Non Solo Non Molla, Ma Questo E’ Uno Dei Suoi Dischi Più Belli! Willie Nelson – Last Man Standing

willie nelson last man standing

Willie Nelson – Last Man Standing – Legacy/Sony CD

Alla tenera età di 85 anni, Willie Nelson ha ancora voglia di fare musica con la costanza di un ragazzino. E’ di giusto un anno fa la pubblicazione dell’ottimo God’s Problem Child  https://discoclub.myblog.it/2017/05/14/alla-sua-veneranda-eta-e-ancora-al-top-willie-nelson-gods-problem-child/ (senza contare il disco d’archivio insieme ai suoi due figli Willie & The Boys e la ristampa deluxe del capolavoro Teatro https://discoclub.myblog.it/2017/11/29/era-gia-bellissimo-ora-lo-e-ancor-di-piu-willie-nelson-teatro/ ), ma il grande texano non si ferma un attimo ed ora dà alle stampe un nuovo lavoro, Last Man Standing, un disco davvero splendido, che a mio avviso si posiziona addirittura nella Top Ten dei suoi album migliori (e ne ha fatti veramente tanti, molti dei quali imperdibili). Il titolo è un chiaro riferimento a sé stesso, ed al fatto che, con le scomparse di giganti del calibro di Johnny Cash, Waylon Jennings e Merle Haggard (senza dimenticare George Jones e Ray Price), Willie è rimasto l’ultimo baluardo di un certo tipo di country artist: certo, sia Kris Kristofferson che Billy Joe Shaver sono ancora tra noi, ma la loro attività è decisamente meno frenetica di quella di Nelson, il quale riesce a coniugare la quantità di album pubblicati con una qualità sempre elevatissima.

E Last Man Standing credo si possa definire il più bel disco del nostro da Teatro in poi. La formula non è cambiata, il nostro si appoggia all’ormai inseparabile Buddy Cannon sia in sede di scrittura che di produzione, e si circonda di musicisti fidati ed esperti (tra i quali il solito Mickey Raphael all’armonica, Alison Krauss al violino ed armonie vocali, Jim “Moose” Brown a piano ed organo, Fred Eltringham alla batteria ed ai chitarristi James Mitchell e Bobby Terry), ma in queste undici canzoni c’è un feeling, una grinta ed una perfezione stilistica che è difficile riscontrare in lavori di gente che ha anche cinquant’anni di meno. Non che negli album recenti questo venisse a mancare, ma Last Man Standing è davvero superiore in tutto, dalla qualità delle canzoni (e ad 85 anni Willie ha ancora voglia di scrivere) alla voce del leader, che se ultimamente dal vivo perde qualche colpo, in questo album è praticamente perfetta. Inizio pimpante con la title track, un brano elettrico e dallo spirito più sudista che texano, un suono caldo caratterizzato da chitarre ed organo e ritmo vivace. E la voce del nostro non ha bisogno di introduzioni, è un vero e proprio strumento aggiunto nonostante l’età. Ottima anche Don’t Tell Noah, altro pezzo dal ritmo sostenuto, quasi un rockabilly, con deliziose parti chitarristiche e Willie che da la sensazione di divertirsi come un giovincello. Bad Breath è una ballatona elettrica tipica del suo stile, quasi un valzerone che ricorda i brani con Waylon degli anni settanta, con un motivo di prim’ordine ed una strumentazione perfetta, sicuramente tra gli highlights del CD.

Me And You è una country song limpida, spedita e diretta, cantata alla grande e con le chitarre in primo piano, compresa l’inseparabile Trigger del nostro. Something You Get Through è la prima oasi, uno slow raffinato e di gran classe, con un retrogusto southern soul ed una voce da pelle d’oca; Ready To Roar è uno squisito western swing dal ritmo contagioso e ritornello immediato, suonato con maestria ed eleganza, mentre Heaven Is Closed è un’altra splendida ballatona texana cadenzata, un genere in cui Willie è ancora il numero uno, con il suono inimitabile della sua chitarra doppiato da quello dell’armonica di Raphael. Che dire di I Ain’t Got Nothin’, un honky-tonk’n’roll (si può dire?) dal ritmo irresistibile e con notevole uso di chitarra, piano e steel, o di She Made My Day, altro pezzo ricco di swing, texano al 100% e tutto da godere? Il CD si chiude (anche se esiste una versione con tre canzoni in più, ma in vendita solo in America nei ristoranti della catena a tema country Cracker Barrel) con I’ll Try To Do Better Next Time, altra western ballad cristallina, e con la robusta Very Far To Crawl, un pezzo grintoso che profuma di Sud.

Pur facendo praticamente solo dischi belli, sono anni che Willie Nelson non figura nelle mie Top Ten di fine anno con un suo album: Last Man Standing potrebbe essere quello buono.

Marco Verdi

Sherman Holmes Una Vita Per Il Gospel (E Il Soul). The Sherman Holmes Project – The Richmond Project

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The Sherman Holmes Project –The Richmond Sessions – Virginia Foundation/M.C. Records/Ird

Sherman Holmes, con il fratello minore Wendell e con Popsy Dixon, il batterista e voce in falsetto, per quasi trenta anni è stato l’anima degli Holmes Brothers, un trio che fondeva mirabilmente gospel, soul, R&B, blues, con abbondanti dosi di  “Americana”. A tre anni dalla scomparsa dei due pards, Sherman torna sul “luogo del delitto”, ovvero la Virginia, da cui venivano entrambi i fratelli, per The Richmond Sessions, un progetto corale definito Sherman Holmes Project, in cui sono confluiti anche alcuni dei migliori “pickers” americani, da Rob Ickes al dobro, strumentista e leader dei Blue Highways a Sammy Shelor al banjo, della Lonesome River Band, passando per l’ottimo Jared Pool che suona il mandolino e la Telecaster, senza dimenticare il violinista, David Van Deventer, anche lui musicista di pregio. Coordina il tutto l’armonicista Jon Lohman del Virginia Folklife Project, che negli studi di Richmond ha prodotto questo bellissimo album, che agli elementi citati prima degli Holmes Brothers, ha aggiunto una corposa patina country e bluegrass, senza tralasciare il rock, che viaggia dalle parti della Band e della musica di Levon Helm, grande fan del trio, e, in questo caso, punto di riferimento per la musica che ne è risultata.

Naturalmente non manca l’amato gospel-soul rappresentato dalle Ingramettes, guidate dalla giovane Almeta Ingram-Miller, che ha preso il posto della mamma nel trio vocale femminile. Ci sono altri musicisti nel disco, ma citerei soprattutto la bravissima Joan Osborne, ospite in una evocativa versione di un capolavoro assoluto della soul music, quella Dark End Of The Street, scritta da due geni della musica sudista come Chips Moman e Dan Penn, che ogni tanto riaffiora dalle nebbie del tempo anche per ricordarci il suo primo interprete, il grande James Carr https://www.youtube.com/watch?v=HC3AXQ8dPJM . Il disco si apre con una brillantissima versione del traditional Rock Of Ages, che oltre a ricordare il titolo di uno dei dischi storici della Band, ci riporta alla mente il sound dei dischi di Helm dell’ultimo periodo, Dirt Farmer e Electric Dirt, ma pure le Midnight Rambles che si svolgevano nel suo studio vicino a casa, con godibilissimi interscambi tra le voci di Sherman, ancora in grande forma e la Ingram-Miller, con il guizzante violino di Van Deventer, il dobro di ickes, il banjo di Shelor, il mandolino di Pool, ma anche una solida sezione ritmica, dove svetta il basso della stesso Holmes, molto presente, il risultato è consistente e brillante, come ribadisce una Liza Jane deliziosa dal songbook di Vince Gill, un piccolo gioiellino di bluegrass-country quasi progressivo, dove si apprezza anche il contrabbasso di Jacob Eller. Ma anche la meravigliosa cover della classica Don’t Do It, un pezzo di Holland-Dozier-Holland che cantava Marvin Gaye, ma di cui la Band rilasciò diverse splendide versioni, sia in 45 giri che nel citato Live Rock Of Ages, infatti il brano viene riportato con questo titolo e non con l’originale di Baby Dont’ You Do It, tanto ricorda la versione della Band  https://www.youtube.com/watch?v=11Y987Uf1wY e nella rilettura attuale si apprezza, oltre ai cori “acrobatici”, anche il piano di Stuart Hamlin.

Non manca il gospel quasi puro (ma con profonde venature acustiche countrry) del solenne traditional I Want Jesus, e poi nell’alternanza degli stili, una mossa e deliziosa Breaking Up Somebody’s Home, un classico della Stax, qui riproposta in stile bluegrass-soul, con il dobro e il violino in evidenza oltre all’armonica di Lehman. Si torna al country con una bella rilettura di Lonesome River di Jim Lauderdale, un piacevole valzerone country dove si apprezza di nuovo la voce ferma ed espressiva  di Sherman. Poteva mancare una country-funky Green River dei Creedence, con tanto di basso slappato? O un altro delizioso gospel  intriso di soul come Wide River, con le voci femminili a titillare Holmes, mentre il piano regala un tocco quasi alla Randy Newman. White Dove di Stanley Carter è un classico del bluegrass, altra ghiotta occasione per i grandi pickers di illuminare ancora una volta questo album, che si chiude gloriosamente con le note irresistibili di una sorprendente Homeless Child di Ben Harper.

Bruno Conti

11 Canzoni Che Riscaldano Il Cuore: Veramente Un Gran Bel Disco ! Michael McDermott – Out From Under

michael mcdermott out from under

Michael McDermott – Out From Under – Appaloosa/Ird

La vicenda umana ed artistica di Michael McDermott è cosa abbastanza nota: un giovane di belle speranze, nato a Chicago, all’inizio degli anni ’90 inizia ad esibirsi nei club della sua città, viene notato dagli emissari delle majors  e messo sotto contratto dalla Giant/Reprise; il primo album 620 W. Surf (peraltro bellissimo), prodotto da Don Gehman e Brian Koppelman, viene accolto da critiche entusiaste che inneggiano al nuovo Dylan o Springsteen (anche Mellencamp, visto il produttore), il secondo,  Gethsemane, è quasi  altrettanto bello, e il terzo, l’omonimo Michael McDermott del 1996, pure. Le note del disco sono firmate da un fan di eccezione, Stephen King, che scrive di lui  “uno dei più grandi cantautori del mondo e forse il più grande talento non riconosciuto del rock’n’roll degli ultimi 20 anni”, che era una cosa tipo il “ho visto il futuro del R&R” usato per Springsteen. Il problema è che i suoi dischi vendevano a fatica 50.000 copie, ma McDermott era già entrato in una spirale di autocompiacimento ed eccessi, sesso, droga e R&R, misti a tanto alcol, che in poco tempo lo conducono sulla strada della rovina fisica ed emozionale. E lì rimane per lunghi anni, continuando a pubblicare dischi anche buoni, ma non più memorabili. Poi, quando gli anni duemila sono ormai da lungo una realtà, inizia una lenta riscossa morale, prima con due buoni dischi come Hey La Hey e Hit Me Back, generati anche dall’incontro con Heather Horton, collega cantautrice e violinista, che diventa sua moglie, formando una famiglia, e sposandosi in Italia a Ferrara nel 2009, matrimonio da cui nasce una figlia, Rain.

In Italia trova anche una etichetta, la Appaloosa, che gli pubblica i primi due ottimi dischi del suo gruppo collaterale, i Westies https://discoclub.myblog.it/2016/03/05/ho-visto-il-futuro-del-rocknroll-il-nome-michael-mcdermott-ovvero-dischi-cosi-springsteen-li-fa-piu-westies-six-on-the-out/ , che fanno da prologo all’eccellente Willow Springs, dal nome della località vicino a Chicago dove è andato a vivere nel frattempo, e dove ha costruito il suo studio di registrazione casalingo. Anche quel disco del 2016 è veramente splendido, ricco di canzoni dai testi che trattano spesso e volentieri  di “perdenti” come lui (quindi anche autobiografiche), umorali, ironiche, divertenti, sopra le righe, lucide, universali, ma allo stesso tempo personali, e che tratteggiano l’altra America, quella nascosta, dove i sentimenti sono comunque un fattore importante. Il tutto condito da musiche di grande pregio e fattura, dove rock, folk e piccoli tocchi celtici, convivono con scossoni elettrici di grande qualità. Naturalmente quanto detto finora vale anche per il nuovo Out From Under, che come i dischi precedenti riporta nel CD i testi, tradotti in italiano, dove si apprezza la sua prosa brillante, con spunti romantici e storie quasi ai limite dell‘incredibile, ma ciò nondimeno; verosimili: il protagonista dell’iniziale Cal-Sag Road si trova coinvolto in un terzetto erotico con due ragazze, Rita e Gwen, che alla fine delle canzone sono morte ammazzate entrambe e in fondo al lago, in un noir da incubo, quasi alla Tarantino, e che nelle parole di McDermott contiene molti elementi veritieri, fatti che gli sono successi, salvo i due omicidi. Il tutto inserito in uno splendido contesto musicale, un folk-blues-rock che ricorda Dylan ( o Eric Andersen, visto il timbro di voce di McDermott), Springsteen e il meglio della musica Americana, condita dalle chitarre del bravissimo Will Kimbrough, il basso del suo braccio destro Lex Price e la batteria di  Steven Gillis, le tastiere di John Deaderick e il violino e la voce di Heather Horton, per un brano atmosferico, cinematico ed incalzante, veramente pregevole.

La delicata e deliziosa Gotta Go To Work vira verso un country-folk-bluegrass di fattura superba, con chitarre acustiche, mandolini, banjo e violino che si incrociano con elementi blues, in un’altra canzone che conferma la ritrovata vena artistica e d’ispirazione di questo splendido cantautore, che se non è alla pari con i grandissimi citati all’inizio, veramente poco ci manca, appena un gradino sotto. Il rock elettrico e mosso della incalzante Knocked Down rimanda al sound roots-blue collar del miglior Mellencamp e la voce non è da meno, rauca e vissuta come poche altre in circolazione; Sad Songs è il classico rock and roll da sentire in macchina, con i finestrini  abbassati e a tutto volume, quelle canzoni che una volta Bruce Springsteen scriveva come un fiume in piena, e ora, salvo saltuarie eccezioni, fatica ad estrarre dalle sue corde, una road song di quelle goduriose, con chitarre elettriche spiegate, armonie vocali da sballo, come pure la voce potente, una bellissima melodia e un drive irresistibile. This World Will Break Your Heart rischia veramente di spezzartelo il cuore, con le sue storie tristi ed inesorabili, accompagnate da una melodia cristallina e struggente,  quasi elegiaca e ricca di grande partecipazione, sempre dalla parte di quei “perdenti”, umani e sofferenti, che McDermott tanto ama, il tutto condito solo da una chitarra acustica, un pianoforte, il contrabbasso di Price e poco altro, giusto qualche tocco di tastiere sullo sfondo, grande canzone. Il menu è variegato e complesso, ci sono anche canzoni di speranza come Out From Under, che nel libretto dei testi è stata tradotta come “Riemergeremo”, una esortazione a non mollare, a lottare, con un altro tema musicale molto springsteeniano, forse il tema sonoro è già sentito e un filo risaputo, ma non manca di grinta ed energia.

Celtic Sea è un’altra ballata notevole, in crescendo, con un arrangiamento avvolgente e dal suono corposo, con il violino in bella evidenza, come pure il piano e gli intrecci vocali, oltre alle chitarre acustiche ed elettriche che sottolineano la bella melodia della canzone. In Rubber Band Ring, uno dei brani più divertenti del disco, c’è la presenza inconsueta del sax suonato da Rich Parenti, che tanto ci ricorda il Boss innamorato delle sonorità  soul spensierate anni ’60, forse leggerina, ma tanto godibile, una vera boccata di aria fresca. Il motto di Michael McDermott, il suo manifesto programmatico, potrebbe essere Never Goin’ Down Again, una promessa più che una minaccia, un’altra canzone dallo spirito ardente e vibrante, anche un monito a tutti i “nuovi  Dylan” e a quello che dovranno affrontare, con la musica che è classico rock americano anni ’80, quelli buoni però.  E in album che ha non punti deboli, ottima anche la briosa e solare Sideways, molto dylaniana, con organo e chitarre brillanti nel contrappuntare la voce sicura del nostro amico, che si fa intima e raccolta per la sua “preghiera” conclusiva, una God Help Us dove Michael esprime i suoi dubbi e incertezze verso una entità superiore, con un tono discorsivo e sofferto, ma pronto a considerare tutte le opzioni in campo. Veramente un bel disco, 11 canzoni che riscaldano il cuore.

Bruno Conti

Un Bellissimo Tributo…Made In Italy! When The Wind Blows -The Songs Of Townes Van Zandt

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VV.AA. – When The Wind Blows: The Songs Of Townes Van Zandt – Appaloosa/IRD 2CD

Ogni tanto anche in Italia, in campo musicale, sappiamo fare le cose per bene: When The Wind Blows è uno splendido tributo alle canzoni del grande Townes Van Zandt, songwriter texano scomparso ormai da più di vent’anni ma ancora di enorme importanza ed influenza per molti, ed è stato fortemente voluto da Andrea Parodi, che ha prodotto il doppio CD (32 canzoni, due ore di musica) insieme a Jono Manson, musicista americano ma che ultimamente è spesso coinvolto in progetti “nostrani”. Ed il disco, oltre ad essere molto bello ed a comprendere il meglio del songbook di Van Zandt, è caratterizzato dalla presenza di un cast internazionale di livello eccelso, con diversi nomi di alto profilo ed altri meno conosciuti, ma sempre nel nome della professionalità e della grande musica; l’unica cosa in cui il doppio CD è un po’ carente e nelle informazioni, dato che mancano i sessionmen presenti nei vari pezzi, e le liner notes si limitano ad una presentazione (in inglese) del Townes Van Zandt Festival che si svolge ogni anno a Figino Serenza, nel comasco. *NDB Comunque proprio a quel link contenuto nel libretto http://townesvanzandtfestival.com/index.php/cd trovate tutte le informazioni sui musicisti che suonano nell’album, brano per brano).

L’album parte con la splendida Snowin’ On Raton, affrontata da Jaime Michaels con piglio da vero countryman, limpida e deliziosa; non conoscevo Luke Bolla, ma la sua Heavenly Houseboat Blues (con Paolo Ercoli) è davvero riuscita, una ballata acustica cristallina, suonata e cantata in maniera emozionante, ed anche lo svedese Christian Kjellvander non lo avevo mai sentito, ma credetemi se vi dico che Tower Song è da brividi, solo voce e chitarra ma un feeling “alla Chip Taylor” ed un timbro caldo e profondo. Ecco arrivare un tris d’assi, uno dietro l’altro: il grande Terry Allen si fa sentire ormai di rado, ed è un vero peccato in quanto è ancora in forma smagliante, e la sua White Freightliner Blues è solida, ritmata ed elettrica; anche Joe Ely ha diradato di molto la sua produzione negli ultimi anni, ed è dunque un piacere sentirlo tonico ed in palla nella toccante If I Needed You, mentre Thom Chacon conferma il suo ottimo momento con una Still Looking For You folkeggiante e bellissima. Non mi metto a citare tutti i partecipanti per non dilungarmi, ma mi limito a quelli che raggiungono o sfiorano l’eccellenza (e già questi non sono pochi): il bravo Slaid Cleaves ci regala una Colorado Bound per voce e strumenti a corda molto suggestiva, Andrea Parodi fa sua con piglio sicuro la nota Tecumseh Valley traducendola liberamente in italiano (non mi sembra che Townes citasse Genova ed Alghero…), ma fornendo una delle prove migliori e più creative del lavoro, mentre David Corley, con una voce a metà tra Van Morrison e Tom Waits tira fuori una To Live Is To Fly decisamente intensa.

My Proud Mountains nelle sapienti mani dei Session Americana è puro folk (con un ottimo crescendo strumentale), la bella voce di Kimmie Rhodes, accompagnata solo dallo splendido pianoforte di Bobbie Nelson (sorella di Willie), fa un figurone in Catfish Song, mentre il sempre più bravo Sam Baker (autore anche del disegno in copertina) dà il suo contributo con una struggente e quasi fragile Come Tomorrow; il primo CD termina con Malcolm Holcombe alle prese con una Dollar Bill Blues dal sapore western. Il secondo dischetto comincia con l’ottimo Jono Manson che rilascia una limpida e countreggiante At My Window, seguito dal redivivo Chris Jagger (fratello di Mick) che ci delizia con Ain’t Leavin’ Your Love, in puro stile folk-blues. Tra gli highlights da segnalare una drammatica Highway Kind ad opera di Chris Buhalis, la vibrante Flyin’ Shoes da parte di Radoslav Lorkovic, emozionante (e che pianoforte) ed una roccata ed energica Loretta, affidata a James Maddock, sempre più bravo anche lui. Non conosco Jeff Talmadge, ma la folkie I’ll Be Here In The Morning affidata a lui è scintillante, a dir poco, così come la profonda Lungs nelle mani di Richard Lindgren, mentre l’attore e cantante Tim Grimm fa sua Colorado Girl con classe e feeling. Waiting Around To Die, uno dei pezzi più cupi di Townes, è perfetta per Michael McDermott, ed il capolavoro assoluto del texano, Pancho & Lefty, una delle più belle canzoni di sempre in assoluto, viene affrontata con bravura e rispetto dal newyorkese Paul Sachs, una rilettura lenta nella quale la melodia risalta in tutta la sua bellezza. Chiude Jack Trooper, figlio di Greg, con il puro folk dal sapore quasi irlandese di Our Mother The Mountain.

Un tributo eccellente quindi, realizzato in maniera professionale e contraddistinto dal grande amore e rispetto dei partecipanti per la figura di Townes Van Zandt, il tutto senza protagonismi e, per citare un brano del grande texano, “for the sake of the songs”.

Marco Verdi

Ottima Musica: Sempre Della Serie Non Solo Blues! Ian Siegal – All The Rage

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Ian Siegal – All The Rage – Nugene Records

Ian Siegal e Jimbo Mathus sono una coppia bene assortita: dopo il Live acustico del 2016 Wayward Sons https://discoclub.myblog.it/2016/05/04/coppia-bene-assortita-ian-siegal-jimbo-mathus-wayward-sons/  che seguiva un altro disco dal vivo, elettrico, del 2015, entrambi registrati in Olanda, questa volta torna in studio per proporre un album tutto composto da nuovi brani, sempre registrato nei Paesi Bassi, ad Amsterdam, visto che la sua band è composta da musicisti locali, Dusty Ciggaar (chitarre), Danny Van’t Hoff (basso), e Rafael Schwiddessen (batteria), mentre Mathus questa volta si “limita” a produrre, suona qualche strumento qui e là, e firma due brani con Siegal. Il titolo dell’album è ambivalente, in quanto in inglese All The Rage vuole dire sia “di gran moda” come pure “tutta la rabbia”, che è quella che sta infiammando il mondo dall’elezione di Trump  e dall’avvento di tutti i partiti di destra e populisti che si sono insediati in molti paesi europei, oltre alle tensioni che strisciano nel Medio e Lontano Oriente e ovunque sul pianeta.

Visto che il blues è sempre stato un genere che ha toccato questi temi, politici e sociali, Ian Siegal li ha inseriti anche nelle sue canzoni, due firmate con la coppia  Isa Azier e Mischa den Haring, mantenendo quel suo particolare stile musicale che inserisce anche elementi di Americana, country e roots music, su una base comunque decisamente blues e dove la sua chitarra è sempre un elemento importante nell’economia dei brani. L’apertura è affidata a Eagle-Vulture, uno dei suoi tipici brani di stampo blues-rock, grintosi e tirati, con la sua voce vissuta e rauca che urla la sua rabbia su una ritmica mossa e complessa, mentre la chitarra comincia a tessere le sue trame vibranti anche nella modalità slide che è uno degli stili prediletti dal musicista di Portsmouth. Bella partenza, subito ribadita in Jacob’s Ladder, uno dei pezzi scritti con i musicisti olandesi, un blues del Delta, elettrico e vibrante e che ricorda le sue collaborazioni con i fratelli Dickinson e altri musicisti dell’area del Mississippi, ma anche qualche elemento Waitsiano; ottima pure The S*it Hit uno slow blues duro e puro, dove Siegal imperversa con la sua solista in modalità bottleneck e Mathus aggiunge un pianino insinuante alle procedure, mentre il nostro Ian canta con rabbia e cattiveria. Won’t Be Your Shotgun Rider è uno dei brani dove gli elementi  roots sono più evidenti, una bella ballata ariosa e distesa ,ingentilita dalla voce femminile di Merel Moelker, e che ricorda il  miglior country-rock anni ’70, con Siegal al dobro, seguita da Ain’t You Great che introduce anche elementi latini, messicani e un pizzico di desert rock nella musica, mentre il testo è amaro e quasi apocalittico.

My Flame è un country-blues, solo voce e chitarra acustica in fingerpicking nella parte iniziale, poi entrano il piano, la ritmica discreta, una lap steel e il brano assume l’andamento delle ballate romantiche del Tom Waits anni ’70, anche grazie alla voce grave di Siegal, molto bella; One-Eyed King, firmata di nuovo dal trio, è stata definita dal suo autore una sorta di “murder” ballad”, e ci sta, anche se poi l’esecuzione vira di nuovo verso il rock-blues intenso ed atmosferico dei brani migliori del nostro, con la sua chitarra twangy in azione.  If I Live è un altro blues scarno ed amaro, con un giro musicale quasi ciclico e ripetitivo, con organo, mandolino e altri strumenti suonati da Jimbo Mathus aggiunti al menu sonoro, e Sweet Souvenir è uno splendido gospel-soul-blues di grande fascino, con cori avvolgenti e una interpretazione che fa molto deep soul , Muscle Shoals style o da quelle parti, con un paio di inserti chitarristici da manuale, non a caso gli ultimi due brani sono quelli firmati con Mathus e risentono chiaramente delle radici musicali sudiste del musicista americano. Per concludere rimane Sailor Town, una canzone firmata con il cantautore Hook Herrera, un brano che profuma nuovamente di R&B, blues e musica nera in generale, ritmata e leggera, ma di eccellente qualità, come d’altronde tutto l’album, che conferma quindi  ancora una volta l’eccellenza della musica di Ian Siegal.

Bruno Conti

Bello, Forse Si Poteva Fare Di Più, Forse… Beth Hart – Front And Center Live From New York

beth hart front and center

Beth Hart – Front And Center: Live From New York – CD/DVD Mascot/Provogue

Non sono passati neppure quattro mesi dall’uscita dell’ultimo album in coppia con Bonamassa https://discoclub.myblog.it/2018/01/21/supplemento-della-domenica-di-nuovo-insieme-alla-grande-anteprima-nuovo-album-beth-hart-joe-bonamassa-black-coffee/ ed ecco già un nuovo album, questa volta dal vivo, di Beth Hart, registrato a New York, nel famoso locale Iridium, il 7 marzo del 2017, accompagnata dalla propria band, ovvero Jon Nichols alle chitarre, Bob Marinelli al basso e Bill Ransom alla batteria. Come certo saprete leggendo questo Blog (e anche il Buscadero) il sottoscritto è un grande estimatore di Beth Hart (l’ho vista anche due volte dal vivo a Milano) che considero al momento la migliore vocalist rock in circolazione (senza dimenticare il blues e il soul), quella che più di tutte incarna la figura delle grandi cantanti del passato, bianche e nere, da Janis Joplin Etta James in giù, insieme ad poche altre voci che questa volta per brevità non citiamo, comunque un gradino più in basso del suo. I due ultimi album di studio hanno segnalato una raggiunta maturità pure a livello compositivo, soprattutto l’ultimo Fire On The Floor https://discoclub.myblog.it/2016/10/09/il-supplemento-della-musica-anteprima-beth-hart-fire-on-the-floor-il-disco-della-completa-maturita/un disco veramente completo e variegato.

Ma secondo me non è un caso se sia nei dischi di studio, dove usa quasi sempre musicisti di gran pregio, sia in quelli in coppia con Bonamassa, dove usa la band del musicista di Itaca, NY, il tiro e la qualità dei suoni e degli arrangiamenti è decisamente superiore a quelli dove appare la sua road band, peraltro ottima ed abbondante, ma non ai livelli eccelsi della vocalità di Beth Hart, per quanto i suoi concerti siano comunque un evento consigliato e da non mancare (e in Italia passa spesso). Un breve inciso: secondo voi anche Joe Bonamassa un altro bel live non sta per pubblicarlo a breve? Certo che sì, si chiama British Blues Explosion Live, in uscita il 18 maggio, molto bello incentrato sul repertorio di Beck, Clapton e Page, lo troverete recensito prima sul Buscadero e poi sul Blog a breve, fine della diversione. Questo Front And Center fa parte di una serie televisiva di concerti, trasmessa periodicamente dalla PBS, la televisione di stato americana, e forse anche qui sta un certo limite di questo CD+DVD, il fatto che non sembra un concerto completo: dura complessivamente 72 minuti: per onestà ci sono molti artisti, per esempio Van Morrison in primis, che non regalano molto di più ai fans in quanto a lunghezza dei concerti, ma di solito Beth Hart è meno sparagnina. Non giova neppure il fatto che la casa discografica abbia diviso il concerto in modo alquanto bizzarro: il CD comprende 15 brani, il DVD in teoria 10, ma poi tre pezzi della parte elettrica si trovano come bonus content e anche altri tre della parte acustica, tra cui My California che è esclusiva di questo segmento, Però poi alla fine tutto si trova nella confezione doppia, per cui non potevano lasciare la sequenza del concerto originale in entrambi i formati, mah?

Queste sono le piccole eccezioni da fare, poi il concerto è comunque bello: essendo registrato e ripreso in un ambiente intimo e raccolto come l’Iridium privilegia la Beth Hart cantautrice, ma non mancano i brani dove la cantante di Los Angeles può scatenare tutta la sua potenza, privilegiando in ogni caso il materiale di Fire On The Floor, che era l’album in promozione all’epoca, essendo uscito per il mercato americano alcuni mesi dopo la pubblicazione europea. Infatti da quel disco provengono ben cinque brani, più Tell Her You Belong To Me, che era la bonus appunto per il mercato degli States, con l’amico Jeff Beck, ospite alla chitarra in questa versione inedita. Ma andiamo con ordine, seguendo la sequenza dei brani del CD: Beth si presenta sul palco con un abbigliamento elegante, sempre sexy ed ammiccante, ma non con i suoi soliti completi da panterona, però la musica è subito sinuosa, Let’s Get Together sin dal titolo sembra un pezzo di Marvin Gaye, con un groove delizioso e la voce insinuante della Hart che titilla subito i padiglioni auricolari dell’ascoltatore con un brano che sprizza soul music di classe dai suoi pori, con i musicisti subito ben quadrati. Per Baddest Blues, dedicata alla madre, Beth Hart siede al piano, per una ballata intensa, triste, quasi straziante, ma pervasa da una forza espressiva che solo le grandi cantanti posseggono, con il pubblico che ascolta in religioso silenzio, grande musica. Jazz Man è il secondo brano estratto dall’ultimo album, un pezzo più ammiccante e swingato, che illustra il lato più divertente e divertito della sua personalità, sempre con i saliscendi vocali e gli elaborati scat degni dei grandi entertainer, mentre Nichols regala un assolo di chitarra misurato ed elegante: Delicious Surprise, un vecchio pezzo del 1999 viene dal passato più selvaggio e rock della nostra amica, un brano chitarristico e tirato, dove può estrinsecare tutta la sua potenza vocale, trascinando anche il pubblico, con Ransom che picchia sulla batteria, Nichols che “maltratta” la solista e tutta la band che tira di brutto, mentre Broken And Ugly da Leave The Light On del 2003 e che era anche sul Live At Paradiso, è un brano che mescola chitarre acustiche, ritmi R&R e inserti sixties, con qualche rimando al sound da revue della band di Ike & Tina Turner, con un po’ di soul in meno e qualche inserto “folk” in più, ma la stessa grinta (per credere sentitevi questa versione di Nutbush City Limits, sempre con Jeff Beck, tratta dalla trasmissione di Jools Holland per la BBChttps://www.youtube.com/watch?v=XPyeqLRNoc4 )

St. Teresa, dall’ottimo Better Than Home, è una sorta di preghiera laica, un brano che illustra il lato più spirituale della “nuova” Beth Hart, quella meno selvaggia e più matura, lontana dagli eccessi che erano anche causati dai disturbi bipolari che avevano esasperato il lato “sesso, droga e rock’n’roll” della sua musica, portandola quasi ai limiti dell’autodistruzione. La canzone, sulle ali di una chitarra acustica inizialmente appena accennata, e poi con la sezione ritmica che entra discretamente è una dellei più belle del suo repertorio, calda ed avvolgente, come la sua voce, che rimane sommessa anche per Isolation che fa parte del segmento acustico del concerto, e che come ricorda lei stessa è un altro dei brani che fanno parte del periodo in cui era, parole sue, “folle e fuori di testa” (e se vi capita di vedere il DVD del Live At Paradiso del 2004, che è comunque un ottimo concerto, capirete, anzi date un’occhiata qui https://www.youtube.com/watch?v=UgrBn072lMU ): un brano cupo ed intenso, che tratteggia  uno dei periodi più bui della sua vita.Tell Her You Belong To Me viceversa, è un’altra delle canzoni più dolci, intense e vivide del suo repertorio, degna erede delle deep soul ballads delle sue cantanti preferiti, la voce che esprime tutti i tormenti dell’amore con una forza interiore veramente toccante e questa versione è decisamente splendida, notevole anche l’assolo di Nichols, per quanto quello di Jeff Beck fosse di un’altra categoria https://www.youtube.com/watch?v=QTWxXG2NoKQ. Si ritorna poi al rock con una vigorosa Fat Man, uno dei pezzi più caldi e “riffati” di Fire On The Floor, con chitarra e batteria torride al punto giusto, con Love Gangster che ci riporta al blues-rock annerito dei suoi pezzi più incalzanti, la voce sempre torreggiante sulla strumentazione gagliarda della sua band, qui innervata dal pianoforte della stessa Beth, che poi dallo stesso strumento ci regala un’altra piccola perla sonora, sempre dal disco del 2003, un brano di grande impatto, proprio Leave The Light On,  solo voce e piano, ma che voce però, da pelle d’oca per la veemente intensità che trasmette, bellissima.

Ci avviamo all’ultima parte del concerto e Beth Hart ci regala un’altra splendida interpretazione di una ballata, only piano e voice, As Long As I Have A Song, nuovamente tratta da Better Than Home, il suo album più intimista. Ma poi, essendo quella che è, cioè una rocker intemerata, per il gran finale chiama sul palco il grande Sonny Landreth per un finale pirotecnico a doppia chitarra: prima Can’t Let Go, un blues-rock a tutta slide veramente turbinante, l’unica cover della serata, un pezzo scritto di Randy Weeks, tratto dal repertorio di Lucinda Williams, che era in origine su Seesaw, uno degli album con Joe Bonamassa, versione micidiale, e pure la successiva For My Friends non scherza, ancora un pezzo blues veramente potente, dove si apprezza l’interscambio tra Landreth e Nichols che veramente sono magnifici in questo brano, per non dire della voce che assume il suo timbro più selvaggio e scatenato. E per non farci mancare nulla a conclusione della serata un’altra canzone di squisita fattura come No Place Like Home, di nuovo con il lato più dolce e vulnerabile della personalità della cantante californiana regalato al pubblico presente all’evento in modo raffinato, con questa ennesima maestosa piano ballad che chiude anche il disco Fire On The Floor. E a proposito di brani acustici, tra le bonus di quel segmento presente negli extra del DVD si trova anche My California, un evocativo brano dedicato alla sua terra natale. Quindi concludendo, si poteva fare di meglio? Forse, ma forse, sì, almeno a livello di contenuti e durata, ma il concerto è comunque una ennesima conferma del talento di questa signora.

Bruno Conti

Anche Se Materiale Di Qualche Anno Fa, Un Bell’Esempio Di Moderno Country-Rock. Cody Jinks – Adobe Sessions

cody jinks adobe sessions

Cody Jinks – Adobe Sessions – Cody Jinks CD

Cody Jinks, countryman texano dal pelo duro, sulla stessa onda di gente come Jamey Johnson e Whitey Morgan, ha avuto un ottimo ed inaspettato successo con il suo ultimo lavoro I’m Not The Devil (2016), che è entrato addirittura nella Top 5 country: questa cosa ha dato entusiasmo al nostro, che ha deciso di ripubblicare quattro dei suoi primi sei album, da tempo introvabili (in un caso, Less Wise, aggiungendo anche dei brani in più e migliorando il suono). Di questa serie di lavori, uno dei più riusciti è sicuramente questo Adobe Sessions (uscito originariamente nel 2015), un album di puro country-rock texano al 100%, elettrico e pieno di feeling, con un suono forte, vigoroso ed una produzione decisamente professionale ad opera di Josh Thompson, che è anche il bassista del ristretto gruppo di musicisti che accompagna Cody (e che viene completato da Jon Wallace, chitarre, Milo Deering, steel, violino e dobro, ed Earl Darling, batteria).

Una band di pochi elementi ma di tanta sostanza, responsabile di un suono potente e senza fronzoli, ma anche capace di alzare il piede dall’acceleratore quando necessario. E poi naturalmente c’è Jinks con le sue canzoni, dodici esempi di puro Outlaw country che deve molto al suono di Waylon Jennings (uno che viene citato come influenza molto più dopo la morte che da vivo), a partire dall’iniziale What Else Is New, un rockin’ country elettrico dal ritmo intenso e dal suono maschio e vigoroso. Bella anche Mamma Song, gustoso honky-tonk alla maniera texana, dominato dal vocione di Cody e dalla steel, un pezzo che ricorda un po’ anche il primo Steve Earle; Cast No Stones è una western ballad profonda, zero mollezze o cedimenti nel suono, mentre We’re Gonna Dance è una scintillante country tune elettrico, dotata ancora di un motivo diretto e che si ascolta tutto d’un fiato.

Birds, con una languida steel sullo sfondo, è invece puro country, rilassato e con un’atmosfera quasi malinconica, non lontana dallo stile di Chris Isaak, Loud And Heavy torna al suono grintoso e ha un approccio melodico intrigante, direi cinematografico (film western, ovviamente), mentre David è country al 100%, fluida, diretta, godibile e suonata benissimo. Me Or You è un lentaccio alla George Jones, la breve Folks un pezzo intimo ed attendista, dal ritmo spedito ma soffuso allo stesso tempo, Ready For The Times To Get Better un altro country & western di ottima fattura, a partire dalla linea melodica fino al contorno strumentale, con le chitarre in primo piano. Finale con la deliziosa Dirt, country-rock terso e vivace con chiare tracce di Texas (splendida la steel), e con Rock And Roll, che nonostante il titolo è un’intensa ballata acustica full band. Un bel dischetto: ora che Cody Jinks ha risistemato (quasi) tutto il suo back catalogue, siamo pronti per un lavoro tutto nuovo. (*NDB nell’attesa i Pink Floyd country, bellissima cover peraltro  https://www.youtube.com/watch?v=9joAHhzm6EY )

Marco Verdi

Un Nuovo Genere: Il Country Nordico! Darling West – When I Was Asleeep

darling west while i was asleep

Darling West – When I Was Asleep – Jansen CD

Se non fossi stato in possesso delle informazioni sulla loro origine ma avessi avuto solo il nome del gruppo, avrei potuto giurare che i Darling West fossero americani, magari di qualche stato compreso tra l’Oklahoma e l’Arizona. Invece i tre componenti del gruppo, due uomini e una donna, vengono da Oslo, in Norvegia, ma la loro musica di nordico non ha veramente nulla, in quanto in questo nuovo album When I Was Asleep (il terzo in totale) troviamo un cocktail di country, folk e rock che solitamente apprezziamo nei dischi made in USA. Il trio (Mari Sandvaer Kreken, voce solista, chitarre e mandolino, il marito Tor Egil Kreken, voce solista, chitarra elettrica e banjo, e Kjetil Steensnaes, chitarre e steel) ha una invidiabile abilità strumentale, la capacità di scrivere canzoni immediate ma di sostanza, oltre che un punto di forza nelle armonie vocali. Grazie all’aiuto di validi sessionmen locali (non li nomino, tanto non li conoscete e poi i nomi sono impronunciabili) i DW con When I Was Asleep portano dunque a termine un godibilissimo lavoro di vera e propria American music, con esiti non troppo inferiori a quelli di molti gruppi che in America ci sono nati (ed in Norvegia i nostri sono piuttosto popolari, avendo già vinto diversi premi con i due album precedenti).

Il CD inizia in maniera brillante con la bella e limpida After My Time, un country-folk dal motivo squisito, cantata a più voci, dal ritmo cadenzato ed accompagnamento classico (chitarre, banjo ed armonica): ottimo avvio. Rolling On è più intima, solo voci e chitarre acustiche (almeno all’inizio, poi entrano anche altri strumenti, seppur in maniera discreta), ed è contraddistinta da una melodia profondamente tradizionale, che ricorda le ballate irlandesi di più di un secolo fa, mentre Loneliness torna ai nostri tempi, con una country ballad spigliata e diretta, dal mood quasi pop. Anche Better Than Gold è intrigante: i tre lasciano da parte per un attimo sia country che folk per proporci un gustoso pop-rock elettroacustico che ha sempre l’immediatezza come caratteristica principale (ed un ottimo assolo chitarristico), Always Around è delicata e quasi bucolica, sempre dominata dalla voce limpida e solare di Mari, mentre l’elettrica While I Was Asleep ha addirittura qualche rimando al Laurel Canyon Sound, un brano che sfiora la psichedelia anche se all’acqua di rose. Traveller è ancora acustica e leggera, quasi eterea, Ballad Of An Outlaw è un’intensa folk song dal profumo western, una bella canzone senza se e senza ma, arrangiata con gusto e misura ed in cui anche il pianoforte ha la sua importanza; il CD termina con la corale Don’t I Know You, dal ritmo spedito e con una veste più pop, e con How I Wish, di nuovo acustica e folkie, altro pezzo che di nordeuropeo non ha proprio nulla.

Molto interessanti questi Darling West: meriterebbero di farsi conoscere anche in America, e date le loro sonorità non dovrebbe essere così complicato.

Marco Verdi