Disco Dopo Disco E’ Sempre Più Bravo! Hayes Carll – What It Is

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Hayes Carll – What It Is – Dualtone CD

Nuovo album per il cantautore texano Hayes Carll, uno che incide con il contagocce (sei album in diciotto anni di carriera), ma potete stare certi che quando pubblica qualcosa riesce sempre a distinguersi dalla banalità. La peculiarità di Carll è che il livello dei suoi lavori è in continuo crescendo, ed ogni suo disco ha sempre qualcosa in più del precedente: Lovers And Leavers (2016) https://discoclub.myblog.it/2016/04/05/piu-countryman-songwriter-completo-hayes-carll-lovers-and-leavers/  era meglio di KMAG YOYO (2011), che a sua volta era meglio di Trouble In Mind (2008). E What It Is, il suo CD nuovo di zecca, già al primo ascolto si rivela il migliore di tutti, un album composto da una serie di canzoni splendide sempre nello stile tipico del nostro: musica country d’autore, di alto livello e decisamente coinvolgente, ma sono ben presenti anche elementi folk, rock’n’roll e perfino soul. Una cosa che contraddistingue le canzoni di Carll sono anche i testi, intelligenti e sempre sul filo di un’ironia alla John Prine, quando non sfociano nel puro sarcasmo alla Randy Newman. Infine, una spinta alla riuscita di What It Is deve averla data anche la situazione sentimentale di Hayes, che si è fidanzato con la bella e brava Allison Moorer (una delle tante ex mogli di Steve Earle), ed il mio non è solo gossip fine a sé stesso, in quanto la musicista dai capelli rossi è coinvolta anche artisticamente in questo disco, in quanto ne è la produttrice (insieme a Brad Jones), ha scritto diversi brani insieme al suo boyfriend, ed è pure presente in qualità di corista (con Bobby Bare Jr., figlio di cotanto padre).

Un gran bel disco quindi, oltre che per le canzoni anche per i musicisti coinvolti, tra i quali si segnalano il noto Fats Kaplin al violino, mandolino, banjo e steel (fondamentale il suo contributo), Will Kimbrough alle chitarre ed il bravissimo pianista e organista Gabe Dixon. Dodici canzoni, una meglio dell’altra: si parte con None’Ya, eccellente ballata countreggiante, cadenzata e diretta, con un motivo di quelli che restano in testa immediatamente ed un bellissimo violino. Irresistibile poi Times Like These, un rock’n’roll dal ritmo travolgente, elettrico quanto basta ed ancora con il violino a fungere come elemento di disturbo: impossibile tenere il piede fermo, siamo dalle parti del miglior Billy Joe Shaver (anche come timbro vocale); davvero bella anche Things You Don’t Wanna Know, un pezzo stavolta dal chiaro sapore soul (una novità per Hayes), con il nostro che dimostra di essere più che credibile usando fiati ed organo in maniera magistrale, il tutto servito da una melodia decisamente orecchiabile. Che dire di If I May Be So Bold? Una scintillante country song elettrica ancora con Shaver in testa (ma anche Johnny Cash), ritmo alto e gran godimento, mentre Jesus And Elvis è uno slow ancora dal chiaro approccio country, limpido e scorrevole, che ha il passo delle migliori composizioni di John Prine (anche nel testo, tra il poetico e lo scherzoso): splendida anche questa.

Che Carll sia in stato di grazia lo si capisce anche da brani come American Dream, apparentemente un tipo di country song già sentita prima, ma con una marcia in più data dalla brillantezza della scrittura e dall’accompagnamento delizioso da parte della band (ottimo l’intreccio tra chitarre, violino e mandolino); Be There è una ballata fluida, intensa e melodicamente impeccabile (il refrain è perfetto), con una sezione d’archi che la rende emozionante. Beautiful Thing, ancora a metà tra country e rock’n’roll, è nobilitata da un ritmo coinvolgente e dal formidabile pianoforte di Dixon; un banjo apre la squisita What It Is, che porta il disco in territori bluegrass, ed è inutile dire che sia Hayes che la band danno il loro meglio anche qui. Il CD volge (purtroppo) al termine, il tempo di ascoltare ancora Fragile Men, lenta, epica e con un arrangiamento da film western, la potente Wild Pointy Finger, tra country e southern, e con l’intima e folkie I Will Stay, solo voce, chitarra ed archi.

Dopo un inizio in sordina finalmente anche il 2019 sta cominciando a produrre dischi degni di nota, e questo nuovo tassello della carriera di Hayes Carll è al momento nella mia Top Five.

Marco Verdi

Altro Disco “Fantomatico” Purtroppo, Anche Se Molto Bello! Apple City Slough Band – Lower Highland To Paradise

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Apple City Slough Band  – Lower Highland To Paradise – Apple City Slough Band CD (forse) – Download Digitale

Per parafrasare una vecchia pubblicità, esagerando, si potrebbe dire: “Le Jam Band sono tante, milioni di milioni, ma la Apple City Slough Band vuol dire qualità”! Anche se non fa rima e forse è appunto un po’ esagerato: ma il sestetto californiano (da Watsonville, la Apple City della Contea  di Santa Cruz, da cui il nome) si autodefinisce una Americana Mountain Jam Rock Band, termine che indica sia il loro stile che la provenienza geografica. Sono insieme dal 2015 e questo Lower Highland To Paradise è il loro esordio, pubblicato dopo tre anni on road, con concerti tenuti soprattutto nei weekend e durante il tempo libero in fiere e picnic vari, visto che tutti i musicisti hanno un lavoro a tempo pieno per mantenersi e suonano per passione, però con la giusta attitudine, con un repertorio che attinge, oltre che dalle proprie canzoni, da Creedence, Grateful Dead, Allman Brothers, Clapton, alternati nei propri concerti.

Per il disco, registrato a Boulder Creek nel fine settimana del giorno della Festa della Mamma (quindi prima domenica di Maggio del 2018), si sono affidati semplicemente ad un ingegnere del suono Barry Tanner, che li ha aiutati a mettere su nastro, con molta semplicità, ed un suono ruspante, basico, ma vibrante, dieci canzoni originali, tutte tra i cinque e i sei minuti, dove la voce piacevole ed ispirata di Jamie Norton, il leader della band, è sostenuta dalla chitarra guizzante di Danny Grilli, dalle tastiere di Lindsey Bearden, unica presenza femminile, da una sezione ritmica precisa e senza particolari virtuosismi, Dave Ott, basso e Sparky (Ken) Klinger alla batteria, con l’aggiunta di Bobby Yliz alla chitarra ritmica e armonie vocali. Il risultato, come detto, è molto semplice e fresco, ci sono tutte le influenze citate, e il suono finale è un roots-rock che deve molto a tutti i nomi citati, probabilmente senza i virtuosismi di Allman, Clapton e Fogerty, ma con l’approccio dei Dead meno ricercati ed improvvisativi. Comunque estremamente godibile all’ascolto e di qualità molto buona, come certifica immediatamente l’iniziale Into The Blue dove la voce classica da cantautore di Norton si libra sulla liquida e guizzante chitarra di Grilli che lavora di fino e di continuo nel brano, ben sostenuta dal piano della Bearden https://www.youtube.com/watch?v=LYzWozxaypk ; Glow Upon The Steel è anche meglio, su un ritmo incalzante che ricorda vagamente i primi Dire Straits, sempre con la solista in bella evidenza, la band improvvisa con gusto e misura.

Don’t Mean Nothing è una tersa ed ariosa ballata anni ’70 che ricorda il miglior country-rock dell’epoca, o il sound della California da cui vengono anche i nostri amici https://www.youtube.com/watch?v=4Sve3VGlEfA . Riley Mae Never di nuovo costruita su un ritmo incalzante, ha degli agganci ancora con i Dead del periodo elettroacustico, un’altra piccola perla, Grilli non è Jerry Garcia, ci mancherebbe, ma suona con impeto, passione e bella tecnica. The Mud Just Might, ancora con un suono saltellante figlio dei Grateful Dead, prosegue con brio questa raccolta di belle canzoni, ripeto, semplici ma veramente gustose, come conferma pure Next Stop Siena (un omaggio all’Italia o si tratta di qualche strana località americana?), un’altra ballata sognante ricca di fascino senza tempo, sempre arricchita dall’eccellente lavoro di Grilli alla solista, che poi improvvisa su un riff di stampo decisamente più rock in Destination Unknown, uno dei brani più mossi ed elettrici del CD. Something I Ain’t Never Done prosegue questo viaggio nelle delizie dell’Americana Mountain Jam Rock degli Apple City, che poi sfoderano una Thinking Out Loud alla giusta intersezione tra Creedence e Grateful Dead, prima di congedarci con Orange Jam un pezzo più improvvisato e rock da jam band pura, sempre molto basilare nel suono naturale e senza produzioni ricercate di studio, ma per questo forse ancora più godibile https://www.youtube.com/watch?v=7JAHrMk17Mo . Al solito la reperibilità non è il punto di forza del CD, anzi, quindi se non avete previsioni di viaggi a Santa Cruz, buona caccia. Ne varrebbe la pena, i dischi belli diventano sempre più difficili da trovare. Se no, per una volta, ripiegate sul download digitale (siamo contrari, ma se non c’è alternativa).

Bruno Conti

Gran Disco Ma…Non Potevano Pensarci Un Po’ Prima? The Long Ryders – Psychedelic Country Soul

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The Long Ryders – Psychedelic Country Soul – Omnivore CD

I Long Ryders negli anni ottanta sono stati con i Dream Syndicate ed i Green On Red uno dei gruppi cardine di quel movimento nato a Los Angeles e denominato Paisley Underground, ma nello stesso tempo, soprattutto per le loro influenze che andavano dai Byrds ai Flying Burrito Brothers, si potrebbero considerare tra i capostipiti del futuro revival Americana ed alternative country. I tre album pubblicati durante il loro periodo di attività (1983-1987), Native Sons, State Of Our Union e Two-Fisted Tales, sono considerati dagli estimatori tra i dischi di maggior culto della decade, ma il fatto che vendettero pochissimo contribuì allo scioglimento prematuro del quartetto (Sid Griffin, Stephen McCarthy, Tom Stevens e Greg Sowders), nonostante esibizioni dal vivo che definire infuocate è dir poco (il secondo ed il terzo lavoro sono usciti pochi mesi fa in edizioni triple deluxe, ma se del gruppo non avete nulla è sufficiente il bellissimo box quadruplo del 2016 Final Wild Songs). Nelle decadi successive Griffin, da sempre il leader dei Ryders, ha pubblicato diversi album sia da solo che con i Coal Porters (oltre a scrivere libri su Gram Parsons e Bob Dylan), e dal 2004 ha iniziato a riunire saltuariamente il suo vecchio gruppo per brevi tour (ed un album dal vivo, State Of Our Reunion), ma pochi avrebbero pensato che i nostri avrebbero dato alle stampe un lavoro nuovo di zecca, e men che meno della qualità di Psychedelic Country Soul.

E invece Sid e compagni (ancora nella loro formazione originale) sono riusciti seppur tardivamente nel miracolo, cioè di consegnarci un disco davvero bellissimo, pieno di canzoni originali (ed una cover) suonate e cantate con la grinta degli esordi, una miscela vincente di country e rock’n’roll che fa sembrare l’album come un disco perduto inciso subito dopo Two-Fisted Tales. Anzi, forse è perfino meglio, in quanto i nostri hanno acquisito maggior esperienza e hanno perso qualche ingenuità inevitabile quando si è giovani: per questo Psychedelic Country Soul (bello anche il titolo) è a mio parere uno dei migliori album di Americana usciti negli ultimi tempi, e vista la già avvenuta reunion dei Dream Syndycate (che tra l’altro hanno un disco in uscita a Maggio) per ricostituire il Paisley Underground mancherebbero solo i Green On Red, se solo Dan Stuart riuscisse a tornare a concentrarsi sulla musica. L’album è prodotto da Ed Stasium, definito dai nostri il quinto Long Ryder, e vede alcune collaborazioni illustri come la violinista Kerenza Peacock, già con i Coal Porters, e le voci di Debbi e Vicky Peterson, ex Bangles. La maggior parte dei brani è a firma di Griffin, ma anche McCarthy e Stevens dicono la loro, pure come cantanti solisti.

Si inizia alla grande con la scintillante Greenville, un brano country-rock terso e limpido con chitarre in gran spolvero e ritmo sostenuto, suono byrdsiano ed ottimo refrain: bentornati. Let It Fly è una deliziosa country ballad suonata sempre con piglio da rock band, begli stacchi chitarristici, interventi di steel e violino ed armonie vocali celestiali; la spedita Molly Somebody è folk-rock deluxe dal ritmo alto, melodia che prende al primo ascolto e gran lavoro di chitarra, un brano che potrebbe benissimo provenire dal repertorio di Tom Petty, mentre All Aboard è una splendida e goduriosa rock’n’roll song, solite chitarre in tiro (strepitoso l’assolo centrale) ed uno sviluppo trascinante: siamo solo ad un terzo del disco e già abbiamo quattro canzoni una più bella dell’altra. Anche Gonna Make It Real è decisamente bella, un country-rock puro e cristallino, dal motivo solare ed ancora con un uso sopraffino delle voci; If You Want To See Me Cry, lenta ed acustica, è un gradito momento di relax, ma con What The Eagle Sees riprende alla grande il tour de force elettrico, un rock’n’roll suonato con grinta da punk band, quasi come se i nostri fossero in un club nei primi anni ottanta: gran ritmo e, tanto per cambiare, una festa di chitarre.

California State Line è una deliziosa e malinconica country ballad, nella quale è chiara l’influenza di Parsons; The Sound è un pezzo rock fluido e grintoso, dal tempo accelerato e con la solita linea melodica tersa e godibile. Walls, unica cover del CD, è un bel brano proprio di Tom Petty, non molto conosciuto (era sulla colonna sonora di She’s The One), ma perfetto per l’attitudine folk-rock dei nostri: rilettura rispettosa e decisamente riuscita, grazie anche alle voci delle due ex Bangles. Il dischetto termina con la tenue Bells Of August, squisita e rilassata ballata elettroacustica scritta e cantata da Stevens (e qui sento echi di The Band), e con l’elettrica e potente title track, che conferma quanto annuncia nel titolo, specie per la parte “psychedelic”, come da vibrante coda chitarristica del pezzo. E’ chiaro che la carriera dei Long Ryders negli anni ottanta è stato un caso lampante di “unfinished business”, ma ora vorrei sperare che questo bellissimo album sia un nuovo inizio e non la parola finale alla loro storia.

Marco Verdi

Un Bellissimo Disco Di Uno Dei “Segreti” Meglio Custoditi Di New Orleans, Veramente Un Peccato Che Si Trovi Con Molta Difficoltà. Johnny Sansone – Hopeland

johnny sansone hopeland

Johnny Sansone – Hopeland – Short Stack Records

Johnny Sansone viene da New Orleans, e questo per il sottoscritto è già una nota di merito a prescindere, di solito la musica che arriva dalla capitale della Louisiana ha dei profumi e delle suggestioni che sono uniche. Poi scopriamo che il nostro amico non è un indigeno autoctono, è nato a West Orange nel New Jersey 61 anni fa, ma è comunque cittadino onorario in quanto è residente nella Crescent City dal lontano 1990 e lì ha proprio vissuto gran parte della sua vita e della sua carriera, a parte la fase iniziale quando facendo la  gavetta in giro per gli Stati Uniti, suonava da supporto a gente come Robert Lockwood, Jr., David “Honeyboy” Edwards e Jimmy Rogers. In seguito al suo trasferimento a Nola ha imparato anche a suonare la fisarmonica, ispirato da Clifton Chenier: tutte queste influenze sono quindi confluite nei suoi album, che anche se risultano poco conosciuti a causa della scarsa reperibilità, sono già la bellezza di 12, compresi un paio di Live Al Jazz Fest e questo nuovo Hopeland, uscito qualche mese or sono (quasi un anno per la verità), ma assolutamente meritevole di essere portato alla vostra attenzione in quanto è probabilmente il migliore della sua discografia.

Alcuni sono stati pubblicato come Jumpin’ Johnny Sansone e così lo conosceva chi scrive (e mi pare di avere recensito qualcosa sul Buscadero diversi anni fa), ma molti, quasi tutti quelli editi dalla Short Stack Records, portano semplicemente il suo nome. Quelli degli anni dal 2007 in avanti sono tutti molto interessanti perché, oltre ad alcune leggende locali come Stanton Moore, Ivan Neville, Monk Boudreaux e Henry Gray, vi appare quasi sempre un altro “oriundo” di New Orleans, il bravissimo Anders Osborne, che ha prodotto anche il nuovo disco, registrato agli studi Dauphin Street Sound di Mobile, Alabama, altra località storica, dove opera come ingegnere del suono la plurivincitrice di Grammy Trina Shoemaker, e dove lo aspettavano per registrare questo album anche Luther e Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, e in un brano anche Jon Cleary. Da tutti i nomi sciorinati (che contano sempre, non fatevi ingannare da chi dice il contrario) si evince che Hopeland è un signor album che, partendo dal blues canonico, tocca ovviamente anche le sonorità tipiche della Louisiana, con un suono sapido, pimpante, molto variegato: come dice lo stesso Johnny nel testo di Delta Coating “They call it the blues, they call it country, they call it rock ’n’ roll. It’s all just soul with a ‘Delta coating’”, che mi pare perfetto.

L’album, in tutto 8 brani, dura solo 35 minuti, ma non c’è un secondo di musica sprecato: dalla vorticosa Derelict Junction, dove la voce potente di Sansone e la sua armonica scintillante, unite al gruppo portentoso che lo accompagna, ci regala un blues elettrico dal suono classico e vibrante, con Dickinson e Osborne che iniziano a mulinare le chitarre, l’appena citata Delta Coating ci porta sulle ali di un train time raffinato in un viaggio dal country e soul di Memphis a quello di New Orleans, con la slide di Cody Dickinson che comincia a disegnare le sue traiettorie raffinate, poi portate alla perfezione nella splendida Hopeland, una ballata di grande intensità e spessore, che mi ha ricordato la celebre Across The Borderline di Ry Cooder (firmata, insieme a John Hiatt, anche dal babbo di Luther e Cody, Jim Dickinson, e quindi il cerchio si chiude), eccellente nuovamente il lavoro della slide di Cody e del piano di Cleary, oltre a Sansone che rilascia una prestazione vocale da brividi, siamo sui livelli del miglior Ry anni ’70-’80, come spesso succede in questo album. Plywood Floor, tra blues e R&R è un’altra iniezione di energia, con la band che tira alla grande a tutto riff, sempre con bottleneck in agguato e Osborne che risponde, come pure in Johnny Longshot, dal drive quasi stonesiano, di nuovo con Dickinson che sfodera il suo miglior timbro alla Mick Taylor o alla Cooder.

Con Can’t Get There From Here che aumenta ulteriormente il ritmo a tempo di boogie, prima di lanciarsi nel classico Chicago Sound alla Howlin’ Wolf della gagliarda One Star Joint, dove chitarre ed armonica si sfidano di nuovo a colpi di blues sanguigno e vibrante. La conclusione è affidata ad una classica ballata tipica del New Orleans sound, con uso di accordion, di cui Sansone è virtuoso come dell’armonica, e con una melodia che ricorda moltissimo quella di Save The Last Dance For Me, con l’ennesima prestazione eccellente di Dickinson alla slide, inutile dire che il risultato finale è affascinante, finezza e classe fuse insieme, come in tutto l’album.

Bruno Conti

Anche A San Patrizio E’ Tempo Di Springsteen: Una Serata In Ricordo Di “Phantom Dan”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Tampa 2008

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Bruce Springsteen & The E Street Band – St. Pete Times Forum, Tampa, FL – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Questo show tenuto a Tampa, in Florida, il 22 Aprile del 2008 è il terzo proveniente dal Magic tour nell’ambito dei concerti d’archivio di Bruce Springsteen, dopo quelli di St. Louis e Boston. Proprio il live a Boston ha un punto in comune con questo triplo CD (o download, se preferite), ed è rappresentato dalla figura del tastierista della E Street Band Danny Federici, dato che la serata nella capitale del Massachusetts è stata l’ultima con lui sul palco a causa di un grave melanoma che se lo è portato via la primavera seguente, mentre il concerto di cui mi accingo a parlare si è svolto appena cinque giorni dopo la sua morte, ed è a lui dedicato. Infatti questo show, pur essendo al solito estremamente coinvolgente ed all’insegna del miglior rock’n’roll, è permeato da una neanche troppo sottile malinconia, in quanto Bruce ricorda più volte durante lo show la figura di Danny, sia a parole che con canzoni chiave che possano essere riferite alla sua persona, una presenza sempre discreta sul palco ma indispensabile, in quanto Federici è stato spesso anche uno degli elementi cardine per tenere insieme la band nei periodi più difficili. Uno show quindi in parte diverso dal solito, non fosse altro che per i diversi momenti commoventi.

L’inizio è atipico, con Bruce che, dopo essere salito sul palco, fa ascoltare al pubblico una toccante versione di Blood Brothers registrata in studio poche ore prima proprio come tributo a Danny, con la commozione che sale subito alle stelle. Anche il concerto vero e proprio comincia in modo non usuale, e cioè con una struggente Backstreets, credo mai usata prima come opening track, in una versione potente e decisamente avvincente. Ho sentito un sacco di concerti del Boss, sia dal vivo che su disco, ma non ricordo un avvio così coinvolgente dal punto di vista emotivo. Ma Springsteen significa soprattutto rock’n’roll, e quindi il nostro inizia a far saltare per aria la sala con una travolgente Radio Nowhere, seguita a ruota dalla maestosa Lonesome Day e dalla sempre splendida No Surrender, altro brano che tocca il tema della fratellanza. Dopo una corretta Gypsy Biker (non un grande brano), ecco un altro momento dedicato a Federici, con una 4th Of July, Asbury Park (Sandy) più sentita che mai e con l’antica Growin’ Up, non una presenza abituale nelle setlist di Bruce: in questi due pezzi la fisarmonica che di solito era nelle mani di Danny viene suonata da Roy Bittan, e prima di iniziare il Boss di rivolge commosso a lui dicendogli “Spero che tu sia all’altezza Roy, qualcuno ci sta guardando”.

Il resto del concerto procede in maniera “normale” (parola poco adatta ad uno show di Springsteen), con classici del calibro di Atlantic City (elettrica ed affilata), la sempre meravigliosa Because The Night, Darkness On The Edge Of Town, The Promised Land, oltre a scelte meno scontate come la nuova (all’epoca) Livin’ In The Future, il delizioso e solare pop-rock di Brilliant Disguise e la stupenda Racing In The Street, altro pezzo che il nostro non fa spesso. La parte finale dello show inizia con una sequenza da k.o. a tutto rock, che parte con The Rising, prosegue con le due canzoni migliori di Magic (Last To Die e Long Walk Home) e termina con la classica Badlands e la trascinante Out In The Street, in cui il Boss ha ormai il pubblico ai suoi piedi. Ultimo tributo a Danny, ma uno dei più toccanti, è una strepitosa versione acustica (ma full band) del traditional I’ll Fly Away, una rilettura tra country e gospel gioiosa e coinvolgente, con un arrangiamento che sembra figlio delle Seeger Sessions. Gran finale tutto d’un fiato con Rosalita, Born To Run, Tenth Avenue Freeze-Out e la saltellante giga rock di American Land.  Per il prossimo volume faremo visita allo Springsteen acustico del 2005, con diverse sorprese.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Gruppo Che Non Sbaglia Un Disco Neanche Volendo! Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

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Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes – Sage Arts CD

Quando si parla di gruppi che rielaborano la tradizione country, folk e bluegrass in chiave moderna la mente va subito a Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turles, ma spesso ci si dimentica di citare i Marley’s Ghost, sestetto californiano in giro da più di trent’anni. Una band di veterani quindi, ed infatti i capelli dei membri sono ormai irrimediabilmente grigi (quando non del tutto assenti), ma la loro forza nel suonare ed abilità nel produrre grande musica è pari a quella dei gruppi citati sopra. I Marley’s Ghost (Mike Phelan, chitarre, dobro, basso, violino e voce, Ed Littlefield Jr., chitarre, steel, basso e voce, Jon Wilcox, mandolino, chitarre e voce, Dan Wheetman, basso, steel, chitarra e voce, Jerry Fletcher, piano e voce, Bob Nichols, batteria) sono meno rock sia degli Old Crow che dei Fratelli Avett, pur avendo una sezione ritmica ed usando qua e là anche la chitarra elettrica, ma si rifanno più direttamente a sonorità tradizionali di generi come country, bluegrass, folk, gospel e old time music, rilette comunque con grande forza ed eccellente perizia strumentale.

 

Non hanno inciso moltissimo in 32 anni, appena una dozzina di album, ma proprio per questo quando esce una loro pubblicazione si può stare certi che non sarà una delusione. I loro ultimi due lavori, i bellissimi Jubilee e The Woodstock Sessions, erano prodotti da Larry Campbell, uno che con questo tipo di musica va a nozze, ed infatti i nostri lo hanno voluto a bordo anche per questo nuovissimo Travelin’ Shoes, un album davvero splendido, forse ancora più bello dei precedenti, in cui il sestetto rivisita a modo suo una serie di brani della tradizione gospel, con l’aggiunta di appena due brani originali. Il risultato è di altissimo livello, una strepitosa collezione di brani che rivedono il gospel aggiungendo cospicue dosi di ritmo, passando dal country al rock al bluegrass con estrema disinvoltura, e senza un attimo di tregua. Che non ci troviamo di fronte ad un disco qualsiasi lo si capisce fin dalla title track posta in apertura, che inizia per voce e banjo, poi entra il resto del gruppo ed anche la sezione ritmica comincia a farsi sentire: il binomio tra l’accompagnamento grintoso e la melodia tipicamente folk è vincente, in gran parte grazie alla fusione delle varie voci. Hear Jerusalem Moan è un traditional molto noto, ed è eseguito con uno splendido arrangiamento tra gospel e bluegrass, con alternanza tra parti vocali ed assoli strumentali (particolarmente belli quelli di violino e pianoforte);You Can Stand Up Alone, dopo un lungo intro a cappella, è eseguita in maniera cadenzata e con una deliziosa veste doo-wop anni sessanta (e la chitarra è elettrica), rilettura irresistibile, tra le più belle del CD.

Someday è scritta da Campbell, ed è un saltellante country-gospel contraddistinto da una performance in punta di dita ed all’insegna della classe sopraffina di cui i nostri sono provvisti in grande quantità. So Happy I’ll Be è un vecchio pezzo di Flatt & Scruggs, un coinvolgente gospel sullo stile di brani come Will The Circle Be Unbroken e Amazing Grace, superbamente eseguito e cantato alla perfezione; nell’insinuante Shadrack i nostri sembrano degli epigoni di Tennessee Ernie Ford, con quel tipico approccio old style ed un bel botta e risposta tra voce solista e coro, il tutto con un vago sapore jazzato. Run Come See Jerusalem è un capolavoro, sembra uscita di botto da un disco anni settanta di Ry Cooder, dall’intro di chitarra elettrica, all’atmosfera a metà tra Hawaii e Messico (c’è anche una fisarmonica), ed il coro fa la parte che fu di Bobby King e Terry Evans: magnifica. Judgement Day, unico pezzo originale dei nostri (ad opera di Wheetman), è un altro highlight assoluto, una splendida western ballad elettrica che sarebbe piaciuta a Johnny Cash, vibrante e dalla melodia epica, When Trouble’s In My Home richiama ancora Cooder (quello di Boomer’s Story), canzone tra folk, gospel e blues, con slide acustica ed intesa vocale perfetta, mentre Standing By The Bedside Of A Neighbor è uno scintillante e ritmato western swing con il grande Bob Wills come riferimento principale. Chiudono l’album la cristallina A Beautiful Life, puro country con un tocco di gospel, e con Sweet Hour Of Prayer, un toccante slow pianistico e corale che ha quasi il sapore di un brano natalizio.

Con Travelin’ Shoes i Marley’s Ghost hanno aggiunto un altro gioiello ad una collezione già preziosissima: tra i dischi più belli di questa prima parte di 2019, almeno nel genere country e derivati.

Marco Verdi

Ah, Finalmente, Una Bella “Raccoltina” Nuova Ci Mancava. Il 19 Aprile Esce Honk Dei Rolling Stones

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Rolling Stones – Honk – 2 CD – 3LP – Deluxe Edition 3 CD – 4 LP – Rolling Stones Records/Universal – 19-04-2019

Come era stato annunciato già da qualche tempo, per fine anno è prevista l’uscita di un nuovo album dei Rolling Stones (probabilmente a novembre), ma ecco che a sorpresa – anche se il singolo annunciato per il Record Store Day, ovvero She’s A Rainbow, ne condivide in parte la veste grafica – esce una ennesima inutile raccolta di successi della band di Jagger e Richards, oltre a tutto relativa solo al periodo dal 1971 al 2016, quello i cui diritti fanno capo alla band.

Ma, perché c’è sempre un ma, verrà pubblicata anche una versione Deluxe in tre CD, oltre a quella canonica in due dischetti con 36 brani, dove troveranno posto dieci brani inediti dal vivo, registrati nel corso degli ultimi tour, fino a quello del 2018, tra cui quattro duetti con personaggi attuali della musica pop e rock, probabilmente una mossa di marketing per aumentare l’appeal di questa edizione speciale.

Ecco il contenuto completo del triplo CD la cui uscita è prevista per il 19 Aprile.

[CD1]
1. Start Me Up
2. Brown Sugar
3. Rocks Off
4. Miss You
5. Tumbling Dice
6. Just Your Fool
7. Wild Horses
8. Fool To Cry
9. Angie
10. Beast Of Burden
11. Hot Stuff
12. It’s Only Rock’n’roll (But I Like It)
13. Rock And A Hard Place
14. Doom And Gloom
15. Love Is Strong
16. Mixed Emotions
17. Don’t Stop
18. Ride ‘Em On Down

[CD2]
1. Bitch
2. Harlem Shuffle
3. Hate To See You Go
4. Rough Justice
5. Happy
6. Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker)
7. One More Shot
8. Respectable
9. You Got Me Rocking
10. Rain Fall Down
11. Dancing With Mr D
12. Undercover (Of The Night)
13. Emotional Rescue
14. Waiting On A Friend
15. Saint Of Me
16. Out Of Control
17. Streets Of Love
18. Out Of Tears

[CD3: Live]
1. Get Off My Cloud
2. Dancing With Mr D
3. Beast Of Burden (with Ed Sheeran)
4. She’s A Rainbow
5. Wild Horses (with Florence Welch)
6. Let’s Spend The Night Together
7. Dead Flowers (with Brad Paisley)
8. Shine A Light
9. Under My Thumb
10. Bitch (with Dave Grohl)

Il tutto esce quindi pochi giorni prima di Pasqua, per festeggiare tutti insieme con il portafoglio più leggero.

Alla prossima.

Bruno Conti

Ottimo Cantautorato Dai Confini Del Mondo. Graeme James – The Long Way Home

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Graeme James – The Long Way Home – Nettwerk CD

La Nuova Zelanda, oltre che lontana geograficamente, è una terra abbastanza ai margini anche per quanto riguarda la musica, a differenza della vicina Australia che negli anni ha prodotto diversi artisti di qualità. Graeme James è un cantautore che proviene proprio dall’isola a sud-est della terra dei canguri, e ha esordito nel 2016 con News From Nowhere, titolo che ironizzava proprio sulla posizione ai confini del mondo del suo luogo d’origine. Da allora ha pubblicato altri due dischi, entrambi piuttosto difficili da trovare, mentre a Gennaio di quest’anno si è rifatto vivo con The Long Way Home, che non è il suo esordio come molti hanno scritto ma di certo il suo lavoro finora con una distribuzione più diffusa. Graeme è un songwriter classico, con uno stile molto folk, che ha la particolarità di suonare tutti gli strumenti e cantare tutte le parti vocali, oltre ad occuparsi della produzione. Un vero one-man band, anche se il risultato finale non suona per nulla approssimativo o artigianale, ma anzi il disco risulta piacevole e ben costruito, con una serie di canzoni scritte con uno stile diretto e spesso con un buon senso del ritmo, al punto che sembra essere frutto del lavoro di una band di più elementi.

Le undici canzoni di The Long Way Home sono tutte estremamente gradevoli, e fanno venire in mente spazi aperti ed orizzonti a perdita d’occhio, un paesaggio che in Nuova Zelanda non è certo estraneo. Come nell’apertura di Night Train, un brano saltellante e decisamente godibile, guidato da un mandolino che tiene il ritmo, un basso pulsante ed una melodia fresca ed immediata: Graeme ha una bella voce, profonda e molto musicale, e si dimostra da subito un autore preparato ed un valido polistrumentista (c’è anche un ottimo intervento di violino). Anche The Times Are Changing è introdotta dal mandolino, ed è contraddistinta da un motivo più complesso e non prevedibile, ma pur sempre orecchiabile: lo stile è una via di mezzo tra folk e pop, e Jones non è di certo di quei cantautori che fanno dormire. La title track è più pacata, con un mood molto disteso ed un arrangiamento arioso ed avvolgente, pochi strumenti ma neanche una nota fuori posto; il mandolino è lo strumento principale in quasi tutti i brani, ed apre anche la bellissima To Be Found By Love, una vivace folk tune dal deciso sapore irlandese, con uno strepitoso violino ed una melodia coinvolgente.

Western Lakes è una ballatona ancora dal sapore folk, fluida e rilassata, con il nostro che riesce ad emozionare anche con pochi accordi; in Here And Now al consueto mandolino si affianca una chitarra elettrica, per un pezzo sempre dal passo lento ma dall’approccio più rock: c’è qualche vaga somiglianza con gli U2 degli anni ottanta, cioè quelli buoni. Per contro Reverie è la più acustica finora, un delicato bozzetto per voce, chitarra, mandolino ed uno struggente violoncello; Always è uno slow pianistico (con il piano suonato da Jonathan Crehan, unico musicista esterno del disco), e si impone da subito come una delle canzoni più profonde ed intense del CD. Con The Difference si torna su territori decisamente folk-rock, un brano terso e cadenzato che piace al primo ascolto, Way Up High prosegue sulla medesima falsariga, ma con un feeling ancora più folk (una via di mezzo tra i Lumineers e gli Of Monsters And Men), mentre By & By chiude l’album con una vivace e pura canzone dal sapore tradizionale, incisa in maniera volutamente low-fi (su un registratore portatile).

Un singolo artista è poco per parlare di una scena musicale neozelandese, ma di certo Graeme James non è un songwriter da bypassare senza prima averlo ascoltato.

Marco Verdi

In Studio O Dal Vivo, Non Ne Sbaglia Uno. Tommy Castro And The Painkillers – Killin’ It Live

tommy castro killin' it live

Tommy Castro And The Painkillers – Killin’ It Live – Alligator/Ird

Tommy Castro viene da San Jose, California, dove è nato nel 1955, ma è sempre in giro per gli Stati Uniti (e ogni tanto anche in Europa) a proporre la propria musica dal vivo, anche se nella sua carriera solista iniziata negli anni ’90 (prima suonava con i Dynatones), questo Killin’ It è già il suo terzo disco dal vivo. Il quarto CD registrato con i Painkillers, in una discografia che conta su una quindicina di album, più un paio di EP: da alcuni anni si è accasato con la Alligator, etichetta che ormai da un po’ di anni non sbaglia un disco, e anche questo CD non fa eccezione. Se amate del blues robusto, a forte componente rock, con elementi soul  e southern, non vi potete esimere, anche questa nuova prova di Castro centra l’obiettivo. Registrato nel tour del 2018 Tommy ha pescato da registrazioni effettuate con il suo quartetto tra New York, Michigan, California e in Texas, al leggendario Antone’s: niente ospiti per l’occasione,  solo il bassista Randy McDonald, il batterista Bowen Brown e il tastierista Michael Emerson, che sono diventati uno delle formazioni più gagliarde in circolazione. La scelta del repertorio spazia un po’ in tutta la sua produzione, con due cover, Leaving Trunk di Sleepy John Estes, cavallo di battaglia di Taj Mahal, ma suonata spesso anche da Derek Trucks e Gov’t Mule, nonché Them Changes di Buddy Miles, il celebre brano presente anche nel Live con Santana ed estratto da Stompin’ Ground  l’ultimo album del nostro amico https://discoclub.myblog.it/2017/10/09/delaney-bonnie-e-pure-eric-clapton-avrebbero-approvato-tommy-castro-the-painkillers-stompin-ground/ .

Quindi niente fiati questa volta, ma l’impressione da blues and soul revue è tipica sempre nelle produzioni di Tommy Castro, fin dall’annuncio iniziale “Party Time, It’s Saturday Night Everybody”, l’atmosfera è subito gioiosa e spumeggiante, con una Make It Back To Memphis che sta giusto a metà strada tra il sound della J. Geils Band (anche senza l’armonica di Magic Dick) e il Texas sound di un pimpante Delbert McClinton, grazie ad un ritmo ondeggiante, alla bellissima voce di Castro e al pianino debordante di Emerson, poi nel finale entra la chitarra di Tommy e non ce n’è più per nessuno, il divertimento è assicurato. Can’t Keep A Good Man Down tratta dall’omonimo album del 1997 non è da meno, con una pulsante sezione ritmica e la solista che comincia a  lanciare traccianti rock-blues sul pubblico presente, si capisce perché il musicista californiano è considerato uno dei migliori chitarristi in circolazione, come viene ribadito nelle volute funky di Leaving Trunk, che nella versione di Taj Mahal aveva Ry Cooder e Jesse Ed Davis alle chitarre, ma il nostro amico fa di tutto per non farli rimpiangere, con il suo timbro grasso e pungente, mentre Emerson passato all’organo lo sostiene con brio.

Lose Lose era un brano scritto con Joe Louis Walker presente nel disco del 2015, uno slow blues di quelli tiratissimi e lancinanti dove la chitarra di Castro fa i numeri in un fluentissimo assolo ricco di una forza e una tecnica strabilianti, notevole anche il vibrante shuffle Calling San Francisco, tratto da un vecchio album del 1999, sempre cantato e suonato in grande spinta da tutta le band, che poi accelera vorticosamente a tempo quasi di rock and roll per una potente Shakin ‘The Hard Times Loose dove impazza il batterista Bowen Brown e sembra di sentire appunto una rock’n’soul revue devastante. Un attimo di quiete per godere della bella ballata soul Anytime Soon, che anche vocalmente ricorda il miglior McClinton, con breve solo di grande finezza in punta di dita, She Wanted To Give It To Me è tratta dal disco del 2014 con i Painkillers The Devil You Know, un brano scritto con Narada Michael Walden dal groove funky accentuato, chitarra dal suono nuovamente “grasso” e pungente e ottimo lavoro dell’organo, ancora con quell’aria da party music che spesso trasuda dai brani di Castro; ottima anche Two Hearts altro blues up-tempo con retrogusto soul e il “solito” assolo furioso della Gibson del nostro amico, che per chiudere sceglie Them Changes, un classico del rock-blues, che oltre che con Carlos Santana Buddy Miles era solito suonare nella Band Of Gypsys di Hendrix, versione gagliarda, con lungo assolo di organo nella parte centrale e la solista di Castro che imperversa nel resto del  brano, e spazio anche per i classici assoli di basso e batteria, come in tutti i Live che si rispettano, e questo lo è!

Bruno Conti

Un Capolavoro Non Lo E’ Mai Stato, Ma Forse E’ Il Caso Di Rivalutarlo! Byrds – Byrds

byrds - the byrds

Byrds – Byrds – Esoteric/Cherry Red CD

Nel 1973 i Byrds erano di fatto una “dead band walking”, dato che dopo il loro ultimo album (il non disprezzabile Farther Along del 1971, che però vendette pochissimo) si stavano stancamente trascinando in una attività live senza particolari guizzi, e con il leader assoluto Roger McGuinn sempre più scontento della line-up del gruppo. La palla al balzo fu colta da David Geffen, allora boss dell’emergente Asylum, che presentò ai cinque membri fondatori della band californiana (oltre a McGuinn, David Crosby, Gene Clark, Chris Hillman e Michael Clarke) la classica offerta non rifiutabile per un reunion album. I cinque misero da parte per un attimo gli antichi dissapori (e le relative carriere soliste) per registrare quindi un disco formato da nuove canzoni: il lavoro che ne risultò, appropriatamente intitolato Byrds, fu però molto criticato perché palesemente inferiore alle aspettative che erano prevedibilmente altissime, ed anche il successo di pubblico non rispecchiò affatto le speranze dei nostri, Geffen incluso che poi era quello che ci rimetteva di più.

Il problema vero era che Byrds fu il frutto della classica fusione a freddo di un gruppo che tornava insieme solo per motivi finanziari e non per reali esigenze artistiche, con i vari membri che a turno “usavano” i compagni come backing band per le loro canzoni, e quindi senza una vera collaborazione creativa: se aggiungiamo che dopo un po’ riaffiorarono, anche se solo in parte, le vecchie tensioni, si capisce benissimo perché questo disco invece di segnare un nuovo inizio mise la parola fine alla storia di uno dei gruppi più influenti degli anni sessanta (e per un breve periodo si venne a creare la strana situazione di una band che in studio aveva una line-up e dal vivo un’altra completamente diversa, con il solo McGuinn come elemento comune). Diciamo che la reunion non nasceva sotto i migliori auspici, dato che McGuinn, solitamente leader abbastanza dispotico, in questo album rimase stranamente nelle retrovie, Hillman confessò in seguito che si era tenuto le canzoni migliori per il suo debutto solista (che avvenne comunque tre anni dopo, prima ci fu la Hillman-Souther-Furay Band, altro esperimento non molto riuscito), mentre Clarke non aveva mai rappresentato un valore aggiunto per il gruppo, ma “solo” il batterista.

Gli unici “animatori” della reunion furono Crosby, che produsse anche il disco e figurava al centro in tutte le foto promozionali, e soprattutto Clark, che era in gran forma ed ottenne il materiale migliore dell’album. Oggi la Esoteric ha immesso sul mercato la ristampa di questo famoso disco, che non è certo la prima riedizione (l’ultima, targata Raven, è del 2014), ma sicuramente quella con il booklet più esauriente (con le note del noto giornalista e scrittore rock Malcolm Dome) e soprattutto con la rimasterizzazione migliore, tale da far sembrare queste incisioni risalenti a pochi mesi fa, e non vecchie di ben 46 anni. Risentendo il disco (va detto, senza bonus tracks) vorrei rivedere un attimo i giudizi dell’epoca, dato che ci troviamo di fronte ad un’opera di sicuro non imperdibile, e nemmeno ad un lavoro da isola deserta, ma comunque un bell’album con canzoni che vanno dal discreto all’ottimo, e che probabilmente nel 1973 deluse in quanto in quel periodo di dischi a cinque stelle ne uscivano con cadenza quasi mensile. Dicevo di Gene Clark, che ha l’onore di avere i due brani migliori tra quelli nuovi, a cominciare dall’opening track Full Circle (che in un primo momento sembrava dovesse essere anche il titolo dell’album), una splendida country song sostenuta da una melodia deliziosa, con le armonie vocali che ben conosciamo e la strumentazione elettroacustica perfetta; di stampo country è anche Changing Heart, altra bella canzone dal ritmo spedito, un bell’intreccio chitarristico (si sente distintamente anche la mitica 12 corde di McGuinn) e le solite magistrali backing vocals.

 

Dicevo anche di un Roger McGuinn quasi defilato, ed infatti la sua voce si sente solo in due brani, entrambi autografi: Sweet Mary, una ballata acustica dal sapore irlandese che sembra quasi un’anteprima di ciò che Roger farà decadi dopo con il progetto Folk Den, e Born To Rock’n’Roll, che nonostante il titolo è una ballata (rock, certo, ma pur sempre ballata), con un’improvvisa accelerazione ritmica nel ritornello, una buona canzone anche se un pochino al di sotto del potenziale del nostro. David Crosby propone Laughing, canzone splendida che però era già stata pubblicata (in versione diversa ovviamente) due anni prima sul mitico If I Could Only Remember My Name, e che qui comunque si conferma in tutta la sua bellezza, e l’elettrica e nervosa Long Live The King, un pezzo rock sullo stile di Almost Cut My Hair e Long Time Gone, ma non allo stesso livello. I due brani di Chris Hillman non sono poi così male: la roccata Things Will Be Better è comunque all’altezza di quanto poi finirà sul suo debutto solista Slippin’ Away (ed è nobilitata dal classico jingle-jangle sound), mentre Borrowing Time è una pimpante country song dal motivo immediato.

In ogni disco dei Byrds che si rispetti ci sono delle cover, e qui ne troviamo tre, la prima delle quali è un’intensa rilettura della bellissima For Free di Joni Mitchell, affidata alla voce dell’amico Crosby: splendida melodia e sonorità più alla CSN che Byrds. E poi c’è Neil Young che come autore prende il posto che abitualmente nei dischi dei nostri era destinato a Bob Dylan, con ben due composizioni, entrambe cantate da Clark (che quindi aumenta ulteriormente il vantaggio qualitativo sui compagni): Cowgirl In The Sand grandissima canzone in una interpretazione elettroacustica davvero squisita, più country e meno rock di quella del Bisonte canadese, ed una intesa e struggente See The Sky About To Rain, che all’epoca era ancora inedita (Young la pubblicherà l’anno seguente in On The Beach). Se non avete già una delle precedenti ristampe in CD di Byrds, disco che rappresenta il canto del cigno di una delle più grandi band di sempre, questa è quella da avere: non contiene inediti ma dona una veste sonora decisamente migliore ad un lavoro per troppi anni bistrattato.

Marco Verdi