Ancora Un Bellissimo “Bootleg” Radiofonico…Peccato Sia Solo Singolo! Tom Petty & The Heartbreakers – Strange Behaviour

tom petty strange behaviour

Tom Petty & The Heartbreakers – Strange Behaviour – Hobo CD

Come ho già avuto modo di scrivere in altre occasioni, non sono un grande fan dei CD tratti da vecchi broadcast radiofonici, in pratica dei bootleg sotto falso nome, non tanto per la qualità che spesso è eccellente, e nemmeno per il valore storico di certe performances che è indiscutibile, ma per una mera ragione finanziaria: le mie (nostre) finanze di music lover(s) sono già abbastanza provate da album nuovi, live ufficiali, edizioni celebrative e cofanetti super deluxe, e non c’è il bisogno di aggiungere altra carne sul fuoco. Uno dei rari artisti per il quale faccio, e non sempre, un’eccezione è Tom Petty, soprattutto perché con i suoi Heartbreakers dal vivo era un’autentica meraviglia: dalla tragica ed improvvisa scomparsa del biondo rocker avvenuta lo scorso Ottobre si sono ovviamente moltiplicate le uscite per così dire semi-ufficiali, ed il culmine artistico si è avuto verso la fine del 2017 con il formidabile triplo San Francisco Serenades, uno dei migliori live degli ultimi trent’anni (ignoriamo per un attimo il fatto che sia un bootleg), esaltato giustamente da Bruno su questo blog http://discoclub.myblog.it/2018/01/07/supplemento-della-domenica-il-piu-bel-disco-dal-vivo-dello-scorso-anno-anche-se-non-e-ufficiale-ed-e-registrato-nel-1997-tom-petty-and-the-heartbreakers-san-francisco-serenades/ .

Oggi vorrei parlarvi di questo Strange Behaviour, che se non raggiunge e neppure sfiora le vette del poc’anzi citato triplo CD, è comunque uno splendido live album, che ha l’unico difetto di essere singolo: registrato il 13 Settembre del 1989 a Chapel Hill (North Carolina), questa serata fa parte del tour seguito a Full Moon Fever, primo album registrato da Tom come solista (con la collaborazione di Jeff Lynne), anche se dal vivo non manca l’apporto degli inseparabili Spezzacuori. La qualità sonora è strepitosa, sembra un live ufficiale, peccato come ho già detto che non sia almeno doppio: le note del foglietto allegato al CD parlano di concerto completo, ma non credo proprio che all’epoca gli show di Tom durassero solo 72 minuti (forse si riferiscono alla parte trasmessa per radio). Inizio a tutto rock’n’roll con la trascinante Bye Bye Johnny (Chuck Berry), con Tom subito caldo e gli Heartbreakers già lanciati come treni ad alta velocità; l’incalzante The Damage You’ve Done era uno dei brani migliori del sottovalutato Let Me Up (I’ve Had Enough), un disco poco amato anche da Tom (ma a me piace), e ci dà un primo assaggio di come i nostri riuscivano a trasformare una canzone on stage: sinuoso, cadenzato e dominato dal basso pulsante di Howie Epstein, il pezzo risulta decisamente riuscito. Breakdown, uno dei classici che Tom usava per improvvisare sul palco, ha una bella intro jazzata, poi entra il brano vero e proprio per la gioia del pubblico, che ci dà dentro con il singalong; Free Fallin’ è il primo dei pezzi tratti da Full Moon Fever, e non la scopro certo io oggi: grandissima canzone, riproposta qui in maniera davvero scintillante.

The Waiting è puro Petty sound, ed è dotata di uno dei ritornelli più immediati del nostro: per l’occasione Tom la propone senza accompagnamento ritmico, solo voce e chitarre elettriche, ma poi al momento dell’assolo di Mike Campbell  entra anche il resto della band. Benmont’s Boogie è un breve showcase strumentale per l’abilità di Benmont Tench, uno dei migliori pianisti rock della nostra epoca, mentre Don’t Come Around Here No More è la chiara dimostrazione di come Tom e i suoi potevano cambiare un pezzo sul palcoscenico: un ottimo brano rock diventa una straordinaria jam di otto minuti, tra rock e psichedelia, con Campbell devastante specie nel pirotecnico finale. Southern Accents è una delle più toccanti ballate pettyiane, e qua il pubblico, anch’esso del sud, va letteralmente in visibilio; Even The Losers è invece uno dei grandi pezzi rock di Tom, che stasera decide di suonarla con un arrangiamento acustico, ed il brano non perde un grammo della sua forza (e questo è il sintomo di una grande band). Stesso trattamento viene riservato a Listen To Her Heart, in origine un pezzo di stampo byrdsiano e qui trasformato in una sorta di folk ballad, mentre A Face In The Crowd, già elettroacustica nella versione di studio, è solo un filo più lenta. Something Big non è molto nota, ma ha un bel tiro anche in questa veste “stripped-down” (stavolta anche con la sezione ritmica), mentre I Won’t Back Down (si torna elettrici) non ha bisogno di presentazioni: una delle signature songs di Tom, che soprattutto dopo la sua morte è destinata a diventare un classico della musica americana, un pezzo che non stufa nemmeno al millesimo ascolto. Finale a tutto rock’n’roll con la potente I Need To Know, il superclassico Refugee è la torrida Runnin’ Down A Dream, quasi un quarto d’ora complessivo a tutta elettricità, con Campbell assoluto protagonista.

Un altro superlativo live album che, anche se non ufficiale, ha il merito di tenere vivo il ricordo di Tom Petty, un musicista che ci manca già da morire.

Marco Verdi

Una Nuova Country Rocker Di Pregio Dalla Voce Intrigante: Parliamone Invece. Ruby Boots – Don’t Talk About It

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Ruby Boots – Don’t Talk About It – Bloodshot Records/ir

Avevo letto anticipazioni molto interessanti di questo album, il secondo di Ruby Boots (nom de plum di  Bex Chilcott, cantante australiana trapiantata a Nashville) https://www.youtube.com/watch?v=wD5o40BPS6Y : Rolling Stone l’aveva inserita nella sua lista dei dischi più attesi del 2018, ma visti gli attuali livelli di attendibilità della rivista americana non sempre questo endorsement è sinonimo di certezza, anzi. Però anche il sito American Songwriter (più sulla nostra lunghezza d’onda) e altri ne parlavano bene, per cui ero interessato ad ascoltare, sempre con la formula San Tommaso, ovvero verifica e fatti un parere! La cantante australiana, che peraltro a 36 anni non è più giovanissima, era rimasta ferma alcuni anni per problemi di noduli vocali, ma ora ritorna con questo disco registrato in quel di Nashville, con la produzione di Beau Bedford, alla console con Paul Cauthen, ma soprattutto i Texas Gentlemen (di cui è anche il tastierista del gruppo), di passaggio nella capitale del Tennessee, backing band per Ruby in tutto l’album, e a loro volta autori di un interessante album per la New West, uscito pochi mesi fa http://discoclub.myblog.it/2017/11/27/un-bellesempio-di-follia-musicale-con-metodo-the-texas-gentlemen-tx-jelly/ .

La nostra amica fa parte di quel filone che, a grandi linee, annovera anche Nikki Lane http://discoclub.myblog.it/2017/03/15/oltre-ad-aver-grinta-da-vendere-e-pure-brava-nikki-lane-highway-queen/ , Margo Price, Jaime Wyatt http://discoclub.myblog.it/2017/06/06/una-nuova-tosta-country-girl-jaime-wyatt-felony-blues/ , quello stile che sta (vagamente) tra una sorta di outlaw country rivisitato, Americana “alternativa” e cantautrice rock classica, insomma un po’ trasgressiva ma non troppo. Giustamente vi chiederete perché sto ciurlando nel manico, quindi la domanda è, ma è bello questo Don’t Talk About It? Bella domanda: non lo so, o meglio non sono sicuro, esprimo ovviamente, come sempre, un parere personale, e il verdetto lo leggete nel finale. Ad un primo ascolto ero rimasto un po’ perplesso, country, ma dove? Il primo pezzo It’s So Cruel, dove qualcuno ha visto degli elementi stonesiani (?!?) è una canzone decisamente rock, i Texas Gentlemen suonano con vigore e spavalderia, le chitarre sono vibranti e distorte, ma la voce leggermente “filtrata” e non particolarmente potente della Chilcott forse fatica ad emergere, anche se la grinta c’è. Il sound è un po’ quello tipico della Bloodshot, etichetta anticonformista per antonomasia, “moderno” e alternativo al rock classico, ma con molti legami con il passato: come dicono gli americani lei è “sass & savvy”, insolente e sfrontata vogliamo tradurre? Believe In Heaven ha un sapore sixties grazie anche alle sue armonie vocali retrò e qualche reminiscenza di Maria McKee e altre chanteuses similari, ma il “riffaggio” chitarristico è da boogie-rock. Don’t Talk About è un delizioso mid-tempo pop-rock, scritto con Nikki Lane, anche seconda voce nel brano https://www.youtube.com/watch?v=55_jC3bkwBw ,  che potrebbe ricordare le cose più orecchiabili dei primi 10.000 Maniacs di Natalie Merchant, con un chitarrone twangy in evidenza e organetto vintage, Easy Way Out, molto bella, sembra un pezzo di Tom Petty, o i vecchi brani rock di Carlene Carter quando era accompagnata dai Rockpile, con i Texas Gentlemen che si confermano gruppo molto eclettico.

Break My Heart Twice è una delle rare ballate romantiche, bella melodia con un’aura country conferitale dal chitarrone twangy che torna a farsi sentire, la voce squillante in primo piano e il solito organo, ma anche il piano, a conferire profondità al suono. I’ll Make It Through, chitarra super riverberata, andatura  ondeggiante pop-rock, è un altro piccolo gioiellino dove le armonie vocali della collega Nikki Lane sono un ulteriore sostegno alla struttura decisa del brano, mentre gli arrangiamenti sono super raffinati; con Somebody Else si torna ad un rock più deciso e vibrante, con chitarre fuzzate e ritmi scanditi con decisione, con la chitarra di Ryan Eke che inchioda un assolo da urlo. I Am A Woman, un’altra ballata intimista, quasi solo la voce a cappella con eco di Ruby e piccoli tocchi di tastiera sullo sfondo, ha quell’allure country-pop raffinata di certe canzoni dei primi anni ’70, con Infatuation che rialza i ritmi, grazie ad una melodia vincente e alla carica vocale della cantante australiana, ancora quella sorta di power pop raffinato e chitarristico per gli anni 2000 con i Texas Gentlemen assai indaffarati dal lato strumentale. Chiude l’eccellente Don’t Give A Damn, quasi un country got soul come usavano fare nei vecchi Muscle Shoas Studios gli antenati dei Texas Gentlemen, piano, chitarre e sezione ritmica sugli scudi per una canzone che conferma la bravura di Ruby Boots, che la canta a voce spiegata, e soci.

Verdetto finale: promossa con lode!

Bruno Conti

Una Vigorosa E Roboante Conferma! Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – Tearing At The Seams

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Nathaniel Rateliff & The Night Sweats – Tearing At The Seams – Stax/Universal CD

I due album del 2015 di Anderson East e Nathaniel Rateliff sono stati le due più brillanti sorprese di quell’annata musicale, due artisti che condividono lo stesso genere musicale, una miscela di rhythm’n’blues e blue-eyed soul, pur con le differenze del caso (East è molto più raffinato e melodico, mentre l’approccio di Rateliff è molto più grintoso e muscolare, quasi rock). Rateliff ha poi preso un certo vantaggio nel 2016 con l’EP A Little Something More From e soprattutto lo scorso anno con il fantastico Live At Red Rocks http://discoclub.myblog.it/2017/12/11/un-live-prematuro-al-contrario-formidabile-nathaniel-rateliff-the-night-sweats-live-at-red-rocks/ . Quest’anno il “duello” tra i due si è rinnovato, in quanto a Gennaio East ha pubblicato Encore, in cui ha in pratica ripetuto lo schema di Delilah (ma senza l’effetto sorpresa di quest’ultimo) http://discoclub.myblog.it/2018/01/14/forse-e-un-disco-un-po-prevedibile-ma-il-livello-e-sempre-alto-anderson-east-encore/ , ed ora Rateliff ha fatto uscire Tearing At The Seams, sempre con la collaborazione dei suoi Night Sweats (ed ancora con la produzione di Richard Swift). Ed anche Nathaniel non si distacca molto dal suono del disco precedente, non manca il solito cocktail di errebi vigoroso mischiato con robuste dosi di rock, tanto ritmo ed un suono nel quale i fiati sono grandi protagonisti, ma in questo caso ci sono anche delle ballate, o dei brani più spostati verso il southern soul, che danno una maggiore varietà ed aggiungono sfumature che prima mancavano.

Forse non ci sarà una nuova S.O.B. (e neppure un’altra I Need Never Get Old), ma alla fine Tearing At The Seams forse risulta ancora più completo del lavoro di tre anni orsono. I Night Sweats (Luke Mossman, chitarre, Joseph Pope III, basso, Patrick Meese, batteria, Mark Schusterman, piano e organo, e la sezione fiati formata da Jeff Dazey, Scott Frock ed Andreas Wild, sono solo in tre ma sembrano in dieci) sono comunque la solita macchina da guerra, Rateliff si conferma un vocalist potente ma pieno di feeling, e l’album si ascolta tutto d’un fiato con estremo godimento. Tutti i brani sono di Nathaniel tranne tre, che non sono cover ma scritti ognuno da un membro della band (per l’esattezza Mossman, Meese e Schusterman): si parte con la vigorosa Shoe Boot, un brano molto annerito e funkeggiante, con i fiati in primo piano ed il classico muro del suono dei nostri già all’opera, anche se forse come inizio non è così trascinante come uno poteva aspettarsi. Be There ci fa ritrovare il Rateliff che ci aveva entusiasmato tre anni fa, un ottimo errebi che risente della lezione di Otis Redding, gran ritmo, suono forte e deciso ed un motivo diretto; A Little Honey è una ballata che scorre in maniera fluida, con la sezione ritmica sempre ben evidenziata, un organo caldo che porta nel brano l’elemento southern ed un bel refrain. La saltellante Say It Louder è una deliziosa canzone soul di sicuro impatto, melodia orecchiabile e mood solare, mentre Hey Mama è una squisita ed ancora calda ballad sudista, molto classica, cantata al solito davvero bene, con un accompagnamento praticamente perfetto ed un crescendo notevole.

Splendida Babe I Know, un altro slow toccante che risente dell’influenza di Sam Cooke, un pezzo in puro stile sixties, con un motivo toccante e bellissimo: Nathaniel dimostra con brani come questo che si può conservare lo stesso stile senza per forza rifare il medesimo disco. Intro nonostante il titolo è una canzone a sé stante, un trascinante cocktail di suoni e colori che ci fa ritrovare il Rateliff scatenato e tutto feeling ed energia, un pezzo che dal vivo farà faville. Decisamente riuscita anche Coolin’ Out, ritmo ancora alto, gran voce, una band che suona in maniera sopraffina e l’ennesima linea melodica di livello eccelso; Baby I Lost My Way (But I’m Comin’ Home) sta a metà tra funky, blues e soul, e si ascolta sempre con il consueto piacere, la diretta e pimpante You Worry Me sembra uscita dal disco precedente, ed è un gustoso soul-pop dal ritmo acceso ed un bel lavoro di piano (i fiati non li cito più, tanto sono protagonisti sempre). Still Out There Running è una superba ballata ancora contraddistinta da una melodia di prim’ordine ed un sapore d’altri tempi, una delle più belle, ed è seguita dalla title track, altro splendido brano con Cooke in mente, che chiude la versione “normale” del CD. Sì perché esiste anche un’edizione deluxe, con due canzoni in più: I’ll Be Damned, energica e vibrante, e la romantica Boiled Over, due pezzi discreti ma che non aggiungono molto al disco principale.

Quindi un’ottima conferma, un altro gran bel disco da parte di un combo formidabile guidato da un artista che, per il momento, non sa cosa sia la parola “routine”.

Marco Verdi

Uno Splendido Commiato Per Una Grandissima Artista! Joan Baez – Whistle Down The Wind

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Joan Baez – Whistle Down The Wind – Proper CD

Alla veneranda età di 77 anni, anche Joan Baez, dopo decenni di battaglie, ha deciso di appendere la chitarra al chiodo in grande stile, e cioè con un ultimo disco ed un ultimo tour. La storia della nostra musica è piena di finti addii, ma ultimamente certi annunci sono (purtroppo) diventati credibili, un po’ per problemi di salute (vedi il caso recente di Neil Diamond, affetto dal Parkinson), un po’ a causa della carta d’identità, come nel caso proprio della Baez. C’è da dire che Joan negli ultimi anni non è stata particolarmente attiva discograficamente: il suo ultimo album di studio, Day After Tomorrow, risale a ben un decennio fa, mentre due anni orsono venivamo deliziati dal bellissimo live autocelebrativo 75th Birthday Celebration. Per il suo ultimo disco, Joan ha fatto le cose in grande, prendendosi tutto il tempo necessario ma consegnandoci uno dei suoi lavori più belli in assoluto: Whistle Down The Wire è infatti un album splendido, con dieci canzoni scelte personalmente dalla Baez nel repertorio di altri artisti contemporanei (Joan è sempre stata principalmente un’interprete, anche se la sua Diamonds And Rust è una delle canzoni più belle degli anni settanta), eseguite con una classe che con l’età è ulteriormente aumentata. La voce non è più potente come negli anni sessanta (quando si diceva che potesse rompere un bicchiere di cristallo con un acuto), ma la limpidezza è rimasta inalterata, ed il tempo le ha conferito una profondità ed una serie di sfumature che prima erano meno evidenti.

Come produttore, Joan ha scelto uno dei migliori sulla piazza: Joe Henry, supremo architetto di suoni e grande musicista a sua volta, che ha portato in session un manipolo di strumentisti formidabili, tra cui il fido batterista Jay Bellerose, il bassista David Piltch e, soprattutto, il bravissimo Tyler Chester al piano (strumento chiave nel suono del disco) e gli altrettanto validi Greg Leisz e Mark Goldenberg alle chitarre. Il resto lo fa Joan, ancora perfettamente in grado di regalare emozioni nonostante l’età, a partire dalla title track, un brano di Tom Waits arrangiato in modo splendido, una folk ballad straordinaria, toccante, profonda, con la nostra che emana classe e carisma ogni volta che apre bocca. Con un inizio così il resto del CD è in discesa: Be Of Good Heart è un brano di Josh Ritter, e la Baez lo ripropone con una veste sonora molto classica: voce, una chitarra, mandolino, ottimi rintocchi di piano a riempire gli spazi (qui c’è lo zampino di Henry) ed una percussione leggera, e la bellezza della melodia fa il resto. Another World è una scelta sorprendente, in quanto è un pezzo di Anohni (cioè Anthony Hegarty, uno che personalmente non ho mai sopportato, fin dai tempi in cui faceva il controcanto a Lou Reed): Joan spoglia il brano da ogni orpello e lo riduce all’essenziale, voce, chitarra e percussione, riuscendo a farla sua senza problemi (non dimentichiamo che la Baez è anche una brava chitarrista), anche se come songwriting non è tra le mie preferite. Splendida per contro Civil War, una canzone portata in dote proprio da Joe Henry, una struggente ballata pianistica, suonata alla grande e cantata da Joan al meglio delle sue possibilità (che sono ancora altissime).

Mary Chapin Carpenter è una delle cantautrici più apprezzate dalla Baez, e la sua The Things We Are Made Of riceve dalla nostra un trattamento regale: la canzone, già bella di suo, viene impreziosita da un’interpretazione di grande intensità, con i soliti noti che ricamano di fino sullo sfondo (domina Leisz, un fenomeno). Zoe Mulford è un’autrice non molto conosciuta, in cui Joan si è imbattuta per caso sentendo un giorno alla radio (mentre era in macchina) la sua The President Sang Amazing Grace, restandone folgorata a tal punto che ha deciso di farla sua: canzone splendida, dal sapore leggermente gospel, lenta, pianistica e con una performance da pelle d’oca da parte della Baez, probabilmente il brano migliore del disco, sentire per credere. Dopo un pezzo del genere era dura mantenersi sullo stesso livello, ma Joan ci riesce con una versione sentita e molto folkeggiante di Last Leaf, secondo brano di Tom Waits. Anche Ritter fa il bis come autore, e Silver Blade è, manco a dirlo, interpretata da Joan in maniera scintillante, e resa quasi drammatica dall’accompagnamento forte e quasi marziale da parte della band. Per gli ultimi due brani la nostra musicista dai capelli d’argento si rivolge a due autori meno noti, Elisa Gilkyson e Tim Eriksen: The Great Correction è tra le più dirette ed orecchiabili, un pezzo dal sapore quasi country che si ascolta tutto d’un fiato, mentre I Wish The Wars Were All Over (un titolo emblematico per chiudere l’ultimo album di una che ha fatto del pacifismo una ragione di vita) è puro folk d’altri tempi, con un marcato feeling irlandese.

Un disco straordinario questo Whistle Down The Wind, che chiude alla grande una delle carriere più luminose della storia della nostra musica, e proprio per questo ancora più prezioso.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Torna A Sorpresa Una Delle Più Belle Serie Dedicate Alla Black Music. Stax Vol. 4 Singles Rarities And The Best Of The Rest. La Recensione

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Stax Singles – Rarities And The Best Of The Rest  – 6 CD Stax/Craft/Universal    

A distanza di parecchi anni dall’ultimo volume, parliamo ormai del 1994, torna assolutamente a sorpresa un nuovo capitolo della bellissima serie di cofanetti dedicati al catalogo dei singoli tratti dal materiale pubblicato su etichetta Stax/Volt e tutte le loro sussidiarie: uno dei compendi dedicati alla soul music, al r&b e alla musica nera in generale più esaltanti nella storia della musica. Giusto per rinfrescare la memoria, vi ricordo che i primi tre volumi sono usciti rispettivamente nel 1991, nel 1993 e, come detto, nel 1994, tutti in box formato grande tipo LP (ma in CD comunque) e poi ristampati varie volte nel corso degli anni, con formati e costi decisamente più ridotti. In effetti la parabola sembrava conclusa, visto che i tre box avevano coperto i tre periodi di vita della etichetta di Memphis, 1959-1968 nel primo volume, 1969-1971 nel secondo e 1972-1975 nel terzo, coprendo tutta la storia della Stax, dalle origini R&B, passando per il soul del periodo classico, fino al soul e funky degli anni ’70, attraverso una serie di canzoni, raccolte in modo certosino, che spaziavano dai maggiori successi fino ad una serie di chicche e rarità che poche se non nessun altra etichetta ha potuto pareggiare.

Quindi questo quarto volume arriva come una sorpresa totale, anche se fa parte dei festeggiamenti per il 60° Anniversario della etichetta di Jim Stewart, iniziati lo scorso anno (per esempio con il bellissimo box su Isaac Hayes), a 60 anni dalla nascita della etichetta come Satellite Records nel 1957 e poi diventata Stax nel 1961, dalla unione dei nomi dei due fondatori, oltre a Stewart anche la sorella Extelle Axton (STewart/AXton = Stax), entrambi bianchi ovviamente, come era tipico della storia di altre race label nate nel corso degli anni, e tuttora in vita alla rispettabile età di 87 anni (ma senza dimenticare Al Bell che invece era il produttore nero della label), come pure la sua etichetta, che è stata rilanciata nel 2006 dalla Universal, anche con una serie di nuove uscite. Il cofanetto è corredato come al solito da un esaustivo libretto, che vedete sopra, ricco di foto, informazioni e alcuni saggi dei curatori dell’opera: visto che una recensione track-by-track sarebbe ovviamente troppo lunga, vediamo almeno di segnalare le cose più interessanti e sfiziose contenute in ogni dischetto. I primi 3 CD come al solito sono prevalentemente dedicati al soul, al funky, con escursioni anche nel R&B e nel blues, i successivi 3 CD toccano anche generi che gli altri box avevano solo sfiorato, tipo gospel, country, rock e di nuovo blues, con materiale estratto anche da etichette associate alla Stax come Truth, Chalice, Enterprise, Hip e Ardent.

Il primo CD parte con Deep Down Inside di Carla & Rufus, lato B del primo singolo di Rufus Thomas, uscito nell’agosto ’60 per la Satellite e poi ci sono altri 7 brani di Thomas, da solo o con la figlia Carla, tra cui una deliziosa versione di Fine And Mellow di Billie Holiday, e altri lati B di singoli (ma che qualità) di altri artisti che testimoniano il passaggio dal R&B, dal doo wop, al blues e poi al soul, alcuni come All The Way di Prince Conley (qualche eco di Sam Cooke), Just Enough To Hurt Me degli Astors, I Found A Brand New Love di Eddie Kirk, assolutamente deliziosi. Tra le chicche anche il lato B di Green Onions di Booker T. & The Mg’s Fannie Mae, oppure Sassy di Floyd Newman, altro strumentale strepitoso, e siamo già al 1963. Dal 1964 arriva That’s The Way It Goes di Bobby Marchan (che annuncia la svolta di Sam & Dave, Wilson Pickett e Otis Redding, della cui Revue Marchan faceva parte); molti brani sono firmati da Steve Cropper, con i pezzi grossi della Stax, Shake Up dei Cobras, Watchdog di Dorothy Williams, Weak Spot di Ruby Johnson, ma c’è anche un pezzo di Sam & Dave A Small Portion Of Your Love, firmato da Porter/Hayes, meno esplosivo del solito, ma sempre di gran classe, e siamo arrivati al 1968, e ci sarebbero altri brani da citare, quasi tutti.

Il secondo CD parte con I’m So Glad You’re Back cantata da Shirley Walton, uscita ancora nel 1968, come pure il lato B dell’unico singolo di Delaney & Bonnie per la Stax, We’ve Just Been Feeling Bad, scritta da Steve Cropper ed Eddie Floyd, bellissimi pure i brani cantati da Judy Clay, uno da sola e due in duetto con William Bell. Il 1968 è un anno magico, e così troviamo anche Stay With Us degli Staples Singers, ancora un paio di brani di Booker T.,  mentre Consider Me di Eddie Floyd è del 1969,  e la versione poderosa di I Thank You dei Bar-Kays, con i fiati che impazzano, del 1970. Tra le curiosità, una maturata Carla Thomas che fa Hi De Ho di Carole King e i Newcomers che fanno Mannish Boys di Muddy Waters in puro stile deep soul.

Il 3° CD che parte dal 1971 si apre con Ilana che canta una melodrammatica Let Love Fill Your Heart, prodotta da Van McCoy, gli ottimi Soul Children, per certi versi rivali dei Jackson 5 della Motown, se fossero stati fronteggiati da uno dei Temptations, David Porter e Isaac Hayes appaiono come cantanti in una melliflua versione di Baby I’m-A Want you dei Bread, che inaugura il futuro stile orchestrale di Hayes, che appare anche con Type Thang, un pezzo a tutto wah-wah che era anche nel secondo Shaft del 1972, come pure la bravissima e poco considerata Jean Knight alle prese con Pick Up The Pieces, il grande Johnnie Taylor con Stop Teasing Me un fantastico funky che sfida James Brown sul suo territorio, e ancora Major Lance che chiude il 1972 con una brillante Since I Lost My Baby’s Love.

Ribadisco che in teoria tutti questi brani erano “scarti”, destinati ai lati B o agli album, si potrebbe dire che hanno raschiato il fondo del barile, e  un po’ così è stato, ma ascoltando la musica non si direbbe: per esempio una eccellente What’s Your Thing degli Staples Singers cantata alla grande da Mavis, ma anche una piacevolissima Yes Sir Brothers, entrambe pubblicate nel 1974, in quello che viene considerato il declino dell’epoca e l’ultimo brano del maggio 1975 Just Ain’t No Love di John Gary Williams che chiude la storia.

Che comunque riparte dal 1969, almeno nei contenuti, nel quarto CD, con il materiale della etichetta Enterprise: per iniziare una drammatica ballata orchestrale quasi da crooner, cantata da Sil Selvidge, The Ballad of Otis B. Watson, scritta e prodotta da Don Nix, Black Hands White Cotton dei Caboose (?), sembra un pezzo dei Creedence cantato da Elvis o da Johnny Rivers, con molti elementi gospel e rock, sempre in questo filone di country got soul commerciale troviamo anche Love’s Not Hard To Find di Dallas County, sempre con Don Nix alla guida; ci sono altri oscuri ma piacevoli cantanti dell’epoca che non citiamo, ma anche Billy Eckstine, grande cantante jazz e pop che incise tre album per la Enterprise, che è presente con I Wanna Be Your Baby, fin troppo arrangiata, diciamo non memorabile, come parte del contenuto di questo CD, anche la versione di Slip Away di O.B. McClinton non sfida gli originali, nonostante l’aria country grazie all’uso della pedal steel.

Meglio la versione di When Something Is Wrong With My Baby di nuovo di Eckstine, e ottima una tirata Some Other Man della River City Band, che sembra quasi un pezzo dei primi Chicago, con una chitarra pungente nell’arrangiamento, per non dire di Black Cat Moan, uno dei super classici di Don Nix (nel disco suonavano, tra i tanti, Barry Beckett, Claudia Lennear, David Hood, Eddie Hinton, Furry Lewis, Klaus Voorman, Pete Carr, Roger Hawkins), sia pure qui nella versione breve da 45 giri e fa capolino anche un tocco jazz e latin rock con Conquistadores ’74 del batterista Chicho Hamilton., quasi alla Santana.

Il quinto CD è dedicato alla Hip Records, una storia non di grande successo commerciale, 3 dozzine di singoli e quattro album in tutto, ma ci sono anche alcune perle del catalogo Ardent, quello dei Big Star di Alex Chilton per intenderci, che era stato tra gli originatori di questo filone “bianco/nero” con i suoi Box Tops: non per nulla questo dischetto è prodotto da Alec Palao, che ha scritto anche le note, grande esperto di garage e psych. A livello storico-collezionistico questo è forse il CD più interessante, ricco anche di materiale inedito, canzoni mai pubblicate, solo arrivate a noi sotto forma di demo, comunque molto curati a livello sonoro: si passa dal beat/garage dei Poor Little Kids, un pezzo delizioso come Stop – Quit It, tra Beau Brummels e il sound di Memphis.

Niente male anche Cigarettes di Lonnie Duvall, che ha una voce che mi ha ricordato il primo Mal, quello dei Primitives, molto british sound 1967, che è l’anno di uscita del singolo, e squisita anche It’s Mighty Clear di nuovo dei Poor Little Kids, con intricate armonie vocali, come pure Warm City Baby dei Jugs, con elementi alla Box Tops, che fanno pure una rallentata e psych For Your Love, e ancora le Goodees con For A Little Wheel, girl group misto a Motown del 1967 scritta da Hayes/Porter, ma c’è una canzone loro del 1969 Goodies di Dan Penn e Spooner Oldham.

Tutto il dischetto è una miniera di sorprese, da Groovy Day dei Kangaroo’s a And ILove You del futuro Derek & The Dominos Bobby Whitlock, che è soul fiatistico del 1968, scritto e prodotto da Don Nix e Duck Dunn, un paio di lati B di Billie Lee Riley, il vecchio rockabilly man degli anni ’50, convertito nel ’68-’69 in blue eyed soul alla Box Tops. Nell’ultima parte del CD ci sono alcuni pezzi dal catalogo Ardent, Feel Alright e I Love You Anyway dei Cargoe, grande power rock chitarristico con elementi degli Who, e tre brani dei Big Star, In The Street, Oh My Soul e la splendida September Gurls, piacevoli pure gli Hot Dogs con la loro versione rock/punk di I Walk The Line.

Il 6° e ultimo disco si tuffa nel gospel/soul delle etichette Chalice e Gospel Truth, con un brano di Roebuck “Pops” Staples Tryin’ Time che è un incantevole blues scritto da Donny Hathaway, uscito per la Stax nel 1970. Poi ci sono quattro brani dei formidabili Dixie Nightingales, molto bella Wade In The Water di The Stars Of Virginia prodotta dal grande Al Bell nel 1966, un paio di brani dei Jubilee Hummingbirds, uno dei bravissimi Pattersonaires, la splendida God’s Promise. Ci sono anche diversi brani cantati da Cori a me sconosciuti ma che mandano brividi lungo la schiena, oltre a quattro brani “divini” (scusate), in tutti i sensi, del mitico Rance Allen Group, usciti tra il 1972 e 1974, nonché due/tre vocalist femminili fantastiche, Terry Lynn e Louise McCord e Annette May Thomas di scuola Aretha gospel. Che altro dire? Globalmente una vera goduria, da non perdere, per appassionati, ma non solo!

Bruno Conti

Il Secondo Capitolo Di Un Narratore “Affascinante”. Ed Romanoff – The Orphan King

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Ed Romanoff – The Orphan King – Pinerock Records

Questo signore Ed Romanoff, si era fatto conoscere sei anni fa con lo splendido album omonimo d’esordio, pubblicato all’età di 53 anni, disco puntualmente come sempre passato quasi inosservato. La storia artistica di Romanoff (origini irlandesi e adottato da una famiglia russa), inizia sul finire degli anni ’90 ma poi deve la svolta della sua carriera anche all’amicizia con Mary Gauthier, che lo porta a scrivere a quattro mani con la stessa proprio il brano The Orphan King, apparso sul disco The Foundling, scoprendo quindi tardivamente di volersi reinventare “songwriter”.

Il risultato di questi ulteriori anni passati dopo il primo lavoro è il nuovo album, registrato a Palenville (NY), nello studio fienile del produttore Simone Felice (Felice Brothers, Lumineers), dove Ed voce e chitarra si porta appresso validi collaboratori come lo stesso Felice alla batteria, il fratello James Felice alle tastiere e fisarmonica, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell alle chitarre, basso, mandolino, cetra e violino, Lee Nadel al basso, Cindy Cashdollar alla steel guitar e lap steel, Kenneth Pattengale del duo Milk Carton Kids alle chitarre, e come coriste la sue colleghe Rachael Yamagata, Cindy Mizelle, e la moglie di Campbell, Teresa Williams, tutti einsieme danno vita a tredici canzoni piene di suggestioni, ma nello stesso tempo estremamente vive.

Fin dalla prima canzone Miss Worby’s Ghost, si percepisce l’abilità narrativa di Ed, bissata poi nella seguente Elephant Man (uno dei sei brani composti con Crit Harmon), una romanza musicata e cantata quasi alla Kris Kristofferson, dove spiccano sublimi armonie vocali, per poi passare al country-rock arioso di una A Golden Crown, dove si riconosce benissimo il violino di Campbell, e la pedal-steel della Cashdollar, priam di proporre la sua versione della citata pianistica title-track The Orphan King, con in sottofondo una intrigante tromba e Teresa Williams alle armonie vocali, mentre il moderno e delizioso “bluegrass” di Without You, vede brillare Kenneth Pattengale alla voce, chitarra e mandolino. Le narrazioni diventano ancora più briose con la melodia vivace di Leavin’ With Somebody Else, cantata in falsetto in stile Roy Orbison, mentre nella seguente Less Broken Now, le armonie femminile sono a carico di Cindy Mizelle, per poi passare alla “perla” del disco, la meravigliosa The Ballad Of Willie Sutton (una intensa storia alla Bonnie & Clyde), interpretata con trasporto dalla voce baritonale dall’autore, che poi si ripete nella tranquillità di ballate come l’acustica I’ll Remember You, e la riflessiva e notturna The Night Is A Woman (con le brave Yamagata e Mizelle alle armonie). Ci si avvia (purtroppo) alla parte conclusiva del lavoro con un’altra ballata di spessore (che pare evocare lo spirito di Cohen) come l’incantevole Blue Boulevard (Na Na Na), dove giganteggiano ancora una volta il violino celtico e il mandolino di Larry Campbell, ancora una intrigante e quasi recitativa “ode” come Lost And Gone, e infine a chiudere, come coronamento finale di un eccellente lavoro,  il “soul-blues” elettrico di una grintosa e narrativa Coronation Blues, dove spiccano le vari voci femminili in un nostalgico stile che rievoca il classico stile Stax.

Come già ricordato in altre occasioni, molto spesso capita di scoprire musicisti che, per una ragione o per l’altra, non hanno la giusta considerazione di tante altre acclamate “stars”, un tipo che dopo tutto il vagabondare per gli stati americani, si è impegnato a scrivere canzoni sulla in tarda età, avendo come “mentori” artisti del calibro di Darrell Scott, Beth Nielsen Chapman, Josh Ritter, e come la già citata grande Mary Gauthier. Ed Romanoff vive e lavora a Woodstock, nello stato di New York, e con questo The Orphan King merita ancora una volta segnalazione in virtù del suo (in)consueto stile narrativo, in cui ascoltando con attenzione il disco si possono scorgere punti di contatto con personaggi del livello di John Prine e Eric Taylor (di cui peraltro sembrano essersi perse le tracce), sicuramente un “cantautore-narratore” che vale la pena di conoscere https://www.youtube.com/watch?v=v-B1rrh6v0A , e spero che, prendendosi i suoi giusti tempi, continuerà a comporre canzoni e produrre album per gli anni a venire: in fondo come diceva il famoso Maestro Manzi, non è mai troppo tardi. Nel frattempo, fin d’ora, a parere di chi scrive, sicuramente una delle sorprese, e la canzone, dell’anno!

Tino Montanari

Forever Young: Un Chitarrista Per Tutte Le Stagioni, Basta Trovare I Suoi Dischi! Eric Steckel – Polyphonic Prayer

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Eric Steckel – Polyphonic Prayer – Eric Steckel Music

Passano gli anni ma Eric Steckel rimane sempre giovane: il musicista della Florida è nato nel 1990, ma il suo esordio discografico risale al 2002 quando aveva solo 11 anni. Da allora ha già pubblicato una dozzina di album, comprese alcune rielaborazioni di vecchi dischi, sempre fedele alle sue origini di chitarrista blues e rock, scevro dalle moderne tecnologie e legato ad un suono che rimane volutamente tradizionale nelle sonorità. Solo le sue chitarre, di cui è un virtuoso assoluto, l’uso dell’organo, del quale nel corso degli anni è diventato un buon praticante, ma se la cava anche al piano, e un batterista a cui affida la parte ritmica dei brani, tenendo per sé anche le parti di basso (anche se dal vivo usa una band). L’album precedente Black Gold, uscito circa tre anni fa http://discoclub.myblog.it/2016/09/08/amanti-dei-bravi-chitarristi-ex-ragazzo-prodigio-eric-steckel-black-gold/ , optava per un suono più duro rispetto alle radici blues del “ragazzo” (in fondo ha solo 27 anni), mentre in questo nuovo Polyphonic Prayer c’è a tratti un certo ritorno alle 12 battute classiche, anche se la quota rock e virtuosistica rimane intatta: però brani come She’s 19 Years Old o It’s My Own Fault illustrano chiaramente le sue radici, il sound è quello dei classici dischi rock-blues degli anni ’70, quindi Zeppelin, Bad Company, Humble Pie, aggiungete nomi a piacere, ma anche Bonamassa o Kenny Wayne Shepherd, senza dimenticare Hendrix e Stevie Ray Vaughan, tutti nomi “giusti”.

Prendete She’s 19 Years Old che viaggia sull’onda di un bel lavoro di raccordo dell’organo, quando entra la chitarra in modalità slide di Steckel è un florilegio di note inarrestabile, con tutta la tecnica ma anche il feeling di questo ex ragazzo prodigio in mostra, come pure nel super slow It’s My Own Fault dove Eric si raddoppia sia al piano che all’organo, mettendo in mostra anche la sua eccellente attitudine di vocalist, non lontana da quella di un Robben Ford, mentre la chitarra è guizzante, fluida e ricca di tono, come pochi altri chitarristi attuali possono vantare. Waitin’ For The Bus è dura e tirata come l’originale degli ZZ Top, southern rock potente e cattivo, forse fin troppo “esagerato” nelle sue sonorità, ma le chitarre viaggiano che è un piacere; We’re Still Friends parte con un eccellente introduzione pianistica di grande pathos e poi diventa una piacevole ballata atmosferica, con gli strumenti che si aggiungono mano a mano, fino all’ingresso della voce e alla quasi inevitabile esplosione della chitarra che rilascia un vero e proprio fiume di note nel lungo e lancinante solo nella seconda parte del brano, dove Eric mette in mostra nuovamente tutta la sua grande perizia tecnica.

Can’t Go Back, come altri brani già presente nel suo repertorio Live da anni, ha un suono più duro e scontato, anche se temperato dall’uso dell’organo che gli conferisce una patina molto seventies e le consuete acrobazie sonore della chitarra, mentre Unforgettable ha qualche velleità radiofonica grazie ad un ritornello orecchiabile, ma il brano in sé non è memorabile, un po’ banale, anche se la solista lavora sempre di fino. Tennessee è un poderoso rock-blues che ricorda certe cose di Ted Nugent o delle frange più hard del southern-rock, tipo Molly Hatchet o Blackfoot, sound già presente anche nel precedente Black Gold, con Picture Frame che concede di nuovo ad un suono più commerciale e radiofonico, pur se sempre nobilitato dall’irrisoria facilità con cui Steckel estrae dal suo strumento assolo dopo assolo. Through Your Eyes è un’altra ballata pianistica, melodica ed intensa, forse poco legata al suono d’insieme del disco, ma sicuramente di buona fattura e la conclusiva Make It Rain ritorna alla modalità più blues e raffinata dei migliori brani dell’album, quelli dove si percepisce una sorta di affinità di intenti con lo stile raffinato e di grande valenza del miglior Robben Ford (ma anche l’assolo di organo in questo brano è da applausi), insomma il nostro amico è veramente bravo, e chi ama il suono puro della chitarra elettrica troverà in questo Polyphonic Prayer più di un motivo di interesse, ammesso che si riesca a rintracciare Il CD sempre di difficile rperibilità.

Bruno Conti

Anche Senza Il Suo Pard Abituale, Sempre Un Gran Bel Sentire! Jim Cuddy – Constellation

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Jim Cuddy – Constellation – Warner Music Canada

Questo Constellation suona come un disco dei Blue Rodeo, quindi bello (lo ammetto sono di parte  http://discoclub.myblog.it/2016/12/06/volta-degni-della-fama-blue-rodeo-1000-arms/ ). D’altronde Jim Cuddy è uno dei due leader e componenti storici della band canadese: forse qualcuno poteva aspettarsi un suono diverso in un suo disco solista (ma anche i precedenti tre non deviavano molto o per nulla dal sound del gruppo madre). D’altronde il gruppo ha uno stile ben definito, acquisito in decenni di carriera, con elementi country, rock, rimandi ai gruppi storici West Coast e ai Beatles per l’uso spesso celestiale delle armonie vocali, come pure alla Band, di cui in Canada per certi versi vengono considerati tra i principali eredi. E’ difficile che deludano o che si lancino verso nuove sonorità, tipo quello sciagurate delle ultime prove di gente come Arcade Fire, Mumford And Sons ed altri: a Milano si dice “Ofelè fa el to mesté”, “pasticciere fai il tuo mestiere”, ovvero continua a fare quello che sei bravo a fare. Del resto, se escludiamo Greg Keelor (l’altra metà dei Blue Rodeo), la presenza della band è comunque massiccia: ci sono Colin Cripps, il nuovo chitarrista aggiunto da quando Keelor, per problemi uditivi, ha dovuto ridurre di molto sul palco l’uso delle chitarre elettriche, il bassista storico Bazil Donovan, e tra gli ospiti, in un paio di brani, il tastierista Michael Boguski, ma anche la violinista Anne Lindsay ha suonato spesso con loro. Ci sono pure altri musicisti della scena canadese, il batterista Joel Anderson nel giro Oh Susanna, presente in un paio di brani di questo Constellation e anche Jimmy Bowskill, nuovo chitarrista degli Sheepdogs (di cui è uscito di recente il nuovo eccellente Changing Colours http://discoclub.myblog.it/2018/03/04/canadesi-dal-cuore-e-dal-suono-sudista-the-sheepdogs-changing-colours/ ), impegnato a mandolino e pedal steel

. Il risultato è un buon disco, mancano forse le solite armonie vocali fantastiche e gli interscambi tra Cuddy e Keelor, come pure i brani più melanconici e sontuosi di Keelor, ma la vocalità calda e partecipe di Cuddy, vicina a quella di gente come Richie Furay dei Poco, Dan Fogelberg, persino Don Henley, tanto per non fare nomi, garantisce quella fusione di generi ricordata prima, dove le ballate, il country, ma anche il rock chitarristico classico americano sono elementi imprescindibili. La voce è sempre chiara e cristallina, anche se i 62 anni la rendono un filo più profonda e vissuta, ma quando intona la deliziosa While I Was Waiting, classico alt-country-rock con elementi Jayhawks o Wilco, si riconosce subito il suo timbro inconfondibile, e il dualismo piano-organo aggiunge profondità al jingle-jangle delle chitarre; Where You Gonna Run, con il mandolino aggiunto di Bowskill, sembra uno dei brani più country dei primi Poco, comunque belle le armonie vocali e il violino guizzante della Lindsay, come pure il tocco della chitarra acustica solista e del piano, mentre Constellations è una di quelle ballate pianistiche romantiche (diverse da quelle più malinconiche di Keelor) tipiche del repertorio del nostro, con Amy Laing aggiunta al cello, atmosfere che evocano gli sterminati paesaggi del territorio canadese. Beauty And Rage, introdotta da piano elettrico ed organo, ha un sapore più pop ed orecchiabile, meno soddisfacente di altri brani, come per esempio Lonely When You Leave, una delle classiche canzoni mid-tempo di Cuddy  con l’interscambio tipico tra chitarre acustiche, elettriche, piano, organo e violino, un brano che mescola musica roots e pop di qualità, cantato in modo impeccabile con deliziosi contrappunti vocali.

You Be The Leaver è un’altra ballata acustica dolce ed avvolgente, forse un po’ di maniera ma efficace, giocata sul piano e sugli archi, fino ad un assolo di chitarra misurato e raffinato. One Thing Right, con Oh Susanna, Suzie Ungerleider alle armonie vocali, è più mossa e variegata, con mandolino e violino sempre in evidenza, sembra quasi un pezzo degli Eagles dei primi tempi, tra country e rock, Hands On The Glass è uno di quei brani rock e chitarristici che sono nel DNA di Cuddy, un tuffo negli anni ’70, con chitarre ruggenti, anche la pedal steel di Bowskill, in evidenza, come pure l’organo, e un bel crescendo strumentale nella parte centrale. Cold Cold Wind, parte lenta e circospetta, con chitarre acustiche, un mood country di vecchi tempi, poi entra le seconda voce di Oh Susanna, il violino della Lindsay, il mandolino e la canzone assume una pigra andatura “campagnola”, poi nel finale entra una slide, il suono si anima e parte una piccola jam elettrica bluesy tutta da gustare, Roses At You Feet, di nuovo un mid-tempo specifico dello stile di Cuddy, delicato e sognante, per quanto non memorabile, prima della conclusiva Thing Still Left Unsaid (forse un seguito di Things We Left Behind), uno dei brani migliori dell’album, dal ritmo febbrile e in crescendo incalzante https://www.youtube.com/watch?v=j4-V2p1DMOo , con l’organo di Boguski, il mandolino di Bowsill e le chitarre di Cuddy e Cripps che si scatenano nel finale, peccato che il brano si interrompa su una probabile jam che ci attendiamo nelle esibizioni live.

Bruno Conti

Una Delle Migliori Annate Per Il Capitano Jerry! Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 10

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Jerry Garcia Band – Garcia Live Vol. 10: Hilo Civic Auditorium, Hilo, HI May 20th 1990 – ATO 2CD

Gli anni a cavallo fra gli ottanta e i novanta sono stati tra i migliori per Jerry Garcia a livello di performer: in quel periodo infatti il nostro ha pubblicato uno dei più riusciti album dal vivo con i Grateful Dead, senza contare ovviamente quelli postumi (Without A Net, 1990) ed il suo più bel live in assoluto come solista (Jerry Garcia Band, 1991). Questo decimo volume della serie Garcia Live si rivolge proprio a quel periodo ed è, manco a dirlo, tra gli episodi migliori. Registrato il venti Maggio del 1990 nell’insolita location di Hilo, nelle Hawaii, questo doppio CD vede Jerry in forma davvero strepitosa, sia dal punto di vista strumentale (ma questa non è una novità, dato che stiamo parlando di uno dei più grandi chitarristi del secolo scorso) sia da quello vocale (e questo non era scontato, dato che il canto è spesso stato il suo tallone d’Achille). La band che lo accompagna, poi, è formidabile, una delle migliori incarnazioni della JGB: guidata dal bravissimo organista Melvin Seals, vero co-leader del gruppo, vede il fido John Kahn al basso, David Kemper (in futuro nella road band di Bob Dylan) alla batteria, e le ottime Gloria Jones e Jacklyn LaBranch ai cori.

Il doppio CD, registrato tra l’altro in modo perfetto, è anche più godibile di altri in quanto Jerry ed i suoi eseguono molte più canzoni del solito (ben 18), lasciando un po’ meno spazio alle jam chilometriche, e favorendo quindi maggiormente il piacere dell’ascolto (infatti i brani più lunghi non superano i dieci minuti, che per Garcia sono pochissimi). Come d’abitudine Jerry preferisce lasciare in secondo piano il suo repertorio solista, ignorare completamente quello dei Dead, e concentrarsi principalmente sui pezzi altrui; quella sera è Dylan a farla da padrone come autore, con ben cinque canzoni: la poco nota Tough Mama, che Jerry fa sua con un paio di assoli formidabili, una straordinaria Knockin’ On Heaven’s Door, tra le più belle mai proposte dal nostro, profonda ed emozionante (nonostante un fastidioso assolo di tastiera elettronica nella parte centrale), una lunga e distesa Forever Young, in cui Jerry canta benissimo, l’intensissima Tears Of Rage ed una scoppiettante Tangled Up In Blue, posta a chiusura del concerto. Il Garcia autore è rappresentato solo in tre occasioni: They Love Each Other, una liquida ballata che negli anni è diventata un classico anche per i Dead, la solare e godibile Run For The Roses e la pimpante Deal, tra i suoi brani più diretti di sempre, con la solita inimitabile prestazione chitarristica.

Il piatto forte sono comunque le cover di vario genere, con un predominio per il soul/errebi, con la splendida How Sweet It Is di Marvin Gaye, che apre la serata e con Garcia e Seals che si fronteggiano alla pari, una fluida Like A Road Leaving Home di Don Nix e Dan Penn, dal caldo suono sudista e con una parte strumentale eccezionale, una delle più riuscite dello show, e le classiche The Way You Do The Things You Do dei Temptations, con un insolito arrangiamento reggae, e My Sisters And Brothers, un successo per i Sensational Nightingales, decisamente coinvolgente. Poi c’è un po’ di reggae (The Harder They Come di Jimmy Cliff, sontuosa, e Stop That Train di Peter Tosh), un irresistibile rock’n’roll (Tore Up Over You di Hank Ballard, inferiore però alla versione di studio in cui Jerry era affiancato dal grande Nicky Hopkins, che giganteggiava al pianoforte), e chicche come una frizzante rivisitazione della strepitosa Evangeline dei Los Lobos, dal sapore rock-gospel, e due solide riletture della bella Waiting For A Miracle (Bruce Cockburn) e del classico evergreen That Lucky Old SunJerry Garcia era uno che raramente dal vivo tradiva, e se anche in questa serie Garcia Live c’è stato qualche episodio meno brillante, questo decimo volume lo vede davvero in serata di grazia.

Marco Verdi

Il Ritorno Di Una Delle Migliori Band “Alternative” Americane. Buffalo Tom – Quiet And Peace

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Buffalo Tom – Quiet And Peace – Schoolkids Records – Deluxe Edition

Il nome di Bill Janovitz presumo forse non dica molto ai “non addetti ai lavori”, ma se abbinato a quello dei Buffalo Tom, acquista tutto un altro significato. I Buffalo Tom infatti nascono sul finire degli anni ’80, quando tre ragazzi di Boston cominciano a suonare insieme (Bill Janovitz alla chitarra e voce, Tom Maginnis alla batteria, e Chris Colbourn al basso), ispirandosi al rock alternativo dell’epoca e in modo particolare a band come Husker Du, Pixies, e Dinosaur Jr. (forse quelli più vicini alle loro tematiche musicali). Uno degli incontri fondamentali è proprio con il leader dei Dinosaur Jr. J.Mascis, produttore dell’ omonimo album d’esordio Buffalo Tom (88), che unisce forte rumore e melodia in pieno stile Husker Du, stesse prerogative che si colgono nel seguente Birdbrain (90), mente in Let Me Come Over (forse il loro vertice artistico (92), le coordinate sonore iniziano ad ampliarsi verso una forma di “americana” più fruibile. Tali caratteristiche vengono espresse pienamente nel seguente e in parte interlocutorio Big Red Letter Day (93), mentre il seguente Sleepy Eyed (95) recupera l’energia dei lavori precedenti, per poi arrivare al “classic rock” di Smitten (98) che termina una prima fase di carriera.. Dopo una pausa di ben nove anni durante i quali Janovitz decide di intraprendere una propria carriera solista, i Buffalo Tom ritornano con materiale inedito in sala di registrazione con Three Easy Pieces (07, un onestissimo disco di “alternative-rock” americano, che viene bissato con il seguente Skin (11), che si può considerare un vero e proprio punto di ripartenza, confermato dopo un’altra pausa di sette anni con questo inaspettato nuovo lavoro Quiet And Peace, che arriva “casualmente” all’incirca nel 25° anniversario del mai dimenticato Let Me Come Over (come detto pietra miliare della loro discontinua carriera).

Il nuovo disco di Janovitz e soci è stato registrato presso i Woolly Mammoth Studios in quel di Waltham (Massachusets), studi di proprietà di David Minehan  (produttore  del disco ed ex leader dei Neighborhoods), con il mixaggio affidato a John Agnello (Kurt Vile, Sonic Youth, Hold Steady tra gli altri). Il lavoro, che ha avuto una lunga gestazione, visto che doveva uscire nel 2017, si apre con l’”alt-rock” classico di All Be Gone, un brano puramente in stile primi Buffalo Tom, con il suono familiare e palpipante della chitarre di Janovitz, a cui fanno seguito la deliziosa Overtime che sembra uscita dai solchi dei mai dimenticati Jayhawks, per poi passare alla chitarristica e vibrante Roman Cars, e alla bellissima Freckles dal ritmo incessante e impareggiabile. Si prosegue con il groove nevrotico di Catvmouse, per poi ritornare ai ritmi incalzanti, frenetici e coinvolgenti di Lonely Fast And Deep (con “riff” chitarristici alla J.Mascis dei Dinosaur Jr.), senza dimenticare di emozionare con due dolcissime ballata come See High The Hemlock Grows, cantata in duetto da Chris Colbourn e da Sarah Jessop, e una più elettrica In The Ice (la prima rimanda ai Counting Crows e la seconda ai Gin Blossoms).

Ci si avvia alla fine del viaggio con la galoppante e tambureggiante Least We Can Do, una intrigante Slow Down che dopo una apertura acustica, si sviluppa con un arrangiamento di chitarre noisy e voci da “rocker” selvaggi, e chiudere infine con una commovente interpretazione di una splendida cover di Simon & Garfunkel , la famosa The Only Living Boy In New York (dove appare la figlia di Janowitz alle armonie vocali). La Deluxe Edition comprende tre “bonus tracks” , la prima è una cover “arrapata” di un brano degli Who, The Seeker, seguita da una ballata acustica con tastiere e archi Saturday, cantata con trasporto da Colbourn, che si cimenta anche nella finale Little Sisters (Why So Tired), dove spicca un delizioso “riff” della chitarra di Janovitz.

Sulle scene da una trentina di anni, i Buffalo Tom sono una di quelle rare band capaci di catturarti fin dai primi ascolti e certamente nel tempo hanno sviluppato un suono che è un vero e proprio marchio di fabbrica (una sorta di “working class band”), e dopo sette anni sabbatici i “fans” del trio saranno sicuramente contenti per questo solido Quiet And Peace, che se non rappresenta un rinnovamento musicale è comunque il solito buon disco della band del Massachussets, ricco di canzoni di buona fattura, che ci assicurano una cinquantina di minuti assolutamente godibili e che non sfigurano con i tanti brani memorabili della loro discografia, pubblicata nei decenni precedenti, e per chi scrive i tre “graffiano” ancora il cuore.!

Tino Montanari