Dischi Così Brutti Negli Anni ’70 Non Li Avrebbero Mai Pubblicati, Ma Oggi Purtroppo Si. Humble Pie – Joint Effort

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Humble Pie – Joint Effort – Deadline Music/Cleopatra Records

Un nuovo album degli Humble Pie! Beh adesso non esageriamo: anche perché gli album “nuovi” che sono usciti postumi con il nome della band in copertina, dopo la tragica morte di Steve Marriott avvenuta  nell’aprile del 1991, diciamo che non sono stati propriamente memorabili,  penso a Back On Track, in teoria il loro 13° album di studio. Meglio le varie pubblicazioni di materiale d’archivio dal vivo, anche se non sempre di qualità sonora impeccabile, e soprattutto alcune ristampe, tra cui lo splendido box quadruplo con i concerti da cui fu estratto lo strepitoso Performance: Rockin’ The Fillmore, con le esibizioni complete del 1971. Ora arriva questo Joint Effort, pubblicato dalla Cleopatra (uhm!), che riporta nel retro della copertina “Recorded 1974-1975 At Clear Sound Studios”, quindi materiale d’epoca.

Però, tanto per partire subito bene, nella foto di copertina del CD c’è una immagine della band, dove il primo in basso a sinistra è Peter Frampton, che però non faceva più parte del gruppo del 1971, sostituito da Dave “Clem” Clempson,  che comunque, ammesso che ci sia, si sente pochissimo, rimangono Steve Marriott, chitarra e voce, Greg Ridley al basso (scomparso nel 2003), e Jerry Shirley che è stato scelto dall’autore delle note per integrarle con i suoi ricordi di quegli anni. E Shirley ricorda appunto che in quel periodo Marriott non era più molto coinvolto nel progetto Humble Pie, il suo principale desiderio all’epoca, all’insaputa degli altri, era quello di entrare negli Stones in sostituzione di Mick Taylor (vicenda che poi è andata come sappiamo) e quindi partecipava svogliatamente alle registrazioni di nuovo materiale che avrebbe dovuto andare su un disco poi uscito nel 1975 con il titolo di Street Rats, l’ultimo pubblicato dalla A&M che aveva richiamato il loro vecchio manager Andrew Loog Oldham per sovraintendere alle registrazioni che si tennero agli Olympic Studio di Londra e non nei Clear Sound Studios che erano di proprietà di Marriott.

Nel frattempo Steve aveva raggiunto un accordo con Oldham per registrare più o meno in contemporanea, appunto nei propri studios, un disco solista in compagnia di Greg Ridley, progetto che poi non si concretizzò mai, e alcune, se non tutte,  di quelle registrazioni sono quelle pubblicate oggi come Joint Effort,  appunto lo “sforzo comune” dei due. Dieci brani in totale, uno ripetuto in due diverse versioni, un paio di canzoni uscite anche su Street Rats, sia pure in versione diversa. Complessivamente un album molto raffazzonato, per usare un eufemismo: Think è proprio il brano di James Brown, presente anche con una versione n°2 in coda al CD, un pezzo super funky dove appaiono anche dei fiati non accreditati, la chitarra non parte mai e c’è un lungo assolo di sax, forse Mel Collins, mentre nella seconda parte appare un’armonica. This Old World è uno dei due brani firmati con Ridley, una discreta ballata di stampo soul melodico, con il suono che va e viene, Midnight Of My Life, meglio, rimane sempre in questo ambito gospel-soul, con coretti a oltranza, piano e zero chitarre.

Let Me Be Your Lovemaket, una cover del pezzo di Betty Wright, è cantata da qualcun altro, non so da chi (o meglio, dovrebbe essere Ridley, ma non è accreditato nelle note), ed è un altro modesto funky-rock. Interessante la versione “funkyzzata” di Rain dei Beatles, abbastanza simile però a quella già uscita su Street Rats, sempre con una seconda voce a duettare con Steve e un passabile lavoro della slide, quasi sommersa comunque dalla presenza invadente delle coriste. Snakes And Ladders è uno dei pezzi più rock, ma la qualità sonora non è memorabile e c’è sempre questa “misteriosa” seconda voce ossessiva che sommerge quella di Marriott e pure nella breve Good Thing non mi pare ci siamo proprio https://www.youtube.com/watch?v=rCuFmin7aIU . A Minute Of Your Time scritta e cantata da Ridley non risolleva più di tanto le sorti del disco, in Charlene, altro bozzetto funky, almeno si apprezza la voce unica di Marriott, ma è un po’ poco. Mi sembra la Cleopatra abbia colpito ancora una volta, quindi un CD solo per fans incalliti degli Humble Pie, probabilmente neppure per loro. Sono stato troppo cattivo forse? Ma gli Humble Pie erano un’altra cosa,

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Ancora Al Madison, Questa Volta “Denuclearizzato”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden 1988

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden 1988 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Solo pochi giorni fa mi sono occupato dei due concerti che Bruce Springsteen e la sua E Street Band tennero nel 1979 al Madison Square Garden di New York come headliners del famoso evento denominato No Nukes, documentato da uno degli ultimi episodi degli archivi live del Boss: il volume successivo vede i nostri ancora all’interno della nota arena newyorkese, ma con uno spostamento temporale di nove anni in avanti, e nello specifico per lo show conclusivo della parte americana del tour di Tunnel Of Love (e quindi con una Patti Scialfa in più ed un avvicendamento tra Little Steven e Nils Lofgren). Molti fans di Springsteen, tra cui il sottoscritto, non hanno mai amato particolarmente questo tour, che vedeva un Boss meno arso dal sacro fuoco del rock’n’roll rispetto al solito, impegnato com’era a fare gli occhi dolci alla Scialfa sul palco, e con una band che dava la sensazione di procedere spesso col freno a mano tirato (si scoprì dopo che si erano già manifestate le prime crepe, che porteranno allo scioglimento di lì a breve), e con delle strane setlist che davano poco spazio ai classici e molto di più a brani minori.

Come in tutti i tour del nostro, però, c’è sempre qualche serata degna di essere consegnata ai posteri, ed è sicuramente il caso di questo concerto del 23 Maggio nella Big Apple, uno show che rispetta la tradizione di uno Springsteen che durante gli spettacoli conclusivi di una tournée (o di una parte di essa) non si risparmia e dà tutto sé stesso sul palco, con gli E Streeters che mettono da parte gli eventuali dissapori per roccare come sanno (aiutati dalla sezione fiati di cinque elementi guidata da Richie “La Bamba” Rosenberg). La scaletta ricalca solo in parte quella del resto del tour, in quanto ci sono diverse sorprese, tra cover e rarità; ben otto pezzi provengono da Tunnel Of Love, ed anche dal vivo si evidenzia la qualità altalenante di quel disco: se la title track è una canzone che potrei tranquillamente definire brutta (e soprattutto inadatta ad aprire lo show), ascoltiamo riempitivi di lusso, ma pur sempre riempitivi (One Step Up, Two Faces, Ain’t Got You, tutti brani che oggi Bruce non prende neanche più in considerazione), materiale di buon livello (All That Heaven Will Allow, la roccata e trascinante Spare Parts), la deliziosa pop song Brilliant Disguise ed almeno un capolavoro assoluto, cioè quella Tougher Than The Rest che dopo tanti anni è ancora uno dei pezzi più belli del Boss, ed ancora più intensa in questa versione rallentata rispetto a quella in studio (al punto che all’epoca uscì come singolo proprio in una resa dal vivo, però tratta dal concerto alla Sports Arena di Los Angeles).

Anche i brani rari sono numerosi, ed anche qui c’è un pezzo così così (Part Man, Part Monkey), ma il resto è eccellente: Be True è comunque un piccolo classico, ed è puro E Street sound, I’m A Coward è una rock song tirata e potente, che avrebbe meritato una fama maggiore, Seeds è trascinante come sempre e Light Of Day, che presenta anche un accenno a Born To Be Wild degli Steppenwolf, forse non è una grande canzone ma dal vivo è una cavalcata elettrica che funziona sempre. Anche in questa serata i classici del Boss si contano a malapena sulle dita di due mani: da Darkness On The Edge Of Town viene suonata solo una peraltro roboante Adam Raised A Cain (e l’assenza di Badlands è un evento), da The River la poppettara Hungry Heart (con prevedibile singalong del pubblico) ed una eccellente You Can Look (But You Better Not Touch) decisamente rock’n’roll e simile alla prima versione che poi non finì sul disco originale; l’album Born To Run è più fortunato, dato che vengono riprese la title track (acustica e quasi irriconoscibile, come da prassi in questo tour), l’incalzante She’s The One, l’errebi Tenth Avenue Freeze-Out e la splendida Backstreets (ma niente Thunder Road). Born In The U.S.A. all’epoca era ancora un disco recente, e quindi viene omaggiato a dovere con una title track di oltre otto minuti, una Cover Me decisamente rock, la discreta I’m On Fire (che non mi ha mai fatto impazzire) e la solita festa on stage provocata da Glory Days.

Infine, quello che è forse il piatto più ghiotto del triplo CD, ossia le cover: se Boom Boom di John Lee Hooker (inserita al secondo posto in scaletta) e War dei Temptations erano una presenza fissa del tour, troviamo sorprese come una splendida resa di Vigilante Man di Woody Guthrie (che quell’anno uscì in una versione di studio all’interno del bellissimo tributo Folkways: A Vision Shared, dedicato a Guthrie stesso ed a Leadbelly), un’energica e coinvolgente Have Love, Will Travel dei Sonics e soprattutto un gran finale a tutto soul e rhythm’n’blues composto da Sweet Soul Music (Arthur Conley), Raise Your Hand (Eddie Floyd) e Lonely Teardrops (Jackie Wilson), una chiusura del concerto che da sola vale l’acquisto ( o il download). Come bonus, primo caso in tutta la serie, un brano tratto dal soundcheck, e cioè un’inattesa ma bellissima ripresa del classico di Ed Townshend For Your Love. Non ho cambiato idea sul fatto che la tournée di Tunnel Of Love sia stata una delle meno “imperdibili” di Bruce Springsteen, ma se tutti i concerti fossero stati del livello di questo show al MSG oggi il mio giudizio sarebbe diverso. Per il prossimo episodio andremo avanti di vent’anni rispetto al 1988, per una serata piena di momenti emozionanti e commoventi.

Marco Verdi

Apparsi Quasi Dal Nulla, Ecco A Voi Una Bella (Ri)Scoperta: The Perth County Conspiracy!

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The Perth County Conspiracy – Perth County Conspiracy – Flashback Records            

Di tanto in tanto appaiono dal nulla pubblicazioni discografiche relative a solisti o gruppi assolutamente ignoti ai più: anche se in questi tempi di internet con un click è facile fare una ricerca, naturalmente sempre però se sapete il soggetto del vostro interesse, in caso contrario, soprattutto in ambito musicale (ma anche negli altri) risulterebbe difficile e dai tempi biblici fare delle ricerche che spaziano da Aardvark a Zuzzurellonis (dei primi garantisco l’esistenza, sui secondi meno) per placare la vostra vorace fame di conoscenza. In effetti dei Perth County Conspiracy qualcosa in rete si trova: band canadese attiva tra il 1969 e il 1977, ha “pubblicato”, si fa per dire, alcuni dischi in quel periodo (un paio anche per la Columbia Canada), la cui reperibilità, soprattutto nel caso di quello di cui stiamo per parlare, era molto problematica, visto che il LP fu pubblicato dalla CBC, la Canadian Broadcasting Corporation, l’emittente di stato locale, in una tiratura di “ben” 250 copie.

Il gruppo, uno dei classici collettivi, anche in parte politicizzati come in quegli anni era spesso cosa comune, ruotava intorno a due musicisti Richard Keelan e Cedric Smith, soprattutto il secondo anche con forti interessi teatrali e cinematografici, e che tuttora svolge una attività di attore e doppiatore sul suolo canadese. Questa a grandi linee la storia, ma nel CD (o nella ristampa del vinile se preferite) c’è un succoso libretto di 16 pagine che racconta in dettaglio la storia della band: il curatore del dischetto in questione è Richard Morton Jack, un appassionato ed esperto giornalista inglese, ferratissimo soprattutto sulla psichedelia, sul  folk e sull’underground in generale, scrive su Mojo, Q e Record Collector, ha fondato la Flashback Records e prima era il titolare dell’etichetta Sunbeam. Sulla copertina del CD troviamo due personaggi barbuti e lungocriniti, che musicalmente si ispirano al folk “alternativo” imperante in quegli anni, pensate a Tim Buckley, Tim Hardin, Fred Neil, Tom Rush, ma anche Nick Drake e Donovan, tutti personaggi ai margini del mainstream, ma di indubbia qualità.

Ovviamente i Perth County Conspiracy non sono a quei livelli, se no li conosceremmo da anni, ma nella continua ricerca degli appassionati di materiale “oscuro” da (ri)scoprire, un dischetto come questo ci può stare. Registrato nell’agosto del 1970, e pubblicato più o meno in contemporanea al disco per la Columbia che mescolava Shakespeare e altri autori teatrali alla musica, e che forse profeticamente si intitolava The Perth County Conspiracy Does Not Exist, questo “nuovo” dischetto mescola materiale originale di Keelan e Smith (aiutati dal bassista Michael Butler) a tre cover d’autore di buona fattura. Le voci dei due sono piacevoli ed interagiscono in modo efficace, mentre anche a livello strumentale, per quanto il suono sia scarno e basico, il disco non dispiace per nulla: tra i musicisti che frequentavano i loro stessi locali in quello scorcio di anni ’60 c’erano anche Chuck Mitchell, con la moglie Joni, con la quale, nell’iniziale, morbidamente deliziosa, Welcome Surprise, scritta da Keelan, c’è un comune uso del dulcimer, che accentua lo stile folk del brano, mentre in Take Your Time, scritta a due mani dai due, che la cantano in alternanza, c’è una maggiore varietà di suoni, grazie alla presenza delle percussioni e all’arrangiamento più complesso che rimanda a certo psych-folk dell’epoca. If You Can Want è una cover di Smokey Robinson (ebbene sì), che alivello sonoro con il soul non ha rapporti, ma forse veniva dalla provenienza di Detroit di Keelan, che come Smith, inglese di origine, era un canadese trapiantato, comunque il brano è più mosso e bluesy, con un bel giro di basso e le voci che si intrecciano con classe e brillantezza.

Woman For All Seasons è una bella ballata melanconica, cantata da Cedric Smith, la cui voce risonante ricorda quelle di Buckley e Hardin, affascinante e profonda, con una chitarra elettrica a vivacizzarla. Vivace è anche la cover, con elementi orientaleggianti e quasi freak-folk, di Hurdy Gurdy Man di Donovan, in cui risalta la bella melodia del brano del menestrello scozzese, Mr. Truthful Licks è quella che più ricorda lo stile dei duo vocali dell’epoca, Simon & Garfunkel, ma anche Williamson e Heron dell’Incredible String Band. So Many Things, con un flauto a percorrerla, rimanda di nuovo alle ballate folk del primo Tim Buckley, mentre Lace And Cobwebs, sempre di Smith, potrebbe ricordare lo stile di Hardin, oppure di Nick Drake, che però all’epoca nessuno conosceva. HIndsight di Keelan, di nuovo cantata a due voci, con un bel piano quasi alla Laura Nyro come strumento guida è un’altra buona composizione che conferma il valore dei due, mentre in conclusione troviamo una bella e lunga versione corale della classica I Shall Be Released di Dylan, cantata dal cantautore americano Terry Jones, uno dei vari “Cospiratori” che hanno aiutato il duo a realizzare questo album che riemerge dalle nebbie del tempo, non un capolavoro sicuramente ma un bel disco che gli amanti della buona musica sicuramente apprezzeranno. Una bella (ri)scoperta.

Bruno Conti

Saranno Anche Vecchie Notizie, Ma Sono Decisamente Buone! The Steel Woods – Old News

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The Steel Woods – Old News – Woods Music/Thirty Tigers

Come potrebbe lasciar intendere il titolo del CD, gli Steel Woods sono la classica band old school: un connubio tra southern, innervato da robuste dosi di rock tirato, e il classico suono country della loro nativa Nashville. Quindi tanto Lynyrd Skynyrd sound, ma anche le sonorità dell’other side of Nashville, quella frequentata dal chitarrista Jason Cope, per nove anni il solista nella band di Jamey Johnson, e poi legami con le ultime leve del rock sudista, a partire dai Blackberry Smoke.  Nove brani originali e sei cover, più della metà posizionate alla fine del disco. Un suono dove non si fanno molti prigionieri, due chitarre, basso, batteria e pedalare. Ovviamente tra le influenze e le “parentele” possiamo citare anche Chris Stapleton, JJ Grey, Black Crowes, e naturalmente Allman Brothers.

L’iniziale e poderosa All Of These Years sembra proprio una riuscita fusione tra Lynyrd e Allman, chitarre a tutto riff, la voce gagliarda di Wess Bayliff, che all’occorrenza è in grado di suonare qualsiasi strumento, oltre alla chitarra, tastiere, basso, mandolino, armonica, oltre a firmare con Cope quasi tutte le canzoni, ma in questo caso è il suono delle due soliste a dominare un brano che è puro southern rock d’annata. Il secondo pezzo Without You è una delle classiche power ballads dove la componente country non è insignificante, ma il lavoro della slide nobilita il brano con raffinata classe; Changes era su Black Sabbath Vol. 4 (prego?!), ma qui viene rivestita da una insolita patina funky-soul-rock che potrebbe rimandare al JJ Grey ricordato poc’anzi, con la voce vissuta di Bayliff che intona con passione le liriche di Geezer Butler, come se uscissero da qualche fumoso locale del Sud degli Stati Uniti, mentre le chitarre si fronteggiano quasi con lievità. Wherewer You Are è una ballatona elettroacustica malinconica di quelle che piacerebbero a Chris Stapleton, parte con voce e chitarra acustica appena accennata, poi in un lento crescendo entrano tutti gli strumenti, incluso violino e viola suonati da Jake Clayton, che danno un tocco leggiadro al tutto; ma il rock ovviamente non manca, Blind Lover, con un riff muscoloso e la ritmica che picchia alla grande, potrebbe rimandare ai Black Crowes più ingrifati, con le chitarre spianate https://www.youtube.com/watch?v=GQwT4YCWq6Q   e, sempre per rimanere in ambito sudista Compared To A Soul, con un solido giro di basso ad ancorarla, ricorda certi brani  più“scuri” e cadenzati dei vecchi Lynyrd Skynyrd.

Molto bella anche la title track Old News, un’altra ballata con ampio uso di archi, cantata splendidamente da Bayliff e con un bel assolo di slide di Cope; Anna Lee è uno dei brani più country del disco, con mandolino e chitarre acustiche a dominare il sound, dove comunque le elettriche si fanno sentire con forza. Red River (The Fall Of Jimmy Sutherland) è un breve strumentale dal suono poderoso a tutte chitarre, come eccellente è la cover di The Catfish Song di Townes Van Zandt che si trasforma in un pezzo molto ritmato ed elettrico, con armonica e piano ad integrare il suono robusto delle chitarre (come facevano un tempo gli Skynyrd con JJ Cale), seguita da Rock That Says My Name, un lungo brano “epico” che ricorda le cose più elettriche di Steve Earle. Nella parte finale troviamo quattro cover, One Of These Days di Wayne Mills, un honky –tonker non molto conosciuto, comunque una ballata deliziosa con uso pedal steel suonata da Eddie Long, Are The Good Times Really Over (I Wish A Buck Was Still Silver)di Merle Haggard, ancora country music di qualità sopraffina, di nuovo con pedal steel in evidenza. E per concludere in bellezza una “riffata” Whipping Post degli Allman Brothers, con l’organo a duettare con le chitarre con una grinta e risultati invidiabili https://www.youtube.com/watch?v=I3c6uzt4aac , e dulcis in fundo, Southern Accents di Tom Petty, un elegiaco e sentito inno al Sud degli States, interpretato con vibrante passione,  a conclusione di un album decisamente soddisfacente e che illustra la statura degli Steel Woods, veramente bravi.

Consigliato vivamente.

Bruno Conti

Un Tributo Fatto Col Cuore, Bello E Sorprendente. VV.AA. – American Boy: Storia Di Un Ribelle Americano

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VV.AA. – American Boy: Storia Di Un Ribelle Americano – radiosenzatempo.com CD + Book

L’improvvisa scomparsa di Tom Petty avvenuta il 2 Ottobre del 2017 ha lasciato un vuoto pazzesco negli appassionati di musica, anche alle nostre latitudini, nonostante il biondo rocker non avesse mai goduto di grande popolarità all’interno dei confini italici (parlo ovviamente di grande pubblico, quello che guarda il Festival di Sanremo, dato che anche tra gli estimatori nostrani Tom era una vera e propria leggenda vivente). Ed è proprio in Italia che ha avuto origine questo bellissimo tributo dedicato a Petty ed intitolato American Boy: Storia Di Un Ribelle Americano, un’operazione di grande livello professionale nata dall’iniziativa di Radio Senza Tempo, una radio indipendente sorta in quel di Genova nel 2013 per l’iniziativa di due music lovers come Marco Caldez e Valentina Damiani. I due, insieme a Stefano Malvasio che ha messo a disposizione i suoi Red Land Studios per l’incisione dei brani, hanno riunito diverse band originarie del capoluogo ligure (e dintorni), la maggior parte delle quali assolutamente sconosciute ai più, e hanno prodotto questo American Boy, un tributo delizioso a Petty e le sue canzoni, un lavoro fatto con grande amore e passione e con una serie di interpretazioni di notevole livello, a dimostrazione che non serve essere un artista blasonato per riuscire nell’obiettivo, basta avere una buona tecnica di base e tanto amore per la materia affrontata.

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Ma American Boy non è soltanto un eccellente CD pieno di ottima musica, in quanto gli ideatori hanno voluto coinvolgere anche Aladin Hussain Al Baraduni, un artista di strada di origine yemenita che ha illustrato il libro accluso con i suoi dipinti visionari e suggestivi, uno diverso per ogni canzone (e, nella pagina a fianco, una breve biografia di ogni artista coinvolto, oltre al riferimento agli album originali di Petty dai quali sono tratti i vari brani). Un’operazione indubbiamente meritoria, che trasuda amore e passione in ogni dettaglio, ancora di più perché affrontata senza l’assillo di dover a tutti i costi coprire almeno le spese di produzione (ed il CD + libro non si trova nei negozi, ma si può ordinare sul sito di Radio Senza Tempo, il cui link trovate all’inizio della recensione). Nell’album ci sono classici di Tom uniti a brani meno famosi, ma nel 90% dei casi il risultato è sorprendentemente buono, al punto che mi piacerebbe che lo ascoltassero anche i vari membri degli Heartbreakers per sapere cosa ne pensino. Il disco si apre con una scintillante rilettura di Big Weekend, uno dei pezzi più orecchiabili di Highway Companion, da parte dei Charlie, una band guidata dalla squillante voce di Carlotta “Charlie” Risso: versione diretta, e piacevolmente country-rock, che apre benissimo il tributo.

A Mind With A Heart Of Its Own è forse il brano meno conosciuto di quel grande disco che era Full Moon Fever, ma non è affatto male e gli Snake Oil Limited la rifanno leggermente più roccata che in origine, mantenendo però lo stile del suo autore. I Red Wine sono uno dei gruppi più conosciuti all’interno di questo CD, una band di country e bluegrass in giro dal 1978: la loro American Girl, uno dei classici assoluti di Tom, è completamente riarrangiata in puro stile bluegrass, con grande spiegamento di chitarre, banjo e mandolino, ed è un mezzo capolavoro, una rilettura che mi ha lasciato davvero a bocca aperta, degna di stare su qualsiasi tributo di livello internazionale. Molto bravi anche The Flinstoned (con il chitarrista Guitar Ray Scona come ospite), che eseguono la poco nota The Wrong Thing To Do (era sul primo album dei Mudcrutch) con un approccio puramente rock’n’roll, un suono potente e sgangherato alla maniera dei Replacements ed uno strepitoso assolo finale di Scona. I Flabby Fuckin’ Mama affrontano la classica Breakdown con grande rispetto, ed il brano mantiene l’atmosfera laidback dell’originale, mentre la Francesco Rebora Band aggiunge forza alla bella You Don’t Know How It Feels, anche qui con parti di chitarra davvero egregie. Bravissima Jess con una squisita e delicata versione di Wildflowers, voce, chitarra e percussioni per una rilettura folk di grande impatto; i Ghost Notes si cimentano con la trascinante Anything That’s Rock’n’Roll, ed anche loro premono decisamente sull’acceleratore.

I Maghi Di Carroz rifanno la splendida Free Fallin’ tramutandola in una folk song (c’è anche una fisarmonica), ma la voce solista è un po’ troppo sopra le righe (alla Massimo Priviero, per intenderci) ed il risultato finale non mi convince appieno. Invece Luke & The Lion ci consegnano un’ottima Don’t Come Around Here No More, più rock e meno psichedelica di quella apparsa su Southern Accents, ed anche dal ritmo più sostenuto. I Big Mama sono di gran lunga il gruppo più noto tra i presenti, una blues band in giro da 40 anni, che ci delizia con una Jefferson Jericho Blues notturna, soffusa e quasi jazzata, con ottime parti di chitarra e pianoforte: grande classe. The Pottos sono un duo di cantanti e chitarristi, e la loro The Waiting è decisamente piacevole anche in assenza di sezione ritmica; Les Trois Tetons rifanno Mary Jane’s Last Dance molto aderente a quella di Petty, ma stiamo parlando di una grandissima canzone che sarebbe stato rischioso reinterpretare, cosa che invece hanno fatto i Fumonero con la classica Refugee, ed il risultato non mi piace, in quanto la melodia è stata rivoltata come un calzino ed il suono rock dell’originale violentato in favore di un arrangiamento quasi heavy, cupo ed inquietante. Le cose però vanno a posto subito con la stupenda Handle With Care (signature song dei Traveling Wilburys), riletta in puro stile folk-rock, alla maniera dei Byrds, da The Used Cars.

Non arricciate il naso, questo American Boy è uno dei più bei tributi ad un grande artista da me ascoltati ultimamente, in quanto le band coinvolte hanno avuto nella quasi totalità dei casi il buon gusto di rispettare la struttura originaria delle canzoni senza tempo dell’immortale Tom Petty.

Marco Verdi

Lo Springsteen Del…Mercoledì: Due Storiche Serate Finalmente Al Completo. Bruce Springsteen & The E Street Band – No Nukes 1979

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Bruce Springsteen & The E Street Band – No Nukes 1979 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD/Download

Nel Settembre del 1979, per l’esattezza il 21 e il 22, si tennero al Madison Square Garden di New York due show benefici organizzati dal MUSE (Musicians United for Safe Energy), un collettivo non-profit formato da Jackson Browne, Graham Nash, Bonnie Raitt e John Hall che si proponeva di promuovere energie alternative a danno del nucleare, spettacoli denominati appunto No Nukes. Le due serate ospitarono sul palco una lunga serie di stelle della musica rock: oltre ai musicisti citati poc’anzi (con Nash sia da solo che con Crosby e Stills) il MSG vide esibirsi fra gli altri James Taylor, Carly Simon, i Doobie Brothers, Nicolette Larson, Ry Cooder, i Poco, Jesse Colin Young, Tom Petty & The Heartbreakers e l’attrazione principale dei due concerti, ovvero Bruce Springsteen & The E Street Band. Da quegli spettacoli venne tratto un triplo LP (in seguito doppio CD) ed un film-concerto, che prendeva il meglio delle due serate: del Boss c’erano solo due canzoni sul disco e tre nel film (le due tracklist erano differenti), tra l’altro i primi pezzi dal vivo di Bruce a venire pubblicati ufficialmente nel corso della sua carriera.

Springsteen però in quei due show eseguì due veri e propri concerti di un’ora e mezza ciascuno, due set abbreviati rispetto alla norma ma pur sempre di discreta lunghezza per un concerto benefico con molti altri artisti. Ora i due show completi del Boss sono finalmente disponibili per la sua meritoria serie di concerti d’archivio, ed è inutile dire che il triplo CD è estremamente godibile dall’inizio alla fine. La setlist è al 90% la stessa in tutti e due gli spettacoli, ed anche l’intensità è la medesima, con le canzoni eseguite la sera del 22 leggermente più lunghe di quella del 21 (in cui però il Boss suonerà un brano in più). Gli show sono una sorta di greatest hits di Bruce fino a quel momento, con apertura potente riservata ad un trittico di canzoni tratte da Darkness On The Edge Of Town (Prove It All Night, Badlands ed una The Promised Land con inedita introduzione lenta al pianoforte), seguita dall’anteprima di due pezzi da The River (che uscirà un mese dopo), cioè la leggendaria title track, che era già un brano da ascoltare in religioso silenzio, e la gioiosa Sherry Darling, che veniva suonata nei concerti dal 1978.

Da Born To Run il Boss esegue prevedibilmente la title track ed una Thunder Road di grandissima intensità (in entrambe le serate, sia chiaro), oltre ad una meravigliosa Jungleland; in mezzo, l’unico aggancio agli esordi con una Rosalita più sintetica del solito. E’ nei bis che i due show differiscono: il 21 il nostro propone una coinvolgente Stay di Maurice Williams, già un classico negli “encores” di Jackson Browne (e Bruce la canta proprio con Browne e la sua corista Rosemary Butler), un ficcante e travolgente Detroit Medley (che con il brano precedente è l’unico pubblicato ufficialmente sul disco uscito all’epoca) e chiusura con il rock’n’roll di Buddy Holly Rave On, in una potente ed irresistibile versione. Lo show del 22 si chiude ancora con Stay, per la quale ai “confermati” Springsteen, Browne e Butler si unisce, udite udite, Tom Petty, e con un’energica e muscolare ripresa dell’evergreen di Gary U.S. Bonds Quarter To Three, già ascoltata all’interno del film-documentario tratto dai due concerti ma mai pubblicata prima in versione audio.

Arrivederci al prossimo show, per il quale non ci sposteremo dal Madison Square Garden ma faremo un salto temporale di nove anni in avanti.

Marco Verdi

Anche Lui Per Un Grande Disco Si Fa Dare Un “Piccolo” Aiuto Dai Suoi Amici. Reese Wynans And Friends – Sweet Release

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Reese Wynans And Friends – Sweet Release – Mascot/Provogue

Nicky Hopkins, Chris Stainton, e per certi versi anche Chuck Leavell, sono stati tra i più grandi “gregari di lusso” tra i tastieristi della musica rock, ma nessuno (forse con l’eccezione di Leavell, da solo e con i Sea Level) ha mai realizzato dei dischi a nome proprio di spessore e consistenza qualitativa. Poi c’è anche chi, come Reese Wynans, addirittura di dischi come solista non ne aveva mai pubblicato uno, anche se la sua carriera inizia nel lontano 1968 quando muoveva i primi passi nei Second Coming dei futuri Allman Brothers Dickey Betts Berry Oakley. Poi ha fatto parte brevemente, per un solo disco, del gruppo rock progressive dei Captain Beyond nel 1973: da allora, a parte i 5 anni passati nei Double Trouble, ovvero dal 1985 alla morte di Stevie Ray Vaughan nel 1990, è stato uno dei musicisti “for hire” più ricercati ed indaffarati nell’ambito della musica rock, fino al 2015, quando è entrato in pianta stabile nella band che accompagna Joe Bonamassa, sia in studio che dal vivo. E proprio Bonamassa è il produttore di questo Sweet Release, il disco che segna l’esordio come solista di Wynans e di Joe dietro la console. E si tratta di un esordio con i fiocchi, un album di grande valore, dove sono accorsi in aiuto di Reese una serie di musicisti (e amici) impressionante.

Wynans ha lavorato con musicisti provenienti da tutti i generi musicali, vivendo da tempo a Nashville ovviamente la musica country, grazie a suoi trascorsi in Florida (dove è nato) e Texas, anche il southern rock fa parte del suo DNA, e pure soul e R&B non  mancatn nelle sue esperienze, ma sicuramente il blues(rock) è sempre stato lo stile in cui il tastierista ha eccelso maggiormente ed è quello che fa la parte del leone in questa prova discografica. Una cosa che salta all’occhio (anzi all’orecchio) è il sound brillante, nitido, ben definito (evidentemente Bonamassa ha imparato parecchio da Kevin Shirley, il suo produttore da una quindicina di anni), e anche la scelta della canzoni è stata fatta in modo oculato (con quattro brani estratti dal repertorio di Stevie Ray Vaughan), come pure quella degli ospiti che suonano nel disco, oltre alla band fissa che ruota intorno al piano e all’organo di Reese, gli strumenti principali dell’album, ma anche la chitarra non scherza, quasi un 50/50 con le tastiere: ovviamente la sezione ritmica è affidata in quasi tutti i pezzi ai suoi vecchi pard nei Double Trouble, Chris Layton alla batteria e Tommy Shannon al basso, poi ci sono i Texicali Horns, Michael Rhodes, Greg Morrow, Lamar Cater Travis Carlton. Anche se ovviamente sono gli “amici” che fanno la differenza, per esempio nell’iniziale Crossfire, l’unico brano di cui Wynans è co-autore insieme ad altri, e che si trovava su In Step l’album di SRV del 1989, in cui la voce è quella del grande Sam Moore, mentre la solista è nella mani di Kenny Wayne Shepherd, per un infuocato tuffo nel rock con ampie venature R&B, grazie alla presenza dei fiati sincopati, e con Moore che dimostra di non avere perso un briciolo della sua proverbiale potenza vocale, rispondendo colpo su colpo alla chitarra di Shepherd e all’organo di Wynans.

Say What era su Soul To Soul, il terzo album di Vaughan, uno strumentale con wah-wah a manetta (che era chiaramente un omaggio a Jimi Hendrix) e dove si apprezza ancora tutta la notevole tecnica di KWS, qui accompagnato solo dai “vecchi” Double Trouble, con Reese ancora in gran spolvero all’organo; That Driving Beat era un vecchio brano di Willie Mitchell, quindi errebì/soul originale Hi Records targato Memphis, e chi meglio di Mike Farris, un uomo all’ugola d’oro, ne poteva cogliere i sapori sudisti, ben coadiuvato dal sax di Paulie Cerra e con Jack Pearson Josh Smith alle chitarre e Wynans che imperversa sempre all’organo. You’re Killing My Love era una bellissima blues ballad scritta da Nick Gravenites Mike Bloomfield per Otis Rush, presente nell’album Mourning In the Morning prodotto dai due, con Doyle Bramhall II alla voce e alla chitarra, che quando suona il blues convince moltissimo, ancora con organo e fiati in bella evidenza. Ma, vi chiederete, il produttore in tutto ciò dove è finito? Eccolo che arriva con la sua chitarra (anche se praticamente non si sente) in un brano corale splendido, la title track Sweet Release, altra ballata sontuosa scritta nel 1969 per il suo primo album, da Boz Scaggs, che la canta anche insieme a Keb’ Mo’, Warren Haynes, Mike Farris, Jimmy Hall, Vince Gill, Paulie Cerra e Bonnie Bramlett, una vera delizia di deep soul-gospel sudista. Shape I’m In (senza il The iniziale) non è il brano di Robbie Robertson per la Band, come ha scritto qualcuno dicendo una vaccata colossale, ma una canzone scritta da Marc Benno e Doyle Bramhall per gli Arc Angels, e qui interpretata da Noah Hunt, il cantante della band di Kenny Wayne Shepherd, che appare nuovamente alla chitarra solista e alla seconda voce, mentre Wynans va di irrefrenabile piano boogie.

Hard To Be è un  brano scritto da Bramhall padre e da Stevie Ray Vaughan, per l’album Family Style dei fratelli Vaughan, e ricorda moltissimo i vecchi pezzi di Delaney & Bonnie, con la Bramlett a ricoprire il suo  ruolo originale, mentre la voce duettante è quella di un pimpante Jimmy Hall, altro vocalist sudista dalla ugola vellutata, pianino honky-tonk e fiati pompano di brutto, mentre finalmente anche Joe Bonamassa si ritaglia un suo spazio misurato alla chitarra. Che poi ripete anche in una strepitosa versione di un altro lungo strumentale di SRV, la splendida e raffinata Riviera Paradise, dove Joe divide gli spazi solisti con Kenny Wayne Shepherd Jack Pearson, accompagnati da par loro dai Double Trouble guidati dall’organo suadente di Reese Wynans. Take The Time è una canzone del 1976 scritta da Les Dudek, altro “sudista” doc, per l’occasione cantata da Warren Haynes, che divide anche gli spazi solisti con la chitarra di Joe Bonamassa, in un brano gagliardo e robusto. Bonamassa che a questo punto ci ha preso gusto e canta ed è la chitarra solista anche nel classico blues lento di Tampa Red So Much Trouble, con Mike Henderson all’armonica e Wynans al piano, pure loro grandi protagonisti: anche I’ve Got A Right To Be Blue è di Tampa Red. altro blues sapido, questa volta acustico, con Keb’ Mo’, voce e chitarra e il pianoforte di Reese, protagonisti di un brano dove l’ambientazione sonora è molto filologica. Non poteva mancare del sano funky, e ci pensa la presenza di un vecchio brano strumentale dei Meters, maestri del genere New Orleans, in una sinuosa rilettura di Soul Island, dove le tastiere del nostro amico sono protagoniste assolute insieme ai fiati. Reese Wynans si riserva poi il gran finale con una rilettura pianistica della classica Blackbird dei Beatles. 

Uno dei migliori dischi di questo inizio 2019.

Bruno Conti

Un Altro Bel Disco, Anche Se Fa Sempre Parte Della Serie “Ah, Trovarlo”! Gurf Morlix – Impossible Blue

gurf morlix impossible blue

Gurf Morlix – Impossible Blue – Rootball Records              

Come ricordavo parlando del precedente album di Gurf Morlix The Soul And The Heal (tra l’altro registrato prima, ma pubblicato dopo, un attacco di cuore quasi fatale avvenuto nel 2016) https://discoclub.myblog.it/2017/03/24/un-altro-gregario-di-lusso-gurf-morlix-the-soul-and-the-heal/ ), il musicista residente da molti anni a Austin, Texas ma nativo di Buffalo, si è sempre considerato un “gregario”, magari di lusso, uno che scrive, suona e produce per altri (Lucinda Williams, Blaze Foley, Ray Wylie Hubbard, Mary Gauthier, Slaid Cleaves, Robert Earl Keen, solo per citarne alcuni), ma approda comunque con questo Impossible Blue al suo decimo album di studio, in una carriera solista iniziata nel 2000. Morlix propone questo suo “blues” personale, dai testi spesso basati su esperienze personali, storie di amore e di vita ancor più rafforzate dal suo incontro ravvicinato con la morte, ma presenti da sempre nelle proprie canzoni, brutalmente oneste, buie e dure, con rare aperture ad un ottimismo dolente ed espresso a fatica: del nuovo album ha detto che secondo lui è il suo migliore di sempre (ma d’altronde non ho ancora sentito un artista dire che la sua ultima opera è la peggiore che abbia mai realizzato), però nel caso di questo album sembra essere vero.

Accompagnato come di consueto dal fedele batterista Rick Richards e per l’occasione dalla leggenda texana dell’organo Hammond B3 Red Young, oltre che dalle leggiadre armonie vocali femminili della brava Jaimee Harris, Gurf Morlix canta, suona le chitarre, il basso, le percussioni e le altre tastiere, produce, fa da ingegnere del suono e tecnico, il tutto nello studio di registrazione Rootball che dà anche il nome alla propria etichetta. E ovviamente scrive tutte le nove canzoni: la voce come al solito è roca, spezzata, dolente, molto vissuta, per certi versi vicina a quella di un paio di sue illustre clienti  e colleghe come la Williams e la Gauthier, ma riesce a convogliare questo spirito del blues according to Gurf. Turpentine apre su un riff che è un incrocio tra Green Onions e il suono “paludoso” dell’ultimo Tony Joe White, con la solista di Morlix che poi si intreccia con l’organo sinuoso di Red Young, abrasiva come l’acquaragia che vorrebbe usare per pulire una amante fastidiosa e petulante. 2 Hearts Beatin’ In Time è una sognante, pigra e delicata ballata, quasi sussurrata da Morlix che si avvale della voce dolce e suadente della Harris per impreziosire questa ode all’amore https://www.youtube.com/watch?v=Of0BDK1vrag , dove l’accompagnamento scarno e il suono secco della sezione ritmica evidenziano la melodia che ricorda molto certi “blues” personali di Lucinda Williiams.

My Heart Keeps Poundin’ è quasi una constatazione meravigliata sul fatto che il suo cuore, nonostante tutto, continui a funzionare, e il ritmo incalzante del brano, con il basso che pulsa e la batteria più indaffarata del solito, vive anche di essenziali sferzate di chitarra e organo. I’m A Ghost torna al suo innato pessimismo e all’oscurità che abita spesso nelle sue canzoni, benché la forma sonora prescelta sia quella di una ballata soffusa e quasi carezzevole, sempre grazie all’uso essenziale della voce elegante di Jaimee Harris, mente le schegge di luce presenti appunto in Sliver Of Light cercano di squarciare queste tenebre che abitano le sue composizioni, in questo caso una sorta di ode alla vita “on the road” da un concerto all’altro, in cui la musica cerca di animarsi più del solito a tempo moderato di blues-rock e un principio di ritornello con coretto, ma si torna subito alle “allegre” vicende di Bottom Of The Musquash River che narra del rimpianto, del lutto, di un uomo per la propria amante trovata annegata in fondo al  fiume, una ballata intensa e accorata che ricorda nuovamente il songbook della Williams, comunque molto bella, con Spinnin Planet Blues dove le 12 battute sono classiche come raramente accade nei suoi brani e sul tappeto dell’organo di Young Gurf Morlix si concede un lungo assolo ricco di feeling https://www.youtube.com/watch?v=fW_gMrK3EpQ .

I Saw You narra di un cuore spezzato e geloso con la partecipazione distaccata ma sentita tipica dei personaggi delle canzoni del nostro, che poi ci congeda con un brano scritto in ricordo di un vecchio amico (come aveva già fatto in passato per Blaze Foley), il batterista ed amico d’infanzia a Buffalo Michael Bannister, un pezzo quasi elegiaco e trasognato che mi ha ricordato certe ballate agrodolci del compianto Calvin Russell, dove risaltano nuovamente la voce flessuosa di Jaimee Harris e le languide mosse dell’organo di Young, per uno splendido brano che conclude degnamente questo ennesimo riuscito lavoro di Morlix. Un altro bel disco quindi, anche se fa sempre parte della serie “ah, trovarlo”, senza svenarsi.

Bruno Conti

Per La Gioia Di Grandi E Piccini Questa Dovrebbe Essere La Nona Diversa Versione Che Esce Dell’Album. Paul McCartney – Egypt Station Super Deluxe Edition

paul mccartney egypt station super deluxe edition

Da quando è stato pubblicato lo scorso anno nel mese di settembre l’ultimo album di Paul McCartney Egypt Station (peraltro uno dei suoi migliori delle ultime decadi https://discoclub.myblog.it/2018/09/09/7-settembre-2018-il-giorno-dei-paul-parte-2-paul-mccartney-egypt-station/) è uscito in molte edizioni: chi le ha contate dice otto e tra poco saranno nove, con la più lussuosa di tutte, di cui tra un attimo. CD con copertina “concertina”, jewel box normale, vinili diversi, edizioni particolari per catene tipo Target e HMV, eccetera, ma si parlava da tempo di questa Super Deluxe Edition che sarà alla fine disponibile dal mese di maggio e si potrà prenotare a questo link https://paulmccartney.lnk.to/TravellersEditionSignUpPR  per la modica cifra di 360 sterline (quindi ben oltre i 400 euro).

Il disco è stato un successo arrivando ai primi posti delle classifiche in tutto il mondo: 3° in Gran Bretagna, 1° negli Stati Uniti, persino in Italia al 5° posto della classifica FIMI. I fans aspettavano da tempo questa versione extralusso annunciata da mesi, però mi sembra si sia un tantino esagerato. Sotto poi vi pubblico la lista dei contenuti completi in inglese, comunque per chi non vuole leggerla, ma è interessato a sapere quali sono gli extra a livello musicale contenuti nel cofanetto sappia che si tratta in tutto di “ben” 7 canzoni extra,:3 inediti Frank Sinatra’s Party,” “Sixty Second Street” e versione estesa del singolo “Who Cares” – più quattro performances dal vivo di canzoni tratte da Egypt Station registrate a Abbey Road, The Cavern Club, LIPA, e alla Grand Central Station. Quindi per chi compra la versione Valigetta del Viaggiatore per la musica, sono 70 euro a canzone, mentre chi è facoltoso o un fan sfegatato, oppure un feticista, e la acquista quindi per altri motivi, ecco il contenuto completo.

• Limited Edition Concertina Tri-Fold Deluxe 180G Vinyl Double Black Disc Pressing of Egypt Station
• Exclusive Limited Edition Bonus 180G Vinyl Pressing of Egypt Station II in “Night Scene” blue, featuring three previously unreleased tracks – “Frank Sinatra’s Party,” “Sixty Second Street” and extended cut of Egypt Station single “Who Cares” – as well as four live performances of Egypt Station tracks taken from Abbey Road, The Cavern Club, LIPA, and Paul’s iconic performance at Grand Central Station
• Limited Edition Egypt Station Concertina CD
• Exclusive Limited Edition collector’s Egypt Station Blue Cassette
• HD Audio of all tracks upon shipment
• Additional rare performance footage hidden inside

The special features of the Box Set include:

• Luxury vintage-style embossed Egypt Station artwork suitcase
• An exclusive copy of a handwritten note from Paul
• Fold out, vintage-style Egypt Station illustrated map suitable for framing
• Travel memorabilia including “travel itinerary,” postcards, baggage tickets and first class ticket
• Egypt Station luggage stickers
• Travel journal featuring copies of Paul’s handwritten lyrics
• Two Egypt Station lithographs of Paul’s paintings
• 500+ piece jigsaw puzzle
• Egypt Station playing cards
• And additional hidden surprises and rarities

Dalle ultime righe delle due liste si deduce che ci saranno altre sorprese e rarità che al momento non è dato sapere esattamente quali saranno (se no che sorprese sono!). Ah dimenticavo, il tutto sarà disponibile in una tiratura limitata di 3.000 copie per tutto il mondo.

Un bel Mah gigantesco mi pare d’uopo.

Io vi ho avvisati, se già non sapevate, poi vedete voi.

Bruno Conti

Il Blues Rocker Greco Ci Mancava! Sakis Dovolis Trio – Cross The Line

sakis dovolis trio cross the line

Sakis Dovolis Trio – Cross The Line – Grooveyard Records  

Bisogna ammettere che la Grecia, a livello di musica rock, non sia mai stata una delle nazioni più presenti: ci ricordiamo tutti gli Aphrodite’s Child di Demis e Vangelis, ma poi per il resto, almeno per me, è notte fonda su tutta la linea. A parte le terribili vicissitudini finanziarie con UE e Fondo Monetario, i nostri vicini ellenici si sono fatti notare a livello sportivo con il tennista emergente Stefanos Tsitsipas, e adesso ci provano di nuovo con il chitarrista Sakis Dovolis, un buon esponente del classico Power Trio style. Il musicista greco, almeno all’ascolto di questo Cross The Line, mi sembra appartenere alla categoria dei solisti “esagerati”, quelli che tecnicamente sono indubbiamente proficienti, ma dove potrebbero bastare poche note, ce ne infilano in quantità spropositate, suonate a velocità supersoniche, spesso  a discapito del feeling e del gusto, che non sempre sono tra i loro principali attributi.

E’ vero che nel power trio è richiesta molta “forza bruta”, ma maggiori finezza e varietà non guasterebbero, specie se dici di ispirarti a gente come Jimi Hendrix o al suo “erede” Srevie Ray Vaughan. Nel caso di Sakis Dovolis e del suo trio, anche l’etichetta per cui esce questo disco indica la direzione musicale: per  la Grooveyard Records, il cui motto è “The Sound Of Guitar Rock”, infatti incidono gruppi e solisti che si ispirano parecchio all’heavy rock degli anni ’70, oltre che al power trio classico, ma anche blues-rock molto robusto, virtuosi della 6 corde, quindi pure questo disco fa parte della categoria. Poi ce ne sono di più bravi e meno bravi, vediamo Dovolis in che categoria di “virtuosi” rientra. Da qualche parte ho visto paragoni con il suono degli Screamin’ Cheetah Wheelies, ma quella band era molto più varia e poi aveva un cantante portentoso nella persona di Mike Farris, mentre il nostro Sakis, per quanto sia cantante diciamo adeguato, non è certo a quei livelli: disco autarchico greco, prodotto dallo stesso Dovolis con Stavros Papadopoulos, sezione ritmica Fotis Dovolis (parente?) al basso, e Nick Kalivas alla batteria, il disco parte con un brano All Over You, che per dirla con un personaggio di Abatantuono è “Viulenza” sonora pura, fatta comunque abbastanza con costrutto, anche qualche spunto melodico qui e là, inframmezzato tra scale velocissime.

 

Già in Come On Dovolis innesta a manetta il pedale wah-wah e le influenze di Jimi sono ancora più evidenti,  Everything è più funky e ricca di groove, ma gli assoli sono sempre “carichi”, come pure in I’m An Angel che si avvicina alle scorribande di Stevie Ray Vaughan, al quale è esplicitamente dedicata la conclusiva Legacy, un raro lento brano strumentale dove oltre alla fluente tecnica del chitarrista greco si apprezza anche un tratto di maggiore finezza e feeling https://www.youtube.com/watch?v=_VAO_lKkts4 . Prima c’è spazio anche per un tuffo nei territori sudisti dell’unica cover del disco, una Nasty Dogs & Funky Kings targata ZZ Top dove il southern boogie dei texani viene ancora più caricato di elementi hard; Cross The Line, dopo un abbrivio più bluesy è sempre molto orientata verso un rock a tratti scontato, per quanto ben suonato e con assoli come piovesse. Insomma siamo dalle parti di chitarristi come Lance Lopez, Phillip Sayce, Eric Gales, quelli che vivono a pane, Hendrix e Vaughan, come ribadisce una violentissima Burn It Down, oppure il sinuoso strumentale sempre a tutto wah-wah Shades Of Blue https://www.youtube.com/watch?v=8-glSCK7nl0 , mentre nella incalzante Show Me Your Love si insinua qualche raffinato  tocco funky-jazz, ma è un attimo e siamo di nuovo all’hard rock quasi di marca Black Sabbath della rocciosa Devil’s Road. Direi che è tutto: complessivamente disco “duretto” ma di buona qualità, se amate il genere.

Bruno Conti