Un Esaustivo Viaggio Attraverso La Carriera Solista Di Un Musicista Eccelso Ma Sottovalutato. Lindsey Buckingham – Solo Anthology

lindsey buckingham solo anthology

Lindsey Buckingham – Solo Anthology The Best Of – Rhino/Warner CD – 3CD – 6LP

La grandezza di Lindsey Buckingham, cantautore e chitarrista californiano, si può misurare anche dal fatto che, le due volte in cui è stato licenziato dal gruppo che gli ha dato la fama, i Fleetwood Mac (nel 1987 e pochi mesi fa), la band per sostituirlo ha dovuto chiamare in entrambi i casi ben due nuovi elementi, di cui uno più bravo come cantante e l’altro come chitarrista (Rick Vito e Billy Burnette prima, l’ex Crowded House Neil Finn e l’ex Heartbreakers Mike Campbell oggi). I Fleetwood Mac, almeno nella loro formazione più famosa, sono sempre stati il classico caso in cui la somma delle parti era superiore ai singoli elementi, e se la carriera solista di Stevie Nicks ha sempre avuto una buona esposizione mediatica, quella di Buckingham è sempre stata vista come di nicchia. Eppure nei Mac la mente, la forza trainante, l’autore migliore (nonché chitarrista strepitoso, anche sotto questo punto di vista spesso sottovalutato e regolarmente assente nelle classifiche di categoria) era proprio Lindsey, basti pensare che un disco come Tusk senza di lui non sarebbe potuto nascere: ora Buckingham si prende una parziale rivincita nei confronti degli ex compagni, ed immette sul mercato questa interessante Solo Anthology, che già dal titolo fa capire di cosa si tratta, una carrellata molto ben fatta del meglio dei suoi album lontano dal suo gruppo storico (non moltissimi, appena sei in quattro decadi, più la recente collaborazione con Christine McVie https://discoclub.myblog.it/2017/07/08/mancava-un-pezzo-per-fare-i-fleetwood-mac-di-nuovo-e-si-sente-lindsey-buckingham-christine-mcvie/ ), con dentro anche diverse chicche.

Lindsey è sempre stato un musicista raffinato, un architetto di suoni tra pop e rock come ce ne sono pochi in giro, ed anche nell’ambito della sua produzione da solista (ed intendo proprio da solo, raramente si fa aiutare da sessionmen esterni, e tra i pochi coinvolti ci sono gli amici Mick Fleetwood e John McVie, nonché Mitchell Froom) le belle canzoni non sono mai mancate. Solo Anthology esce in versione tripla, con i primi due CD che riassumono il meglio dei lavori in studio (40 canzoni in tutto), mentre il terzo, 13 brani, offre una panoramica dai suoi tre album dal vivo. La scelta è stata fatta da Lindsey stesso, e quindi è molto personale: lo splendido Out Of The Cradle, miglior pop album del 1992 per chi scrive, è stato giustamente incluso quasi interamente (ben 9 pezzi su 13), mentre per gli altri la scelta è stata più equilibrata, con l’unica eccezione del suo debutto Law And Order del 1981, dal quale è stata presa una sola canzone (anche il disco con la McVie è presente, ma anche qui con la miseria di un brano, mentre ancora nulla dal “mitico” Buckingham-Nicks, ad oggi mai stampato in CD); ci sono anche tre rari pezzi presi da colonne sonore, nonché due inediti assoluti, anche se non sono canzoni incise di recente, ma nel 2012. Anche il terzo dischetto, quello live, è interessante, in quanto include per la prima volta in versione fisica due pezzi presi da One Man Show, album dal vivo del 2012 pubblicato solo come download. Poco interessante la versione singola, in quanto omette sia i brani live che, soprattutto, gli inediti.

Il primo album Law And Order come dicevo è rappresentato solo da un pezzo, la gradevole e decisamente fruibile Trouble, che deve molto al suono dei Mac, mentre da Go Insane del 1985 Lindsay ha scelto cinque brani, tra cui l’orecchiabile title track e la gioiosa I Want You, un po’ inficiate da sonorità anni ottanta, e la suggestiva D.W. Suite. Di Out Of The Cradle ho già detto, un album di notevole livello, sicuramente la cosa più bella del nostro da Tusk in poi: dovrei citarle tutte, ma mi limito alla deliziosa Don’t Look Down, introdotta da uno strepitoso arpeggio chitarristico, la raffinata e soffusa Surrender The Rain, la solare e splendida Countdown, dalla contagiosa melodia influenzata dai Beach Boys, la vibrante e nervosa Doing What I Can, molto Fleetwood Mac (l’avrei vista bene come singolo del gruppo), e due brani che sfiorano la perfezione pop come Soul Drifter o You Do Or You Don’t. Un salto fino al 2006 per Under The Skin, un disco contraddistinto da sonorità acustiche ma con un livello compositivo inferiore al solito, dal quale però Lindsay sceglie ben cinque pezzi, più tre nella parte dal vivo: troppi per il sottoscritto, però salverei senz’altro la guizzante Show You How, piena delle tipiche sonorità stratificate del nostro, la gradevole ballata Cast Away Dreams (sul CD live), e soprattutto la toccante e melodicamente impeccabile Down On Rodeo, la migliore per distacco tra quelle tratte da quel disco. Sei brani sono presi dal più che buono Gift Of Screws, come la squisita Did You Miss Me, fresca pop song da canticchiare al primo ascolto, la bellissima Treason, dotata di una melodia splendida (una delle più belle del triplo) e la superlativa Love Runs Deeper, altro straordinario pezzo di puro pop, dal ritornello fantastico e grande assolo chitarristico finale.

Da Seeds We Sow (2011) ce ne sono ben sette, tra cui l’avvolgente Rock Away Blind, ricca di fascino e con un lavoro chitarristico incredibile, la mossa Illumination, dal refrain immediato, e l’acustica Stars Are Crazy, una cascata di note pure e cristalline. Detto dell’inclusione della godibile Sleeping Around The Corner da Buckingham-McVie (ce n’erano anche di migliori in quel disco), troviamo anche tre pezzi presi da colonne sonore, due dei quali da National Lampoon’s Vacation (il divertente rock’n’roll Holiday Road, presente anche nel CD live, e l’incantevole Dancin’ Across The USA, tra doo-wop e pop anni sessanta) ed una da Back To The Future, Time Bomb Town, una buona canzone sospesa tra rock, pop e funky. Last but not least, i due brani inediti: Hunger, brano pop limpido e diretto tipico del nostro, niente di nuovo ma fatto benissimo, e l’acustica Ride This Road, delicata e sussurrata folk ballad, eseguita al solito magistralmente. Il CD dal vivo è concepito come se fosse un concerto unico, con una lunga prima parte acustica (con o senza band) ed un travolgente finale all’insegna del rock. Lindsey conferma tutta la sua abilità come chitarrista anche nei brani con la spina staccata, con versioni molto diverse di brani tratti dagli album solisti (Trouble, una Go Insane quasi irriconoscibile, una limpida versione del traditional All My Sorrows, che era su Out Of The Cradle), pezzi dei Mac più o meno famosi (Bleed To Love Her, Never Going Back Again, una frenetica Big Love) e perfino una selezione da Buckingham-Nicks, il discreto strumentale Stephanie. Il finale elettrico è semplicemente grandioso: dopo una sorta di riscaldamento con la già citata Holiday Road, abbiamo una Tusk trascinante come non mai, ed un uno-due da k.o. con una sontuosa I’m So Afraid di otto minuti e la famosissima e coinvolgente Go Your Own Way, ambedue contraddistinte da prestazioni chitarristiche al limite dell’umano.

Una splendida antologia quindi, con dentro tanta grande musica e prestazioni strumentali da prendere come esempio: sarebbe ora che Lindsey Buckingham ottenesse i riconoscimenti che merita, anche al di fuori del gruppo che di recente lo ha inopinatamente messo alla porta senza troppi complimenti.

Marco Verdi

Fatica A Trovare Una Propria Strada. John Butler Trio – Home

john butler trio home

John Butler Trio – Home – Caroline/Universal

John Butler il chitarrista e cantante australiano festeggia quest’anno i 20 anni di attività discografica: tanto è passato dall’uscita del primo disco omonimo come solista targato 1998. Non ho seguito con costanza  i suoi album, ma alcuni non mi erano dispiaciuti, soprattutto quelli dal vivo, ma anche alcuni dei suoi album di studio, per esempio Three (che però era il secondo), con elementi roots-rock e anche country e bluegrass, e anche altri dischi della sua produzione, fino a Flesh And Blood del 2014, spesso anche con inserimento di elementi jam, folk e blues, grazie alla sua abilità con Weissenborn, lap steel, slide e solista tradizionale, un po’ nella vena sonora di gente come Ben Harper e Jack Johnson. Di tanto in tanto nei CD sono apparse anche “contenute” virate verso un suono più commerciale, per l’uso di produttori non proprio impeccabili e sulla nostra lunghezza d’onda, impegnati con Beastie Boys, Tone Lock o Mark Ronson. Questo nuovo album, o quantomeno uno dei singoli che lo ha preceduto, la tille-track Home segna una decisa sferzata verso un suono “elettronico” https://www.youtube.com/watch?v=9zhrpfEHvSE , e anche la traccia di apertura Tahitian Blue ha molti elementi di quel suono massificato ed omologato che impera oggi e su cui molti gruppi, anche validi ,come Mumford And Sons, Kings Of Leon, in parte i Decemberists, Arcade Fire e svariate altre band, si sono adagiati per una presunta voglia di cambiamento, presentata come la ricerca di sonorità nuove e più interessanti.

Sarà, ma i risultati mi sembra non coincidano più molto con i gusti dei vecchi fans ed appassionati in generale di buona musica: anche Butler mi pare si sia adeguato a questo tran tran da musica per spot pubblicitari, come dimostra l’altro singolo Wade In the Water, un po’ più rock e con la chitarra che cerca di farsi largo, a fatica, tra percussioni e tastiere stratificate, grooves reiterati e radiofonici. Andando a cercare si trova qualche brano migliore, dal country-blues con uso di banjo di Just Call, che dopo un inizio promettente si perde in sonorità becere e ritornelli scontati; insomma anche con tutta la buona volontà del San Tommaso trovo difficile trovare brani da salvare, c’è qualche traccia che magari a tutto volume sulle highways australiane potrebbe essere piacevole come Running Away, quando nella parte strumentale Butler toglie il freno a mano e lascia la mano libera di scorrere sulle corde della sua solista. O nella romantica hard ballad Miss YourLove che poi si perde subito in uno “zuccherificio” di buoni  sentimenti.

Salverei alla fine giusto la lunga Faith, tra folk, rock e stile da cantautore classico, che con la sua chitarra arpeggiata e qualche falsetto giudizioso si riallaccia allo stile dei vecchi dischi e pure Coffee Methadone And Cigarettes indica che volendo John Butler è in grado di realizzare ancora buona musica, come conferma questa dolente ballata di eccellente fattura, percorsa da un raffinato spirito elettroacustico dove le chitarre sono usate con classe ed eccellenti risultati complessivi, senza dimenticare anche il buon country-roots della dondolante Tell Me Why, un trittico di canzoni che magari non è sufficiente a salvare l’album ma indica che il nostro amico non ha perso del tutto il suo tocco. Brown Eyed Bird ritorna al connubio tra elettronica, chitarre acustiche e melodie non memorabili e anche You Don’t Have To Be Angry Anymore fatica a raggiungere la sufficienza, con We Want More, che nonostante l’acustica in vena di flamenco, è ancora sull’orlo della tamarrata. Poche luci e molte ombre, visto che il talento non manca  speriamo per il prossimo disco, ma ho dei seri dubbi.

Bruno Conti

Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 2. Un Box Strepitoso Che Dona Gioia E Tristezza Nello Stesso Tempo! Tom Petty – An American Treasure

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Tom Petty – An American Treasure – Reprise/Warner 2CD – 6LP – Deluxe 4CD

E’ già passato un anno dalla tragica ed inattesa scomparsa di Tom Petty, uno dei maggiori cantautori rock del pianeta, e la ferita causata dalla sua perdita fa ancora immensamente male, ed anche la rabbia per come è accaduto il fatto (un’accidentale overdose di antidolorifici) non è sbollita per niente. Petty aveva appena terminato una trionfale tournée con gli inseparabili Heartbreakers per i 40 anni di attività (e chissà quali progetti aveva in testa per il futuro) e la notizia della sua morte è stata una vera mazzata. Quasi ad un anno esatto dal decesso la Reprise ha deciso di omaggiare la memoria di Tom con un cofanetto a dir poco splendido, An American Treasure, un box di 4CD (esiste anche una versione doppia che non prendo neanche in considerazione, ed una Super Deluxe lussuosa e con un libro potenziato, ma che non aggiunge nulla a livello musicale rispetto a quella quadrupla “normale” e costa oltre cento euro in più) che ci fa entrare idealmente negli archivi del biondo rocker della Florida, per un viaggio magnifico di quattro decadi nella grande musica.

tom petty an american treasure super deluxe

Tutte le volte che si è trattato di pensare ad un cofanetto che riguardasse Petty è stato fatto un lavoro stupendo, prima con l’antologico Playback, tre CD di “best of” più uno di rarità e b-sides e due di inediti, e poi con il magnifico The Live Anthology, cinque dischetti di materiale dal vivo mai sentito prima: anche con An American Treasure è stato seguito lo stesso approccio, quattro CD (uno per decade) pieni di chicche tra inediti, rarità, versioni alternate e brani dal vivo mai pubblicati prima, il tutto curato dal fido Ryan Ulyate e dagli ex Spezzacuori Mike Campbell e Benmont Tench, che commentano anche le varie canzoni (con l’aiuto del noto giornalista Bud Scoppa) arricchendole con curiosi e divertenti aneddoti. Ma quello che ci interessa di più è la musica, ed in più di quattro ore (60 brani) c’è di che godere, ma nello stesso tempo non ci si può non rattristare pensando che un musicista di questo calibro non è più tra noi. Il box in realtà non è del tutto inedito, in quanto comprende anche diversi brani tratti dai vari album, anche se si tratta perlopiù di quelli che vengono definiti “deep cuts”, cioè canzoni meno conosciute ed in alcuni casi oscure: una scelta un po’ strana, che però non inficia certo il piacere dell’ascolto, anche perché si sta parlando comunque di grande musica. Qualche titolo: The Wild One, Forever, No Second Thoughts, You Can Still Change Your Mind, You And I Will Meet Again, To Find A Friend, Crawling Back To You, Accused Of Love, Money Becomes King, Something Good Coming, Fault Lines.

Brani che difficilmente si possono trovare in un greatest hits di Tom: forse i più noti sono Alright For Now, usata spesso per chiudere i concerti, e due tra i pezzi migliori rispettivamente di The Last DJ e Highway Companion, cioè Have Love, Will Travel e Down South. Ma veniamo all’esame dei brani inediti, dividendo la recensione in tre parti: le canzoni mai sentite, le alternate takes (la maggior parte) ed i pezzi dal vivo. Gli inediti assoluti non sono poi moltissimi, appena dieci, ma il livello è decisamente alto, a partire da Surrender, un brano inciso da Tom con il suo gruppo per il primo album ma rimasto fuori in quanto i nostri non erano sicuri del risultato (ne esiste una versione rifatta nel 2000 per l’antologia Through The Years, ed è presente anche dal vivo nella Live Anthology): secondo me andava benissimo, un brano rock potente ed orecchiabile al tempo stesso, puro Heartbreakers sound. Lost In Your Eyes, un pezzo dei Mudcrutch originali, è una toccante ballata pianistica, che mostra l’abilità come songwriter di Tom già nel 1975; Keep A Little Soul non solo non capisco come possa essere stata lasciata fuori da Long After Dark, ma addirittura l’avrei vista bene come singolo.

Ancora più incomprensibile la scelta di non pubblicare la splendida Keeping Me Alive, una rock song dalla melodia irresistibile e contagiosa, che avrebbe potuto facilmente diventare un classico (ed è la preferita dalla figlia di Petty, Adria). Walkin’ From The Fire è quasi uno swamp rock, con Campbell brillante alla slide, e non avrebbe sfigurato su Southern Accents (anzi); classico Petty sound anche nella robusta ed autobiografica Gainesville, una outtake del 1998, un brano rock fluido e diretto che richiama il suono dei nostri negli anni settanta. Lonesome Dave è uno scatenato rock’n’roll registrato nelle sessions per le bonus tracks del Greatest Hits del 1993, gran ritmo e performance piena di energia; davvero bella anche I Don’t Belong, una vivace e solare canzone pop giusto a metà tra Byrds e Beatles, con un ritornello accattivante (ma perché lasciarla fuori da Echo?), mentre Bus To Tampa Bay è una squisita folk-rock song illuminata da uno di quei motivi orecchiabili che Petty sapeva tirar fuori con estrema facilità, ed è meglio di molto del materiale incluso nel disco dal quale è stata esclusa, cioè Hypnotic Eye. Chiude il gruppo delle canzoni inedite Two Men Talking, versione in studio di un brano proposto più volte dal vivo (anche a Lucca, concerto al quale ero presente), un rock-blues intrigante con fantastica jam chitarristica finale ed un organo molto anni sessanta (nelle note viene definito “alla Riders On The Storm”, noto brano dei Doors).

Non è un inedito ma è decisamente rara Don’t Treat Me Like A Stranger, lato B del singolo I Won’t Back Down, una bella canzone tra pop e rock, molto vigorosa e con il suono tipico di Jeff Lynne, mentre il gustoso demo di The Apartment Song in duetto con Stevie Nicks era già uscito su Playback. Per quanto riguarda le versioni alternate, mi limito (si fa per dire) a citare le mie preferite, cominciando con la take completa, cioè non sfumata, di Here Comes My Girl, con un bellissimo assolo finale di Mike mai sentito prima, per continuare con una divertita e spontanea What Are You Doing In My Life, grande rock’n’roll, ed una Louisiana Rain più diretta e meno prodotta, ma sempre splendida. Straight Into Darkness resta una delle più belle di Tom, anche se questa versione non è molto diversa da quella pubblicata, ma Rebels è ancora meglio di quella su Southern Accents (e ce ne vuole), più rock e con la batteria più aggressiva: sempre una grandissima canzone. Molto bella anche Deliver Me, non molto nota, e questa è leggermente meno veloce di quella ufficiale (ottimi piano e chitarra, come sempre d’altronde), ed anche il trascinante rock’n’roll The Damage You’ve Done non so se sia meglio qui o nell’album Let Me Up (I’ve Had Enough), forse in questa Petty è più convinto. La struggente The Best Of Everything è una delle ballate più belle del nostro, e questa stupenda take è allo stesso livello di quella edita; sorprendente l’inclusione della prima versione del folk-rock King Of The Hill, uno scintillante duetto con Roger McGuinn che poi finirà sull’album dell’ex Byrds Back From Rio, ma già in questa “early take” la canzone era più che pronta.

Poi non posso omettere due ottime versioni diverse di due brani di Wildflowers (in attesa della più volte rimandata edizione espansa dell’album), la potente e lucida Wake Up Time, rock ballad dallo spirito quasi sudista (uno degli ultimi pezzi con Stan Lynch alla batteria), e la deliziosa Don’t Fade On Me, solo Tom e Mike, una voce e due chitarre acustiche, puro folk. Tra gli ultimi highlights abbiamo senza dubbio una fantastica You And Me di nuovo acustica, voce, chitarra e piano, resa ancora più commovente dalla testimonianza della moglie di Tom, Dana, che dice che questa è stata l’ultima canzone che il marito ha voluto ascoltare prima di morire, ed una superlativa Good Enough, straordinaria take alternata di uno dei pezzi migliori di Mojo, una rock song da manuale ed una delle tante gemme di questo box. E veniamo ai brani dal vivo, che iniziano con la splendida Listen To Her Heart, byrdsiana fino al midollo e con un refrain di prima qualità, la trascinante Anything That’s Rock’n’Roll, tutta da godere, e con la sinuosa Breakdown, che pur essendo solo vecchia di un anno al tempo di questa versione aveva già il sapore del classico. Even The Losers è uno dei grandi brani rock di Tom, ma qui è in una rilettura del 1989 acustica (ma full band), decisamente sorprendente e dall’aspetto totalmente nuovo; la poco nota Kings Road si rivela essere una rock song solida e vibrante, mentre A Woman In Love (It’s Not Me) è un classico, e questa potente performance del 1981 ad Inglewood è tra le migliori mai sentite, con un grande Campbell.

I Won’t Back Down, presa da una delle mitiche venti serate al Fillmore nel 1997, è rilasciata in una rallentata e toccante versione elettroacustica, Into The Great Wide Open, una delle migliori canzoni uscite dalla collaborazione tra Petty e Lynne, è in una strepitosa rilettura ad Oakland nel 1991 (concerto uscito al tempo su VHS), con le armonie vocali di Howie Epstein ben in evidenza, mentre la scintillante Two Gunslingers, un brano tra i più sottovalutati del nostro, è anche qua unplugged, registrata nel 2013 (e già uscita, ma solo su vinile, su Kiss My Amps 2). Saving Grace è un boogie trascinante che apriva alla grande Highway Companion, e qui è in una roboante performance a Malibu nel 2006; Southern Accents e Insider (quest’ultima con la Nicks) sono entrambe splendide, forse le più belle slow ballads mai scritte da Tom, e danno sempre i brividi anche se non sono proprio inedite (provengono tutte e due dal concerto di Gainesville del 2006 già uscito sul DVD allegato alla prima edizione del film Runnin’ Down A Dream, e Southern Accents era anche sulla Live Anthology). Una spettacolare Hungry No More con i Mudcrutch nel 2016, sette minuti di performance infuocata, chiude in maniera superba sia il gruppo di brani dal vivo sia il box.

Un cofanetto, ripeto, imperdibile (anche se non inedito al 100%), che ci fa ancora di più rimpiangere la prematura dipartita di uno dei più grandi di sempre: ho da poco finito di ascoltarlo e già ho voglia di rimetterlo da capo.

Marco Verdi

P.S: siccome le case discografiche una ne fanno e cento ne pensano, la Universal ha deciso di rispondere alla Warner programmando per il 16 Novembre The Best Of Everything, una nuova retrospettiva di Petty (devo dire molto ben compilata), che comprende anche alcuni pezzi con i Mudcrutch (ma mancano i Traveling Wilburys, quindi non c’è proprio “everything”…forse perché il supergruppo è della Warner?) e, cosa che farà un po’ incavolare i fans che si dovranno ricomprare per l’ennesima volta le stesse canzoni, altri due brani “unreleased”: una versione alternata del pezzo che dà il titolo all’antologia, diversa da quella presente su An American Treasure, e l’inedito assoluto  For Real. Di seguito comunque la tracklist completa del doppio CD, poi fate voi.

tom petty the best of everything

Tracklist
[CD1]
1. Mary Jane’s Last Dance – Tom Petty and the Heartbreakers
2. You Wreck Me – Tom Petty
3. I Won’t Back Down – Tom Petty
4. Saving Grace – Tom Petty
5. You Don’t Know How It Feels – Tom Petty
6. Don’t Do Me Like That – Tom Petty and the Heartbreakers
7. Listen To Her Heart – Tom Petty and the Heartbreakers
8. Breakdown – Tom Petty and the Heartbreakers
9. Walls (Circus) – Tom Petty and the Heartbreakers
10. The Waiting – Tom Petty and the Heartbreakers
11. Don’t Come Around Here No More – Tom Petty and the Heartbreakers
12. Southern Accents – Tom Petty and the Heartbreakers
13. Angel Dream (No.2) – Tom Petty and the Heartbreakers
14. Dreamville – Tom Petty and the Heartbreakers
15. I Should Have Known It – Tom Petty and the Heartbreakers
16. Refugee – Tom Petty and the Heartbreakers
17. American Girl – Tom Petty and the Heartbreakers
18. The Best Of Everything (Alternate Version) – Tom Petty and the Heartbreakers

[CD2]
1. Wildflowers – Tom Petty
2. Learning To Fly – Tom Petty and the Heartbreakers
3. Here Comes My Girl – Tom Petty and the Heartbreakers
4. The Last DJ – Tom Petty and the Heartbreakers
5. I Need To Know – Tom Petty and the Heartbreakers
6. Scare Easy – Mudcrutch
7. You Got Lucky – Tom Petty and the Heartbreakers
8. Runnin’ Down A Dream – Tom Petty
9. American Dream Plan B – Tom Petty and the Heartbreakers
10. Stop Draggin’ My Heart Around (featuring Stevie Nicks) – Tom Petty and the Heartbreakers
11. Trailer – Mudcrutch
12. Into The Great Wide Open – Tom Petty and the Heartbreakers
13. Room At The Top – Tom Petty and the Heartbreakers
14. Square One – Tom Petty
15. Jammin’ Me – Tom Petty and the Heartbreakers
16. Even The Losers – Tom Petty and the Heartbreakers
17. Hungry No More – Mudcrutch
18. I Forgive It All – Mudcrutch
19. For Real – Tom Petty and the Heartbreakers

 

Nove Cartoline Dal Profondo Sud. Kevin Gordon – Tilt And Shine

kevin gordon tilt and shine

Kevin Gordon è un vero uomo del Sud. Originario della Louisiana, da quando ha iniziato ad incidere ha sempre messo le sue influenze sudiste nei suoi dischi, creandosi negli anni uno stile abbastanza personale, per nulla commerciale ma vero, autentico. Agli inizi sembrava semplicemente un nuovo esponente del movimento roots-rock/Americana sviluppatosi negli anni novanta, come certificava il bellissimo Cadillac Jack # 1’s Son, il suo secondo album (ma il primo con una distribuzione più capillare, prodotto ricordiamo dall’E Streeter Garry Tallent) ed ancora oggi uno dei suoi migliori; già dal lavoro seguente, l’ottimo Down To The Well, si notava uno spostamento verso sonorità più paludose, un misto di rock, blues e swamp decisamente diretto e sanguigno, un suono che anche dopo tutti questi anni ritroviamo con piacere in questo nuovissimo Tilt And Shine, disco che giunge a tre anni da Long Time Gone https://discoclub.myblog.it/2015/12/11/vi-piacciono-bravi-kevin-gordon-long-gone-time/  e giusto a venti dal già citato Cadillac Jack, che ancora oggi viene considerato quasi all’unanimità il suo esordio nonché il suo lavoro più brillante.

E Gordon in Tilt And Shine non cambia certo percorso, anzi è come se si fosse guardato indietro ed avesse volutamente messo a punto un disco riepilogativo dei suoi vent’anni di carriera: infatti, oltre a brani parecchio elettrici ed influenzati pesantemente da sonorità swamp e blues tipiche della Louisiana (con uno sguardo anche al confinante Mississippi), troviamo anche più di un pezzo di puro rock’n’roll, sempre comunque di stampo southern. Il tutto crea un insieme stimolante e creativo, che rende il disco piacevole e vario, complice anche la breve durata (34 minuti). Prodotto da Joe McMahan, abituale collaboratore di Kevin, vede in session un gruppo selezionato di musicisti, tra cui ben quattro diversi batteristi (la batteria ha un ruolo primario in questi brani), il piano ed organo di Rob Crowell ed il basso di Ron Eoff, mentre le chitarre, e ce ne sono molte, sono tutte suonate da Kevin e da McMahan. Il disco parte con Fire At The End Of The World, un blues elettrico, annerito e limaccioso, che rimanda alle atmosfere di Tony Joe White, con una sezione ritmica pressante ed ottimi interventi chitarristici.

Saint On A Chain è un brano più disteso, in chiara modalità laidback, tra J.J. Cale ed Eric Clapton, anche se si nota una certa tensione elettrica; One Road Out è ancora bluesata e paludosa, tutta giocata sulla voce, una slide grezza ed una percussione ossessiva, un pezzo che concede poco al facile ascolto ma non manca di intrigare, mentre Gatling Gun fa filtrare più luce, ha una chitarra sempre slide ma più languida, ed anche la melodia è più aperta, più musicale. Right On Time è rock’n’roll, diretto, trascinante e con una splendida chitarra, un brano che ci fa ritrovare il Kevin degli esordi, ma DeValls Bluff è di nuovo scura, dal passo lento ed un sentore blues nemmeno troppo nascosto, con chitarre e batteria che si prendono la scena, quasi come se fossero i Black Keys. Bella ed intrigante Drunkest Man In Town, rock song ritmata come solo un uomo del Sud sa fare, un bel pianoforte ed il canto quasi scazzato del nostro che ci sta benissimo; Rest Your Head è un momento di pace acustica, voce e chitarra, malinconica e cantata con voce sofferta, mentre Get It Together, che chiude l’album (ed almeno un paio di pezzi in più non ci sarebbero stati male), è ancora puro rock’n’roll, forse il brano più solare del CD, con un’aria ancora laidback che lo avvicina non poco al Mark Knopfler solista.

Un buon disco, forse il migliore di Kevin Gordon da molti anni a questa parte .

Marco Verdi

Western Swing, Country E Divertimento Assicurato. Asleep At The Wheel – New Routes

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Asleep At The Wheel – New Routes – Bismeaux Records

Quando uno pensa agli Asleep At The Wheel si immagina che la band texana abbia registrato cento album (in effetti “solo” una trentina!) e che siano in attività da sempre: il tutto benché la creatura di Ray Benson esista dall’inizio anni ’70, e non sono neppure texani, in quanto Benson nasce a Philadelphia nel 1951, ed a Austin ci arriva solo nel 1973, dopo una serie di concerti all’Armadillo Wolrd Headquarters, su istigazione dei loro mentori, i Commander Cody & His Lost Planet Airmen, che li hanno iniziati alle delizie del Wester Swing, e anche del boogie e del country, non dimenticando Van Morrison su Rolling Stone che li indicò come una delle sue band preferite. Poi da allora di strada ne hanno fatta tantissima, in tutti i sensi, visto che sono una delle band che più girano in tour per gli States, e da parecchi anni sono considerati anche gli eredi di Bob Wills & His Texas Playboys, magari in un ambito leggermente più neo-tradizionalista, ma sempre molto rispettoso delle radici. La formazione, che ha vinto in carriera ben 9 Grammy, è cambiata moltissimo nel corso degli anni, l’unico membro fisso è rimasto il solo Benson, mentre un centinaio di musicisti si sono avvicendati nelle cinque decadi di attività, con un organico sempre tra gli otto e gli undici elementi (al momento sono in 8).

L’ultima arrivata è Katie Shore (insieme ad altri 4 nuovi elementi), violinista, seconda voce solista e autrice anche di alcuni brani in questo New Routes, il primo album da una decina di anni a questa parte in cui il materiale originale non manca, e neppure le cover scelte con cura. Gli ultimi dischi degli AATW erano stati il natalizio Lone Star Christmas e in precedenza l’ottimo tributo corale Still The King: Celebrating The Music of Bob Wills & His Texas Playboys, e prima ancora il disco con l’amico Willie Nelson, nell’album Wille And The Wheel. Questa volta l’amico Willie non c’è, ma ha mandato la sorella Bobbie al piano, per un emozionante omaggio intitolato Willie Got There First, scritto da Seth Avett degli Avett Brothers che poi si sono presentati in forze anche per registrarlo, una splendida ballata cantata a più voci, che chiude in modo splendido questo album, che ha comunque molte altre frecce al proprio arco, ma questo brano è veramente un piccolo capolavoro e vale quasi l’album da solo. Dall’apertura di Jack I’m Mellow, una cover di un scintillante boogie western swing degli anni ’30, cantata in modo malizioso dalla Shore, che si alterna con il suo violino a pedal steel, chitarre e clarinetto per un delizioso tourbillon di musica senza tempo, seguita da Pencil Full Of Lead, uno scatenato boogie and roll degno delle migliori cose dei Commander Cody, con Benson che ha ancora una ottima voce e poi il sax di Jay Reynolds guida la band che swinga di brutto, la canzone è dello scozzese Paolo Nutini, ma sembra un classico degli anni ’50.

Anche Calling A Day Tonight, scritta da Benson e dalla Shore, che poi la canta deliziosamente. è una canzone retrò di grande fascino, e pure Seven Nights To Rocks, scritta da Moon Mullican, è una vera schioppettata di energia, un altro country boogie dall’energia contagiosa con i vari solisti in bella evidenza. Dublin Blues è una cover di un altro texano doc, Guy Clark, altra ballata dolceamara cantata in modo intenso da Benson, ben supportato dalla Shore, molto brava anche in questa canzone; la Shore poi contribuisce anche il quasi cabaret di una insinuante I Am Blue che ricorda certi pezzi di Mary Coughlan, senza dimenticare Pass The Bottle Around, un nuovo brano di Ray Benson, il classico country blues dall’andatura contagiosa con la band che segue il suo leader alla grande. Non manca un omaggio a Johnny Cash con una bellissima rilettura di Big River, tutta grinta e ritmo, con la Shore che fa la June Carter della situazione, oltre a suonare il violino alla grande, e che poi conferma di essere un vero talento anche nella propria Weary Rambler, altra country ballad  di squisita fattura e molto fascinosa pure la cover di un altro autore contemporaneo come Seth Walker per una bluesata e pigra More Days Like This, sempre cantata con classe dalla bravissima Shore.

Che dire, veramente un gran bel disco, piacevole, garbato e consistente, tra i migliori della discografia degli Asleep At The Wheel.

Bruno Conti

Bluesmen A Tempo Determinato. Parte 2: Tony Joe White – Bad Mouthin’

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Tony Joe White – Bad Mouthin’ – Yep Roc CD

Tony Joe White, noto cantautore e musicista originario della Louisiana e tra i massimi esponenti del cosiddetto swamp-rock, è uno di quelli che, se proprio non fa sempre lo stesso disco, di sicuro non abbandona mai del tutto il suo stile https://discoclub.myblog.it/2016/07/05/sempre-la-solita-zuppa-si-ottimo-saporito-gumbo-tony-joe-white-rain-crow/ . Quando però la qualità è sempre medio-alta questo fatto può essere indubbiamente positivo, dato che comunque stiamo parlando di uno che raramente tradisce. Nel corso di una lunga carriera iniziata alla fine degli anni sessanta, White ha inciso più di venti album di studio, dischi a cavallo tra rock e blues, ritagliandosi il ruolo di musicista di culto e creando uno stile “laidback” molto riconoscibile, che lo ha sempre fatto sembrare una sorta di J.J. Cale più paludoso https://discoclub.myblog.it/2010/09/20/lampi-dal-passato-tony-joe-white-that-on-the-road-look-live/ . Ho detto del blues, un genere che nella sua musica è sempre stato un elemento fondamentale, anche se fino ad oggi Tony un disco di solo blues non lo aveva mai registrato. Ebbene, con Bad Mouthin’ White ha fatto il suo primo “blues-based album”, ed alla bella età di 75 anni: un po’ come Billy Gibbons con The Big Bad Blues (di cui mi sono occupato nella prima parte di questo doppio post), ma a differenza del leader degli ZZ Top, che ha optato per sonorità vigorose e molto rock, Tony ha fatto un disco nel suo stile abituale, in maniera totalmente rilassata ed operando quasi per sottrazione.

Anche il gruppo che lo accompagna è ridotto all’osso: infatti, oltre alla chitarra ed armonica di Tony, abbiamo soltanto la sezione ritmica formata da Steve Forrest (basso) e Bryan Owings (batteria), ed anche la produzione di Jody White (suo figlio) è scarna ed essenziale. Ma Tony è questo, non cambia nemmeno se gli sparate, ma alla fine Bad Mouthin’ si lascia ascoltare tutto d’un fiato e ci consegna un musicista in ottima forma, oltre che pienamente credibile anche come bluesman. Il disco, dodici canzoni, si divide a metà tra cover e brani originali, alcuni dei quali sono stati scritti in gioventù da White e poi lasciati in un cassetto, ma suonano freschi come se fossero stati composti la settimana scorsa. Il CD inizia benissimo con la title track, un blues all’apparenza canonico che però viene nobilitato dalla performance del nostro, al solito rilassata (a volte sembra che si sia appena svegliato), ma puntuale e precisa negli spunti chitarristici e di armonica, un pezzo che ha molto in comune con il già citato J.J. Cale, altro maestro dello “scazzo” messo in musica. Baby Please Don’t Go, di Joseph Lee Williams e resa popolare dai Them, è molto diversa da quella di Van Morrison e soci, in quanto vede Tony in perfetta solitudine, solo voce, armonica e chitarra acustica, per uno stripped-down blues di notevole intensità, e lo stesso arrangiamento è riservato anche alla sua Cool Town Woman, che sembra la prosecuzione della precedente, con forse una partecipazione leggermente maggiore da parte del nostro.

Ecco due splendide cover di due classici assoluti: Boom Boom di John Lee Hooker è elettrica, cadenzata e più rallentata rispetto all’originale, ed assume un’aria quasi minacciosa (lo stile di White in questo disco è simile a quello dei primi dischi del grande Hook), e Big Boss Man di Jimmy Reed, ancora acustica ed essenziale (con questo tipo di approccio Tony potrebbe registrare un album al giorno). Poi abbiamo tre pezzi originali in fila: la strascicata Sundown Blues, elettrica ma suonata in maniera pacata e suadente, con gli ottimi fraseggi tipici del nostro, l’ironica Rich Woman Blues, di nuovo con Tony in “splendid isolation”, ed il breve strumentale Bad Dreams, che confluisce nella Awfyìul Dreams di Lightnin’ Hopkins, sempre con andatura sonnolenta e con la sezione ritmica che sembra registrata nella stanza accanto, ma in cui il feeling non è di certo estraneo. Down The Dirt Road Blues, un vecchio classico di Charley Patton, aumenta decisamente il ritmo, anche se White non è che si faccia prendere dalla frenesia (ma non sarebbe lui se lo facesse), Stockholm Blues è ancora un’oasi acustica, un blues piuttosto canonico che però Tony riesce a rendere non banale; finale sempre unplugged con Hearbreak Hotel, proprio l’evergreen di Elvis Presley (che nei primi anni settanta aveva inciso Polk Salad Annie di Tony), una canzone famosissima che il nostro reinventa da capo a piedi, trasformandola in un oscuro blues paludoso.

Bad Mouthin’ è quindi l’ennesimo disco riuscito della carriera di Tony Joe White, un omaggio al blues fatto con cuore e feeling, pur senza rinunciare al consueto approccio “rallentato”.

Marco Verdi

Bluesmen A Tempo Determinato. Parte 1: Billy F. Gibbons – The Big Bad Blues

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Billy F. Gibbons – The Big Bad Blues – Concord CD

A parte gli esordi psichedelici con i Moving Sidewalks, il blues è un genere musicale che è sempre stato legato a doppio filo alla figura di Billy Gibbons (la F. sta per Frederick), e la musica del gruppo di cui è leader da quasi cinquant’anni, gli ZZ Top, è sempre stata infarcita di blues fino al midollo. Però un vero disco tutto di blues gli ZZ Top non lo hanno mai fatto, neppure i loro primi tre album (i migliori) lo erano, in quanto il blues era mirabilmente mescolato con forti dosi di rock e boogie (esiste però un’ottima antologia a tema del gruppo, One Foot In The Blues, che raggruppa alcuni brani del trio imparentati con la musica del diavolo). Nel 2015 Billy ha esordito come solista con l’album Perfectamundo, ed era lecito pensare finalmente ad un disco di blues, anche se poi il risultato finale era tutt’altro, un deludente pastrocchio di ispirazione afro-cubana che aveva scontentato gran parte dei suoi fans. Oggi Gibbons ci riprova, e già dal titolo, The Big Bad Blues, ci fa capire che questa volta ci siamo: infatti l’album è la cosa migliore fatta dal nostro da moltissimi anni a questa parte, ZZ Top compresi (l’ultimo lavoro dei quali, La Futura, era comunque un bel disco), un disco di vero blues, suonato e cantato con grande forza e feeling, con lo stile tipico del nostro.

Sono infatti presenti nelle undici canzoni del CD massicce dosi di rock, un po’ di boogie, e se amate i suoni ruspanti e “grassi” di chitarra qui troverete pane per i vostri denti. L’album, prodotto da Billy insieme a Tom Hardy, ha un suono spettacolare, decisamente vigoroso, e la band che accompagna il nostro è assolutamente in palla: James Harman, grande armonicista, è uno dei protagonisti del disco, poi abbiamo lo stesso Hardy al basso, Elwood Francis alla seconda chitarra, Mike Flanigin (già nella band di Jimmie Vaughan) alle tastiere, e ben due batteristi, Greg Morrow ed il tonante Matt Sorum, ex Guns’n’Roses, Motorhead, The Cult e Velvet Revolver ed attualmente con gli Hollywood Vampires. The Big Bad Blues ha una prevalenza di brani originali, ma non mancano i tributi a musicisti che hanno influenzato Billy, principalmente Muddy Waters e Bo Diddley, presenti con due pezzi a testa. Di Waters abbiamo una magistrale Standing Around Crying, un blues lento, sudato ed appiccicaticcio, con un’ottima armonica ed un feeling da far tremare i muri, e la nota Rollin’ And Tumblin’, lanciata come un treno in corsa, una splendida chitarra ed una sezione ritmica da paura. Diddley è omaggiato con Bring It To Jerome, possente, annerita, quasi minacciosa ma piena di fascino, e con una deliziosa Crackin’ Up, che assume quasi toni solari e caraibici, alla Taj Mahal.

Delle restanti sette canzoni, sei sono opera di Billy ed una della moglie Gilly Stillwater, che poi è l’opening track e primo singolo Missin’ Yo Kissin’, un pezzo dall’introduzione potente, chitarra dal suono ruspante, basso e batteria formato macigno e voce catramosa, un boogie travolgente che potrebbe entrare tranquillamente nel repertorio degli ZZ Top: la parte cantata è relativamente breve, quasi un pretesto per far volare gli strumenti, con la sei corde del leader in testa. Ancora ritmo e potenza per My Baby She Rocks, un bluesaccio cadenzato e decisamente gustoso, con un’armonica tagliente ed i soliti strali chitarristici; molto bella Second Line, un rock-blues forte e grintoso, con assoli altamente goduriosi e suonati con un feeling enorme, mentre la saltellante Let The Left Hand Know ci porta idealmente in un fumoso localaccio della periferia di Chicago: ancora un duello tra la chitarra di Billy e l’armonica di Harman, e con la sezione ritmica che tanto per cambiare pesta di brutto. La torrida That’s What She Said vede il nostro lavorare di slide, ben supportato dalla seconda chitarra di Francis, Mo’ Slower Blues è ancora vigorosa e con il pianoforte in evidenza, ma musicalmente è un po’ ripetitiva, mentre Hollywood 151 è un eccellente rock-blues, roccioso e diretto come un pugno in faccia, e che mantiene altissima la temperatura.

A quasi settant’anni Billy F. Gibbons ha fatto finalmente il disco che aspettavamo da una vita: di sicuro tra gli album di blues più belli di questo 2018.

Marco Verdi

Bravo Come “Gregario”, Chiedere A Clapton Ed Altri, Meno Come Solista In Proprio. Doyle Bramhall II – Shades

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Doyle Bramhall II  – Shades – Mascot/Provogue

Concludevo la recensione del suo precedente album  Rich Man, uscito nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/16/promosso-qualche-riserva-lamico-eric-doyle-bramhall-ii-rich-man/ , così: “Visti i suoi ritmi, ci risentiamo tra 15 anni per il prossimo”.! E invece mi sbagliavo, a soli due anni di distanza esce questo nuovo Shades: nuova etichetta, la Mascot/Provogue, ma a grandi linee stessi musicisti impiegati, Adam Minkoff polistrumentista,  impegnato anche con gli arrangiamenti degli archi, Chris Bruce al basso, e Abe Rounds e Carla Azar, alla batteria, che apparivano nello scorso CD , stessi ospiti, Eric Clapton, Tedeschi Trucks Band e Norah Jones, oltre ai compatrioti texani, i Greyhounds. E pure lo stile del disco è molto simile a quello che lo ha preceduto, in quanto Doyle Bramhall II ha questa passione insita per la musica nera, soul, R&B e funky, oltre agli immancabili blues e rock, non sempre coniugata con risultati eclatanti ed eccitanti, almeno a mio parere, spesso annacquata da arrangiamenti di tanto in tanto blandi, ballate melliflue e derive commerciali che rimandano allo stile di Prince e Lenny Kravitz. Anche se la chitarra del mancino texano ogni tanto ci ricorda perché il suo amico Clapton lo considera un eccellente chitarrista, si intuisce perché il nostro non ha mai sfondato come solista, vista la sua tendenza ad essere più un gregario, magari uno molto ricercato dai colleghi (sentire l’eccellente lavoro fatto nel disco di Amy Helm https://discoclub.myblog.it/2018/10/01/unaltra-rampolla-di-gran-classe-sempre-piu-degna-figlia-di-tanto-padre-amy-helm-this-too-shall-light/ ), a scapito della possibilità di avere nei propri dischi una musica più definita e meno sfuggente, che complessivamente anche in questo Shades, a parte qualche guizzo di classe, manca di una direzione sonora chiara.

Ovviamente siamo ben lungi dal dire che il disco sia brutto, anzi, si ascolta più che volentieri, chi ama il rock e il blues meticciati con la musica nera troverà motivo per apprezzarlo. Insomma soliti pregi e difetti che seguono Bramhall nella sua strada verso la musica mainstream, come l’amico Eric, che però ha ben altra consistenza, per cui accontentiamoci di quello che passa il convento. Shades spazia dal funky-rock atmosferico della iniziale Love And Pain, dove prevale il suono “lavorato” che Bramhall predilige, sia pure con inserti chitarristici sempre pungenti, ad una Hammer Ring più incalzante nei suoi  complessi ritmi rock, passando per la collaborazione con Eric Clapton in Everything You Need (nel cui video il nostro non si vede anche se aleggia la sua presenza), una morbida ballata dove si apprezza il lavoro delle due soliste, ma meno l’arrangiamento troppo appesantito da zuccherini strati di armonie vocali che spingono verso un soul radiofonico contemporaneo. London To Tokyo rimane su queste coordinate sonore, ma con arrangiamenti stratificati di archi fin troppo carichi e che quasi coprono anche le evoluzioni della solista.

Il duetto con Norah Jones, Searching For Love, come da copione, è una elegante e raffinata ballata pop, molto più vicina allo stile della cantante di New York che a quello di Bramhall, che comunque lavora di fino con la sua solista, quasi claptoniana per l’occasione. Decisamente più rock e vibrante la collaborazione con i Greyhounds in Live Forever,  brano dove tutti ci danno dentro di gusto e ci sono anche vaghi elementi psych che ricordano gli Spirit degli anni d’oro https://www.youtube.com/watch?v=QXFU6kgAHZM , mentre Break Apart To Mend è una intensa e sognante ballata pianistica di ottima fattura, quasi da cantautore classico, nobilitata da un lirico assolo di chitarra nella parte centrale.  Non male anche la blues ballad She’ll Come Aound e discreto il morbido soul proposto in The Night; non manca il consueto omaggio alla sua passione per la musica orientale con Parvanah, che però miscela questo sound con il solito morbido soul con risultati non memorabili, a parte gli spunti della solista.

Consciousness introduce  qualche elemento country-folk con risultati più apprezzabili, lasciando la conclusione a Going Going Gone, il pezzo forte dell’album, ripresa anche da Gregg Allman sull’ultimo Southern Blood https://discoclub.myblog.it/2017/09/07/il-vero-sudista-quasi-un-capolavoro-finale-gregg-allman-southern-blood/ . Si tratta proprio di una cover del sognante brano di Bob Dylan tratto da Planet Waves, in una bellissima versione suonata e cantata splendidamente con la Tedeschi Trucks Band, in un tripudio di fiati, voci e chitarre, tra la slide di Trucks e la solista di Bramhall, magari fosse stato così tutto l’album .

Bruno Conti

Una Validissima Rock’n’Roll Band Guidata Da Un Personaggio “Problematico”! Hawks And Doves – From A White Hotel

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Hawks And Doves – From A White Hotel – Jullian CD

Gli Hawks And Doves sono in realtà l’ultima creatura di Kasey Anderson, rocker di Portland, Oregon, che ha già all’attivo tre album come solista e due come leader di un’altra band, The Honkies. Anderson è anche però un personaggio molto particolare, da prendere con le molle, in quanto nel 2012 è stato dichiarato affetto da disordine bipolare (e ha dovuto dunque affrontare una terapia decisamente intensa), ed in seguito si è fatto pure due anni di galera (era stato condannato a quattro), per aver chiesto finanziamenti al fine di produrre un fantomatico album a scopo benefico, arrivando addirittura a falsificare le mail di Jon Landau, potente manager di Bruce Springsteen. Non esattamente uno stinco di santo quindi, ma il mio dovere è quello di giudicare la sua musica, e devo riconoscere che in From A White Hotel, album di debutto degli Hawks And Doves (nome preso da un disco del 1980 di Neil Young, invero non memorabile) di musica buona, ed a tratti ottima, ce n’è parecchia.

Kasey, che è il compositore, cantante e chitarrista ritmico del gruppo, è affiancato da Jordan Richter, chitarra solista, Ben Landsverk, basso, tastiere e viola, e Jesse Moffat, batteria, oltre ad essere coadiuvato da qualche ospite selezionato, tra i quali spiccano il sassofonista Ralph Carney, Kurt Bloch, già musicista per conto proprio, e soprattutto Eric Ambel, ex chitarrista dei Del Lords. From A White Hotel è un bel disco di puro rock americano, chitarristico e diretto, con canzoni che piacciono al primo ascolto e che si rifanno ai luminari di questo tipo di suono; Anderson sa comporre, ha il senso della melodia ed è anche creativo, in quanto il disco non è per nulla monotematico, ma invade qua e là anche territori diversi dal rock puro e semplice, ma senza mai dare la sensazione di dispersività. L’inizio è davvero ottimo con The Dangerous Ones, un brano rock elettrico di presa immediata, chitarristico e trascinante, che ricorda molto lo Steve Earle del periodo Copperhead Road, anche per la similarità del timbro vocale di Kasey con quello di Steve. Decisamente bella anche Chasing The Sky, altra rock song pulsante e diretta, che stavolta fa pensare al compianto Tom Petty: puro rock’n’roll chitarristico, davvero godibile (e la presenza di Ambel ha un senso, qui è nel suo elemento); Every Once In A While è cadenzata, con un sapore errebi dato da una piccola sezione fiati ed un’atmosfera vintage, mentre Get Low è annerita, bluesata e paludosa, ancora con i fiati che fanno capolino ed un feeling notevole, un pezzo che fa capire che il nostro ha ascoltato molto anche Tom Waits.

Geek Love è una ballata pianistica decisamente intensa, con un mood romantico che contrasta con la voce roca di Kasey, ma riesce lo stesso a toccare le corde giuste (ed anche qui Waits fa capolino, il suo lato più melodico), mentre con Bulletproof Hearts torniamo al rock di stampo californiano, un brano terso, vibrante e che coinvolge fin dalle prime note; Lithium Blues è scura e cupa, un blues che pare influenzato dalle paludi della Louisiana, un pezzo di grande fascino e suonato in maniera splendida. A Lover’s Waltz è una canzone suggestiva, per voce, organo e viola, un brano di grande pathos che dimostra che Anderson non è solo un rocker, ma un musicista a tutto tondo; il CD si chiude con la lenta Clothes Off My Back, dalla calda atmosfera southern soul, e con la title track, uno slow elettrico dalla ritmica quasi tribale. Forse Kasey Anderson potrebbe non essere la persona più adatta alla quale prestare dei soldi, ma se vorrete dare un ascolto ai suoi Hawks And Doves secondo me non ve ne pentirete.

Marco Verdi

Un Grande Autore Rende Omaggio Ad Una Leggenda Del Soul. Donnie Fritts – June A Tribute To Arthur Alexander

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Donnie Fritts – June (A Tribute To Arthur Alexander) – Single Lock Records

La Single Lock Records è una piccola etichetta indipendente americana che ha la sua sede a Florence, Alabama, quindi profondo Sud degli Stati Uniti: tra i fondatori Ben Tanner degli Alabama Shakes, Will Trapp e John Paul White. Tra gli artisti sotto contratto, oltre a White, Dylan LeBlanc, Nicole Atkins e Cedric Burnside, di cui leggerete a parte. Il repertorio pesca dalla zona Shoals dell’Alabama, e quindi rappresenta i famosi Muscle Shoals Studios e una delle vere leggende della musica “southern” americana, ovvero Donnie Fritts, che pubblica il suo secondo album per la Single Lock, dopo l’ottimo Oh My Goodness del 2015, che si pensava potesse essere il suo ultimo album https://discoclub.myblog.it/2015/10/25/il-ritorno-forse-commiato-grande-donnie-fritts-oh-my-goodness/ . Invece, a 75 anni, Fritts è entrato ancora una volta in studio, per una serie di sessioni serali tenute ai Muscle Shoals, per realizzare un tributo al suo grande amico e mentore Arthur Alexander: dieci canzoni legate al grande cantante soul di You Better Move On, e a decine di altri brani che hanno fatto la storia della musica black, proprio a partire dal brano citato, che nel 1962 fu il primo successo ad uscire dall’area di Muscle Shoals, uno dei tre firmati dal solo Alexander.

Poi ne troviamo quattro che sono collaborazioni con Fritts, una firmata anche dal grande Dan Penn, ed infine, Soldier Of Love, comunque legata al repertorio di Arthur. Alle registrazioni dell’album, sempre essenziale ed intimo nelle sue riletture country-soul, ma non privo di momenti più mossi, hanno partecipato, oltre a White e Tanner chitarre, David Hood al basso, Reed Watson alla batteria, Kelvin Holly ancora alle chitarre e lo stesso Fritts al Wurlitzer e alle tastiere. Il risultato, lo ribadisco, è un piccolo gioiellino di equilibri sonori, intimi e confidenziali, con altri più movimentati e raffinati. D’altronde le canzoni sono tutte decisamente belle, l’interprete, per quanto la sua discografia sia veramente molto scarna, è uno che ha scritto, in tutti i sensi, la storia della musica, quindi il disco si ascolta con assoluto piacere: June, come ricorda lo stesso Donnie nelle note del libretto, invero scarne pure quelle, era il nomignolo con cui era conosciuto Arhur Alexander, e la canzone era stata scritta nel 1993 sull’onda emotiva della sua scomparsa, ed appare come toccante brano di apertura in questo album, solo la voce e il piano elettrico di Fritts, sembra una di quelle ballate romantiche in cui è maestro Randy Newman, e anche il timbro vocale è quello,  violino e viola in sottofondo e tanto feeling, deliziosa, una vera perla.

Ancora  raffinati tocchi di archi, il piano elettrico e una delicata melodia per In The Middle Of It All, una soul ballad  intimista, scritta dal solo Alexander, e apparsa nel suo album omonimo del 1972. You Better Move On l’hanno incisa in tantissimi, vorrei ricordare le versioni di Willy DeVille e degli Stones (e pure i Beatles si sono cimentati con Anna (Go To Him), il suo brano di maggior successo, viene riproposto in una sorta di unplugged version, mentre All The Time, una delle loro collaborazioni autoriali, è una deliziosa ballata country got soul, con le armonie vocali delle Secret Sisters, una sezione ritmica finalmente presente e organo e chitarre acustiche a colorare il suono. Anche I’d Do It Over Again beneficia di un arrangiamento corale, splendido ed avvolgente, con  tastiere, chitarre e voci di supporto semplicemente perfette. Ancora un arrangiamento sontuoso alla Randy Newman  per un’altra soul ballad di grana finissima come Come Along With Me, cantata sorprendentemente bene dal nostro amico che sfoggia una interpretazione da manuale https://www.youtube.com/watch?v=2CvPl12wgOc ; Lonely Just Like Me è un altro dei capolavori assoluti di Alexander, e anche il titolo del suo album finale pubblicato nel 1993, poco prima della sua scomparsa a soli 51 anni, altra versione da manuale, con quel tocco latino che sia DeVille che il Warren Zevon di Carmelita avevano cercato di carpire a Arthur, e gli echi della migliore soul music mai suonata e cantata da chicchessia, una vera chicca sonora anche in questa rilettura magnifica https://www.youtube.com/watch?v=M8ztC3ZFJIY .

Altra delizia per i padiglioni auricolori è Soldier Of Love, suonata e cantata con un impeto ed una intensità pregevoli ,e non si scherza neppure con il deep soul screziato di gospel di una intensa e sgargiante Thank God He Came con le Secret Sisters scatenate a livello vocale in un finale veramente ispirato. A chiudere il CD Adios Amigo, titolo del tributo del 1994 e altra canzone epocale, di nuovo rivista in modo più intimo, solo il Wurlitzer, gli archi e le voci delle sorelle Rodgers https://www.youtube.com/watch?v=nhWkBfDxNAk . Disco commovente e intenso, a dimostrazione che la classe non è acqua.

Bruno Conti