Hill Country Punk Blues, Ma Da Portland, Oregon. Hillstomp – Monster Receiver

hillstomp monster receiver

Hillstomp – Monster Receiver – Fluff & Gravy Records               

Nonostante il nome possa far pensare che vengano dalle colline del Mississippi, gli Hillstomp sono in effetti un duo che proviene da Portland, Oregon (non conosco molto bene l’orografia della zona, ma più che colline, lì intorno ci sono delle montagne, ma per giustificare il nome una collinetta la possiamo sempre trovare): i due sono Henry “Hill” Kammerer, vocals and strings recitano le note del CD, quindi chitarre varie, elettriche ed acustiche, banjo, e John Johnson, percussioni, molto primitive e harmony vocals, che si professano grandi fans di R.L. Burnside (e a Portland, forse per un segno del destino, una delle strade principali si chiama Burnside Street), di cui riprendono a grandi linee gli insegnamenti, grazie ad uno stile che fonde sia il blues ruvido, grezzo e furioso del musicista nero, come certo punk e alternative rock, ma anche accenni di hillbilly e country molto sporco, tanto da essere definiti punk blues.

In effetti nei  loro 17 anni di carriera e nei cinque dischi precedenti, questo Moster Receiver è il sesto, il gruppo ha sempre avuto un approccio molto ruspante alla musica: canzoni brevi, prese spesso a velocità supersoniche, con rare oasi dove rallentano i ritmi, un suono volutamente inquieto e primordiale, ma anche una certa perizia tecnica, da artigiani della musica, appresa in lunghi anni on the road. Per l’occasione di questo album si sono concessi anche un produttore, John Shepski, e un ingegnere del suono, John Askew, ex dei Richmond Fontaine, coi quali condividono  etichetta e studi di registrazione. Il suono ogni tanto beneficia di qualche aggiunta, un violino qui, una pedal steel là, delle armonie vocali, un basso, ma i due insieme fanno comunque un bel “casino”. Hagler apre le danze con un groove che sembra quello dei Creedence di Willy And The Poor Boys, campagnolo e insistente, poi accelera ulteriormente, la batteria inizia a picchiare, la chitarra si infiamma, rallenta e riparte per un finale travolgente; The Way Home parte con il banjo di Kammerer che potrebbe ingannare sulle intenzioni dei due, Johnson traffica con le sue percussioni artigianali e il tutto potrebbe passare per un alternative country/hillbilly quasi tradizionale, mentre Angels con la sua chitarra elettrica riverberata in modalità slide, lavorata finemente, evoca atmosfere sospese da blues collinare primevo, la seconda voce di Amora Pooley Johnson (moglie?) che armonizza con quella di Kammerer, in possesso di una voce interessante ed espressiva https://www.youtube.com/watch?v=vKcNY6zMUC8 .

Comes A Storm è quasi una dichiarazione di intenti, si parte tranquilli, ma il tempo si fa frenetico e fremente, Johnson al basso rende il suono più rotondo ed incalzante, e il buon Henry strapazza la sua elettrica con vigore; Snake Eagle Blues, con slide ingrifata e percussioni in libertà, voce distorta e una grinta proprio da punk blues https://www.youtube.com/watch?v=BfYM6-okf7Y , lascia a Dayton, Ohio il compito di illustrare il lato più gentile della loro musica, con la pedal steel di Erik Clampitt che evoca scenari country di grande fascino e con una bella melodia che scorre liscia e quasi solare, prima di innestare nuovamente le sonorità più sporche e bluesate di Goddamn Heart, in cui è protagonista anche l’armonica volutamente incattivita di David Lipkind ( del gruppo I Can Lick Any Son of a Bitch in the House, un nome, un programma). Per l’hillbilly country sbilenco del traditional Chuck Old Hen, si aggiunge al banjo di Kammerer anche il violino di Anna Tivel e primitive percussioni che illustrano un suono volutamente “povero” https://www.youtube.com/watch?v=4z6ri1w1EHo . L’elettricità più palpitante dell’hill country blues da juke joints ritorna nella vibrante Pale White Rider, che potrebbe ricordare i primi Black Keys o il loro mentore RL Burnside, Lay Down Satan galoppa di nuovo a ritmi febbrili, con le voci di Kammerer e della Pooley Johnson che si intrecciano in un vivido gospel di stampo laico. Anna Tivel ritorna con il suo violino per una delicata e quasi leggiadra I’ll Be Around https://www.youtube.com/watch?v=hoC74N4GzZg  che chiude in modo fine e quasi garbato un album che si potrebbe addirittura definire “raffinato”.

Bruno Conti

Ci Dà Dentro La Ragazza! Sarah Borges & The Broken Singles – Love’s Middle Name

sarah borges love's middle name

Sarah Borges & The Broken Singles – Love’s Middle Name – Blue Corn CD

Sarah Borges, rocker in gonnella proveniente dal Massachusetts, è in giro dal 2005, anno in cui pubblicò il suo debut album Silver City, al quale sono seguiti una manciata di lavori tutti all’insegna di un rock’n’roll sanguigno e diretto, con una spruzzata di country ogni tanto. Le sue influenze infatti sono eterogenee, vanno da Dolly Parton agli X, da Merle Haggard ai Blasters, e la sua grinta è sempre venuta fuori sia su disco che nelle esibizioni dal vivo. Qualcuno l’ha paragonata a Lucinda Williams con i Georgia Satellites come backing band, e la similitudine non è così campata per aria, ed io aggiungerei che, alla fine dell’ascolto della sua ultima fatica intitolata Love’s Middle Name (registrata come sempre insieme al suo gruppo, The Broken Singles), altri due nomi che mi sono venuti in mente sono i Lone Justice ed i Del-Lords.

L’ultima band non l’ho citata a caso, in quanto il produttore di questo disco è proprio Eric “Roscoe” Ambel, che di quella band era leader e chitarrista, e che è l’elemento perfetto per la musica della Borges, in quanto riesce a donare alle canzoni, già belle grintose di suo, un suono tosto e prettamente basato appunto sulle chitarre. Love’s Middle Name ha un sound secco, quasi basico: due chitarre (Sarah e Roscoe), un basso (Binky) ed una batteria (Phil Cimino), e solo occasionalmente un pianoforte, suonato anch’esso da Ambel. Puro rock’n’roll, con alcuni (pochi) momenti più meditativi, qualcosa di country ed una grinta da fare invidia ad un toro: e d’altronde Sarah non è nata ieri, e Roscoe è uno che questa musica la mangia a colazione. House On A Hill ha un attacco alla Tom Petty, una rock song chitarristica diretta e vibrante, ma anche godibile dalla prima all’ultima nota. Mi viene in mente anche la Linda Ronstadt degli anni settanta, una che a grinta dava dei punti a diversi uomini.

Lucky Rocks è un pezzo potente dal riff insistito, tutto costruito intorno alle chitarre (ottimo l’assolo), l’elettroacustica Oh Victoria è più cantautorale e ricorda maggiormente lo stile della Williams, ma con Let Me Try It riprende alla grande il mood rocknrollistico: riff alla Rolling Stones, batteria granitica e Sarah che approccia il tutto con vigore e senso del ritmo. Anche Are You Still Takin’ Them Pills non abbassa la guardia, l’arrangiamento è più acustico ma la ritmica è sempre sostenuta, Get As Gone Can Get aumenta ancora i giri, ennesima rock’n’roll song secca e coinvolgente, con Ambel che duetta anche vocalmente con Sarah. Grow Wings è sempre elettrica, ma il passo è lento e qui le somiglianze con Lucinda sono più evidenti, Headed Down è velocissima e travolgente, siamo quasi in territori punk, anche se la voce della Borges stempera un po’ la tensione. L’album si chiude con il pop-rock elettrico di Girlie Book, altro pezzo diretto e fruibile, e con I Can’t Change It, una ballatona rock di buon livello che mette da parte per un attimo il ritmo per lasciare spazio al songwriting.

Se durante le vostre giornate vi capiterà di avere mezz’oretta libera, questo disco la riempirà a dovere.

Marco Verdi

Da Tulsa, Oklahoma, Un Altro Bravissimo Chitarrista! Seth Lee Jones – Live At The Colony

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Seth Lee Jones – Live At The Colony – Horton Records

Tulsa, Oklahoma, è una ridente cittadina del Sud degli Stati Uniti (beh cittadina, insomma, ha quasi mezzo milione di abitanti), famosa anche per la canzone scritta da Danny Flowers per Don Williams, ma resa celeberrima da Eric Clapton. Nella città, già dagli anni ’60 e ’70, esiste una fiorente scena musicale che ha prodotto gente come JJ Cale e Leon Russell, ma che nel corso degli anni si è sempre rinnovata con nuovi innesti. A Tulsa ha la sua sede anche la Horton Records, piccola etichetta che abbiamo conosciuto per gli ottimi lavori di Carter Sampson https://discoclub.myblog.it/2018/06/05/non-e-solo-fortunata-e-proprio-brava-carter-sampson-lucky/ e Levi Parham https://discoclub.myblog.it/2018/07/09/non-posso-che-confermare-gran-bel-disco-levi-parham-its-all-good/  (e in alcuni dei quali Seth LeeJones è uno dei chitarristi), ma che ha un eccellente roster di artisti tra cui spiccano la Paul Benjaman Band, Dustin Pittsley, Jesse Aycock ed altri, e che ha in Jared Tyler, un eccellente musica, produttore ed ingegnere del suono, che guida una pattuglia di musicisti che suonano a rotazione  in molti dei dischi della etichetta.

Anche Seth Lee Jones vive a Tulsa, dove si è costruito una solida reputazione come mastro liutaio, uno dei migliori della zona, grazie alla trentina di chitarre che costruisce ogni anno per gli artisti che gliene fanno richiesta, ma che dopo una lunga gavetta fatta suonando nei piccoli locali, anche lui approda all’esordio discografico, proprio con un disco dal vivo, registrato al Colony, appunto un piccolo locale di Tulsa, dove è stato registrato questo (mini) album di esordio: sono comunque più di 30 minuti di musica, benché a giudicare dalla risposta, peraltro entusiasta del pubblico, non deve essere stato un evento a cui partecipavano più di una trentina di persone, forse cinquanta ad esagerare. Ma il buon Seth non se ne dà per inteso e suona come se fosse di fronte ad un folla oceanica: dotato di uno stile chitarristico irruente e vibrante, è anche un vero virtuoso della slide, e per di più, cosa che non guasta, dotato di una voce potente, roca e vissuta, con echi di Elvis e George Thorogood, cui lo lega un certo tipo di sound ruspante e dalle forti influenze blues e R&R, e a tratti il suo approccio alla chitarra può rimandare, a mio parere, a quello dell’Alvin Lee degli anni d’oro, con lo stile che è contemporaneamente ritmico e solista:

Gli assoli sono in ogni caso continui, freschi, con una tecnica fluida e fluente al contempo, come testimonia subito una gagliarda rilettura di Key To The Highway breve, ma anche frizzante, grazie ad una slide guizzante e alla voce intensa e palpitante di Seth Lee Jones, che poi inizia a scaldare l’attrezzo in una torrida Long Distance Call, dove l’atmosfera è raffinata e sospesa, i tempi si dilatano e la chitarra viaggia che è un piacere nella lunga intro strumentale, grazie anche al suono nitido e molto presente fornito dal tocco di Tyler alla consolle, e agli ottimi Bo Hallford al basso e Matt Teegarden alla batteria, con la voce che si fa più cattiva e lavora di concerto con la solista, che continua ad improvvisare lunghi assoli di quasi ferina e fremente intensità. Ma c’è anche un tocco quasi jazz e più rilassato in Payday, con una ambientazione sonora più pigra e dai sapori sudisti, grazie ai continui rilanci della solista in bilico tra slide ed accordatura normale e al cantato più rilassato, prima però di partire per un finale a tutto power trio di grande slancio.

Shake Your Tree sempre con il suo approccio ritmico-solista è più mossa e vivace, con echi di R&R e un ondeggiante lavoro della sezione ritmica, mentre Hard Times è la classica blues and soul ballad di fattura squisita, sempre con voce e chitarra che lavorano quasi all’unisono, grazie anche al vivido timbro della solista che pesca in sentimenti  accesi e ricchi di passione.110, come altri brani, ricorda parecchio anche lo stile di Sonny Landreth, che potrebbe essere un punto di riferimento per inquadrare la musica di Seth Lee Jones, pure se la voce bassa e profonda è più vicina a quella del datore di lavoro di Sonny, ovvero John Hiatt, anche se il risultato è decisamente più blues. Comunque lo si giri è uno bravo, se amate il genere vale la pena di dargli (più) di un ascolto.

Bruno Conti

Un Disco Molto Bello…A Metà! Donna The Buffalo – Dance In The Street

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Donna The Buffalo – Dance In The Street – Donna The Buffalo CD

C’è stato un periodo negli anni novanta in cui la scena roots rock/Americana negli States era più pulsante che mai, ed uno dei gruppi che seguivo maggiormente, tra quelli riconducibili a quel filone, erano i Donna The Buffalo, un combo proveniente dallo stato di New York che fondeva mirabilmente rock, folk, country, Messico e zydeco. Album come l’omonimo Donna The Buffalo, The Ones You Love e Rockin’ In The Weary Land erano tra i migliori del periodo nel loro genere, ed in più il gruppo, guidato da Tara Nevins e Jeb Puryear, dal vivo era una formidabile macchina da guerra. Anche nel nuovo millennio i DTB non hanno mai smesso di incidere, ma i loro lavori si sono fatti via via meno interessanti, e sembrava che avessero perso il tocco magico; questo almeno fino a Tonight, Tomorrow And Yesterday, album del 2013 che li vedeva di nuovo in buona forma https://discoclub.myblog.it/2013/07/16/una-miscellanea-di-generi-musicali-donna-the-buffalo-tonight/ , non come nei nineties ma quasi.

Ora, a cinque anni di distanza, i nostri si rifanno vivi con questo Dance In The Street, un disco fieramente autodistribuito come d’abitudine, ma se per il lavoro precedente si erano rivolti alla produzione di Robert Hunter (proprio il paroliere di Jerry Garcia), stavolta hanno puntato ancora più in alto: infatti alla consolle troviamo nientemeno che Rob Fraboni, leggendario produttore californiano che negli anni settanta aveva legato il suo nome a The Band, sia da sola che con Bob Dylan (Planet Waves, Before The Flood, ma anche lo storico The Last Waltz), collaborando inoltre con Joe Cocker, Eric Clapton (No Reason To Cry), Bonnie Raitt, John Martyn ed altri. In Dance In The Street Fraboni ha lasciato abbastanza mano libera ai DTB, usando la sua esperienza per dosare i suoni e calibrare la strumentazione. Il risultato è un album fresco e piacevole, con i nostri complessivamente in buona forma ed ancora in grado di scrivere canzoni di valore (oltre alla Nevins e Puryear, che si occupano di chitarre, steel, fisarmonica e violino, abbiamo David McCracken alle tastiere, Kyle Spark al basso e Mark Raudabaugh alla batteria, più qualche ospite perlopiù alle armonie vocali, tra i quali spicca il nome di Jim Lauderdale, che nel 2003 aveva anche inciso un intero album con i DTB come backing band, Wait ‘Til Spring). Tutto positivo quindi?

Beh, non proprio, in quanto ogni volta che la penna e la voce sono quelle della Nevins il disco raggiunge addirittura momenti di eccellenza, ma quando il testimone passa a Puryear il livello cala drasticamente, a causa di un momento non proprio brillante di forma della parte maschile della leadership. Il problema è che i due, su dodici canzoni, si dividono i momenti da solista in parti uguali (Jeb ha i brani dispari, Tara i pari), togliendo continuità ad un lavoro che, se fosse stato solo nelle mani della Nevins, avrebbe avuto un esito finale ben diverso. La partenza con la mossa e ritmata title track è subito un po’ sbilenca, con Jeb che più che cantare parla, sembra quasi un rap su base roots, un brano privo quindi di una vera melodia: mi ricorda alla lontana i B-52s, e non è da intendersi come un complimento. Molto meglio Motor (canta Tara), una deliziosa e ritmata country song, limpida, solare e con un accompagnamento che rimanda a certe cose di Mark Knopfler. Heaven And The Earth è una rock song vibrante nel suono ma leggermente deficitaria dal punto di vista della scrittura, e risulta un po’ incartata su sé stessa, mentre l’intrigante Look Both Ways ha nel ritmo, melodia e modo di porgere il brano più di una similitudine con lo stile di Stevie Nicks, anzi sembra proprio il brano che i Fleetwood Mac, ammesso che si possano ancora definire una band, non scrivono da una vita.

La delicata Across The Way, guidata dal violino di Tara, è la prima bella canzone tra quelle di Jeb, una fluida e malinconica ballata dotata di un bel crescendo e suonata con classe (e qui lo zampino di Fraboni si sente); una slide introduce la squisita Top Shelf, una splendida e distesa rock ballad che ci fa ritrovare i DTB di due decadi fa, con un refrain vincente (Tara non sbaglia un colpo). If You Want To Live, nonostante un grande uso di fisa, è ripetitiva e con poche idee, e faccio quasi fatica ad ascoltarla tutta, e con Holding On To Nothing la Nevins aumenta il già notevole vantaggio su Puryear, grazie ad una bella e tersa country song, dotata del consueto motivo semplice ma diretto e con un ottimo assolo di chitarra acustica. La guizzante The Good Stuff, di Jeb, è una sorta di rockabilly-pop, e se non altro si lascia ascoltare con piacere, l’elettroacustica I Won’t Be Looking Back inizia come un brano roots dei Grateful Dead, ed è un’altra canzone dall’ottimo impianto melodico, che conferma la facilità di scrittura di Tara. Il CD termina con la sinuosa Killing A Man, non male anche se non irresistibile, e con I Believe, fulgido brano folk-rock eseguito con notevole pathos.

Un disco quindi a due velocità, ottimo per quanto riguarda la parte di Tara Nevins, molto meno brillante quando il pallino passa nelle mani di Puryear: peccato che le due metà non siano separabili.

Marco Verdi

Un Live “Riparatore” Di Ottimo Livello! Needtobreathe – Acoustic Live Vol. 1

needtobreathe acoustic live vol. 1

Needtobreathe – Acoustic Live Vol. 1 – Atlantic/Warner CD

L’ultimo album dei Needtobreathe, Hard Love, uscito un paio di anni fa  https://discoclub.myblog.it/2016/11/08/invece-veramente-brutto-needtobreathe-hard-love/ , era stato un fulmine a ciel sereno, ma in senso negativo. Infatti, dopo che la band del South Carolina guidata dai fratelli Bear e Bo Rinehart (insieme a Seth Bolt, Josh Lovelace e Randall Harris) si era costruita passo dopo passo una promettente carriera come uno dei gruppi di punta nel panorama americano, soprattutto con album come The Outsiders e The Reckoning (ma anche con https://discoclub.myblog.it/2015/06/16/doppi-dal-vivo-classici-needtobreathe-live-from-the-woods-at-fontanel/), aveva rovinato tutto con un lavoro che definire brutto è fargli un complimento, un’accozzaglia di suoni senza né capo né coda tra becero pop da classifica, rock sintetico e ritmi quasi dance. Una china che purtroppo negli ultimi anni è stata presa da più di un gruppo, come i Mumford & Sons, i Low Anthem, gli Arcade Fire e con l’ultimo disco anche dai Decemberists, nel tentativo di riuscire ad aumentare le vendite ma con il rischio di perdere tutti i vecchi fans senza necessariamente trovarne di nuovi.

Ora pero i Needtobreathe riparano in parte alla nefandezza di Hard Love pubblicando questo Acoustic Live Vol. 1, uno splendido resoconto della breve tournée acustica tenuta tra Novembre e Dicembre del 2017, il loro primo in assoluto senza strumenti elettrici. Ed il disco, un’ora di musica, funziona alla grande, in quanto ci permette di riascoltare la band che avevamo amato nei primi cinque album, senza filtri e con la possibilità di lasciare libera la loro tecnica strumentale e vocale, entrambe sopraffine. Musica folk, country e rock, suonata con indubbio feeling e grande energia, nonostante la strumentazione a spina staccata, con bellissimi intrecci vocali ed una spiccata creatività: anche i pezzi tratti da Hard Love suonano completamente diversi, dimostrando che il problema di quel disco non erano le canzoni ma bensì le sonorità. Si inizia alla grande proprio con un brano dall’ultimo album, Let’s Stay Home Tonight, che si rivela una magnifica country ballad, pura come l’acqua di montagna, con una melodia eccellente ed uno splendido pianoforte (Lovelace, grande protagonista del disco).

Drive All Night è contraddistinta da un gran ritmo, un brano rock coinvolgente e con un ritornello perfetto per il singalong: dopo un po’ non ci si accorge nemmeno che gli strumenti sono acustici; No Excuses era uno dei pezzi meno disastrosi di Hard Love, ed è inutile dire che in questa veste migliora ulteriormente, diventando una limpida ballata dal vago sapore soul, cantata decisamente bene (le voci fanno la differenza in questo CD) e con un organo che riscalda ulteriormente il suono: verso la fine della canzone, poi, i nostri piazzano una inattesa e vibrante cover del classico The House Of The Rising Sun, da brividi. Uno squillante mandolino introduce la mossa e solare State I’m In, che ha ancora nelle armonie vocali il suo punto di forza, oltre ad un refrain diretto e molto orecchiabile; Washed By The Water, introdotta dall’inno religioso I’m Free, è una magnifica gospel song pianistica, in cui Bear si supera come cantante, mentre Testify è una rock ballad cristallina, suonata con grande forza nonostante il suono stripped-down, terzo ed ultimo pezzo da Hard Love e terza trasformazione a 360 gradi.

Oh, Carolina è un travolgente rock’n’roll, e qui i nostri non si trattengono in quanto spunta anche una chitarra elettrica: brano altamente coinvolgente, ulteriormente impreziosito dall’inserimento al suo interno di un accenno a Squeeze Box degli Who, e dal solito formidabile pianoforte. C’è anche una cover “solitaria”, non in medley, e cioè la leggendaria Stand By Me di Ben E. King, in un limpido arrangiamento folk molto diverso dall’originale, ma ricco di pathos e decisamente emozionante. La toccante Stones Under Rushing Water vede la gradita partecipazione dei coniugi Drew ed Ellie Holcomb (e che voce lei), White Fences è puro folk-rock, dal suono solido e melodia di notevole impatto. La conclusione del CD è affidata a Cages, di nuovo pianistica e decisamente intensa (ed un limpido motivo di ispirazione vagamente irlandese), e con Brother, chiusura corale per un brano dall’accompagnamento ridotto all’osso.

Non so se i Needtobreathe siano rinsaviti  del tutto dopo il brutto passo falso di Hard Love: quello che è certo è che Acoustic Live, Vol. 1 è uno dei dischi dal vivo migliori del 2018.

Marco Verdi

Un Tributo Blues “Duretto” Ma Per Nulla Disprezzabile. Bob Daisley & Friends – Moore Blues For Gary

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Bob Daisley & Friends – Moore Blues For Gary – earMusic/Edel       

Ormai sono trascorsi più di 7 anni dalla scomparsa di Gary Moore,  e ora ci pensa il vecchio amico e compagno di avventure musicali, a lungo bassista nei suoi dischi, Bob Daisley, a rendergli omaggio con un tributo. Proprio il musicista di origini australiane era stato, diciamo, l’istigatore della svolta blues di Moore, quello che gli ha suggerito che avrebbe dovuto fare un album dedicato a questo genere, Still Got The Blues, che è stato il primo di una lunga serie, e come spesso accade, anche il migliore (insieme a Blues For  Greeny ,il disco dedicato a Peter Green, a proposito di tributi poi Gary Moore ne aveva inciso anche uno dedicato a Jimi Hendrix). Diciamo che gli “amici” di Moore sono stati spesso legati all’hard rock e all’heavy metal, quindi questo Moore Blues For Gary predilige sonorità molto vigorose, il blues è tinto profondamente dal rock: d’altronde Daisley ha suonato a lungo con i Whitesnake, ma anche nella band di Ozzy Osbourne, non tralasciando una lunga militanza, circa una ventina di anni, con Gary Moore.

Con queste premesse era quasi inevitabile che l’album avrebbe avuto un suono piuttosto “duretto”, ma alla fine il risultato non è disprezzabile, anche se spesso le canzoni sono eseguite quasi in carta carbone rispetto a quelle di Moore. Non ci sono nomi notissimi nell’album, soprattutto sul versante blues, però il CD si lascia ascoltare: la partenza è più che buona, con la sinuosa That’s Why I Play The Blues, un brano ispirato dallo stile del suo vecchio mentore Peter Green, uno slow dall’atmosfera raffinata, con un buon lavoro del batterista Rob Grosser, altro veterano australiano, di  Jon C. Butler (ex Diesel Park West) bravo vocalist, e di Tim Gaze, altro eccellente chitarrista, che con l’organista Clayton Doley completa la pattuglia down under, che lavora di fino in questo brano. The Blues Just Got Sadder, un ricordo del vecchio amico da parte da Daisley, vede ancora un buon lavoro di Gaze alla slide, con l’aggiunta della fluida solista di Steve Lukather e della voce di Joe Lynn Turner dei Rainbow, mentre Empty Rooms, tratta da Victims Of The Future del 1983, anche se è meno blues e più AOR, non è male, canta Neil Carter degli UFO, Illya Szwec, di cui ignoravo l’esistenza, australiano anche lui, se la cava alla chitarra, e Daisley suona anche l’armonica in questo brano.

Still Got The Blues For You, è uno dei cavalli di battaglia di Moore, una classica ballata che suona quasi uguale all’originale, con John Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake) alle prese con il classico refrain del brano alla solista e Daniel Bowes dei Thunder al canto, meno tamarro di quanto mi aspettavo, anzi;Texas Strut, dallo stesso album, era un omaggio di Gary alla musica di Stevie Ray Vaughan, un gagliardo boogie preso a tutta velocità, cantato da Brush Shiels, il vocalist degli Skid Row, la prima band di Moore, alla chitarra ancora l’ottimo Gaze. Nothing’s The Same è uno strano brano intimo, con chitarra acustica, cello e contrabbasso, cantato ottimamente da Glenn Hughes. The Loner è uno strumentale con Doug Aldrich alla solista, mentre per Torn Inside arriva Stan Webb dei Chicken Shack, una delle vecchie glorie del British Blues e Don’t Believe A Word, uno dei brani più belli di Phil Lynott dei Thin Lizzy,  viene rallentata e stranamente, a mio parere. è forse uno dei brani meno riusciti, anche se la voce e la chitarra di Damon Johnson filano che è un piacere, e buona anche Story of The Blues con Gaze alla solista e la voce potente di Jon C. Butler di nuovo in evidenza. In This One’s For You, un rock-blues decisamente hendrixiano scritto da Daisley, i due figli di Gary Jack e Gus se la cavano egregiamente a chitarra e voce, Power Of The Blues è forse un filo “esagerata”, ma Turner e Jeff Watson dei Night Ranger non enfatizzano troppo il lato metal, prima di lasciare spazio alla solista lirica di Steve Morse e alla voce di Ricky Warwick, attuale cantante dei Thin Lizzy, che rendono onore a Parisienne Walkways con una prestazione egregia.

Pensavo peggio, molto simili agli originali ma, ripeto, un CD non disprezzabile nell’insieme, per chi il blues(rock) lo ama “mooolto” energico.

Bruno Conti

Con Dave Cobb Si Va Sul Sicuro! Dillon Carmichael – Hell On An Angel

dillon carmichael hell on an angel

Dillon Carmichael – Hell On An Angel – Riser House CD

Dave Cobb è ormai diventato un produttore richiestissimo per quanto riguarda un certo tipo di musica di qualità, ed ormai il suo nome si trova su una lunga serie di album di diversi generi, dal cantautorato puro, al rock, passando per il blue-eyed soul (Anderson East, per fare un esempio). Ma il genere in cui Cobb eccelle è il country, sia quando strettamente imparentato con il rock, come con Chris Stapleton, sia in album formati da cowboy songs dal sapore antico, come nel caso di Colter Wall. Quello che però è certo è che se troviamo il nome di Dave su un disco, possiamo stare tranquilli circa la validità della proposta: è questo il caso anche di Hell Of An Angel, album d’esordio di Dillon Carmichael, un ragazzone proveniente dal Kentucky che si rifà apertamente a certa country music degli anni d’oro, quando Waylon & Willie erano cool e Merle Haggard non sbagliava un colpo.

Carmichael ha una buona capacità di scrittura ed un bel vocione che ricorda un po’ quello di Jamey Johnson, e le dieci canzoni di questo lavoro d’esordio ci mostrano di che pasta è fatto: Dillon predilige le ballate, canzoni lente, meditate ed intense, ma suonate con piglio da rocker e senza alcun tentennamento, dimostrando però di avere anche il senso del ritmo e la capacità di trascinare a dovere quando serve. La solita produzione asciutta e pulita di Cobb fa il resto, con il consueto manipolo di fedelissimi: Leroy Powell alla chitarra elettrica, Brian Allen al basso, Chris Powell alla batteria, Robby Turner alla steel e Mike Webb alle tastiere. L’iniziale Natural Disaster è subito la più lunga del disco (oltre sei minuti), ed è una ballata lenta ma potente allo stesso tempo, cantata con voce piena e dalla strumentazione molto misurata ma impeccabile (il marchio di fabbrica di Cobb), uno slow elettrico con chitarre ed organo ben presenti. Anche It’s Simple è lenta, ma il suono dietro la voce è decisamente vigoroso e chiaramente ispirato dalle classiche sonorità degli anni settanta, quando la nuova frontiera del country era rappresentata dal movimento Outlaw.

Country Women è ritmata, elettrica e gradevolissima, con una guizzante steel ed un suono texano al 100%, mentre Hell On An Angel ha un approccio decisamente rock e chitarre che sventagliano che è un piacere (ottima la slide), per un brano che è quasi più southern che country. Dancing Away With My Heart è una ballata toccante, di quelle che emotivamente parlando lasciano il segno, ancora con apprezzabile lavoro di steel ed un assolo chitarristico degno di nota, Hard On A Hangover è un gustosissimo honky-tonk elettrico, dalla melodia vincente ed il solito accompagnamento perfetto: George Jones ne sarebbe andato fiero. La cupa What Would Hank Do è piuttosto attendista, Might Be A Cowboy, pur rimanendo nell’ambito dei brani lenti, è una country ballad lucida e di nuovo con gli strumenti dosati con maestria (specie chitarra ed organo). Il CD si chiude con Old Flame, altro country tune dal sound maschio e vigoroso, e con la pianistica Dixie Again, ennesimo vibrante pezzo che fin dal titolo è un chiaro omaggio al Sud.

C’è un nuovo countryman in città, si chiama Dillon Carmichael: garantisce Dave Cobb.

Marco Verdi

Janis Joplin, Gli Anni Del “Grande Fratello” 1966-1968 – Cheap Thrills E Il Rock Non Sarà Più Lo Stesso Parte II

A giugno, su invito dei Mamas And Papas che lo organizzavano, insieme a Lou Adler, Derek Taylor ed altri, partecipano al Monterey Pop Festival (la parola rock non era ancora stata sdoganata), ottenendo un successo clamoroso. Il loro “geniale” manager dell’epoca non diede il permesso al regista D.A. Pennebaker, che stava filmando l’evento, di riprendere il loro set del sabato 17 giugno, senza prima essere pagati. Ovviamente gli organizzatori entusiasti della loro esibizione pensarono di inserire la band di nuovo nel programma della domenica, e così fu fatto, anche se suonarono solo due brani, contro i cinque del giorno prima, ma l’esecuzione di Ball And Chain, il pezzo di Big Mama Thornton, è entrato giustamente negli annali della storia della musica rock, come una delle più straordinarie, viscerali, commoventi, performance di sempre, con Janis Joplin che lasciò completamente senza fiato il pubblico presente: sintomatico è il “wow” che si vede formarsi sulle labbra di Mama Cass Elliott alla fine dell’esibizione e la sua amica Michelle Phillips che pensava che la Joplin avesse cantato come una rediviva Bessie Smith. In un Festival ricco di momenti straordinari ed unici, quel brano rimane scolpito nella memoria collettiva, insieme alle esibizioni di Jimi Hendrix, con chitarra incendiata e performance stellare, Otis Redding che porta la musica soul alla conoscenza di tutti con un set altrettanto incendiario, scomparendo poi solo sei mesi dopo nel famoso incidente aereo, e gli Who, con batterie e chitarre che volavano sul palco mentre Townshend e Moon si “incazzavano” a comando.

Comunque i Big Brother & The Holding Co., che nei sei mesi precedenti vissuti in California, in una sorta di ritiro in una comune a Marin County, provando, riprovando, esibendosi anche dal vivo e probabilmente dedicandosi anche ad “attività ludiche”, erano diventati una fior di band, diedero l’impressione di essersi trasformati in un gruppo solido e complessivamente di grande spessore. Diciamo che l’uscita dell’album, avvenuta solo ad agosto, e con un suono che non era quello esibito a Monterey, pur godendo della spinta di quell’evento e rimanendo in classifica per una trentina di settimane, non andò oltre il 60° posto. Comunque nell’album ci sono alcuni brani che, pur non essendo versioni definitive e soddisfacenti, a causa della produzione poco incisiva di Bob Shad, sono rimaste a lungo nel repertorio di Janis: canzoni come Bye Bye Baby, Light Is Faster Than Sound, All Is Loneliness e soprattutto Down On Me, sono rimasti comunque nel repertorio live della band, diventando dei piccoli classici, e anche Women Is Losers e Call On Me non erano male, senza dimenticare che nella riedizione dell’album da parte della Columbia, per capitalizzare sulla fama raggiunta dopo l’esibizione a Monterey e il successo crescente, vennero aggiunti due brani, entrambi pubblicati come singoli, The Last Time, e soprattutto Coo Coo, uno dei pezzi suonati nella prima esibizione al Festival di Monterey.

Per avere una idea piuttosto approfondita delle vicende della band vi consiglio l’ottimo DVD edito dalla Eagle Vision nel 2009, relativo al documentario girato nel 2001 da Michael Burlingame, intitolato Big Brother And The Holding Co. With Janis – Nine Hundred Nights, che traccia in modo preciso e molto ben documentato ed in oltre due ore, l’intero percorso artistico della band, dalla scelta del nome, ad un capitolo dedicato alla scena psichedelica, i primi incontri tra i vari protagonisti, fino all’ingresso nella formazione di Dave Getz e Janis Joplin, i concerti all’Avalon e al Fillmore, un altro capitolo dal titolo piuttosto esplicito “Drugs Everywhere”, l’esibizione trionfale al Monterey Pop Festival, con le due canzoni dello show della domenica, CombinationOf The Two e Ball And Chain, l’arrivo del nuovo manager Albert Grossman, e l’inizio della preparazione del nuovo album Sex, Dope and Cheap Thrills.

Sex, Dope And Cheap Thrills

Il 1968 inizia con la prima tappa della conquista della Costa Est degli Stati Uniti, i Big Brother arrivano a New York per alcuni concerti all’Anderson Theatre, tra cui il primo in assoluto il 17 febbraio del 1968, e meno di un mese dopo, l’8 marzo,  inaugurano il Fillmore East di Bill Graham. Le recensioni dei giornali locali non furono molto positive, dicendo che gli strumenti erano scordati e il volume era a livelli micidiali, tanto che si usciva dal concerto con le orecchie che fischiavano. Dai filmati dell’epoca si percepisce che in effetti i cinque non erano forse il massimo della finezza e della precisione, però il suono che usciva dagli amplificatori era potente e vibrante e la loro cantante una vera forza della natura anche in questi spettacoli indoor: il 7 aprile, durante le registrazioni per Cheap Thrills, i Big Brother parteciparono ad una serata di veglia al Generation Club, un piccolo locale di New York, denominata Wake For Martin Luther King, in ricordo del grande politico ed attivista, che era stato assassinato 3 giorni prima a Memphis, alla serata di cui esistono riprese non ufficiali, erano presenti molti musicisti importanti, tra cui Jimi Hendrix che si vede ai piedi del palco durante l’esibizione del gruppo.

Che senza tenere la media frenetica di show, spesso giornaliera, che aveva avuto nel biennio 1966/1967 in vari locali di tutta la California, con la pausa della trasferta a Chicago, anche nel 1968, si esibì comunque a Phiadelphia, Detroit, Boston, di nuovo a Chicago, e anche in altre serate al Generation Club, il tutto mentre procedevano le registrazioni per il nuovo album, iniziate il 2 marzo ai Columbia Recording Studios di New York e portate a termine a quelli di Hollywood il 20 maggio, con qualche traccia registrata ai Golden State Recorders di San Francisco, con la produzione di John Simon, che dopo avere prodotto un disco di Gordon Lightoot, venne chiamato da Albert Grossman a produrre Cheap Thrills, ma raggiungerà fama imperitura con la Band. Delle vicissitudini e dei contenuti completi del “nuovo” album potete leggere nella recensione in un altro post nel Blog https://discoclub.myblog.it/2019/01/08/correva-lanno-1968-7-una-rara-occasione-in-cui-la-ristampa-forse-supera-loriginale-big-brother-the-holding-co-sex-dope-cheap-thrills/ . Il disco, come è noto avrebbe dovuto chiamarsi Sex, Dope And Cheap Thrills, ma il titolo fu rigettato dalla Columbia, come pure la foto di copertina, che li vedeva diciamo poco vestiti, o se preferite, quasi completamente ignudi, su un letto di una camera d’albergo: quindi eliminati il sex e il dope, rimasero i Cheap Thrills la cui immagine fu affidata al grande disegnatore Robert Crumb, che realizzò una copertina che comunque nel “fumetto” realizzato, la sua quota lisergica e sessuale ce l’aveva comunque, e rimane una delle copertine più celebri di sempre.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills coverBig Brother And The Holding Company Cheap Thrills

Mentre il gruppo, rientrato in California, continua ad esibirsi in concerti a raffica, tra cui epocali sono quelli pubblicati nel 1998, come Live At Winterland 1968, con il meglio delle due serate del 12 e 13 aprile, e Live At the Carousel Ballroom1968, con la serata del 23 giugno, altro concerto formidabile che li fotografa in uno degli ultimi momenti di grande splendore. Non perché non ce ne saranno altri, ma perché Janis Joplin cominciava già a meditare di lasciare il gruppo per registrare un “album soul” https://www.youtube.com/watch?v=-oni7BjLcVQ . Comunque il 12 agosto esce l’album, sotto forma di finto live, con gli applausi aggiunti da John Simon, perché quello era il progetto iniziale, salvo un brano Ball And Chain che, nonostante il LP riporti fu registrato al Fillmore, in effetti viene dal concerto al Winterland Ballroom citato poc’anzi. Il disco raggiunse la vetta delle classifiche americane, dove rimase per otto settimane consecutive, non male se pensate a quali e quanti album c’erano in circolazione in quella annata straordinaria. Complessivamente il LP vendette due milioni di copie e pure Piece Of My Heart fu un grande successo arrivando fino al 12° posto delle classifiche dei singoli.

Come complemento potremmo aggiungere che il DVD ricordato prima, contiene anche un affascinante e lunga sequenza che riprende la band proprio mentre prova alcuni brani dell’album, tra cui ripetute e molto dibattute, con Simon, quelle per Summertime, una delle canzoni più importanti di quelle sessions. Alla fine dell’estate Janis annuncia ufficialmente la sua decisione di andarsene e il 1° Dicembre del 1968 a San Francisco tiene il suo ultimo concerto con i Big Brother. Non finisce qui, ma il seguito è un’altra storia, quella di Janis da sola, to be contined…

Bruno Conti

Janis Joplin, Gli Anni Del “Grande Fratello” 1966-1968 – Cheap Thrills E Il Rock Non Sarà Più Lo Stesso Parte I

Big Brother and the Holding Company promo shot, 1967

Big Brother and the Holding Company promo shot, 1967

“Le telecamere scivolano e si soffermano su quei lineamenti aspri e vissuti, come se lei fosse una incredibile bellezza e, a modo suo, lo è. Gli occhi degli uomini si fanno vitrei quando pensano a lei. I giornalisti la stuprano con le parole come se non ci fosse un altro modo di avere a che fare con lei. Erano anni che nessuno era così eccitato verso qualcuno, dal modo in cui la gente si comportava con Janis Joplin. Era una esperienza completamente nuova per chiunque. La gente doveva cambiare il proprio modo di pensare per adattarsi. La sua voce, per esempio. Le ragazze non potrebbero cantare a quel modo, completamente rauche ed insistenti e battendo i piedi. Non dovrebbero dare questa impressione che stanno urlando per essere liberate da qualche terribile, continuo dolore, che però non è  una sofferenza fisica interamente spiacevole. Per prima cosa questa è l’epoca del “figo” (più o meno vale per Aretha e Levi Stubbs, e loro sono neri, e Janis è bianca). Janis Joplin ha completamente ridefinito il concetto della cantante donna. E’ così bella che ti toglie il respiro, e non c’è nulla che sti possa far cambiare quella opinione – di sicuro non il fatto che in qualsiasi altra epoca avresti dovuto dire che la ragazza era una casalinga.

Saltella in giro, vestita come una zoccola dei bassifondi, buffi cappellini con le piume in testa, braccialetti alle caviglie,indosso raso trasandato. I suoi vestiti da battona li chiama, e ride come una battona. E beve – pensate un po’ – beve, in una generazione di drogati. Lei beve, whisky Southern Comfort, una ragazza cantante di 24 anni che ha le abitudini di un’altra decade (NDA Ma poi vedremo che purtroppo si adeguerà). […] Ogni volta che cantava, era come se quella voce ruvida, rovinata dal whisky, fosse sul punto di spezzarsi. Ha detto “Preferirei non cantare piuttosto che cantare piano” , e ha ragione, perché la frenesia che ha nei piedi e nei fianchi è anche nella sua gola. Non stupisce il fatto che dopo tutto quello che ha passato alcune volte sembri vecchia e consumata. Ma ci sono altre occasioni in cui sembra giovane e vulnerabile, e la transizione avviene in pochi istanti. […] Quello che un Jimi Hendrix o un Mick Jagger fanno , provocando degli svenimenti nelle ragazzine, Janis lo provoca negli uomini – facendo sembrare la sua intera esibizione una sfrenato, sudato, appassionato, esigente atto sessuale!”  

lillian roxon rock encyclopedia italiano lillian roxon rock encyclopedia inglese

Tutto questo, senza sapere quello che sarebbe successo in seguito, lo scriveva Lillian Roxon nel 1969, nella sua Rock Encyclopedia, forse il primo libro dedicato al rock da una scrittrice-giornalista, definita anche la Madre Del Rock, una delle più grandi conoscitrici della musica degli anni ‘60, nata ad Alassio nel 1932 da genitori polacco-australiani, e morta nel 1973 a New York, autrice di questo libro, il cui frammento che avete appena  letto, dedicato a Janis Joplin, ed estratto dalla voce dell’enciclopedia rock dedicata ai Big Brother & The Holding Company, è una mia traduzione dall’originale inglese, ma ne esiste anche una versione italiana Rock Encyclopedia E Altri Scritti, pubblicata dalla Minimum Fax, che è uno dei libri più belli dedicati alla nostra musica mai usciti (non so se la versione italiana sia completa, visto che il numero di pagine mi sembra inferiore, ma forse dipende dalla grafica diversa utilizzata).

A questo punto riavvolgiamo il nastro e torniamo all’inizio della storia.

I primi anni.

Janis Lyn Joplin nasce a Port Arthur, Texas durante la IIa Guerra Mondiale, il 19 Gennaio 1943, da una coppia in cui il padre era un ingegnere della Texaco e la madre una “cancelliera” in un college, entrambi  adepti delle “Chiese Di Cristo”. Aveva anche due fratelli minori, ma Janis è sempre stata la più inquieta e problematica, quella che richiedeva una maggiore attenzione da parte dei genitori. Già da ragazzina aveva fatto amicizia con un gruppo di “emarginati”, uno dei quali però aveva una collezione di dischi blues di Bessie Smith, Ma Raney, Lead Belly, che saranno molto importanti nella sua decisione futura di diventare una cantante. Anche se già al liceo aveva iniziato a cantare, Janis era comunque una ragazzina cicciottella e brufolosa (anzi con l’acne che le lascerà delle cicatrici perenni), bullizzata dai suoi coetanei che la chiamavano “maiale”, “fricchettona”, “mostro”, “amica dei negri”, tutte cose che la renderanno nel tempo insicura e la faranno sentire sempre poco amata, anche negli anni del suo maggior successo. Comunque, tra alti e bassi, finisce il liceo, e poi prova ad iscriversi a varie facoltà universitarie, non completandone nessuna.

Nel frattempo anche la sua carriera musicale continua in Texas a livello amatoriale, poi convinta dall’amico Chet Helms, decide di andare in autostop fino a San Francisco in California nel 1963, e l’anno successivo conosce Jorma Kaukonen con cui registra il famoso “nastro della macchina da scrivere”, che era quella usata nella stanza accanto da Margareta, la prima moglie di Jorma e che si sentiva sullo sfondo  di questi blues embrionali. Nel frattempo era stata anche arrestata per avere rubato in un negozio e nei due anni che seguirono il suo uso di droga si era fatto crescente, diventando una “speed freak” e una eroinomane, a dispetto di quanto detto dalla Roxon, tanto da essere convinta a ritornare a Port Arthur dai genitori, visto che il suo peso era calato fino a 40 chili. E anche se lei stessa, durante alcune sedute psichiatriche, si chiedeva come avrebbe fatto ad intraprendere una carriera nella musica senza cadere di nuovo nella trappola della droga, alla fine rassicurata anche dal suo medico  decide di tentare di nuovo la sorte e tra il 1965 e il 1966 ritorna ad Haight-Ashbury nella comunità hippie locale dove, tramite di nuovo la mediazione di Chet Helms, conosce il manager dei Big Brother & The Holding Co., ed inizia così la sua breve epopea musicale che la renderà la più grande voce della storia della musica rock.

The Big Brother Years 1966-1968

Per questa volta ci occupiamo dei due anni che vanno appunto dal giugno del 1966, quando si unisce alla band, al 1° dicembre 1968, giorno del suo ultimo concerto con il gruppo. Peter Albin, il leader, Sam Andrew e James Gurley, si esibivano insieme già dal 1965, partecipando anche a jam sessions organizzate dall’impresario Chet Helms, che aveva trovato loro anche un batterista Chuck Jones e quindi nel gennaio del 1966 erano nati i Big Brother & The Holding Company. A quella prima data era presente tra il pubblico anche Dave Getz, pittore e a tempo perso batterista jazz, o viceversa. Diventano la house band dell’Avalon Ballroom di San Francisco, dove suonavano un misto di pych-garage e rock strumentale, di tanto in tanto cimentandosi come cantanti, ma non era il loro forte. Per ovviare al problema Helms propose loro questa sua amica, Janis Joplin, che aveva preso anche in considerazione l’idea di entrare nei 13th Floor Elevator, il gruppo di Roky Erickson che operava in Texas. A questo punto Janis si trasferisce ancora una volta in California, e il 10 giugno del 1966 esordisce sul palco dell’Avalon Ballroom come cantante dei Big Brother.

Come ha ricordato Sam Andrew i primi incontri in cui si annusarono a vicenda non furono entusiasmanti: a Sam, per il modo in cui era vestita, come una normale ragazza del Texas e non una hippie, ricordava sua madre che veniva anche lei da quello stato, e anche a livello vocale non furono subito abbagliati dalla sua presenza, forse perché erano abituati a suonare a livelli sonori molto alti e quindi la voce si perdeva nel marasma. E a lei, come scrisse a casa, sembravano fin troppo “esotici”. Quindi ci volle del tempo prima che le due parti iniziassero ad amalgamarsi; lei si era portata dietro anche un “amico” dell’epoca, il tastierista Stephen Ryder, e poi i fans della band ci misero del tempo per abituarsi a questa nuova cantante, che però si stava impegnando a fondo per inserirsi nel suono decisamente elettrico del gruppo, e gli altri cercarono di mitigare la tendenza alle sperimentazioni sonore che li caratterizzavano. Quando ,nel settembre del 1966 si trovarono a suonare per due settimane a Chicago, alla fine i soldi ricevuti non erano sufficienti per comprarsi i biglietti per l’aereo del ritorno a San Francisco, e quindi firmarono un contratto discografico con la Mainstream Records, iniziando anche a registrare le prime quattro canzoni dell’album, che sarebbe poi stato completato a dicembre a Los Angeles.

Essendo la loro nuova etichetta abituata ad artisti jazz, il risultato finale non fu proprio quello che si aspettavano, e quindi Big Brother And The Holding Company., era a tratti più acustico e folk dell’heavy rock-blues psichedelico che erano abituati a suonare dal vivo, e francamente non particolarmente memorabile, con qualche eccezione. Oltre a tutto in quei tempi in cui tutto succedeva in fretta, il LP ci mise parecchio ad uscire: il primo singolo, con Bye Baby e Intruder, esce nei primi mesi del ’67, seguito a luglio dal secondo con Blind Man lato A e la più pimpante All Is Loneliness sul retro, e poi finalmente viene pubblicata la migliore canzone dell’album Down On Me, un traditional degli anni ’20 trasformato dalla Joplin in una vibrante canzone rock., però a questo punto siamo già ad agosto del 1967 e un fatto fondamentale ha cambiato completamente la vita del gruppo, e della sua cantante.

Fine prima parte, segue…

Un Bagno Rigenerante Nelle Acque Del Sud. Amy Ray – Holler

amy ray holler

Amy Ray – Holler – Daemon/Compass CD

Amy Ray, come saprete, è da più di trent’anni una metà del duo delle Indigo Girls insieme ad Emily Saliers ma, a differenza della compagna che ha pubblicato un solo album senza di lei, è titolare anche di una corposa discografia da solista che dal 2001 al 2014 ha prodotto cinque lavori. Ed Amy, che con le Ragazze Indaco porta avanti da anni un discorso fatto di musica folk-rock-cantautorale, da sola si cimenta a volte in generi differenti: per esempio, il suo primo disco, Stag, era quasi punk, mentre Lung Of Love aveva un suono da band di rock indipendente. Holler è il sesto solo album di Amy, e fin dal primo ascolto si pone come il più riuscito della sua carriera lontana dalla Saliers: infatti stiamo parlando di un lavoro davvero bello, nel quale la Ray va a riscoprire le sue radici del Sud (è nata in Georgia), mescolando abilmente rock, country, folk e addirittura mountain music, un cocktail stimolante e coinvolgente, che risulta riuscito anche grazie alle ottime canzoni che Amy ha scritto per il progetto.

Un disco impregnato nel profondo di suoni del Sud, che vede all’opera anche una serie di musicisti da leccarsi i baffi: oltre ai membri dell’abituale live band di Amy (Jeff Fielder alla chitarra, Matt Smith alla steel, Kerry Brooks al basso e Jim Brock alla batteria), abbiamo tre nomi legati a doppio filo alla Tedeschi Trucks Band, cioè il produttore Brian Speiser, il bravissimo Kofi Burbridge, alle tastiere in diversi pezzi, e soprattutto Derek Trucks stesso in un brano. In più, il determinante contributo della grande banjoista Alison Brown, ed una serie di guest vocals che rispondono ai nomi di Vince Gill, Brandi Carlile, The Wood Brothers e Justin Vernon, leader dei Bon Iver. Ma al centro di tutto c’è Amy, con le sue canzoni e la sua lunga esperienza come performer: Holler è dunque un piccolo grande disco, sicuramente il migliore della Ray, ma anche superiore alle ultime prove delle Indigo Girls (che, va detto, il livello di album come Rites Of Passage e Swamp Ophelia non lo hanno mai più raggiunto). Dopo un breve preludio strumentale che sa di country d’altri tempi (Gracie’s Dawn), l’album attacca con la potente Sure Feels Good Anyway, uno splendido country-rock dal ritmo alto, con chitarre, violino, steel e piano in evidenza ed una melodia importante: subito una grande canzone. Dadgum Down è un pezzo dall’approccio tradizionale (con il banjo della Brown a dominare) ma con un arrangiamento di stampo rock.

Last Taxi Fare invece è una ballata tersa e limpida, dal passo lento e con un chiaro sapore southern soul, impreziosita dai fiati e dalle armonie di Gill e della Carlile, mentre Old Lady è un toccante interludio che purtroppo dura solo un minuto, e che confluisce nella roccata Sparrow’s Boogie, un pezzo decisamente coinvolgente, sorta di bluegrass elettrico con lo splendido banjo della Brown doppiato ad arte dalla chitarra di Fielding, ed Amy che si dimostra in forma e perfettamente a suo agio. Niente male anche Oh City Man, canzone tra folk e country, con il solito banjo che viene affiancato da un bel dobro, il tutto in una limpida atmosfera bucolica; Fine With The Dark vede solo la Ray voce e chitarra, puro cantautorato di classe, Tonight I’m Paying The Rent è uno scintillante honky-tonk dal motivo irresistibile, con i fiati dietro la band ed un ottimo Burbridge: tra le più belle del CD. Notevole anche Holler, uno slow languido, accarezzato da una bella steel e con ricordi lontani dell’Elton John “americano” (quello di dischi come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water); che dire di Jesus Was A Walking Man? Uno spettacolare country-gospel, davvero coinvolgente, pura mountain music degna di Ralph Stanley (o della Nitty Gritty Dirt Band del primo Will The Circle Be Unbroken). Dopo i 54 secondi della struggente Sparrow’s Lullaby, troppo breve, il CD si chiude con Bondsman (Evening In Missouri), fluida e crepuscolare ballata di nuovo con piano e steel in prima fila, e con Didn’t Know A Damn Thing, altro splendido pezzo di puro southern country, dal bellissimo refrain e con la chitarra di Trucks a rilasciare un breve ma ficcante assolo.

Veramente una bella sorpresa questo Holler: se anche negli ultimi anni avete un po’ perso di vista le Indigo Girls, bypassarlo sarebbe un vero peccato.

Marco Verdi