Visto L’Argomento Forse Si Poteva Fare Meglio. One Note At A Time Soundtrack – Keeping The Music Alive Keeping New Orleans Alive

one note at a time soundtrack

One Note At A Time Soundtrack – Keeping The Music Alive Keeping New Orleans Alive – Louisiana Red Hot Records         

Questa è la colonna sonora di un documentario che fotografa la situazione di New Orleans e della sua musica e dei suoi protagonisti a una dozzina di  anni di distanza dall’uragano Katrina: girato da Renee Edwards, che esordisce alla regia con questo film che ha vinto molti premi negli Stati Uniti e in giro per il mondo. Completato nel 2016, il documentario è stato di recente nelle sale ed è stato trasmesso da alcune televisioni,e probabilmente, si spera, verrà pubblicato in futuro su DVD o Blu-ray, per ora è uscita solo la colonna sonora (che non è affatto facile da reperire) intesa proprio nel senso letterale del termine, in quanto nel CD ci sono anche molti brevi frammenti di interviste, dialoghi con i musicisti, e anche alcuni intermezzi creati ad hoc per lo score da Ray Russell, che ha supervisionato la scelta dei pezzi, alcuni realizzati da leggende della musica della Louisiana come Dr. John, rappresentanti della famiglia Neville, Brass band varie e anche parecchi  artisti della nuova scena di New Orleans, quelli che faticosamente stanno cercando di rilanciarne la musica.

Il tutto per chi ascolta il CD, per quanto interessante, è a tratti frammentario e spezzettato, probabilmente il film, che non ho visto, dovrebbe essere più intrigante ed avvincente: comunque nella colonna sonora ci sono momenti che potrebbero consigliarne l’acquisto, se siete fans della musica della Crescent City. Alcuni sono proprio piccoli accenni, altri sono anche fin troppo lunghi, come il remix della Let Me Do My Thing eseguito dalla Hot 8 Brass Band, che su un groove funky tipico del sound di NOLA, tra fiati e giri di basso insinuanti, poi però si trascina per quasi nove minuti tra rappate insulse e ripetute ad libitum e altre scelte sonore non felicissime, ok che è il “nuovo” sound della città, più al passo con i tempi, ma sinceramente preferivo quello vecchio. Come in una versione live di Papa Was A Rolling Stone dei Temptations, eseguita da Damion Neville & The Charmaine Neville Band; meno riuscita, nonostante il nome, è la Higher di Felice Guilmont, bella voce femminile, ma per un soul fin troppo sintetico e “moderno”, per i miei gusti personali. Decisamente meglio una ballata acustica come Slip Away, cantata da Chip Wilson e Jesse Moore, oppure un altro tuffo nel super funky, questa volta fiatistico, di Ray Nagin (Give My Projects Back) suonato dalla To Be Continued Brass Band, ed anche il suono più tradizionale e divertente di I Wish I Could ShimmyLike My Sister Kate, registrato dal vivo dalla New Orleans Ragtime Orchestra.

Niente male anche la dolce Please Don’t Take Me Home,un  pezzo tipico da cantautore, cantato da Bud Tower con il supporto di alcuni musicisti locali tra cui spiccano David Torkanowsky e Shane Teriot, oppure la jazz fusion quasi anni ’70 di una Tehran con influenze orientali ,eseguita dal Cliff Hines Quintet guidato dal chitarrista omonimo che sfrutta anche la presenza di un paio di voci femminili intriganti. I due brani dal vivo in sequenza  di Dr. John, Roscoe’s Song e Down The Road, inutile dire che sono tra le cose più interessanti, nonostante la voce sempre più “vissuta” del dottore, le mani volano sul pianoforte sempre con classe immensa; e non manca neppure il tributo al suono Dixieland di Louis Armstrong con una piacevole Down By The Riverside suonata e cantata da Barry Martin, per non parlare di uno strano vecchio R&R come Carnival Time di tale Alvin L. Johnson,  o del jazz classico proposto da Delfeayo Marsalis e la Uptown Jazz Orchestra alle prese con Blue Monk. Gran finale corale con Dr. John, Cyril Neville e altri musicisti meno noti che intonano brevemente la classica This Little Light of Mine. Alla fin fine questa fotografia della New Orleans attuale non è poi così male, scremata da tutti gli intermezzi è quasi bella.

Bruno Conti

Dopo Vent’Anni E’ Un Disco Ancora Attualissimo! Calexico – The Black Light 20th Anniversary Edition

calexico black light 20th anniversary

Calexico – The Black Light 20th Anniversary – City Slang/Quarterstick 2CD

Sono già passati due decenni dall’uscita di The Black Light, il disco più famoso (e con tutta probabilità anche il più bello) dei Calexico, band originaria di Tucson e nata nel 1995 da una costola dei Giant Sand. Infatti il gruppo, o forse è meglio dire il duo, ebbe origine quando la sezione ritmica del combo guidato da Howe Gelb, vale a dire Joey Burns (basso) e John Convertino (batteria), decise di intraprendere un discorso musicale distinto da quello della loro band principale, prima con il nome di Spoke e dal 1997 con il moniker definitivo di Calexico, come la città che sorge sul confine tra California e Messico (dalla parte americana, che si contrappone alla Mexicali che si trova subito aldilà della frontiera). The Black Light, uscito nel 1998, fu il primo disco dei due (in realtà ne avevano pubblicato già uno come Spoke tre anni prima), ed è ancora oggi considerato uno dei lavori più influenti ed innovativi degli anni novanta, un album che diede il via ad una vera e propria carriera per Burns e Convertino, al punto da costringerli ad abbandonare i Giant Sand di lì a qualche anno.

E The Black Light, una sorta di concept con canzoni ambientate nel deserto dell’Arizona, è ancora oggi un grandissimo disco, un lavoro innovativo e con un suono che non ha perso un grammo della sua attualità. La musica del duo (che suona la maggior parte degli strumenti, ed è aiutato da pochi ma validi amici, tra cui lo stesso Gelb al piano ed organo, Nick Luca alla chitarra flamenco, Bridget Keating al violino e Neil Harry alla steel) è una creativa e stimolante miscela di rock, tex-mex, surf, musica western alla Ennio Morricone, latin rock e jazz, un genere molto cinematografico e di difficile catalogazione, ma di grande fascino. Alcuni hanno definito le canzoni dei Calexico come “desert noir”, altri come colonna sonora del western che Quantin Tarantino non ha mai girato, fatto sta che The Black Light è un album che ancora oggi non ha grandi termini di paragone: in alcuni momenti sembra di sentire i Los Lobos, ma quelli meno immediati, in altri momenti ci sono sonorità alla Tom Russell, anche se il cowboy californiano è decisamente più country (e comunque nel 2009 il buon Tom vorrà proprio i Calexico come backing band per il suo Blood And Candle Smoke). Di certo la musica dei due ex Giant Sand è davvero adatta per una ipotetica soundtrack, dato che sui 17 brani dell’album originale solo sei sono cantati.

E sono proprio gli strumentali la parte più interessante del disco, a partire dalla splendida Gypsy’s Curse, che apre alla grande il lavoro con un tex-mex-rock dal chiaro feeling morriconiano, una chitarra twang a dominare, subito affiancata dalla fisarmonica e da un “guitarron”, il tutto al servizio di una melodia decisamente evocativa. Degne di nota sono anche la misteriosa Fake Fur, con un bel gioco di percussioni in primo piano ed una chitarra in lontananza (qui vedo i Los Lobos più sperimentali, o meglio la band “dopolavorista” di Hidaldo e Perez, i Latin Playboys), la sognante Where Water Flows, per chitarra acustica, marimba ed un suggestivo violoncello, la cadenzata e messicaneggiante Sideshow, molto godibile, e la complessa Chach, tra rock, jazz e sonorità hard boiled (ancora i Lupi, ma quelli di Kiko). Strepitosa poi Minas De Cobre, pura fiesta mexicana, splendida sotto ogni punto di vista, mentre l’intensa e toccante Over Your Shoulder è una slow ballad che sfiora il country; Old Man Waltz è un vero e proprio valzer dal sapore tradizionale, che si contrappone al bellissimo rock di confine Frontera, surf music degna degli Shadows di Hank Marvin.

E poi ci sono i sei brani cantati (da Burns): la deliziosa western ballad The Ride (Pt. II), con un sapore d’altri tempi, la sussurrata title track, cupa ma affascinante, la lunga e soffusa Missing, percorsa da una bella chitarra e da appropriati rintocchi di pianoforte (oltre che da una languida steel), la squisita Trigger, ballatona ancora dal mood western, la mossa Stray, tra rock e Messico, e la quasi sonnolenta Bloodflow. La nuova riedizione di The Black Light, oltre ad un libretto potenziato con nuove liner notes di Burns e Convertino, offre l’album originale opportunamente rimasterizzato sul primo CD ed un secondo dischetto con undici brani usciti all’epoca come b-sides o su EP (di cui solo uno cantato). Alcuni di questi pezzi aggiunti sono chiaramente dei riempitivi (Man Goes Where Water Flows, Rollbar, Drape), ma altri non avrebbero sfigurato sul disco originale, come El Morro, un brano guidato da una splendida slide acustica degna di Ry Cooder, l’intensa e quasi ipnotica Glowing Heart Of The World, che dopo due minuti attendisti si trasforma in un surf-rock strepitoso, la fluida rock ballad in stile western Lacquer e la breve e struggente Bag Of Death. Infine abbiamo tre missaggi differenti della splendida Minas De Cobre, che probabilmente è da considerarsi il capolavoro del disco uscito nel 1998. Un disco, ripeto, ancora talmente bello ed attuale da sembrare il risultato di una session (rigorosamente notturna) di pochi mesi fa.

Marco Verdi

tom russell old songstom russell october in the railraod earth

P.S: avendo nominato nel corso della recensione Tom Russell, volevo segnalare un interessante CD che il cantautore di Los Angeles ha pubblicato solo sul suo sito, cioè Old Songs Yet To Sing, in cui Tom rivisita in acustico (e con l’aiuto esclusivamente di Andrew Hardin alla seconda chitarra acustica) una serie di classici del suo songbook, con esiti eccellenti dato che stiamo parlando di brani che rispondono ai titoli di Gallo Del Cielo, Tonight We Ride, Veteran’s Day, The Sky Above, The Mud Below, Angel Of Lyon, Haley’s Comet, Rose Of The San Joaquin, Navajo Rug, Throwing Horseshoes At The Moon ed altre 11 splendide canzoni. Un gustoso antipasto in attesa del nuovo album “elettrico” di Russell, October In The Railroad Earth, in uscita a metà Marzo.

Correva L’Anno 1968 7. Una Rara Occasione In Cui La “Ristampa” Forse Supera L’Originale. Big Brother & The Holding Co. – Sex Dope & Cheap Thrills

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills

Big Brother & The Holding Co. – Sex, Dope & Cheap Thrills – 2 CD Columbia Legacy

Dei tanti dischi che hanno festeggiato il 50° Anniversario dalla loro uscita nel 1968, forse Cheap Thrills, almeno sulla carta, era uno dei meno attesi. Ma il disco all’epoca, oltre a confermare l’inarrestabile ascesa di Janis Joplin con i suoi Big Brother, che era iniziata l’anno prima con la splendida esibizione al Monterey Pop Festival, fu anche uno dei dischi di maggior successo di quell’anno: otto settimane consecutive al numero 1 delle classifiche di Billboard ed oltre due milioni di copie vendute. Non male per un album che allora fu accolto in maniera controversa, con parecchi critici che lo recensirono tiepidamente, e anche nel 2003 nella lista dei 500 Più Grandi Album di Tutti I Tempi della rivista Rolling Stone, il disco fu inserito solo al 338° posto! Ma devo dire che mi sembra uno di quelli che sono invecchiati meglio: forse è molto legato al periodo e alla scena musicale che rappresenta, la controcultura hippy, pacifica e psichedelica (sia per l’uso delle sostanze che per la musica) della California  di Haight-Ashbury, San Francisco, ma il fascino della voce di Janis Joplin e anche la bravura degli altri quattro musicisti, sono assolutamente da rivalutare.

Molti hanno spesso negato che esistesse un filone musicale univoco di gruppi musicali californiani dell’epoca, dai Grateful Dead ai Jefferson Airplane, dai Quicksilver appunto a  Big Brother & The Holding Co. (per ricordarne solo alcuni) erano effettivamente molto diversi tra loro, comunque legati dalle esibizioni comuni dal vivo in quelli che erano i “templi” della musica di San Francisco come Avalon Ballroom, Winterland e Carousel Ballroom (il futuro Fillmore West). In effetti i Big Brother furono gli unici ad avere successo (insieme ai Jefferson Airplane, già prima di loro) con un disco per certi versi “strano”: solo sette canzoni, di cui una lunghissima, Ball And Chain, l’unica registrata veramente dal vivo, mentre alle altre il produttore John Simon (con cui Janis non si prese molto bene), d’accordo con la casa discografica, aggiunse degli applausi posticci per dare l’idea di un concerto, mentre le canzoni furono tutte registrate in studio, tra marzo ed aprile del 1968 ai Columbia Recording Studios di New York, dove la band era giunta a febbraio per dei concerti all’Anderson Theatre e poi per l’inaugurazione del Fillmore East di Bill Graham. Il gruppo, reduce dal parziale insuccesso dell’omonimo e deludente album dell’anno precedente, pubblicato dalla piccola etichetta Mainstream, ora aveva come manager Albert Grossman, lo stesso di Dylan, e un contratto con la potente Columbia.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills cover

Dell’album “vero” non ne parliamo, perché la Columbia Legacy, per una volta ha avuto una brillante idea per festeggiare quel disco: un doppio CD che raccoglie il work in progress che portò a quell’album, attraverso trenta registrazioni, di cui 25 inedite, almeno come versioni se non come brani in sé, la ripresa del titolo originale Sex, Dope & Cheap Thrills che all’epoca fu censurato e qui viene restaurato (ma non la foto originale, per quella forse dovremo aspettare qualche altra ristampa futura). Ok, sono sempre le solite canzoni, le abbiamo sentite mille volte, anche in pubblicazioni illegali, ma pure in cofanetti, ristampe varie, antologie, però raccolte insieme hanno un loro fascino innegabile, non solo legato all’interesse dei fans, ma anche per i contenuti, spesso di assoluto interesse. L’apertura è affidata alla take 3 di Combination Of The Two, un pezzo di Sam Andrew, questo registrato in California, un arrangiamento vagamente latineggiante a livello percussivo, ma con la chitarra distorta e free form di Andrew in evidenza, e la Joplin in grande forma vocale, ben sostenuta dallo stesso Sam in un call and response vigoroso, anche I Need A Man To Love, un classico blues accorato di Janis, viene proposto in una versione decisamente più lunga ed improvvisata, sempre con la voce roca e potente a librarsi sull’accompagnamento del brano, dove spicca anche un piano e le due chitarre in libertà, il tutto con un suono perfetto e limpido grazie alla nuova masterizzazione effettuata per questo doppio.

La take 2 di Summertime è strepitosa, il famoso giro di chitarra mutuato da Bach introduce il classico brano di Gershwin, intenso e sofferto come sempre, uno dei capolavori assoluti dell’opera della cantante texana, con tutta la band che smentisce qualsiasi dubbio sia stato sollevato sulla loro capacità strumentale, con un arrangiamento raffinato dove le due chitarre e la sezione ritmica si intrecciano con una prestazione vocale fantastica: e pure la take 4 di Piece Of My Heart (scritta in origine da Bert Berns e Jerry Ragovoy per Erma, la sorella di Aretha Franklin) se la batte con l’originale conosciuto, in una versione superba, con il gruppo e soprattutto la sua cantante concentrati e precisi, a confermare l’impegno assoluto in studio che la band ebbe nell’approccio verso questo album epocale. Harry è uno strano pezzo e si capisce, pur nella sua brevità, perché non venne usato nel LP originale,Turtle Blues, dopo varie false partenze, si rivela per un blues duro e puro, in cui la Joplin rende omaggio alle voci del passato che l’hanno influenzata nei suoi anni formativi, la voce, in grande spolvero, non  ancora rovinata dagli stravizi imminenti, imperfetta ma unica, nobilita un brano che di per sé non è straordinario. Sul versante psichedelico Oh, Sweet Mary, cantata a più voci, è uno dei brani più vicini al sound dei Jefferson Airplane (la cui cantante Grace Slick firma, insieme al batterista Dave Getz, le interessanti ed esaustive note del libretto allegato al CD); a concludere la sequenza dell’album originale(con l’aggiunta di Harry), manca giusto una strepitosa e differente rilettura, sempre dal vivo, del brano “rubato” a Big Mama Thornton, ovvero Ball And Chain, dove la Joplin urla, strepita, si emoziona, come se la vita dipendesse dalla sua prestazione, e i Big Brother la sostengono egregiamente in una versione dove ancora una volta non si può non rimanere a bocca aperta per la carica emotiva dirompente che questo scricciolo sapeva infondere nelle sue esibizioni straordinarie.

A seguire sui 2 CD poi troviamo, oltre a differenti takes dei brani appena citati, diverse canzoni apparse, sotto altra forma, in vari album pubblicati nel corso degli anni: Roadblock, scritta con il bassista Peter Albin, uno dei pezzi già editi, sulla ristampa di Cheap Thrills, è una vivace psych-rock song di quelle corali e gagliarde, tipiche del gruppo, mentre Catch Me Daddy, che nella ristampa potenziata appariva dal vivo al Grand Ballroom, qui viene presentata in tre diverse takes, la n°1 soprattutto particolarmente tesa e vibrante, con Janis superba nella sua migliore versione da shouter rock’n’soul appassionata di scuola Stax, quella che più amiamo, una canzone che avrebbe fatto un figurone sul disco originale. It’s A Deal, era già uscita nel box Pearls, è un compatto garage-psych chitarristico cantato a più voci, in uno stile nuovamente vicino a quello dei Jefferson; dopo un breve conciliabolo per decidere il da farsi arriva anche la take 1 di Easy Once You Know How, un’altra “sassata” garage con qualche elemento pop à la Piece of My Heart, seguita da una How Many Times Blues Jam, che già dal titolo dice tutto, una jam spontanea improvvisata in studio dove i cinque + Simon al piano, si divertono su un tema blues-rock comunque vigoroso anche se incompiuto, e alla fine del 1° CD, le take n°7 di Farewell Song, una canzone di Andrew che dava il titolo ad una raccolta di inediti uscita nel 1982, dove appariva in formato live, un bel slow blues intenso dove la Joplin è ancora una volta risoluta e sicura di sé in una ennesima interpretazione da incorniciare.

Il 2° CD si apre con Flower In The Sun, altro brano presente come bonus sulla ristampa di Cheap Thrills, ulteriore pezzo di sapore rock, molto piacevole, ed è l’ultimo “sconosciuto”, a parte tre takes di Mysery’n, due insieme, la prima interrotta e ripresa, un ennesimo blues-rock elettrico di quelli torridi, cantata con il solito impegno da Janis, che in quei due mesi in studio a New York diede forse il meglio di sé. Comunque da non trascurare anche il trittico di Summertime, prima take splendida, peccato che nel finale si incartino, una superba Piece Of My Heart, incendiaria nella sua  energia quasi primeva, e una versione più lunga ed eccitante di Oh Sweet Mary, esuberante e tiratissima. E pure la versione n°7 di I Need A Man To Love è quasi struggente e dolorosa nel suo totale immedesimarsi nella protagonista della canzone, e con una parte strumentale da sballo. Per la verità oltre ad altre takes interessanti delle canzoni già apparse nei due CD, ci sarebbe ancora la cover di Magic Of Love del cantautore folk Mark Spoelstra, altro esempio della potenza devastante di Janis Joplin e dei suoi Big Brother. Una rara, ma non unica, occasione in cui la “ristampa” supera l’originale. Nei prossimi giorni troverete sul Blog anche un lungo Post in due parti dedicato agli anni del “Grande Fratello”.

Bruno Conti

Eccone Un Altro Che Non Sbaglia Mai Un Disco! Cody Canada & The Departed – 3

cody canada & the departed 3

Cody Canada & The Departed – 3 – Blue Rose/Ird CD

Nuovo album per il texano trapiantato in Oklahoma Cody Canada e per la sua attuale band, The Departed, nata dalle ceneri dei Cross Canadian Ragweed (il bassista Jeremy Plato è l’altro membro in comune ai due gruppi insieme a Cody, ed il trio è completato dal batterista Eric Hansen). Il titolo non troppo fantasioso del CD, 3, è peraltro anche fuorviante, in quanto i lavori del gruppo sono in realtà quattro, anche se uno di essi, Adventus, è accreditato genericamente ai Departed, senza la menzione di Canada (e forse è questa la ragione della bislacca numerazione): a dirla tutta esiste anche un disco del 2016, In Retrospect, a nome Jeremy Plato & The Departed, con quindi il bassista come frontman. Ma, considerazioni a parte sulla discografia della band, la cosa più importante è che 3 si rivela essere un gran bel disco di Americana al 100%, con un suono decisamente diretto e chitarristico ed una serie di ottime canzoni. Canada è sempre stato un songwriter coi fiocchi, e questo lavoro è una sorta di riepilogo delle sue influenze, che vanno dalla musica texana, al country-rock di matrice californiana, un po’ di southern ed anche rock puro alla maniera di Tom Petty e John Fogerty (con il quale condivide l’acronimo dell’ex band di appartenenza, CCR).

L’album è prodotto dallo stesso Canada insieme all’amico Mike McClure (a sua volta valido musicista in proprio ed esponente del movimento Red Dirt dell’Oklahoma), il quale partecipa anche in veste di chitarrista aggiunto, insieme a Cody Angel alla steel e Danny Barnes al banjo. Prima ho citato indirettamente i Creedence, e proprio allo storico gruppo di San Francisco si rifà il brano d’apertura, Lost Rabbit, un rock-blues potente e dal ritmo alto, decisamente diretto e chitarristico. Molto bella Lipstick, un folk-rock limpido e cristallino, che rimanda ai classici californiani degli anni settanta, con gran spiegamento di chitarre, ottima melodia e coretti al posto giusto; con A Blackbird siamo in territori bluegrass, c’è un banjo a guidare le danze, anche se l’approccio strumentale del resto della band e la vocalità del nostro sono più dal lato rock. Decisamente gustosa e texana Daughter Of The Devil, un rockin’ country vibrante, elettrico e con elementi sudisti, un pezzo che dal vivo dovrebbe dare il meglio di sé, mentre One Of These Days è una tersa ballata acustica, intima e cantautorale, eseguita con feeling ed estrema finezza.

Splendida Footlights, cover di un brano non molto noto ma ugualmente bellissimo di Merle Haggard, una fulgida western ballad ulteriormente impreziosita dal duetto vocale con Robert Earl Keen, altro texano doc (la cui voce è immediatamente riconoscibile); con Paranoid siamo in territori decisamente rock, Cody usa sia il pedale wah-wah che il talkbox, ed il pezzo, diretto come un pugno, mostra che il nostro può anche roccare di brutto, benché se come songwriting siamo un gradino sotto al resto. La ritmata e scorrevole Satellites And Meteors  è un altro bell’esempio di rockin’ country texano, con Canada che ricorda il primo Steve Earle, così come nella solida Unglued, elettrica e coinvolgente, mentre Sam Hain è una grande canzone rock, una ballata con le chitarre in primo piano, un motivo vincente ed un chiaro feeling alla Tom Petty: forse la migliore del CD. Che dire di Song About Nothin’, altro splendido country-rock elettrico, tra Petty ed i Byrds, anche questa tra le più piacevoli ed immediate; la singolare e saltellante Better sta tra pop e rock, con un synth usato in maniera intelligente. Il CD termina con la mossa e funkeggiante Betty Was Black And Willie Was White (scritta tra gli altri da Will Kimbrough ed incisa anni fa anche da Todd Snider), non tra le migliori, e con l’intensa 1800 Miles, una ballata elettrica crepuscolare e dall’indubbio pathos.

Da quando ha iniziato a fare musica, Cody Canada non mi ha mai deluso, ed anche con 3 conferma la sua più che positiva tendenza nel fare ottima musica.

Marco Verdi

“Predicatori”, Ma Innamorati Del Rock Classico E Sudista Anni ’70. Barefoot Preachers – Barefoot Preachers

barefoot preachers

Barefoot Preachers – Barefoot Preachers – Same Label               

Vengono da Nashville, Tennessee, un paio di loro suonavano negli altrettanto “oscuri” Catawompus, e come forse lascia intuire il nome “I Predicatori Scalzi” fanno parte del filone del Christian Rock, e titoli di canzoni come Celebrate, Christ On My Pocket, Church Bell Groove e Just Another Hallelujah Song, lo confermano. Ma il quartetto musicalmente si affida ad un onesto e corposo southern rock, con molti elementi di classic rock anni ’70, e grazie all’uso di armonie vocali di ottima fattura l’insieme è assai gradevole, per quanto forse prevedibile e un po’ scontato. Il dischetto, tutto firmato da Jimmy Hamilton e Douglas Gery, che sono rispettivamente il cantante e il chitarrista della band, in teoria è uscito da un annetto abbondante circa, ma visto che non è che circoli o se ne sia parlato molto, diamogli una piccola spinta per fare conoscere questo gruppo. Si diceva che il genere si potrebbe inquadrare nel filone southern, magari tipo quello degli Atlanta Rhythm Section, che avevano appunto anche molti elementi di classic rock: potrebbero ricordare anche, tra le band più recenti i Needtobreathe, che all’inizio proponevano un rock gagliardo e chitarristico, salvo poi perdersi nelle tastiere e nella elettronica danzereccia del’orrido Hard Love (per quanto il recente live acustico apra più di qualche spiraglio di speranza).

Anche i Barefoot Preachers partono bene con l’iniziale See Me Electric, un robusto pezzo rock a tutto riff, cantato con voce stentorea da Jimmy Hamilton, con l’aiuto delle belle armonie vocali del resto della band, delle tastiere aggiunte sullo sfondo e la solista di Gery che fa il suo dovere con grinta, il suono ha un retrogusto vagamente commerciale da rock FM, ma nulla di pernicioso; Celebrate è una piacevole ed energica country-rock ballad, con un impianto chitarristico elettroacustico di buona fattura, con la solista sempre pronta a prendersi i suoi spazi, ben sostenuta dalle armonie vocali corali. Niente per cui strapparsi le vesti, ma anche quando il sound si fa più zuccherino come nella melodica I’m What It Looks Like non si scende comunque sotto il livello di guardia, anche se il suono becero della Nashville mainstream è giusto dietro l’angolo, ma gli elementi southern rimangono sempre prevalenti, come nella vivace Christ On My Pocket, portatrice oltre che di buoni sentimenti religiosi anche di buon rock americano sudista dalle chitarre distese. What If? alza ulteriormente il tiro rock che vira quasi verso il boogie, la band ci dà dentro di gusto con qualche elemento funky aggiunto al menu sonoro, ricco delle solite chitarre roboanti.

Le campane all’inizio di Church Bell Groove suonano ancora per chiamare a raccolta gli amanti del rock americano anni ’70, mentre Hamilton e Gery si fronteggiano sempre con grinta al centro del suono,  Love Is everything dopo un inizio acustico alquanto “ruffianetto” si perde in un arrangiamento un po’ banalotto, anche se la pimpante chitarra di Gery e le belle armonie vocali vengono in soccorso. Just Another Hallelujah Song introduce un riff tentatore alla Stones al Christian rock assai piacevole e corale della band, il classico brano da spararsi a tutto volume in macchina su qualche highway americana; Wait For You è una raffinata country ballad che poi vira forse in modo fin troppo ripetitivo nella ricerca di ganci melodici all’interno del“ solito” rock radiofonico tipico dei Barefoot Preachers, sempre scongiurando derive più becere, evitate per un pelo anche nella conclusiva Baggage Claim, dove i consueti intricati intrecci vocali rimangono un punto di forza della band, a fianco delle fiammate chitarristiche. Insomma se amate questo genere di rock americano targato anni ’70 e siete in crisi di astinenza, questo è un album che potrebbe fare al vostro caso.

Bruno Conti

Un Disco Di Una Bellezza Rara! Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You

brandi carlile by the way

Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You – Elektra/Warner CD

Recensione tardiva di un disco uscito lo scorso mese di Febbraio (il classico caso di: lo fai tu – lo faccio io – non lo fa nessuno), ma talmente bello da meritarsi l’inclusione nella mia Top Ten di fine 2018. Brandi Carlile da quando ha iniziato a pubblicare dischi nel 2005 non ha mai sbagliato un appuntamento, ma fino ad oggi non aveva mai pareggiato la bellezza del suo secondo lavoro, The Story (2007), un album eccellente che contava su una serie di canzoni bellissime, a partire dalla magnifica title track, uno dei brani migliori in assoluto del nuovo millennio a mio parere. Give Up The Ghost (2009) era ottimo, ma non al livello di The Story, ed i seguenti Bear Creek (2012) e The Firewatcher’s Daughter (2015), pur validi, erano un gradino sotto (mentre l’unico disco dal vivo di Brandi, Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony, pur avendo ottenuto critiche contrastanti a me era piaciuto tantissimo). Lo scorso anno la songwriter originaria di Ravensdale (un sobborgo di Seattle) ci aveva regalato lo splendido Cover Stories, una sorta di auto-tributo per il decennale di The Story, in cui le canzoni del suo secondo album venivano rivisitate da una serie di artisti famosi, il tutto a scopo benefico. Quella esperienza deve aver fatto bene a Brandi, in quanto il suo nuovo album, By The Way, I Forgive You, è un disco davvero splendido, con dieci canzoni una più bella dell’altra, un lavoro ispiratissimo che personalmente colloco sullo stesso piano di The Story. L’album, che vede la nostra affrontare i brani con il consueto approccio folk-rock, vede alla produzione una “strana coppia” formata dall’onnipresente Dave Cobb e da Shooter Jennings, e proprio il suono è uno dei punti di forza del CD.

Infatti alcuni brani si differenziano dal classico stile di Cobb, fatto di suoni scarni e dosati al millimetro, quasi per sottrazione, in quanto ci troviamo spesso immersi in sonorità decisamente più ariose, anzi direi quasi grandiose, ma senza essere affatto ridondanti: un termine di paragone potrebbe essere il suono dei Fleet Foxes, folk elettrificato e potente dal forte sapore emozionale. E Brandi, forse spronata da questo tipo di sonorità, tira fuori alcune tra le sue performance vocali migliori di sempre, con un’estensione da paura; tra i musicisti, oltre ai due produttori (Cobb alla chitarra e Jennings curiosamente al piano ed organo, evidentemente deve aver imparato qualcosa anche da mamma Jessi Colter), troviamo i soliti collaboratori sia della Carlile (i gemelli Phil e Tim Hanseroth, co-autori anche di tutte le canzoni) che di Dave (il batterista Chris Powell), mentre ai cori partecipano Anderson East in un brano e le Secret Sisters in un altro, e due pezzi hanno un arrangiamento orchestrale ad opera del grande Paul Buckmaster (noto per le sue collaborazioni, tra gli altri, con Elton John, del quale Brandi è una nota fan), qui alla sua ultima collaborazione essendo scomparso nel Novembre del 2017. Il disco (a proposito, il bel ritratto di Brandi in copertina è stato eseguito da Scott Avett, proprio il leader degli Avett Brothers) inizia alla grande con Every Time I Hear That Song, una splendida ballata di ampio respiro, dall’incedere maestoso ed una melodia da pelle d’oca, con un arrangiamento semi-acustico e corale di sicuro impatto (il testo tra l’altro contiene la frase che intitola l’album).

The Joke è il primo singolo, ed è una scelta per nulla commerciale: si tratta infatti di un’intensa ballata pianistica, cantata dalla Carlile in maniera straordinaria, con un toccante motivo di pura bellezza, impreziosita da una leggera orchestrazione e da un crescendo strumentale emozionante. Hold On Your Hand è una folk song che inizia in modo quasi frenetico, con Brandi solo voce e chitarra, poi nel refrain entrano gli altri strumenti ed i cori, e ci ritroviamo di nuovo in mezzo a sonorità grandiose, atipiche per Brandi (e qui vedo parecchie somiglianze con i già citati Fleet Foxes), ma il ritornello è di quelli che colpiscono da subito, grazie anche al contributo essenziale dato da un coro di sette elementi (tra cui Brandi stessa, i due Hanseroth ed Anderson East). The Mother è dedicata dalla Carlile alla figlia Evangeline, avuta tramite inseminazione artificiale dalla sua compagna, e vede una strumentazione più raccolta, un folk cantautorale puro e cristallino, tutto giocato sulla voce, un accompagnamento molto classico ed un motivo anche stavolta splendido; la lenta Whatever You Do è dominata dalla voce e dalla chitarra di Brandi, poi a poco a poco entra il piano (Shooter si rivela un ottimo pianista), altre due chitarre e la sezione ritmica, ma il tutto assolutamente in punta di piedi, ed anche gli archi di Buckmaster accarezzano la canzone con estrema finezza.

Fulron County Jane Doe è più diretta e solare, ha perfino un feeling country (un genere poco esplorato da Brandi negli anni), e degli accordi di chitarra elettrica che curiosamente rimandano alla mitica For What It’s Worth dei Buffalo Springfield: la Carlile canta al solito in maniera impeccabile ed il brano risulta tra i più godibili. Sugartooth è l’ennesima fulgida ballata di un disco quasi perfetto, un lento dall’approccio rock, con uno scintillante arrangiamento basato su piano e chitarre ed il consueto refrain dal pathos incredibile; stupenda anche Most Of All, un altro pezzo dalla struttura folk e con una linea melodica fantastica, il tutto eseguito con un’intensità da brividi: anche questa la metto tra le mie preferite. Il CD, una vera meraviglia, si chiude con la spedita Harder To Forgive, altro pezzo folkeggiante, cantato alla grande ed arrangiato ancora in maniera corale ed ariosa (ancora similitudini con lo stile del gruppo di Robin Pecknold), e con Party Of One, un finale pianistico ed intenso, che ha dei punti di contatto con le ballate analoghe di Neil Young.

A quasi un anno di distanza dalla sua uscita By The Way, I Forgive You rimane un disco splendido, e fa parte di quei lavori che continuano a crescere ascolto dopo ascolto.

Marco Verdi

pegi young

P.S: a proposito di voci femminili (e di Neil Young), vorrei ricordare brevemente Pegi Young, scomparsa il primo Gennaio all’età di 66 anni dopo una battaglia di un anno contro il cancro. Nata Margaret Morton, la figura di Pegi è sempre stata legata a doppio filo a quella del grande musicista canadese, al quale è stata sposata per quasi quaranta anni prima che il Bisonte prendesse la classica sbandata della terza età per l’attrice Daryl Hannah.

Dal punto di vista musicale Pegi, che è stata in diverse occasioni in tour con il marito come corista, non ci lascia certo delle pietre miliari, ma una serie di onesti lavori di soft rock californiano https://discoclub.myblog.it/2014/12/08/laltra-meta-della-famiglia-o-piu-pegi-young-the-survivors-lonely-crowded-room/ : l’ultimo, il discreto Raw, è del 2017. Nel 1986 Pegi è stata anche la fondatrice con il famoso consorte della Bridge School, un istituto per la cura dei bambini con gravi tare fisiche e mentali (la coppia ha avuto due figli, entrambi con seri problemi: Ben è affetto da paralisi cerebrale, Amber da epilessia) https://discoclub.myblog.it/2011/10/04/25-anni-di-buone-azioni-e-di-belle-canzoni-the-bridge-school/ .

Vorrei ricordare Pegi con la bellissima Unknown Legend del marito Neil, brano che apriva l’album Harvest Moon nel 1993 e che era a lei ispirato: infatti quando i due si conobbero nel lontano 1974 lei lavorava come cameriera in un diner vicino al ranch di Young.

Con O Senza Rumour Continua Il Suo “Magico” Ritorno. Graham Parker – Cloud Symbols

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Graham Parker – Cloud Symbols – 100% Records

Da quando nel 2012, sempre sotto la spinta del regista americano Judd Apatow, Graham Parker ha deciso di riunire i Rumour, il musicista londinese (anche se lo si può quasi considerare naturalizzato americano, vista la lunga residenza negli States) sta vivendo una sorta di seconda o terza giovinezza a livello artistico. Il musicista “incazzato” degli anni ’70 è forse un lontano ricordo (benché anche nei dischi americani degli anni ’80 e ’90 non le mandava certo a dire, e qualche sprazzo “cattivo” pure nei noughties), ma Parker ora è un signore di 68 anni, compiuti a novembre, che sembra avere trovato una sorta di serenità e saggezza che forse non pareggia la grinta e la forza travolgente dei suoi anni migliori a livello musicale, ma ne evidenzia altri aspetti meno dirompenti, pur confermando la classe e l’abilità di un musicista che non è mai sceso a compromessi con l’industria discografica, ma ha saputo insinuarsi nelle sue pieghe per evidenziarne le magagne: un brano come Mercury Poisoning, dedicato alla sua etichetta discografica dell’epoca, è sintomatico in questo senso https://www.youtube.com/watch?v=YGWK_hvGgkU . Forse i dischi di Graham Parker non dicono più niente di nuovo da molto tempo (ma se il “nuovo” è il 99% di quello che impera al momento, preferisco il vecchio), però il nostro amico non ha perso quel suo tocco “magico”, l’abilità sopraffina di scrivere una canzone, partendo magari da un riff sentito mille volte, che ogni volta però rinnova la gioia del vero appassionato, anche nostalgico, verso una musica che profuma da sempre di soul, di rock classico ( i paragoni con Van Morrison, con gli Stones, con il suo quasi contemporaneo Elvis Costello, non erano fatti a caso), di belle melodie, di una voce che forse non è memorabile, ma è unica ed immediatamente riconoscibile nella sua vena ironica e sardonica, mai dimenticata, anche nei momenti più bui, in cui l’ispirazione sembrava averlo in parte lasciato, o forse non era più fervida come un tempo.

Si diceva di Judd Apatow, il regista, produttore e sceneggiatore, autore soprattutto di commedie, probabilmente non memorabili, ma provvisto dei giusti agganci nell’industria cinematografica, anche con le nuove frontiere di Netflix e delle televisioni via cavo tipo HBO, i cui film hanno comunque avuto sempre buoni riscontri economici e che sembra avere preso a cuore le sorti della carriera di Parker, coinvolgendolo nei suoi film, a partire da This Is 40 https://www.youtube.com/watch?v=1Ob24VlDhMQche incorporava nella propria trama anche la storia della reunion di Parker con i Rumour per registrare Three Chords Good https://discoclub.myblog.it/2012/12/03/di-nuovo-insieme-graham-parker-the-rumour-three-chords-good/ . Ora, dopo l’uscita dell’ancora eccellente Mystery Glue del 2015 https://discoclub.myblog.it/2015/05/19/il-disco-del-giorno-forse-del-mese-graham-parker-the-rumour-mystery-glue/ , Graham ha di fatto concluso l’avventura con la sua vecchia band (mantenendo però Martin Belmont come chitarrista) e contattato nuovamente da Apatow che gli chiedeva nuovi brani da usare nella sua serie Love su Netflix, ha messo mano alla penna e ha firmato, un po’ riluttante all’inizio ma poi convinto, undici nuovi gioiellini per questo Cloud Symbols. Una sorta di concept album che è la storia di un uomo virtuale, diciamo diversamente giovane (lo stesso Graham, che è protagonista, con altri “giovanotti”, dei video del disco), che cerca di districarsi con le nuove tecnologie, e attraverso una serie di deliziosi quadretti sonori ne racconta le vicende: uno che guarda le previsioni del tempo sul suo smartphone, per sapere che tempo fa a Roma o Los Angeles e ne ricava sensazioni divertite e divertenti in Is The Sun Out Anywhere, o si dedica al sesso orale nei doppi sensi di Brushes, oppure ancora glorifica le gioie dell’ubriacarsi in Bathtub Gin.

A livello musicale Parker si è affidato al “nuovo” gruppo dei Goldtops: oltre al citato Belmont, troviamo un altro veterano come Geraint Watkins, in pista come tastierista dagl ianni ’70, nel pub-rock dei Racing Cars, ma anche con Nick Lowe, Dave Edmunds, Willie & the Poor Boys, perfino Rory Gallagher, se c’era bisogno di una fisarmonica, nonché una sezione ritmica composta da Roy Dodds (Mary Coughlan, Eddie Reader, ed altre eroine del folk-rock britannico) alla batteria, e da Simon Edwards (Mary Coughlan, Talk Talk, Billy Bragg) al basso. Senza dimenticare il ritorno dei Rumour Brass, ovvero la sezione fiati che suonava in alcuni dei primi dischi a nome Graham Parker & The Rumour, a partire da Heat Treatment in avanti, non sempre gli stessi, questa volta ci sono Ray Beavis, Dick Hanson e Toby Glucklhorn; con la produzione affidata a Neil Brockbank, il gestore dei Goldtops Studios di Londra, a lungo collaboratore di Nick Lowe, scomparso poco dopo il completamento del disco, e che viene ringraziato nelle note del CD. Quindi un disco dal suono “transatlantico” come sempre: il sound mescola abilmente lo spirito del pop-rock britannico, con soul, r&b e folk americani, grazie alle melodie senza tempo delle canzoni del nostro amico. Dal soul-rock swingante e confortevole come un vecchio calzino dell’iniziale irresistibile Girl In Need, che divide con il grande Van The Man una passione (in)sana per la musica nera più classica americana, con il piedino che non può stare fermo, mentre i fiati all’unisono ci deliziano e organo e armonie vocali sono da goduria pura. L’abbiamo sentito mille volte, ma pochi lo sanno fare così bene. Ancient Past rallenta i tempi e richiama i fasti di vecchi e nuovi Dandy del pop inglese, da Ray Davies a Damon Albarn, con quel fare e pigro ed indolente tipico dei figli e nipoti del vecchio impero britannico, 2:12 ed è già finito, Ma tutti i brani sono particolarmente stringati, l’album dura in tutto 31 minuti. Anche la divertente Brushes ci riporta ai suoni gloriosi dei primi Rumour, altre facce ma stessa musica, per vecchi fan, ma anche i novizi possono goderla con piacere.

Anche Dreamin’, che fa rima con streamin’, ha quel drive tipico dei brani di Parker, con piano e trombone che gli danno quell’aria un po demodé, mentre Is The Sun Out Aniwhere è una di quelle ballate malinconiche e struggenti in cui il musicista britannico eccelle, un suo marchio di fabbrica, con versi e musica che tratteggiano in modo unico una storia d’amore senza tempo, e con i suoi musicisti che pennellano note con classe sopraffina. In Every Saturday Nite tornano i fiati per una riflessione sulle cose che ci piacciono (ma anche no) in una serata nel fine settimana, con quel suo suono abituale che se non ha più la verve e la grinta dei tempi che furono, lo sostituisce con una classe e una souplesse tipica dei (quasi) fuoriclasse. Maida Hill, altra ballatona dall’aria soffusa, è un ennesimo tuffo in quella Londra che sta scomparendo lentamente, ma non se ne vuole andare, fino a che ci sarà qualcuno che ne canterà la storia; Bathtub Gin, tra shuffle e swing jazz, ha sempre questa aria un po’ agée di una musica forse solo per vecchi nostalgici, ma non per questo priva di un proprio fascino, tipica di chi non vuole nascondere che le 70 primavere si avvicinano e non è il caso di fare i finti giovani. Anche se i ricordi del vecchio R&R e del pub rock dei tempi che furono sono ancora in grado di affiorare come nella mossa e brillante Nothin’ From You, ma d’altronde bisogna fare i conti con l’anagrafe e quindi What Happens When Her Beauty Fades?  Semplice: ce la cantiamo allegramente, con fiati, chitarre e ritmi errebì a manetta, come se non ci fosse futuro, ma dal cilindro qualche coniglio lo caviamo ancora. Anche se poi la malinconia ci attanaglia ancora, grazie allo struggente suono della melodica di Geraint Watkins che ci ricorda che le tenerezze di Love Comes, forse non sono solo sdolcinate, Finché qualcuno gli darà credito Graham Parker non deluderà le aspettative dei suoi ammiratori.

Bruno Conti

Se Fosse Anche Nuovo Sarebbe Uno Dei Dischi Del 2018! John Mellencamp – Other People’s Stuff

john mellencamp other people's stuff

John Mellencamp – Other People’s Stuff – Republic/Universal CD

Ammetto di avere un problema con questo album, in quanto la qualità del materiale in esso contenuto sfiora le cinque stelle, ma l’operazione discografica ne meriterebbe due. Quando avevo letto l’annuncio in pompa magna dell’uscita di un nuovo album di John Mellencamp programmata per il 7 Dicembre scorso (anzi, inizialmente doveva essere a Novembre), ho gioito alquanto, non solo perché il rocker dell’Indiana è da sempre uno dei miei preferiti, ma anche per il fatto che il titolo del disco, Other People’s Stuff, faceva capire che si trattava di un album di cover, un genere nel quale il piccolo musicista dal carattere difficile non ha mai deluso. Quando poi ho letto i titoli dei brani ho iniziato a sentire puzza di bruciato, in quanto erano all’80% canzoni che John aveva già pubblicato in passato, ma ho comunque sperato che si trattasse di nuove registrazioni, dato che molti pezzi erano su dischi fuori catalogo da tempo.

Invece no, una volta ascoltato il CD ho scoperto che Other People’s Stuff è per la maggior parte un lavoro antologico, spacciato per nuovo da una discutibile strategia di comunicazione (e ho proprio dovuto ascoltarlo per capirlo, dato che anche la confezione del CD, spartana al limite del ridicolo – come nel caso dell’ultimo album di studio di Mellencamp, Sad Clowns & Hillbillies – non è che facesse molta chiarezza sull’argomento). Quindi ci troviamo di fronte ad un’antologia di brani altrui, dieci canzoni prese da vecchi (e non) album di John, che peraltro si trovano ancora abbastanza facilmente, e da compilation e tributi decisamente più ardui da reperire. Ci sarebbe anche un’altra magagna: se John ha deciso di costruire un album “nuovo” con canzoni già pubblicate (ma due inediti comunque ci sono), perché lo ha fatto durare solo 34 minuti? Non poteva aggiungere altro materiale inciso negli anni, che non mancava di certo? O sforzarsi un attimino ed incidere due-tre inediti in più? A parte tutte queste considerazioni, il disco preso così com’è è strepitoso, una collezione di canzoni splendide eseguite in maniera magistrale, che se non fosse antologico si posizionerebbe senz’altro nei primi posti di una classifica dei migliori album dell’anno appena trascorso.

Dieci pezzi che si ascoltano tutti d’un fiato, a partire dall’iniziale To The River, che in realtà non è neppure una cover, essendo un brano scritto da John insieme alla cantautrice Janis Ian, e che nel 1993 chiudeva il bellissimo Human Wheels: grande roots rock, potente e solido, con le chitarre elettriche che si affiancano al violino e la sezione ritmica che è una frustata, come è tipico nel sound di John (lo stile è simile a quello del suo capolavoro, The Lonesome Jubilee), un brano quasi dimenticato che l’ex Coguaro ha fatto bene a ripescare. Poi abbiamo una straordinaria rilettura di Gambling Bar Room Blues, preso dal bellissimo (ed ormai fuori catalogo) tributo a Jimmie Rodgers uscito nel 1997 per la Egyptian Records di Bob Dylan: il brano, che poi sarebbe il noto traditional St. James Infirmary con parole diverse, viene riletto da John in maniera decisamente rock, con ritmica pressante, la classica voce arrochita del nostro ed un violino teso come una chitarra elettrica. Teardrops Will Fall (un oscuro brano di Dickey Doo & The Don’ts preso dal cover album Trouble No More) è splendida, con Mellencamp che la fa sua al 100% con un scintillante arrangiamento in stile Americana, sulla falsariga di suoi classici come Pink Houses, e la bellezza della melodia fa il resto.

 

In My Time Of Dying è un vecchio blues di Blind Willie Johnson rifatto un po’ da tutti, da Dylan ai Led Zeppelin, e qui è proposta in una veste folk-blues elettroacustica e polverosa, dal ritmo acceso e con una slide sullo sfondo (era su Rough Harvest); Mobile Blue è storia recente, in quanto è il pezzo di Mickey Newbury che apriva Sad Clowns & Hillbillies, una bella canzone interpretata in maniera rilassata e con il solito approccio roots (e la voce di Carlene Carter nel background). Ed ecco le due canzoni “nuove”: Eyes On The Prize è un’antica folk song conosciuta anche come Gospel Plow, che John ha cantato nel 2010 alla Casa Bianca di fronte ad Obama, ma qui è incisa in studio e trasformata in un vero blues fangoso del Mississippi, solo voce (più roca che mai), un basso ed una slide acustica degna di Ry Cooder, una versione molto diversa da quella esplosiva e corale ad opera di Bruce Springsteen nelle Seeger Sessions; il secondo inedito, ascoltato finora solo all’interno di un documentario del National Geographic Channel trasmesso nel 2017 ma mai pubblicato prima su disco, è una fantastica rilettura del classico di Merle Travis Dark As A Dungeon, dallo splendido arrangiamento tra country e folk che mette in evidenza la fisarmonica, il violino ed il pianoforte, un pezzo che da solo vale l’acquisto del CD (la presenza in sottofondo dell’inconfondibile voce ancora di Carlene Carter mi fa pensare che sia una outtake di Sad Clowns & Hillbillies).

Stones In My Passway, ancora da Trouble No More, è il famoso blues di Robert Johnson, riletto in modo crudo e diretto, con una slide stavolta elettrica, mentre The Wreck Of The Old 97 è proprio il vecchio classico la cui versione più nota è quella di Johnny Cash: la rilettura di Mellencamp è stupenda, diversa da quella dell’Uomo in Nero, più folk ed in linea con i suoi ultimi album, ma sempre con le unghiate elettriche da vecchio puma (il pezzo era su una compilation di folk songs intitolata The Rose And The Briar, tra l’altro ristampata di recente). Chiude il dischetto I Don’t Know Why I Love You, tratta da un poco conosciuto tributo a Stevie Wonder, rifatta con uno stile abbastanza lontano da quello del noto musicista cieco, un arrangiamento rock elettrico tipico di John, con un risultato finale decisamente interessante. Quindi, a parte le critiche sulla reale utilità di una simile pubblicazione, Other People’s Stuff è un dischetto che si ascolta con immenso piacere dalla prima all’ultima canzone, ed in cui non c’è un momento che non sia meno che ottimo.

Marco Verdi

Le Sue Annate Migliori Come Solista. Doug Sahm – Texas Radio & The Big Beat Live

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Doug Sahm – Texas Radio & The Big Beat – 2 CD Floating World/Ird

Douglas Wayne Sahm, in arte Doug Sahm, ma anche Wayne Douglas o Doug Saldana, a seconda di come si svegliava la mattina, nativo di San Antonio, è scomparso nel 1999 per un attacco di cuore, a 58 anni appena compiuti, ma prima aveva avuto una carriera lunghissima, durata quasi cinquanta anni, visto che aveva esordito in radio a  5 anni: a 11 anni nel 1952 era già sul palco per l’ultimo concerto di Hank Williams, quello originale, e dalla sua città se ne è andato tra gli anni ’60 e ’70 a San Francisco con il Sir Douglas Quintet, poi anche con i Texas Tornados e i Los Super Seven, di cui è stato il leader. Nel 1972, tornato ad Austin,  era stato messo contratto dalla Warner, per un disco solista a nome Doug Sahm And Band, uscito ad inizio 1973, un gruppo che per l’album omonimo, nelle sue fila, oltre al fido Augie Meyers, vedeva una sfilza di ospiti, da Bob Dylan a Dr. John, passando per Flaco Jimenez, David “Fathead” Newman e David Bromberg, per un disco che conteneva Wallflower, scritta da Dylan, ma da sempre uno dei suoi inni immortali, come pure Is Anybody Goin’ To San Antonio, il tutto in un frullato di generi che andava dal country al blues, al rock, qualche accenno di Tex Mex, Honk Tonk e molte altre influenze, visto che Doug Sahm nella sua carriera ha suonato proprio di tutto, se vogliamo escludere punk e new wave.

Nemmeno dopo un mese dall’uscita del disco, il 21 febbraio 1973, è sul palco del Bijou Café di Philadelphia per un broadcast live (già immortalato nel CD Outlaws And Inlaws uscito nel 2013), mandato però in onda dal Texas, e destinato a promuovere l’album, accompagnato da una band dove suonano sicuramente Augie Meyes, all’organo e seconda voce, David “Fathead Newman al sax e George Rains alla batteria, gli altri non è dato sapere. Il concerto pesca anche nel repertorio del Sir Douglas Quintet e trai classici del blues, del R&R e del country. Come usava all’epoca, e anche oggi, ci sono solo due brani estratti dal disco appena uscito, ma Sahm e soci divertono subito il pubblico presente con una gagliarda Oh Pretty Woman, che tutti ricordiamo nella versione di Roy Orbison, qui ripresa tra blues e R&B fiatistico, con la solista pungente di Doug in bella evidenza, per poi passare alla romantica e sentita I’m Glad for Your Sake (But I’m Sorry for Mine), canzone che era tra i cavalli di battaglia di Ray Charles, altro pezzo di chiara derivazione R&B, assolo di sax annesso. La registrazione è ottima, la musica pure, e si prosegue con la divertente She’s About A Mover del Sir Douglas Quintet, a riprova della varietà del repertorio proposto, con l’organo Farfisa di Meyers e la chitarra di Sahm ad imperversare, subito seguita da un altro classico del SDQ come Are Inlaws Really Outlaws, altro funky soul con fiati sincopati, molto alla James Brown.

Talk To Me è sorta di ballatona romantica alla Sam Cooke, brano che il nostro poi avrebbe inciso in un CD intitolato Juke Box Music, che ben inquadra lo stile musicale universale del nostro, in un attimo poi si passa al super classico (Is Anybody Going To) San Antone, tra country e pop raffinato, con Doug al violino e Augie all’organetto; anche Wolverton Mountain e Jambalaya sono country songs divertenti e di pura marca Doug Sahm, sempre con violino indiavolato al seguito. Right Or Wrong, molto swingata e con uso fiati, rimarrà nel repertorio anche dei Texas Tornados, prima di tuffarsi nel blues con una sapida Stormy Monday e di nuovo nel garage rock targato Sir Douglas Quintet di The Rains Came e di Mendocino, inframmezzate dalla lunga Papa Ain’t Salty, l’altro brano tratto dal disco del 1973, un  blues tiratissimo di T-Bone Walker. Nel secondo CD c’è un concerto più breve, 8 brani per 33 minuti, inciso nell’agosto del 1974 alla Liberty Hall di Houston, sempre di buona qualità, con cinque tracce Texas Tornado, Rain Rain, At The Crossroads (un brano splendido che suonavano anche i Mott The Hoople), Georgia On My Mind e Wasted Days And Wasted Nights non presenti nel concerto dell’anno prima e Doug Sahm e il suo gruppo, questa volta la Tex Mex Band, sempre in gran forma. Visto che il doppio CD costa come un singolo e il musicista texano era in uno dei suoi periodi migliori direi che va consigliato caldamente sia ai neofiti che ai fans, con l’avvertenza citata all’inizio, considerando che pure le informazioni in copertina non aiutano molto.

Bruno Conti

Il Rock Non E’ Musica Per Panettieri…O Forse Sì! Phish – The Baker’s Dozen: Live At Madison Square Garden

phish baker's dozen

*NDB Anche ieri, e nei tre giorni precedenti, come è tradizione ormai da parecchi anni, i Phish hanno festeggiato la fine dell’anno con una serie di concerti al Madison Square Garden di New York, che è diventato per loro una sorta di quartier generale per le “residenze” più lunghe nei loro tour, oltre che per i concerti di Halloween. Gli eventi di cui leggete sotto, invece si sono tenuti, sempre al Madison Square Garden, nel luglio del 2017.

Phish – The Baker’s Dozen: Live At Madison Square Garden – JEMP 3CD – 6LP

I Phish sono ormai da più di due decenni una delle migliori live band al mondo, e giustamente vengono considerati gli eredi dei Grateful Dead, per la loro capacità di trasformare e dilatare qualsiasi canzone, originale o cover che sia, con feeling, grande tecnica e creatività: non a caso quando nel 2015 i membri superstiti dei Dead hanno deciso di dare l’addio con cinque Farewell Concerts, il prescelto per sostituire Jerry Garcia è stato proprio Trey Anastasio, cantante, chitarrista e principale compositore del quartetto del Vermont (gli altri tre sono da sempre il bassista Mike Gordon, lo straordinario pianista Page McConnell ed il batterista Jon Fishman, un pazzo scatenato che però quando suona non ha paura di nessuno). Di conseguenza, è chiaro che la discografia dal vivo dei quattro sia corposa, per usare un eufemismo, tra live normali, cofanetti e CD pubblicati in esclusiva sul loro sito: l’ultima uscita in ordine di tempo è anche una delle più interessanti, e stiamo parlando cioè di The Baker’s Dozen: Live At Madison Square Garden, un triplo CD (o sestuplo LP) che presenta una selezione dai ben tredici concerti consecutivi tenuti nel 2017 dai nostri nel famoso teatro di New York.

In realtà il piatto forte era The Complete Baker’s Dozen, un megabox di 36 CD che comprendeva la residence completa, un cofanetto costoso e limitato che è andato esaurito in breve tempo (e per una volta il sottoscritto si è accontentato del triplo). La particolarità di quegli show (e non è una cosa da poco) è che i Phish durante le tredici serate non hanno mai suonato la stessa canzone per due volte, una cosa che non tutti si possono certo permettere di fare. La selezione per il triplo CD (presentato in un’elegante confezione mini-box, che quelli che hanno studiato chiamano “clamshell”) deve dunque essere stata difficile e dolorosa, anche perché la lunghezza dei brani presenti (una media di 11-12 minuti a canzone: si va dai sette di More e Miss You ai venticinque di Simple) non ha consentito di inserire più di tredici pezzi in totale. Personalmente sono abbastanza soddisfatto della scelta, anche se avrei ascoltato volentieri anche altri pezzi del gruppo, ed in particolare non mi sarebbe dispiaciuto un CD in più con una selezione delle varie cover suonate durante gli show, brani appartenenti, tra gli altri, ai songbook di Bob Dylan, Neil Young, Frank Zappa, David Bowie, Beatles e Led Zeppelin).

Il risultato finale è comunque eccellente, e The Baker’s Dozen si colloca quasi fuori tempo massimo tra i migliori album live dell’anno: Anastasio e soci sono in forma strepitosa, avendo ormai raggiunto uno status per cui sarebbero in grado di suonare qualsiasi cosa e renderla propria. I brani partono spesso dalle melodie iniziali per poi svilupparsi in maniera assolutamente creativa ed improvvisata, con la chitarra ed il pianoforte sempre a dettare legge ma con la sezione ritmica che non si tira mai indietro: i Phish non utilizzano altri musicisti sul palco, sono solo loro quattro, ma in certi momenti sembra che siano in sedici tanto corposo ed intenso è il groove che mettono nei vari brani. Ci sono quattro pezzi tratti da Big Boat, il loro ultimo bellissimo album di studio https://discoclub.myblog.it/2016/10/18/allora-sanno-grandi-dischi-phish-big-boat/  (mentre nulla proviene dai due precedenti, Joy e Fuego), a partire da una formidabile Blaze On, un brano limpido e solare che ricorda molto da vicino gli episodi più orecchiabili dei Dead: 23 minuti di piacere assoluto, con Anastasio e McConnell (il quale passa con estrema disinvoltura dal piano acustico a quello elettrico) che fanno sentire da subito di che pasta sono fatti, con improvvisazioni continue ed assoli su assoli, ma senza mai perdere di vista la canzone stessa.

Completano la selezione da Big Boat l’immediata More, un brano rock solido e molto ben costruito (e l’assolo di Trey è da urlo), la fulgida slow ballad Miss You, dal motivo bellissimo che evidenzia il gusto melodico del gruppo, e la funkeggante No Men In No Man’s Land, dal suono grasso e ritmo sostenuto. Abbiamo anche due inediti, e cioè la gustosa Everything’s Right, una rock song cadenzata, godibile e dal ritornello vincente, e la travolgente Most Events Aren’t Planned, in cui i Phish suonano con grande affiatamento e compattezza, un brano ancora tra rock e funky, con il basso di Gordon piacevolmente sopra le righe. Ci sono due pezzi tratti da The Story Of The Ghost, a mio parere il disco meno riuscito della carriera della band, che però non sembra pensarla come me: la rock ballad Roggae, un brano fluido tipico del loro repertorio, eseguita al solito impeccabilmente e con potenti riff elettrici (ed un liquidissimo assolo di Anastasio), e l’annerita Ghost (20 minuti), che dal vivo risulta molto più coinvolgente che sull’album originale. Il resto? Innanzitutto la strepitosa Simple (unica del triplo scritta da Gordon), un pezzo che i nostri hanno suonato sempre e solo dal vivo, che parte come una potente rock song di stampo classico, molto chitarristica e dal motivo diretto, e che poi nei suoi 25 minuti vede il gruppo percorrere tutte le direzioni musicali possibili (e non manca anche qui un mood funky, genere che i nostri amano infilare un po’ dappertutto).

Ci sono poi tre canzoni prese dalla discografia “di mezzo”, cioè da Farmhouse (una maestosa Twist, altri 20 minuti di grande intensità e con Anastasio monumentale, nonostante ad un certo punto compaia un synth poco gradito), da Round Room la quasi soffusa Waves, dallo spirito “deaddiano” e finale psichedelico, e da Undermind l’energica Scents And Subtle Sounds, che alterna momenti parecchio roccati ad altri più distesi, con un grandissimo McConnell e Fishman debordante: una delle performance migliori del triplo. L’unico classico appartenente ai primi dischi della band è la nota Chalk Dust Torture, qui proposta in una roboante e vitale rilettura di 24 minuti, in cui i quattro ci fanno vedere e soprattutto sentire perché sono uno dei migliori gruppi del pianeta (e Trey è in pura trance agonistica). Un grande live album, da ascoltare attentamente dalla prima all’ultima nota: alla fine arrivo quasi a rimpiangere di essermi lasciato sfuggire la versione extralarge.

Marco Verdi