Un Vero Sudista…Californiano! Sam Morrow – Concrete And Mud

sam morrow concrete and mud

Sam Morrow – Concrete And Mud – Forty Below CD

Sam Morrow è un countryman atipico: intanto è di Los Angeles, non proprio una delle patrie del country (anche se Bakersfield non è lontanissima dalla metropoli californiana), ed in più il suo suono coinvolge anche elementi differenti. Di base Sam si ispira al country texano di ispirazione Outlaw, Waylon Jennings è uno dei suoi eroi musicali, ma spesso vira verso una musica di stampo southern con marcati elementi funky, un genere in cui gruppi come i Little Feat erano maestri. Se a questo aggiungiamo una serie di canzoni ben scritte ed un approccio grintoso e vigoroso, ne viene fuori che Concrete And Mud, il terzo album di Morrow (a tre anni di distanza dal precedente, There Is No Map), è un lavoro riuscito, piacevole, forse derivativo in certi momenti ma che di sicuro non mancherà di soddisfare gli estimatori del vero country-rock. Prodotto da Eric Corne, il disco si avvale della collaborazione di un solido gruppo di strumentisti, del quale i più conosciuti sono senz’altro lo steel guitarist Jay Dee Maness (ex membro di International Submarine Band e Desert Rose Band, ma suonò anche nel leggendario Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds) ed il bassista Ted Russell Kamp, già nella band di Shooter Jennings.

Il brano d’apertura, Heartbreak Man, di country ha poco, ricorda di più i già citati Little Feat, ha il ritmo ed il passo delle canzoni dell’ex band di Lowell George, un sapore a metà tra Sud e funky, una bella slide ed un suono “grasso”. Con Paid By The Mile ci spostiamo invece in Texas, ritmo sostenuto e suono maschio, con l’influenza di Waylon ben presente, per un brano che si ascolta tutto d’un fiato (e le parti chitarristiche sono ottime), mentre San Fernando Sunshine è lenta e cadenzata, una country ballad ancora in puro stile Outlaw, ci vedo qualcosa anche di Willie Nelson, anche se Sam è meno raffinato di Willie (e, ma non c’è bisogno di dirlo, abita un centinaio di piani sotto nella Tower Of Song, per dirla con Leonard Cohen). Quick Fix, ha di nuovo un mood funky, ritmo spezzettato ed una melodia diretta e godibile, sul genere di classici come Dixie Chicken (facendo ovviamente le debite proporzioni).

Good Ole Days è invece un irresistibile honky-tonk di nuovo alla maniera texana (qualcuno ha detto Billy Joe Shaver? Bravo), spedito e coinvolgente. Weight of A Stone è più attendista e non assomiglia a nulla di quanto sentito finora, essendo una languida ballata che potrebbe essere stata scritta da uno come Raul Malo, Skinny Elvis è un velocissimo rockabilly con chitarre e sezione ritmica in evidenza, tra le più immediate, mentre Coming Home è puro country classico, con un feeling anni settanta e la splendida steel di Maness a ricamare sullo sfondo. L’album termina con Cigarettes, ancora cadenzata ma stavolta con tracce di swamp rock alla Tony Joe White, e con Mississippi River, intenso slow acustico (ma full band), che chiude positivamente un disco fresco, solido e riuscito.

Marco Verdi

Ma Non Si Erano Sciolti? Tornano In Studio Per il 40° Anniversario. Radiators – Welcome To The Monkey House

radiators welcome to the monkey house

Radiators – Welcome To The Monkey House – Radz Records

Si pensava che la carriera dei Radiators (o meglio The Radiators From New Orleans, visto che esistono anche i Radiators australiani e gli irlandesi Radiators From Space) fosse arrivata al capolinea nel 2010, quando la band in un comunicato annunciava che dopo un tour d’addio, che prevedeva  una esibizione al celebre Jazz And Heritage Festival, e dei concerti al Tipitina, il famoso locale di New Orleans, la loro città, si sarebbe sciolta. E nel 2012 è uscito il triplo dal vivo The Last Watusi, che conteneva il meglio delle tre serate al Tipitina. Ma poi ogni anno a maggio la band si riunisce per partecipare alla JazzFest, di cui sono usciti nel corso degli anni  innumerevoli  CD https://discoclub.myblog.it/2010/07/28/live-at-new-orleans-jazz-heritage-festival-the-radiators-pre/ , e nel 2015 hanno suonato per altre serate al famoso locale di Nola. Ma quest’anno si festeggiano i 40 anni di carriera per il gruppo  e quindi i 5 componenti storici della band, Ed Volker, alle tastiere e voce, Dave Malone, chitarre e voce (fratello dell’altrettanto bravo Tommy, dei Subdudes https://discoclub.myblog.it/2014/05/31/delle-glorie-della-big-easy-tommy-malone-poor-boy/ ), con il valido supporto del secondo chitarrista Camille Baudoin, del bassista Reggie Scanlan e del batterista Frank Bua, hanno deciso di fare le cose per tempo, riunendosi  in studio a New Orleans per registrare un nuovo album di studio, il primo dal lontano 2006, in cui uscì l’ottimo Dreaming Out Loud (i loro dischi sono tutti piuttosto belli, se ne trovate qualcuno del primo periodo sarebbe l’ideale, ma la scelta è ampia, difficile sbagliare).

Sono stati definiti la Band di New Orleans, e ci può stare, ma come mi è capitato di dire in passato, io li vedo più come dei Little Feat della Louisiana: doppia chitarra, doppia voce, un tastierista fantastico, una sezione ritmica solida ed inventiva che sottolinea le evoluzioni dei vari solisti e un repertorio che attinge dal rock, dal blues, dal funky, dal Gumbo di New Orleans, qualche pennellata di jazz, di swamp rock, di southern e anche una propensione alla jam, soprattutto nei concerti dal vivo, per quanto anche nei dischi di studio gli strumenti siano liberi di improvvisare all’impronta. E anche in questo Welcome To The Monkey House lo fanno nei 16 brani, inediti nei dischi di studio, ma rodati da varie apparizioni nei concerti della band. Ecco quindi scorrere il boogie-blues-rock alla Little Feat dell’iniziale title track, con continui rimandi delle due soliste che si intrecciano e si sfidano con grande classe, mentre l’impassibile Ed Volker (Zeke per gli amici) volteggia sul suo pianoforte con libidine. Per poi riprodurre in una deliziosa Nightbird il sound ispirato di un Dr. John o di un Allen Toussaint, nei loro momenti più romantici, oppure scatenarsi  nella vorticosa Fishead Man, dedicata ai propri fans, con un piano boogie woogie che si incrocia con il rock annerito del resto del gruppo.

Che è sempre ispirato e variegato anche nella mossa The Fountains Of Neptune, dove Volker aggiunge pure l’organo al sound d’assieme, sempre gioioso e complesso, con il classico suono del  rock americano, quello delle migliori band degli anni ’70, un paio le abbiamo citate, ma anche Amazing Rhythm Aces, Meters, Neville Brothers o Allman Brothers rientrano tra le influenze dei Radiators, come evidenzia l’ottima slide, doppiata dall’altra solista, che percorre la bluesata One Monkey. Comunque tutti i brani sono di livello notevole, dal funky-rock di Ride Ride She Cried, ancora con slide d’ordinanza, al quasi barrelhouse/R&R della spensierata e “acida” Doubled Up In A Knot. Tra i loro “seguaci” possiamo segnalare i Subdudes, più raffinati https://discoclub.myblog.it/2017/03/16/il-ritorno-della-band-di-new-orleans-sempre-in-forma-smagliante-subdudes-4-on-the-floor/ , la Honey Island Swamp Band https://discoclub.myblog.it/2016/06/12/altro-gruppo-new-orleans-bayou-americana-gradire-honey-island-swamp-band-demolition-day/ o i Wood Brothers https://discoclub.myblog.it/2015/12/27/recuperi-sorprese-fine-anno-2-peccato-conoscerli-the-wood-brothers-paradise/ . In First Snow ci si avventura anche in territori più complessi, tipo i Los Lobos di Kiko, grazie ad un vibrafono e ad una andatura sinuosa, ma è subito rock and roll di nuovo con l’avvolgente suono solare di Time To Rise And Shine o della caraibica Back To Loveland, che fa molto Jimmy Buffett o il puro New Orleans sound della splendida King Earl, con le twin guitars in piena azione.  Insomma, senza ricordarle tutte, ma una citazione per la giubilante (anche per il titolo) Bring Me The Head Of Isaac Newton mi scappa, questo è un album da avere per i fans, però anche tutti gli altri amanti della buona musica rock ci possono fare un pensierino.

Bruno Conti

Straordinari…Come Sempre! Old Crow Medicine Show – Volunteer

old crow medicine show volunteer

Old Crow Medicine Show – Volunteer – Columbia/Sony CD

E’ da anni che considero gli Old Crow Medicine Show la migliore band di Americana in circolazione, superiore anche ai bravissimi Avett Brothers: una conferma l’hanno data lo scorso anno quando è stato pubblicato lo splendido tributo dal vivo a Blonde On Blonde di Bob Dylan, dato che non è da tutti affrontare uno dei dischi più importanti della storia del rock e riproporlo con una tale inventiva, bravura e creatività https://discoclub.myblog.it/2017/05/09/come-rinfrescare-degnamente-un-capolavoro-assoluto-old-crow-medicine-show-50-years-of-blonde-on-blonde/ . E poi il sestetto guidato da Ketch Secor e Critter Fuqua (le due menti creative, gli altri sono Kevin Hayes, Chance McCoy, Morgan Jahnig e Cory Younts) è in continua crescita, disco dopo disco: il loro ultimo album Remedy era meglio di Carry Me Back, che a sua volta era meglio di Tennessee Pusher. Volunteer è il nuovissimo lavoro degli OCMS, giunge a quattro anni da Remedy e manco a dirlo è il più bello mai registrato dal gruppo: i nostri sono andati ad inciderlo nel mitico RCA Studio A di Nashville, facendosi produrre per la prima volta da Dave Cobb.

Era logico che prima o poi il miglior gruppo Americana ed il miglior produttore del genere si incontrassero, e se Cobb ha messo a disposizione tutte le sue capacità e la sua esperienza, i nostri hanno portato in dote alcune tra le loro migliori canzoni di sempre: se poi aggiungete il fatto che dal punto di vista della tecnica sono sempre più bravi (e qui sono coadiuvati in tutti i pezzi da Joe Andrews che funge quasi da settimo Corvo), capirete perché Volunteer si può definire il più bel disco dei nostri. La loro miscela di country, bluegrass, folk e rock non ha eguali al momento, ed ormai hanno maturato una capacità nel songwriting che consente loro di sfornare grandi canzoni con estrema facilità. Flicker & Shine, il primo singolo estratto, è un bluegrass irresistibile dal ritmo forsennato, suonato con piglio da vera rock band, un ritornello corale dal sapore deliziosamente tradizionale ed uno spettacolare cambio di ritmo a circa metà canzone. A World Away è strepitosa, una rock song fatta e finita ma suonata con strumenti della tradizione (comunque c’è anche una chitarra elettrica, per la prima volta dal 2004), dotata di un motivo di prim’ordine ed il solito feeling smisurato; la guardia non si abbassa neppure con la magnifica Child Of The Mississippi, altra coinvolgente e cadenzata country song con marcato accento sudista, dotata ancora di un ritornello eccellente.

La saltellante Dixie Avenue è un vivace honky-tonk elettroacustico, anch’esso dalla squisita linea melodica, Look Away dicono gli OCMS essergli stata ispirata dai Rolling Stones, ed in effetti è una ballatona sul genere di Wild Horses, davvero stupenda e suonata alla grande, come si usava fare negli anni settanta (c’è anche un limpidissimo pianoforte), mentre Shout Mountain Music è un altro di quei bluegrass al fulmicotone che dal vivo fanno saltare tutta la platea. Mi rendo conto che sto usando aggettivi altisonanti, ma album come questo non si ascoltano tutti i giorni (e fortunatamente di dischi belli ne ascolto parecchi). The Good Stuff è un pimpante e gustoso western swing, in cui i nostri sembrano dei veri texani (ed il ritmo è sempre elevato), Old Hickory è una fulgida country ballad che sembra una outtake di Sweetheart Of The Rodeo (la melodia assomiglia ad una You Ain’t Goin’ Nowhere rallentata), Homecoming Party inizia come una folk song acustica, poi entra la band al completo ed il brano assume la veste di un intensa e limpida country tune, pur mantenendo l’aria malinconica dell’inizio. Il CD termina con il breve strumentale Elzick’s Farewell (unico traditional), altro bluegrass velocissimo e con un non so che di irlandese (ma sentite come suonano), e con Whirlwind, ancora una ballata country-rock decisamente bella, che ricorda non poco la Nitty Gritty Dirt Band dell’epoca d’oro

Non solo Volunteer è il disco più bello degli Old Crow Medicine Show, ma credo che a fine anno sarà difficile scalzarlo dalla mia Top Three.

Marco Verdi

Uno Strepitoso Omaggio Ai Tre “Re” Inglesi Della Chitarra. Joe Bonamassa – British Blues Explosion Live

joe bonamassa british blues explosion live

Joe Bonamassa – British Blues Explosion Live – 2 CD – 2 DVD-  Blu-ray  Mascot/Provogue – 18-05-2018

Toh, un nuovo Joe Bonamassa, strano! Sono già passati quasi quattro mesi dall’ottimo Black Coffee, il disco con Beth Hart https://discoclub.myblog.it/2018/01/21/supplemento-della-domenica-di-nuovo-insieme-alla-grande-anteprima-nuovo-album-beth-hart-joe-bonamassa-black-coffee/  e “finalmente” il chitarrista di New York pubblica un nuovo album. Ironie a parte, in effetti questa è l’unica critica che si possa fare al nostro amico: ha questa malattia, la “prolificità”, e la deve curare in qualche modo, quindi pubblica dischi a raffica in modo compulsivo, però  spesso anche belli. E British Blues Explosion  Live fa parte di questa categoria: per la verità il disco era atteso da tempo, essendo stato registrato nel 2016, ma poi nel frattempo il buon Joe non è stato con le mani in mano, e oltre al disco con Beth, sono usciti il Live acustico alla Carnegie Hall, quello con i Rock Candy Funk Party, la reunion dei Black Country Communion, e di riflesso l’omaggio alla musica inglese dell’epoca d’oro del blues (rock) britannico era stata accantonato. Solo 5 date tenutesi nel luglio del 2016 durante il breve tour inglese, delle quali il concerto di Greenwhich è stato registrato e filmato, e questo è il risultato. Si diceva un omaggio agli eroi del giovane Bonamassa, quando si avvicinava per la prima volta alla musica, che era quella che arrivava dalla Gran Bretagna sul finire degli anni ’60, e soprattutto a tre grandissimi chitarristi, Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. E per l’occasione il gruppo di Bonamassa torna ad un formato più ristretto, niente coriste, fiati e ospiti assortiti, solo il classico quintetto con  Michael Rhodes (basso), Reese Wynans ( tastiere), Anton Fig (batteria) e il concittadino (ma ora vive a L.A. a due passi da Joe) Russ Irwin, new entry per l’occasione (chitarra ritmica e armonie vocali).

Il disco uscirà il 18 maggio in vari fomati, ma noi lo abbiamo ascoltato in anteprima per voi ed ecco il resoconto, decisamente positivo. Siamo nel cortile dell’Old Royal Naval College di Greenwhich, nei sobborghi di Londra, è il 7 luglio del 2016, quindi ufficialmente è estate anche in Inghiltera, e si entra subito in argomento con un classico medley del Jeff Beck Group, il primo singolo Beck’s Bolero e Rice Pudding da Beck-Ola, con Bonamassa inizialmente alla slide e una band potente e competente alle spalle, ci mettono subito di buon umore, blues-rock di gran classe, con l’ottimo Wynans all’organo a spalleggiare la Gibson di Bonamassa che volteggia da par suo, un lungo strumentale da urlo di una decina di minuti per aprire le operazioni. Che proseguono, senza soluzione di continuità, con Mainline Florida, un brano forse non conosciutissimo di Eric Clapton, era su 461 Boulevard, l’album del 1974 (quindi non solo anni ’60 nel concerto), con il classico suono di Manolenta dell’epoca, rock ma con mille nuances complementari, ovviamente la chitarra è sempre al centro della scena. Poi arriva Boogie With Stu, da Phisycal Graffiti dei Led Zeppelin, con il terzo della triade, Jimmy Page, a ricevere il suo giusto omaggio: brano registrato nel 1971 ma pubblicato solo nel 1975, altro pezzo diciamo “minore”, che come prevede il titolo ruota intorno al piano, per un bel boogie vecchia scuola, cantato a due voci con Irwin, che siede lui stesso alla tastiera, e notevole assolo di Bonamassa nella parte centrale.

Let Me Love You Baby è un pezzo di Willie Dixon, ma la facevano Buddy Guy, Stevie Ray Vaughan, ancora Jeff Beck, e nel British Blues pure Chicken Shack e Bloodwyn Pig, il primo blues classico della serata, con Irwin che dà una mano sostanziale a livello vocale e un assolo misurato di chitarra di grande feeling e tecnica di Joe. Ancora da Beck-Ola troviamo una poderosa  Plynth (Water Down The Drain), con la Les Paul di Bonamassa in grande spolvero, mentre Fig picchia di gusto, e a seguire dallo stesso album di Beck ancora Spanish Boots. Altro pezzo di una potenza devastante, se rock deve essere che rock sia . Double Crossing Time era sul classico John Mayall’s Bluesbreakers With Eric Clapton, una rarissima collaborazione come autori tra I due, il primo grande lento della serata e qui si gode; da 461 Ocean Boulevard arriva per il party time del concerto una ondeggiante Motherless Children, di nuovo con la voce di Irwin in bella evidenza e la Telecaster di Bonamassa splendida protagonista. Poi è tempo per i Cream, omaggiati con una gagliarda SLAWBR, ovvero She Walks Like A Bearded Rainbow, uno dei pezzi più psichedelici del trio inglese.

Altro grandissimo medley, dal songbook dei Led Zeppelin, prima una ottima Tea For One e poi un altro slow blues da sballo I Can’t Quit You Baby, versione con assolo  fantasmagorico, giocato anche su toni e volumi, come dicono a Bologna “socc’mel” se suona, potrà esservi simpatico o meno, ma la qualità e il feeling non si discutono. Little Girl e Pretending non sono certo tra i brani più memorabili di Clapton, comunque dal vivo fanno sempre la loro porca figura, e si voleva scegliere qualcosa di inconsueto nel repertorio di Enrico. Poi Bonamassa si omaggia da solo con un medley di brani del proprio  repertorio, lo strumentale Black Winter e la sua versione di Django, in tributo a Reinhardt. Per finire la serata, in un tripudio di wah-wah ed effetti a go-go, altro momento topico con una versione extralarge di How Many More Times, solo quei quasi 20 minuti di goduria assoluta dedicati al capolavoro di Page e soci, con citazioni del British Blues, tra cui The Hunter dei Free. E se non bastasse, in uno strano DVD extra con una unica bonus track, da una serata al Cavern di Liverpool, ecco arrivare la cover di Taxman dei Beatles. L’ho già detto e mi ripeto, per me finché li fa così belli, Joe Bonamassa di dischi può farne quanti ne vuole.

Bruno Conti

Con La “Sua” Band O Da Solo, E’ Sempre Grande Musica Dal Passato! The Who – Live At The Fillmore East 1968/Pete Townshend – Who Came First Expanded

who live at the fillmore east 1968

The Who – Live At The Fillmore East 1968 – Polydor/Universal 2CD

Pete Townshend – Who Came First: Expanded Edition – Eel Pie/Universal 2CD

Oggi vi parlo di due uscite recenti, entrambe decisamente interessanti ed aventi come comune denominatore la figura di Pete Townshend, in un caso come leader della sua storica band e nell’altro come solista. Che il mercato sia abbastanza saturo di album dal vivo degli Who è cosa nota, ed io stesso in questo blog mi sono occupato più di una volta di dischi registrati on stage dal famoso gruppo britannico, ma l’ultima uscita in ordine di tempo è un caso diverso, in quanto prende in esame per la prima volta in via ufficiale un concerto degli anni sessanta. I vari live del gruppo guidato da Townshend con Roger Daltrey, John Entwistle e Keith Moon (parlando del nucleo storico, il bassista e soprattutto il batterista ci hanno lasciato da tempo) sono infatti tratti da show dagli anni ottanta in poi, con le importanti eccezioni del leggendario Live At Leeds del 1970 e dello spettacolo all’isola di Wight dello stesso anno. Live At The Fillmore East 1968 invece si occupa di un concerto tenutosi nel famoso locale di proprietà di Bill Graham a New York nell’anno indicato nel titolo, con i nostri nella loro versione pre-Tommy, quindi molto più diretti e rock’n’roll che in seguito.

Il doppio CD è comunque estremamente riuscito, in quanto i nostri erano già una macchina da guerra, ed anzi questa registrazione li cattura nella loro veste più cruda e diretta, quasi fossero una sfrontata punk band ante-litteram: Townshend è un macinatore instancabile di riff, Daltrey non è ancora al massimo della sua potenza vocale (che raggiungerà da lì a breve) ma poco ci manca, e la sezione ritmica all’epoca era una delle più potenti insieme a quelle della Jimi Hendrix Experience e dei Cream. Un live esplosivo quindi, con una scaletta che presenta anche brani che difficilmente ritroveremo in dischi dal vivo futuri, il tutto inciso in maniera eccellente: qualche classico ovviamente c’è, come I Can’t Explain, la trascinante Happy Jack, la splendida I’m A Boy e Boris The Spider (quest’ultima di Entwistle). Ci sono diverse covers, tra cui ben tre di Eddie Cochran (l’apertura granitica di Summertime Blues, la meno nota My Way ed una breve e ficcante C’mon Everybody), la Fortune Teller di Allen Toussaint trasformata in un pezzo dal sapore quasi beat, e soprattutto una spettacolare Shakin’ All Over di Johnny Kidd & The Pirates.

Non manca qualche brano meno conosciuto, come la bella Tattoo, primo tentativo di Townshend di comporre una canzone rock nello stile di Tommy, o la poco nota Little Billy. Ma gli highlights del primo CD sono due notevoli versioni da undici minuti ciascuna della poderosa Relax (con Moon letteralmente scatenato, ma pure gli altri non scherzano) e soprattutto della strepitosa A Quick One, While He’s Away, vera e propria mini-suite rock che parte da una storiella di infedeltà coniugale per deliziarci con continui cambi di ritmo e melodia. Il piatto forte però è nel secondo dischetto, che è occupato interamente da una sola canzone, una incredibile My Generation di ben 33 minuti, un tour de force devastante che se fosse uscito all’epoca avrebbe fatto probabilmente passare questo disco alla storia, invece che limitarsi alla cronaca odierna.

pete townshend who came deluxe

Who Came First è invece il primo album da solista di Pete Townshend (e per il sottoscritto è anche il migliore), il cui titolo è una sorta di gioco di parole che coinvolge il nome della sua band principale, ma anche la prima parte del famoso detto “Chi è venuto prima? L’uovo o la gallina?” (ed infatti la copertina ritrae Pete in piedi su una moltitudine di uova). L’album uscì in origine nel 1972 (quindi gli anni non sono 45 come scritto sulla copertina di questa edizione deluxe, ma 46), in un periodo in cui Pete era decisamente ispirato e prolifico: l’influenza principale dell’album, non musicale ma a livello di testi, era certamente quella di Meher Baba, un guru indiano molto popolare all’epoca (era da poco scomparso, nel 1969), la cui figura fu di grande impatto per il nostro, e lo si capisce anche dal fatto che la sua immagine è un po’ dappertutto nelle foto sia dell’LP originale, sia nel booklet di questa ristampa (Baba O’Riley, per chi scrive la seconda più grande canzone rock di tutti i tempi dopo Stairway To Heaven, è il più celebre tra i brani dedicati al santone). Who Came First è composto da canzoni di provenienza varia: alcuni pezzi erano stati usati per due album registrati da Pete in forma privata come omaggio a Baba, altri sono riadattamenti dal famoso progetto abortito di Lifehouse (del quale aveva già utilizzato alcune cose per lo splendido Who’s Next dell’anno prima), due sono cover ed il resto brani scritti per l’occasione. Questo disco vede Pete suonare tutti gli strumenti in prima persona, tranne un paio di casi che vedremo, ed ancora oggi risulta un lavoro fresco, accattivante e con il tocco geniale tipico del suo autore, che è anche in possesso di una buona voce pur non potendo competere con Daltrey.

L’album parte con la splendida Pure And Easy, un pop-rock scintillante che avrebbe potuto anche diventare un classico per gli Who, seguita da una dylaniana (stile periodo acustico) Evoution, di e con Ronnie Lane e dalla solare Forever’s No Time At All (con l’aiuto di Billy Nicholls e Caleb Quaye), rock song diretta e gradevole con ottime parti di chitarra. Let’s See Action esiste anche nella versione degli Who, e rimane una bella canzone, la folkeggiante Time Is Passing è deliziosa, come anche la cover del classico country di Jim Reeves There’s A Heartache Following Me, una delle canzoni preferite da Baba. Chiudono l’album originale (che occupa il primo CD di questa ristampa) la bucolica Sheraton Gibson, la lenta e pianistica Content e la magnifica Parvardigar, ispirata alla Preghiera Universale di Baba. Questa nuova edizione, uscita in un elegante long box con liner notes scritte ex novo da Pete (che è sempre ironico e mai banale), presenta un interessante secondo CD con 17 pezzi, non tutti inediti in quanto alcuni erano già usciti sulla ristampa del 2006. Ci sono le versioni soliste di altri tre brani poi entrati nel repertorio degli Who, come The Seeker, Drowned e soprattutto una strabiliante Baba O’Riley solo strumentale di quasi dieci minuti. Ci sono poi canzoni accennate, demo, bozzetti ed idee varie, che hanno comunque l’imprimatur del nostro (His Hands, Sleeping Dog, Mary Jane, Meher Baba In Italy), o veri e propri brani fatti e finiti, alcuni dei quali molto belli e che avrebbero potuto essere anche sul disco originale, come I Always Say, The Love Man (splendida), la vibrante There’s A Fortune In Those Hills ed una strepitosa Evolution dal vivo al Ronnie Lane Memorial, full band ed in versione folk-rock, ancora meglio di quella pubblicata, che quasi vale da sola l’acquisto del box.

Due ottimi prodotti dunque, entrambi oserei dire imperdibili, soprattutto se di Who Came First non possedete la ristampa del 2006.

Marco Verdi

Non Ci Eravamo Dimenticati: Rileggendo Vecchie Pagine D’Amore! Mary Chapin Carpenter – Sometimes Just The Sky

mary chapin carpenter sometimes just the sky

Mary Chapin Carpenter – Sometimes Just The Sky – Lambent Light Records/Thirty Tigers

In questi tempi di celebrazioni musicali, e in modo particolare negli ultimi anni, diversi artisti e gruppi si sono buttati sul loro vecchio repertorio (in alcuni casi anche prestigioso), sfornando dischi spesso dai risultati altalenanti, ma oggi con piacere parliamo di una grande cantautrice come Mary Chapin Carpenter https://discoclub.myblog.it/2012/06/10/un-gusto-acquisito-mary-chapin-carpenter-ashes-and-roses/ che, in occasione del trentennale della sua carriera, pubblica un nuovo lavoro Sometimes Just The Sky (il quindicesimo se non ho sbagliato i conti, escluse antologie e video), composto da una dozzina di brani recuperati “democraticamente” ed estratti da ognuno dei suoi album in studio, a partire dall’esordio con Hometown Girl (87) arrivando sino a The Things That We Are Made Of (16), rivisitati e rielaborati per l’occasione, con un solo inedito, la splendida title.track conclusiva. Per fare tutto al meglio, la Carpenter emigra in Inghilterra nei famosi Real World Studios di Peter Gabriel, con la produzione del polistrumentista Ethan Johns (Ryan Adams, Ray La Montagne, Paul McCartney), a chitarre, mandolino e altro, avvalendosi di un gruppo di musicisti abituali, a partire dal collaboratore di lunga data, il chitarrista Duke Levine, da Dave Bronze al basso, Jeremy Stacey alla batteria e percussioni, Stephanie Jean al piano e tastiere , e Georgina Leach al violino e viola, che accompagnano Mary voce e chitarra acustica, con il risultato finale di un album decisamente riuscito, dove i nuovi arrangiamenti conferiscono ricche tonalità e una nuova “nobiltà” ad ognuna della dodici “pagine d’amore”.

Meritoriamente la scelta della Carpenter non è caduta solo sui brani di successo, e la dimostrazione è ad esempio il brano d’apertura Heroes And Heroines, una classica ballata del suo repertorio, suonata e cantata al meglio, recuperata dall’album d’esordio Hometown Girl (87), e a far da contraltare nella seguente rilettura, What Does It Mean To Travel dall’ultimo lavoro in studio, in una versione che rimanda alla sfortunata folksinger Kate Wolf degli esordi, per poi passare alla dolcezza infinita di I Have A Need For Solitude, e alla ballata folk elettrica One Small Heart (la trovate su Between Here And Gone (04).  Le tracce rivisitate continuano con quello che è uno dei classici assoluti della Carpenter, la meravigliosa e struggente The Moon And St. Christopher, estratta meritoriamente da un album “seminale” come Shooting Straight In The Dark (90), e di cui si ricorda anche una strepitosa versione di Mary Black https://www.youtube.com/watch?v=cgZCbHcp1JE , seguita da una intrigante rilettura della poco nota Superman, il moderno folk-country di una ariosa Naked To The Eye, per poi “sbalordire” ancora una volta con la melodia di Rhythm Of The Blues.

Le pagine volgono al termine con i nuovi arrangiamenti elettroacustici di una sempre accattivante This Is Love, la lenta accorata litania di Jericho con la voce di Mary che ricorda la prima e mai dimenticata Joni Mitchell, la sempre affascinante ballata folk The Calling dall’album omonimo, che viene rifatta nell’occasione in una seducente versione avvolgente, prima di ammaliare di nuovo con uno dei brani più belli del suo sterminato “songbook” This Shirt (recuperatela dal bellissimo State Of The Heart (89), e concludere infine con la maestosa bellezza dell’unico inedito,  una ballata come Sometimes Just The Sky, oltre sei minuti di grande musica, impreziosita dal violino irish della brava Georgina Leach.

Questa bravissima singer-songwriter nativa  del New Jersey ha da poco tagliato la soglia dei sessant’anni, e nonostante un percorso difficile costellato anche di perdite e malattie (e ricordando che è arrivata al successo senza compromessi artistici), in questo pregevole Sometimes Just The Sky la Carpenter dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, tutto il suo talento, rimettendo in gioco in una maniera elegante, raffinata e anche commovente il suo vecchio repertorio, da cantautrice completa che sa spaziare indifferentemente dal folk al country, dal soft-rock alla canzone d’autore, e per chi ancora non la conoscesse, Mary Chapin Carpenter merita molta, molta più attenzione di tante esaltate e celebrate cantautrici dei nostri giorni, in fondo la buona musica richiede qualche sacrificio (economico) e un pizzico di coraggio, anche da parte di chi acquista i dischi. Quindi disco altamente consigliato e meritevole di un vostro ascolto!

Tino Montanari

Di Contea In Contea: Un Dischetto Corto Corto, Ma Bello Bello! Will Stewart – County Seat

will stewart county seat

Will Stewart  – County Seat – Cornelius Chapel CD

Will Stewart è un musicista originario di Birmingham, Alabama, che in anni recenti ha preso parte in prima persona a diversi progetti, come membro dei Timber, di Willie And The Giant e dei Blank State, tutte band abortite dopo qualche singolo ed EP (e, nel caso di Willie And The Giant, anche un full length), commercializzati esclusivamente in digitale. Ora, dopo diversi anni vissuti a Nashville dove ha respirato l’aria musicale della città, Will ha fatto ritorno in Alabama con un bagaglio di esperienza maggiore, ed esordisce come solista con questo County Seat, che finalmente esce anche come supporto fisico (anche se da solo aveva pubblicato qualche anno fa tre EP, ma sempre per il download). E County Seat è una vera sorpresa, un piccolo grande disco, ancora più gradito perché giunto come un fulmine a ciel sereno: Will è un cantautore di ottimo livello, che ha assorbito influenze che vanno da Bob Dylan a Neil Young, passando per Byrds e R.E.M., sa costruire melodie semplici ma di sicuro impatto, usando quando è il caso anche la musica country (ma non è un country artist, almeno non nel senso convenzionale del termine), retaggio dei suoi anni a Nashville.

Stewart è anche un bravo chitarrista (tutte le parti soliste le suona lui), ed in County Seat è aiutato da Les Nuby, che produce l’album insieme a lui, e da un ristretto gruppo di amici tra i quali spicca la splendida steel guitar di Ford Boswell, grande protagonista del disco, la seconda voce femminile di Janet Simpson e la sezione ritmica puntuale e precisa di Ross Parker (basso) e Tyler McGuire (batteria). Il CD inizia nel migliore dei modi con la splendida Sipsey, uno scintillante folk-rock, solare e diretto, con melodia dylaniana, suono jingle-jangle ed una bella steel alle spalle del nostro. Non si scende di livello con la seguente, deliziosa Rosalie, godibilissimo country-rock dal ritmo spedito e motivo vincente, impreziosito dalla voce della Simpson e da un altro gran lavoro di steel; Brush Arbor è lenta, delicata, con la chitarra acustica arpeggiata e puntuali ed azzeccati interventi dell’elettrica e, indovinate un po’, della steel. Dopo un brevissimo strumentale per doppia chitarra (Otis In The Morning) abbiamo l’intensa Heaven Knows Why, notevole ballata elettroacustica dal grande pathos, molto seventies e con ben presente la lezione di Gram Parsons.

Ancora Dylan come influenza principale nell’ottima Dark Halls, altro vibrante folk-rock d’altri tempi, puro, bellissimo e suonato in maniera perfetta: Will dimostra di avere un talento non comune, pur nella sua semplicità, ed il disco cresce di brano in brano (anche se purtroppo dura appena 27 minuti in totale): pezzi come Dark Halls non si ascoltano tutti i giorni. Equality, AL è uno slow di grande intensità, tra country e musica cantautorale, emozionante anche se con pochi strumenti, così come County Seat, più cadenzata ma sempre lenta, e con la solita strepitosa steel a ricamare di fino. Chiude la malinconica Mine Is A Lonely Life, finale per doppia voce e chitarra, una folk song purissima con qualcosa degli Everly Brothers nello sviluppo melodico. Come ho già detto, County Seat è un gran bel dischetto, e Will Stewart un artista che sa come regalare emozioni ed ottima musica.

Marco Verdi

Strade Alternative Per Il “Country” Assolutamente Da Conoscere. Red Shahan – Culberson County

red shahan culberson county

Red Shahan – Culberson County – 7013 Records/Thirty Tigers

Avevo letto di questo signore perché Rolling Stone (che ultimamente non sempre è una rivista molto autorevole a livello musicale, ma forse stavolta ci hanno preso) lo aveva segnalato  tra i “dieci artisti country che devi conoscere”. In effetti  Red Shahan viene dal Texas, e la Culberson County del titolo è una delle contee più piccole dello stato della stella solitaria. E’ al suo secondo album, registrato a Dallas, ma lui ha vissuto anche a Lubbock: uno dei brani del disco è firmato con Brent Cobb, il cugino del noto produttore,  mentre Shahan viene accostato a Ryan Bingham (di cui usa il batterista Matthew Smith), Hayes Carll, Cody Jinks e altri fautori del West Texas Country. Ma sarà vero? Sono qui apposta, l’ho sentito per voi e ora riferisco: intanto aggiungiamo che il produttore è Elijah Ford, anche lui cantautore dal buon pedigree, che suona pure le tastiere, Charlie Shafter e Bonnie Bishop, alle armonie vocali, hanno pubblicato anche album a nome loro, il chitarrista Daniel Sproul ha sostituito Neal Casal negli Hard Working Americans, ma suona anche in un gruppo hard-rock, i Rose Hill Drive con il fratello Jacob, del batterista abbiamo detto, aggiungiamo Parker Morrow, vecchio amico di Shahan, da Lubbock, al basso. Country quindi? Uhm, forse,  almeno  a tratti.

Nell’insieme decisamente  buono, ma deve avere inghiottito anche un Bignami del rock, che poi usa ad arte nelle varie canzoni: e i gusti non sono per nulla da disprezzare. Si va da Water Bill che ha un riff preso dall’opera omnia dei Creedence o di John Fogerty,  innestato su un brano che ha un bel groove rock e un ottimo tiro chitarristico: anche Enemy va di rock and roll grintoso e pure gagliardo, a tutte chitarre, tipicamente americano.  Il nostro amico non ha una voce memorabile, ma comunque efficace e la band compensa alla grande, quando serve, come nelle atmosfere blues-rock della tirata 6 Feet,  dai testi bui e tempestosi, con la solista di Sproul in bella evidenza, un po’ come faceva il grande Philip Donnelly nei dischi di Lee Clayton, che potrebbe essere un buon paragone con Shahan. La title track Culberson County, che racconta degli esodi dei musicisti dal Texas a Nashville per trovare la fortuna, è una deliziosa ballata che coniuga chitarre acustiche e atmosfere alla Pink Floyd (quelli più bucolici) con coyote che ululano alla luna e finalmente atmosfere country, magari noir e desertiche https://www.youtube.com/watch?v=hTIer1fBmm0 ; Idle Hands addirittura miscela l’attacco di Dark Side Of The Moon con la versione di Magnolia che facevano i Poco su Crazy Eyes, molto suggestiva. How They Lie è un altro esempio dello stile più morbido impiegato da Red con profitto in molti brani, un brano dalle atmosfere sospese ed affascinanti.

Niente male pure Roses con una sognante lap steel che sottolinea i tempi pigri e rilassati della canzone, dove una twangy guitar è in agguato tra i solchi e la ritmica in questo caso macina country texano, di quello non tradizionale, un po’ come faceva il Lee Clayton citato poc’anzi. Someone Someday il pezzo firmato con Brent Cobb e Aaron Raitiere, sembra una rivisitazione moderna di Games People Play (il riff è quello) https://www.youtube.com/watch?v=SYgplX30qX8 , trasformato in un rockin’ country mid-tempo corale, con l’organo di Ford che lavora di fino (anche negli altri brani) mentre le chitarre non si tirano indietro. Come non fanno neppure nella “riffatissima” Revolution che sfiora quasi l’hard-rock, o comunque un southern molto robusto, con tutta la band sempre indaffaratissima  a spalleggiare le atmosfere più grintose e chitarristiche di Shahan, con l’ennesimo punto di merito per la solista di Devon Sproul, davvero indiavolata, mentre nella delicata Memphis, che sembra quasi un brano del miglior Jackson Browne, Red si fa accompagnare dalle deliziose armonie vocali della mamma Kim Smith. Insomma l’album cresce dopo ripetuti ascolti, questa aria di déjà vu musicale si fa meno marcata e si apprezzano le belle melodie, spesso avvolgenti, delle canzoni meno rock di Red Shahan, come la splendida ballata Hurricane, ancora graziata da una melodia vincente e la conclusiva Try, altro ottimo pezzo di struttura rock, ma con retrogusti country evidenti . Quindi concludendo, è molto bravo, prendere nota del nome, please.

Bruno Conti

La “Strana” Coppia Ci Riprova…E Fa Centro! Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land

ben harper and charlie mussselwhite no mercy in this land

Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land – Anti CD

Ho sempre ritenuto Ben Harper potenzialmente un ottimo artista, ma che non aveva mai espresso pienamente le sue qualità, a cominciare dalla mancata conferma di quanto di buono aveva lasciato intravedere con il suo esordio del 1994 Welcome To The Cruel World. Certo, Ben ha all’attivo diversi dischi di buon livello (i miei preferiti sono Lifeline, l’ottimo There Will Be A Light, inciso con i Blind Boys Of Alabama, e Live From Mars, inciso dal vivo), ma mi ha sempre dato la sensazione di non essere in grado di fare l’ultimo passo, il salto giusto che lo avrebbe fatto passare nella categoria degli artisti di cui fidarsi a scatola chiusa. Il talento c’è sempre stato, ma non è mai stato supportato dalla continuità nelle prestazioni, ed ultimamente si notava nei suoi dischi anche una certa stanchezza compositiva. Anche Get Up!, l’album inciso insieme al grande bluesman Charlie Musselwhite nel 2013, risentiva di questi problemi: un buon disco, ma non un grande disco, con il suono giusto ma non sempre con canzoni all’altezza. Oggi i due ci riprovano, e devo dire che, nella sua estrema sintesi (dura solo 35 minuti), No Mercy In This Land è un album nettamente più riuscito del suo predecessore, e concorre addirittura per essere eletto come uno dei più belli in assoluto di Harper.

Il suono è ancora migliore che in Get Up!, la produzione, nelle mani di Ben stesso insieme ai musicisti che lo accompagnano (Jason Mozersky alla chitarra, Jesse Ingalls al basso, piano ed organo, e Jimmy Paxson alla batteria), è perfetta, ma quello che marca la netta differenza è la qualità delle canzoni (tutte originali). No Mercy In This Land è un disco serio e fatto con cognizione di causa, decisamente blues, molto di più di qualunque cosa Ben avesse fatto finora: Harper ha sempre avuto il blues nel sangue, ma nemmeno Get Up! era così spostato verso la musica del diavolo, e se ci mettiamo il netto miglioramento della qualità dei brani capirete il perché del mio giudizio. Ho lasciato volutamente per ultima la figura di Musselwhite, che non interviene né in veste di songwriter né in quella di cantante (tranne che in un caso), e si “limita” a suonare l’armonica, ma sbagliate se pensate ad un ruolo marginale: infatti la sua presenza è di grande ispirazione per Harper, e poi stiamo parlando di uno dei re assoluti dell’armonica blues, uno che è capace di trasformare una canzone solo soffiando nel suo strumento, diventando una colonna portante nell’economia sonora di qualsiasi disco lo veda protagonista. Dieci canzoni all’insegna del blues più profondo, con Ben e Charlie che si divertono con i rispettivi strumenti (Harper è anche un valido chitarrista), a partire dall’iniziale When I Go, che in avvio sembra una messa cantata, ma poi entra la chitarra di Harper, con l’armonica di Musselwhite che dona poche ma significative pennellate ed una sezione ritmica decisamente pressante, per un bluesaccio cadenzato e ad alto tasso di intensità.

Bad Habits è puro blues Chicago-style, nella tradizione dei grandi: ritmo saltellante, bella voce e chitarra ancora meglio, con la ciliegina di Charlie che riffa alla grande col suo strumento. Love And Trust, dedicata a Mavis Staples, è un blues acustico ruspante e diretto, con Charlie indispensabile nell’economia del suono ed un tocco soul che non guasta; The Bottle Wins Again è uno splendido e sanguigno boogie dal riff di armonica insistito ed un’ottima prestazione da parte della band, con Ben ovviamente in testa, ed è tra le più coinvolgenti del CD, mentre Found The One è un vivace pezzo dal ritmo spezzettato ed un grandissimo Musselwhite. When Love Is Not Enough alza momentaneamente il piede dal blues per offrirci uno slow dal sapore soul, davvero intenso (ed è in brani come questo che si nota la crescita di Harper come autore); Trust You To Dig My Grave è un folk-blues acustico d’altri tempi, alla Mississippi John Hurt, mentre la title track è un blues purissimo ridotto all’osso, con le due voci (qui infatti canta anche Charlie) che si intendono alla grande ed anche l’intreccio tra chitarre ed armonica è perfetto. Chiudono un disco eccellente la tonica e trascinante Movin’ On, altro boogie ad alta temperatura, e Nothing At All, evocativa ballata soul che profuma di bei tempi andati.

Finalmente un gran bel disco da parte di Ben Harper, anche se c’è da dire che senza la presenza di Charlie Musselwhite il risultato non sarebbe stato lo stesso.

Marco Verdi

In “Pellegrinaggio” Alle Radici Del Soul E Del Rock, Risultato Prodigioso! Paul Thorn – Don’t Let The Devil Ride

paul thorn don't let the devil ride

Paul Thorn – Don’t Let The Devil Ride – Perpetual Obscurity Records

Paul Thorn è uno dei tanti “piccoli grandi” segreti della musica Americana di qualità: cantautore con una consistente discografia, una dozzina di album, compresi alcuni live, una antologia e un disco, Pimps And Preachers, forse il suo migliore, che gli era talmente piaciuto da averne pubblicate tre diverse versioni https://discoclub.myblog.it/2011/02/25/temp-8321917b0bce057cb280fea99f41838b/ . Il nostro amico è nato a Kenosha, Wisconsin, ma si è trasferito a vivere, praticamente ancora in fasce, a Tupelo, Mississippi, la patria di Elvis Presley. Babbo predicatore presso la chiesa locale, Thorn ha avuto una vita avventurosa, lasciando la famiglia a 18 anni per “vivere nel peccato”, poi è stato nella guardia nazionale e ha intrapreso una importante carriera nel pugilato professionistico che lo ha portato a combattere nel 1988 contro il grandissimo Roberto “Mano Di Pietra” Duran, perdendo onorevolmente (e il non dimenticato Chris Gaffney ha inciso una bellissima canzone The Eyes Of Roberto Duran, sull’album del 1995, prodotto da Dave Alvin, di cui in rete trovate una eccellente versione video cantata con l’autore Tom Russell e Alvin alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=2gfzk047ImU ).

L’altra grande passione di Thorn è sempre stata, fin da bambino, la musica, ha fatto parte del roster di artisti di Rick Hall, il fondatore dei Fame Studios, e dopo l’esordio per l’A&M del 1997, si è sempre autoprodotto per la propria etichetta, la Perpetual Obscurity, con l’aiuto del co-autore e produttore Billy Maddox, in questo Don’t Let The Devil Ride “aiutato” da Colin Linden. Paul Thorn è il classico cantautore completo, nel suo stile confluiscono rock, country, blues, soul , Americana e southern rock, ma per l’occasione di questo suo secondo disco di cover ha deciso di lanciarsi in un disco di gospel (e blues), altro grande amore e omaggio alle radici della sua famiglia. Se non lo conoscete (ed è un delitto) provate qualsiasi suo album, dal primo Hammer And Nail, al citato Pimps And Preachers, o anche Too Blessed To Be Stressed del 2014, sono tutti belli e anche il nuovo tiene fede alla sua fama. Oltre a Linden nel disco, che è stato registrato tra i Sun Studios di Sam Phillips, i Fame Studios di Muscle Shoals (quando Rick Hall, il vecchio proprietario era ancora vivo) e per la parti dei fiati alla Preservation Hall di New Orleans, con la band presente, oltre alle McCrary Sisters, alla cantante texana Bonnie Bishop, al chitarrista Billy Hinds, al batterista  George Recile, e a vari altri luminari della musica soul e del gospel, tra cui i Blind Boys Of Alabama.

Il risultato è veramente eccellente, rivaleggia con i recenti dischi di Jimmy Barnes e Marc Broussard nella rivisitazione della migliore musica nera. Questa volta soprattutto gospel, ma la musica profana è comunque rappresentata da ottime versioni di You Got To Move, il blues di Fred McDowell “gospelizzato” dalle splendide sorelle McCrary, ma pure Thorn ha una voce notevole, e dalla Love Train degli O’Jays, un pezzo che diventa una giubilante ode al signore, in una versione corale sontuosa. Ma sin dall’iniziale, scintillante e scatenata Come On Let’s Go si capisce che siamo a bordo per un viaggio nel miglior gospel, magari brani poco noti, a parte i due citati, ma con voci, fiati e i musicisti tutti che impazzano alla grande. The Half Has Never Been Told è un blues elettrico potente, con le chitarre di Linden e Hinds in primo piano, assieme alle tastiere di Michael Graham; Keep Holdin’ On è un’altra gospel song dal retrogusto blues di grande fascino, mentre He’s A Battle Axe con il mandolino di Linden in evidenza è più rurale e country, ma ha l’appeal dei brani migliori di John Hiatt, di cui Thorn ricorda molto la voce. Something On My Mind è uno slow blues intenso e fiatistico di grande pregio, Soon I Will Be Done un’altra gospel  esultante con voci e strumenti che impazzano, con One More River che potrebbe ricordare il Ry Cooder blues di fine anni ’70 e He’ll Make A Way, con una slide malandrina, è un altro pezzo splendido e pure Don’t Let The Devil Ride non scherza, vi sfido a trovare un brano brutto in questo album. Ascoltare per godere le gioie della buona musica.

Bruno Conti