter Home.

It Don’t Bother Me (ancora 1965) forse non è bello come il suo predecessore, ma è comunque un signor disco di folk, con elementi blues forse più marcati (Ring-A-Ding Bird, Tinker’s Blues, Want My Daddy Now), e comunque con cose splendide come la suggestiva Anti Apartheid, la dylaniana A Man I’d Rather Be o la fluida 900 Miles, con Bert al banjo. Ci sono anche due pezzi dove Jansch è affiancato per la prima volta da John Renbourn, My Lover e Lucky Thirteen: sono in due ma sembrano in cinque. E questo ci porta a Jack Orion (1966), album che vede la partecipazione di Renbourn in tutti i brani, che qui sono al 90% tradizionali (a parte una breve ma incisiva versione strumentale di The First Time I Ever Saw Your Face di Ewan McColl). Il pezzo centrale è senza dubbio la strepitosa title track, quasi dieci minuti di goduria assoluta, una vera lezione su come si suona la chitarra acustica. Ma sono imperdibili anche l’iniziale The Waggoner’s Lad, con uno splendido duello chitarristico, la vibrante Nottamun Town, antica ballata che servì da base a Bob Dylan per scrivere Masters Of War, e che in seguito venne ripresa anche dai Fairport Convention, o la scintillante Pretty Polly. Gran disco. In Bert & John (1966), costituito perlopiù da brani strumentali (i pochi pezzi cantati vedono comunque Bert alla voce solista), i due futuri Pentangle fanno vedere di cosa sono capaci (East Wind è qualcosa di fantastico), solo 26 minuti ma di un’intensità incredibile, da ascoltare tutti d’un fiato, con altre punte di eccellenza nella superba Soho e nella swingata e strepitosa Red’s Favorite.  Un tesoro da riscoprire, come d’altronde, se non ne possedete già il contenuto, il resto del box.

Marco Verdi

Un’Altra Vibrante Voce Rock Femminile. Jan James – Calling All Saints

jan james calling all saints

Jan James – Calling All Saints – Inakustik/Ird

Siete appassionati, come il sottoscritto, di voci femminili potenti e dal caldo contenuto emotivo, vi piacciono Dana Fuchs, Beth Hart e altre portatrici sane del “virus” Janis Joplin, quelle che amano il blues, il soul e il country, ma con una dose consistente e prevalente di rock nel DNA del suono? Non andate oltre, fermatevi ad ascoltare questo Calling All Saints, il nono album di Jan James, in una carriera partita attraverso gli auspici della Provogue in Europa con la pubblicazione nel 1994 del primo album Last Train, proseguita sempre con l’etichetta olandese fino al 2003 e l’uscita di Black Limousine; poi anche lei ha dovuto affidarsi ad una piccola etichetta come l’indipendente Blue Palace Records (ma questo nuovo titolo è distribuito anche in Europa dalla tedesca Inakustik). Negli anni quella che è rimasta inalterata è la collaborazione con il chitarrista e produttore di colore Craig Calvert, al suo fianco sin dagli inizi nella natia Portland e poi a Detroit, Michigan, prima della trasferta a Chicago, dove anche lei, come altre illustri colleghe, è stata interprete di un musical sulla vita di Janis Joplin.

Lo stile musicale è comunque abbastanza ruvido e tirato, intriso di rock, come dimostra il rock-blues tiratissimo dell’iniziale I’m A Gambler, dove la chitarra e la voce potente della James iniziano subito a battagliare sullo sfondo creato da una onesta band, dove si mettono in mostra anche l’armonicista David Semen e il tastierista Bob Long e una sezione ritmica granitica anziché no; Roll Sweet Daddy, più cadenzata, vira maggiormente verso il blues, grazie alla citata armonica di Semen, anche se la chitarra è sempre molto in evidenza e la voce certo non si risparmia, ben sostenuta da un paio di coriste che alzano la temperatura del brano. Heart Of The Blues è il primo lento d’atmosfera, sulle ali di una solista lancinante la voce della brava Jan si dimostra in grado di reggere canzoni più composite e ispirate, anche se il sound è sempre molto 70’s; la nostra amica non è più una novellina, i 50 li ha superati (da poco) e l’esperienza e il mestiere non le mancano, come mette in evidenza il brillante shuffle Cry Cry Cry, con qualche tocco elettroacustico o il pungente slow blues di una torrida Losing Man dove Calvert si produce ottimamente anche alla slide. Insomma pare che la varietà e la grinta non manchino in questo Calling All Saints, anche il tocco country-blues di una deliziosa It’s So Easy, pur non apportando nulla di nuovo alla galassia del blues, ne evidenzia una brava artigiana in grado di districarsi nelle varie pieghe del genere con buona personalità, ogni tanto il sound forse è fin troppo esuberante come nella title track Calling All Saints, anche se il Chicago Blues elettrico che ne deriva non è per nulla disprezzabile.

Everybody Wants To Be Loved è un altro buon esempio di blues-rock di chiara derivazione jopliniana (ma l’originale era ben altra cosa), con la chitarra di Calvert sempre assoluta protagonista https://www.youtube.com/watch?v=7rFioAU9y0Q , mentre Bucky Blues mette in mostra un misto di leggere influenze Hendrixiane e il sound più elettrico di Mastro Muddy Waters, il tutto condito dalla voce sicura di Jan James, con chitarra ed armonica che si scambiano sferzate di notevole intensità; Battle Of Jesse ha quel gusto country got soul elettroacustico che non guasta, prima di tornare all’impetuoso rock-blues di una intensa Trouble With The Water, di nuovo incentrata sul dualismo della voce di Jan James e della chitarra di Craig Calvert, con il resto della band che fa la sua parte in modo onesto e professionale, anche se probabilmente manca quel quid che eleverebbe la musica ad un livello superiore. Forse la conclusiva Black Orchid Blues, un altro ardente “lentone”, è quello che più si avvicina alla “eredità sonora” della grande Janis, contribuendo ad un disco che, senza esagerare nelle iperboli, non entrerà sicuramente negli annali della musica, ma si ascolta comunque con piacere grazie alla voce vibrante ed interessante della sua protagonista.

Bruno Conti

*NDB Tra l’altro, e me ne scuso con l’interessata e con i lettori, mi sono accorto che in tutta la recensione del CD sul Buscadero, ho chiamato l’album Calling All Angels (forse traviato dalla mia passione per Jane Siberry) anziché Calling All Saints.

Country Texano = Buona Musica? Non Sempre… Granger Smith – When The Good Guys Win

granger smith when the good guys win

Granger Smith – When The Good Guys Win – Wheelhouse CD

Granger Smith, countryman texano di Dallas, pur avendo solo 38 anni è già attivo, discograficamente parlando, da quando ne aveva 19. La sua gavetta è stata piuttosto lunga, fatta di ben sei album autodistribuiti, ma poi è stato notato dal produttore Frank Rogers (l’uomo dietro a Brad Paisley), il quale lo ha preso sotto la sua ala protettiva contribuendo ad aumentare notevolmente la sua popolarità ed anche le sue vendite. Come però spesso succede, soprattutto nel mondo di Nashville, l’incremento della fama è coinciso con un progressivo decremento della qualità della musica proposta: se l’EP 4×4 del 2015 ed il suo album dello scorso anno, Remington, riuscivano ancora a barcamenarsi abbastanza bene tra una musica country di buon piglio elettrico e sonorità adatte ai passaggi radiofonici, con quest’ultimo When The Good Guys Win sembra che anche Granger abbia imboccato definitivamente la strada delle canzoni da classifica. Il disco non è un totale disastro, anzi inizia anche discretamente (pur senza far gridare al miracolo), ma brano dopo brano la proposta del nostro diventa sempre più banale e prevedibile, senza particolari guizzi, ed in più con un inutile ricorso a sonorità fasulle.

Non credo che Smith abbia nelle corde un grande disco, ma un prodotto di buon livello sarebbe anche in grado di metterlo a punto, dato che la voce non gli manca e nemmeno la capacità di scrivere o di interpretare a dovere ciò che gli viene messo a disposizione: però in questo album, pur impeccabile dal punto di vista formale (neppure una virgola fuori posto), manca la scintilla, o quel qualcosa che lo faccia elevare dalla massa di lavori che suonano tutti allo stesso modo (e ci sono pure 14 canzoni, quindi nemmeno poche). When The Good Guys Win non parte neanche male: Gimme Something è una fluida ballata elettrica, con un ritornello molto orecchiabile ed un suono calibrato al punto giusto, ma in grado di piacere anche a chi non ama il country da classifica. Stesso discorso per la cadenzata You’re In It, un rockin’ country chitarristico dove nulla è lasciato al caso, ma nonostante tutto il brano risulta piacevole ed anche coinvolgente, mentre Raise Up Your Glass è uno slow dall’atmosfera rarefatta ma con la strumentazione giusta, dato che le chitarre e la sezione ritmica sono comunque in primo piano.

Happens Like That è il primo singolo, e rispetto alle precedenti qualcosa inizia a scricchiolare, essendo fin troppo tendente al pop; meglio la tonica Still Holds Up, sempre elettrica ma più spostata sul versante country, mentre la title track tiene un piede da tutte e due le parti e scivola via abbastanza anonima. Da questo punto in poi il disco perde mordente e, per chi scrive, interesse, tra pezzi nei quali l’anima country di Granger tenta di prendere il sopravvento senza molto successo ed altri fin troppo normali, senza particolari doti, e con in più una esagerata predominanza di ballate e qualche suono sintetizzato in eccesso, come nella quasi danzereccia Never Too Old, che ci sta come i cavoli a merenda su un disco country, o l’ultra-radiofonica Reppin’ My Roots, o ancora la pasticciata Don’t Tread On Me (nella quale Granger assume i panni di Earl Dibbles Jr., il suo alter ego redneck-parodistico già incontrato sui dischi precedenti), a metà tra musica da ballo e southern rock di grana grossa. Si salva il finale con il discreto slow acustico Home Cooked Meal, ma è un po’ poco per far entrare questo disco nella wish list di chi ama il vero country. Per la serie: non tutti i texani riescono col buco.

Marco Verdi

L’Impegno Non Manca, I Risultati Purtroppo Sì! Michael Head & The Red Elastic Band – Adios Senor Pussycat

michael head adios senor pussycat

Michael Head & The Red Elastic Band – Adios Senor Pussycat – Violette CD

Michael Head è un musicista inglese di Livepool che, nonostante sia in attività da quasi quaranta anni, è ancora praticamente uno sconosciuto, anche se qualche successo minore con gli Shack lo ha avuto. Influenzato dal rock californiano di gruppi come i Love (il nostro ha collaborato anche con Arthur Lee), dal jingle-jangle sound dei Byrds e solo in misura minore dai Beatles, Head ha fronteggiato diverse band nel corso della sua carriera: prima dei già citati Shack, negli anni ottanta ha formato i Pale Fountains, mentre in una fase successiva ha girato con un combo denominato The Strands, anche se la sua proposta musicale, un pop-rock immediato e gradevole con derivazioni californiane, non è mai cambiata più di tanto. Il suo ultimo gruppo in ordine di tempo si chiama The Red Elastic Band, con i quali ha già inciso due album nel 2013 e 2015: Adios Senor Pussycat è il titolo del suo nuovo lavoro, che allunga ulteriormente la sua già cospicua discografia ma, e vedremo subito il perché, secondo me non contribuirà a toglierlo dall’anonimato. La Red Elastic Band è un quintetto che, oltre a Michael, comprende Steve Powell alla chitarra, Tom Powell al basso, Phil Murphy alla batteria e Nina (?) al pianoforte, e che nei tredici brani del disco sposta l’obiettivo su una musica decisamente vicina ai già citati Byrds, con sonorità chitarristiche e melodie figlie dello storico gruppo degli anni sessanta, ed il lavoro in questi episodi, pur suonando piuttosto derivativo, funziona abbastanza. Il problema è nelle restanti canzoni, che non hanno una direzione artistica ben precisa, e fanno affiorare in maniera netta i limiti del nostro, sia come songwriter che come cantante: molti brani sono infatti abbastanza anonimi, suonati a dovere ma mancanti di personalità, ed il timbro vocale decisamente qualunque, quando non soporifero, di Michael non contribuisce certo a risollevare le cose; il tutto rende questo Adios Senor Pussycat un disco altalenante, non certo il veicolo migliore per far uscire Head e soci allo scoperto.

Picasso, aperta da una chitarra “morriconiana”, è una sorta di brano a metà tra pop e musica western, però molto attendista e senza particolari guizzi https://www.youtube.com/watch?v=Hmf-28MCMX4 ; meglio la cadenzata Overjoyed, un gustoso pop-rock di derivazione byrdsiana, con begli intrecci chitarristici: Michael rivela da subito i suoi limiti vocali, ma per ora sopperisce ancora con il mestiere. L’eterea Picklock ha dei risvolti cinematografici ed un uso particolare della sezione archi, ma non è un granché https://www.youtube.com/watch?v=ZuQFccyXDOE , mentre Winter Turns To Spring è una delicata ballata pianistica, che però la voce sonnolenta del leader non valorizza appieno. Il meglio il nostro lo dà nei pezzi più elettrici, come nella fluida Working Family, che ha delle ottime parti di chitarra jingle-jangle, anche se la vocalità piatta tende ad ammosciare il tutto. La rarefatta 4 & 4 Still Makes 8 non è né carne né pesce, la cupa Queen Of All Saints è monotona e con risvolti psichedelici che non c’entrano molto, Rumer è pop corale appena discreto, che si salva per le chitarre ed un motivo sufficientemente gradevole. Il resto del disco si conferma di livello poco più che mediocre, e si fa fatica anche ad arrivare in fondo, mancando feeling e idee: si salva una ripresa dello splendido traditional Wild Mountain Thyme, ma solo perché Michael gli costruisce attorno un arrangiamento ancora una volta derivante al 100% dal suono folk-rock inventato da Roger McGuinn e soci, oltre al fatto che la canzone è già di suo un classico.

Micheal Head è sempre stato e continua ad essere un outsider, e non è certo con dischi come Adios Senor Pussycat che potrà cambiare lo stato delle cose.

Marco Verdi

Il Meglio Degli Anni Del Blues, Fase Due, Raccolto In Un Box. Gary Moore – Blues And Beyond

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Gary Moore – Blues And Beyond – Santuary/BMG Rights Management 4CD/2 CD

Robert William Gary Moore, come altri giovani artisti nati in Irlanda (ma anche e soprattutto in Inghilterra) e vissuti a cavallo tra la fine anni ’60 e i primi ’70, ha vissuto le ultime propaggini dell’epopea del cosiddetto British Blues: Moore si presentava come un arrivo tardivo, visto che la sua carriera inizia intorno al 1968, quando entra negli Skid Row, band dove militava il suo futuro pard Phil Lynott, un gruppo ritagliato sulla falsariga dei Taste di Rory Gallagher, ma soprattutto dei Fleetwood Mac del suo idolo Peter Green, che durante un tour dove la band irlandese faceva da supporto proprio ai Mac lo presentò alla CBS/Columbia, che fece incidere un paio di dischi a Moore e soci. Poi, rimanendo sempre in un ambito blues-rock, pubblicherà un eccellente album solista nel 1973 Grinding Stone, prima di entrare nei Thin Lizzy in sostituzione di Eric Bell (che proprio in questi giorni ha pubblicato un album solo), ma rimanendo brevemente in formazione, per ritornare in pianta più stabile nel periodo di Black Rose, incidendo però con il gruppo la prima versione di Still In Love With You, il suo brano più celebre, per quanto accreditato a Phil Lynott, la cui carriera si intersecherà a più riprese con quella di Moore. Nel frattempo, dopo l’esperienza con i Colosseum II, Gary Moore prosegue la sua carriera solista che però approda ad un hard-rock, per il sottoscritto, abbastanza di maniera e non sempre brillante, per quanto la sua chitarra era sempre in grado di infiammare le platee, soprattutto dal vivo.

Nel 1990 il nostro amico (ri)approda al Blues con una serie di album veramente belli, Still Got The Blues, After The Hours e Blues For Greeny, uscito nel 1995 e dedicato al suo mentore Peter Green, che dopo l’abbandono dei Fleetwood Mac gli aveva affidato la sua Gibson Les Paul del 1959, strumento dal suono splendido. Però i brani contenuti in questo box antologico non vengono da quel periodo, ma dal “secondo ritorno” al blues, quello avvenuto tra il 1999 e il 2004, attraverso quattro album pubblicati per la Sanctuary e di cui, nei primi due CD di questo quadruplo, c’è una abbondante scelta, sempre orientata verso il lato più blues del chitarrista irlandese, per quanto meno limpidi e genuini del periodo Virgin anni ’90, comunque nobilitati da un eccellente scelta di brani Live aggiunti “inediti” inseriti nel CD 3 e 4 del cofanetto, che rivisitano classici delle 12 battute misti a molti dei brani migliori del suo repertorio. Nella bella confezione è anche contenuto un libro, I Can’t Wait, che è la sua biografia autorizzata. Nei primi due dischetti, che si possono acquistare anche a parte, come una buona doppia antologia di quel periodo, spiccano l’iniziale Enough Of The Blues, l’hendrixiana (altro pallino di Moore) Tell Woman, a tutto wah-wah, una lancinante versione di Stormy Monday dove la chitarra scivola maestosa e sicura, una sincera That’s Why I Play The Blues (molti pensano che la svolta blues di Gary fosse dovuta ad a una sorta di opportunismo, ma BB King, che ha suonato spesso con lui dal vivo, la pensava diversamente).

Troviamo ancora Power Of The Blues, tra Gallagher e i Thin Lizzy, una chilometrica Ball And Chain (non quella della Joplin e Big Mama Thornton), di nuovo molto ispirata dall’opera di Jimi Hendrix, la pimpante Looking Back di Johnny Guitar Watson, il lungo e sognante strumentale Surrender, molto alla Peter Green via Santana, la tirata Cold Black Night, un altro slow come There’s A Hole, Memory Pain di Curtis Mayfield, di nuovo molto hendrixiana, l’ottima The Prophet, l’omaggio a BB King nella fiatistica You Upset Me Baby e quello a Otis Rush (e ai Led Zeppelin) in una carnale I Can’t Quit You Baby, un’altra delle sue classiche e sognanti ballate come Drowning In Tears, una cattivissima Evil di Howlin’ Wolf, ma più o meno tutti i brani contenuti nel doppio antologico sono di eccellente fattura, fino alla versione Live di Parisienne Walways del Montreux Festival 2003.

Il doppio CD dal vivo inedito è ancora meglio: versioni fantastiche di Walking By Myself, Oh Pretty Woman veramente ottima, una splendida Need Your Love So Bad che forse neppure Green (forse) avrebbe saputo fare meglio, All Your Love brillantissima e una struggente Still Got The Blues, molto vicina a Santana, lo shuffle perfetto di Too Tired e una devastante versione di 13 minuti diThe Sky Is Crying, con una serie di assoli veramente magistrali, e poi ancora Further On Up The Road, una scatenata Fire di Jimi Hendrix, la trascinante The Blues Is Alright e le versioni dal vivo di Enough Of The Blues e dello strumentale The Prophet. Insomma Gary Moore era uno di quelli di bravi e questo cofanetto lo certifica una volta ancora.

Bruno Conti