Era Matto Come Un Cavallo, Ma Anche Un Grandissimo Musicista! Frank Zappa – Zappa In New York Deluxe Edition

frank zappa in new york deluxe

Frank Zappa – Zappa In New York Deluxe 40th Anniversary Edition – Zappa Records/UMG 3LP – 5CD Box Set

Ci risiamo: se si doveva commemorare il quarantennale dei famosi concerti di Frank Zappa al Palladium di New York nel Dicembre 1976 (quattro serate tra Natale e Capodanno) prendendo in esame la data di pubblicazione della prima versione poi ritirata (1977), questo box doveva uscire nel 2017, mentre se, come si è fatto, l’album di riferimento è il doppio LP uscito nel 1978, siamo comunque in ritardo di un anno sulla ricorrenza. Ma andiamo con ordine. Nel 1976 Frank Zappa era forse nel suo momento di maggior fama, dato che aveva da poco pubblicato tre tra i suoi album più popolari (Over-Nite Sensation, Apostrophe e Zoot Allures) oltre al famoso live Roxy & Elsewhere, ed i suoi quattro concerti newyorkesi post-natalizi erano stati registrati per un nuovo disco dal vivo. Zappa In New York fu però un album dalla gestazione molto travagliata, e che incrinò non di poco i rapporti tra il nostro e la Warner, che fece ritirare la prima versione del 1977 (uscita in poche copie solo in Inghilterra, copie che adesso valgono una fortuna), contravvenendo all’accordo tra le due parti che riconosceva a Zappa il totale controllo del suo materiale: la materia del contendere era soprattutto il brano Punky’s Whips, dedicato sarcasticamente a Punky Meadows, chitarrista degli Angel, la cui immagine eterea ed effeminata fu bersaglio dei lazzi di Frank con un testo obiettivamente un tantino “oltre” (anche se pare che Meadows stesso avesse preso la cosa con leggerezza ed ironia).

Nel 1978 uscì dunque la versione definitiva del live, ma anche qui ci furono problemi di censura per alcuni titoli come Titties & Beer e I Promise Not To Come In Your Mouth, e per le tematiche affrontate in pezzi come The Illinois Enema Bandit (che “celebrava” la figura realmente esistita di Michael Kenyon, un criminale che usava rapinare le donne e poi costringerle a subire dei clisteri d’acqua calda) e Honey, Don’t You Want A Man Like Me?, una love song dalle liriche piuttosto scurrili. Zappa riuscì finalmente a pubblicare una versione definitiva dell’album su doppio CD nel 1991, ma ora la label gestita dai suoi eredi ha fatto le cose in grande, pubblicando un’edizione deluxe (per usare un eufemismo, abbastanza costosa) con all’interno cinque CD ed un corposo libretto con foto inedite, note ed anche i testi dei brani, in una curiosa confezione tonda in latta che raffigura un tipico tombino di New York (ma alla fine sembra più una scatola di cioccolatini, e presenta pure qualche problema logistico di sistemazione sugli scaffali). Il primo CD contiene la versione originale del 1978, opportunamente rimasterizzata, mentre nei restanti dischetti vi è una selezione con il meglio delle quattro serate: non gli show completi, ma ogni canzone eseguita nella sua versione più riuscita (infatti nel 1978 erano stati scelti quasi totalmente brani all’epoca inediti, suonati per la prima volta in quegli spettacoli).

E l’ascolto del box si rivela una goduria, in quanto (ma non lo scopriamo oggi) Zappa era un grande intrattenitore, un grandissimo musicista ed un band leader carismatico, che mascherava dietro atteggiamenti e canzoni spesso demenziali una preparazione ed una tecnica mostruose. Zappa In New York è quindi un meraviglioso collage di musica rock, jazz, funky e fusion, con canzoni che sono una fucina di idee e di creatività, suonate da una delle migliori band mai avute dal rocker di Baltimore, un gruppo che comprendeva il chitarrista Ray White, il funambolico batterista Terry Bozzio, il bassista Patrick O’Hearn, Ruth Underwood, indispensabile con i suoi xilofono, marimba e moog, Eddie Jobson alle tastiere e violino ed una eccezionale sezione fiati di cinque elementi, vera colonna portante del suono del gruppo, con i fratelli Mike e Randy Brecker rispettivamente al sax e tromba, il jazzista Ronnie Cuber al sax e clarinetto e, dalla band del Saturday Night Live, Tom Malone e Lou Marini. CD 1: il disco originale, che inizia con la pimpante Titties & Beer, un pezzo tra rock e funky, con un bel suono “grasso”, un grande uso dei fiati (uno stile molto vicino a quello che in futuro avranno i Phish, gruppo senz’altro influenzato da Frank) ed un duetto vocale quasi cabarettistico tra Zappa e Bozzio; segue I Promise Not To Come In Your Mouth, che nonostante il titolo osceno è uno strumentale lento e piuttosto “free”, contraddistinto da un assolo di moog. La breve Big Leg Emma è un godibilissimo rock’n’roll decisamente swingato, musicalmente trascinante e dal testo idiota, Sofa è un altro strumentale dominato dal sax con un potente assolo finale di Frank alla chitarra, mentre Manx Needs Women è un divertissement un po’ folle di appena un minuto e mezzo.

Le due parti di The Black Page danno un’idea dello spirito di improvvisazione dei nostri, che non suonavano mai lo stesso brano due volte allo stesso modo: qui si parte da un lungo assolo di Bozzio (un classico degli anni settanta, l’assolo del batterista), per poi proseguire con gli altri strumenti in totale libertà, pur con un tema melodico ben preciso. Dopo una diretta e divertente Honey, Don’t You Want A Man Like Me?, una canzone quasi normale per gli standard di Zappa, l’album originale si chiude con i due brani più lunghi, e cioè The Illinois Enema Bandit, un rock-blues di 12 minuti cantato da White e suonato in maniera strepitosa, con un ispiratissimo assolo da parte di Frank, ed una monumentale The Purple Lagoon, 17 minuti di pura improvvisazione tra jazz e rock, grandissima musica. CD 2-3-4: il meglio delle quattro serate, tutto ovviamente inedito. Oltre a versioni alternate di tutti i pezzi del primo CD (e The Illinois Enema Bandit qui è ancora meglio), ovviamente non manca la famigerata Punky’s Whips, un brano dal testo divertentissimo cantato in maniera demenziale, mentre dal punto di vista musicale è un altro funk-rock-jazz molto godibile, con qualche somiglianza con lo stile dei Chicago (piccola curiosità: questa canzone fu eseguita in seguito solo nel 1977 e 1978, e poi tolta per sempre dalle scalette).

Da citare ancora la suadente The Torture Never Stops, lenta e quasi ipnotica, con un basso molto pronunciato, un uso creativo delle tastiere ed il solito assolo magistrale di Zappa, una swingatissima America Drinks, puro jazz d’alta classe, la vigorosa e gagliarda I’m The Slime, l’orecchiabile Find Her Finer, una grandiosa Cruisin’ For Burgers, con Frank semplicemente mostruoso alla chitarra, ed una interminabile Black Napkins, 28 minuti di musica totale. Non manca anche qualche classico di Frank, come una maestosa Peaches En Regalia, dominata dai fiati, la sempre impeccabile e contagiosa Montana (richiesta a gran voce dal pubblico) e l’acclamatissima Dinah-Moe Humm, in assoluto uno dei pezzi più immediati del nostro. CD 5: un CD particolare, altre 7 canzoni tratte dagli archivi di Frank, due registrate ai Record Plant di New York nel periodo dei concerti al Palladium (due brevi prove per solo piano di The Black Page) ed altre cinque che sono in realtà un collage tra versioni live e overdubs incisi in studio, una sorta di ibrido che però è rimasto inedito fino ad oggi (i brani in questione sono I Promise Not To Come In Your Mouth, Chrissy Puked Twice – che non è altro che Titties & BeerCruisin’ For Burgers, Black Napkins e Punky’s Whips).

Costo a parte, non spaventatevi per il fatto che Zappa In New York è diventato un cofanetto quintuplo (esiste anche una versione in tre LP, con però una selezione molto ridotta di inediti), in quanto quando arriverete alla fine vi potreste anche rammaricare di non poter inserire il sesto dischetto.

Marco Verdi

Ancora Rolling Stones: Per Il 21 Giugno E’ Annunciato Bridges To Bremen, Un Concerto Del 1998.

rolling stones bridges to bremen

Rolling Stones – Bridges To Bremen – 2 CD + DVD – 2 CD + Blu-ray – 3 LP – DVD – Blu-ray – Eagle Vision/Universal 21-06-2019

Sempre in attesa della ripresa del tour mondiale No Filter che, iniziato nel 2017 ad Amburgo, doveva, nella parte americana partire da Miami il 20 aprile scorso e concludersi (forse) il 25 giugno 2019, ma che come sapete è stato rinviato per l’intervento al cuore di Mick Jagger, Rolling Stones, oltre alla antologia Honk di cui avete letto ieri nel Blog, avevano programmato l’uscita “promozionale” anche di questo concerto Bridges To Bremen (che esce negli svariati formati di cui leggete sopra).

Questo concerto, che stranamente non viene pubblicato nella serie From The Vault, è relativo alla data del 2 settembre 1998 al Weserstadion di Brema, quindi nella parte europea del tour degli stadi “Bridges To Babylon ’97-’98”, nel corso del quale gli Stones chiedevano ai propri fans di votare sul loro sito la canzone che avrebbero voluto sentire nello spettacolo di quella specifica serata. Per l’occasione di questa data nel Nord della Germania il brano prescelto fu Memory Motel, un pezzo tratto da Black And Blue che la band eseguiva abbastanza raramente dal vivo, anche se in ogni tour, a partire dal Voodoo Lounge Tour, passando per il No Security Tour del 1998 (e relativo disco), e nelle varie tournée successive degli anni 2000 almeno una volta per ciascuna serie di concerti venne eseguita almeno una volta (ma non nell’ultimo No Filter Tour, almeno sino ad ora).

Come potete leggere sotto, scorrendo la tracklist completa del concerto ci sono altri brani “inconsueti” eseguiti in quella serata, e come bonus sono state aggiunte anche quattro tracce, solo nella parte video, estratte dal concerto di Chicago di Aprile 1998.

Ecco quindi i contenuti completi dei CD e DVD (o Blu-ray):

Visual formats:

1. (I Can’t Get No) Satisfaction
2. Let’s Spend The Night Together
3. Flip The Switch
4. Gimme Shelter
5. Anybody Seen My Baby?
6. Paint It Black
7. Saint Of Me
8. Out Of Control
9. Memory Motel
10. Miss You
11. Thief In The Night
12. Wanna Hold You
13. It’s Only Rock ‘n’ Roll (But I Like It)
14. You Got Me Rocking
15. Like A Rolling Stone
16. Sympathy For The Devil
17. Tumbling Dice
18. Honky Tonk Women
19. Start Me Up
20. Jumpin’ Jack Flash
21. You Can’t Always Get What You Want
22. Brown Sugar

Bridges To Chicago bonus performances:
1. Rock And A Hard Place
2. Under My Thumb
3. All About You
4. Let It Bleed

Audio formats:

(I Can’t Get No) Satisfaction
Let’s Spend The Night Together
Flip The Switch
Gimme Shelter
Anybody Seen My Baby?
Paint It Black
Saint Of Me
Out Of Control
Memory Motel
Miss You
Thief In The Night
Wanna Hold You
It’s Only Rock ‘n’ Roll (But I Like It)
You Got Me Rocking
Like A Rolling Stone
Sympathy For The Devil
Tumbling Dice
Honky Tonk Women
Start Me Up
Jumpin’ Jack Flash
You Can’t Always Get What You Want
Brown Sugar

Se ne riparla al momento dell’uscita. Alla prossima.

Bruno Conti

Ecco Una Nuova Strategia Commerciale: Paghi Tre E Prendi Uno! Rolling Stones – Honk

rolling stones honk front

Rolling Stones – Honk – Polydor/Universal 2CD – 3LP – 3CD Deluxe Limited Edition

Bisognerebbe pensare ad una legge internazionale, magari ratificata dall’ONU, che impedisca ai Rolling Stones e alle loro case discografiche di pubblicare nuove antologie per i prossimi 50 anni, essendo il mercato ormai saturo di compilation dello storico gruppo inglese, siano esse costruite con materiale degli anni sessanta, sia che prendano in esame solo il periodo della Rolling Stones Records (quindi da Sticky Fingers in poi), sia che mescolino entrambe le epoche, come hanno fatto le due ultime retrospettive in ordine di tempo, Forty Licks (2002) e Grrr! (2012). Questa introduzione è per dire che non si sentiva certo il bisogno di un’altra antologia del gruppo guidato da Mick Jagger e Keith Richards, ma i nostri evidentemente non la pensano come il sottoscritto, ed ecco quindi Honk, un doppio CD (o triplo LP) lanciato per promuovere il tour americano che sarebbe dovuto partire il 20 Aprile da Miami, ma è stato rimandato a data da destinarsi a causa dell’operazione al cuore subita da Jagger, per fortuna pienamente riuscita.

Honk è un doppio CD che esclude le incisioni degli anni sessanta e, a differenza di Forty Licks e Grrr!, non contiene inediti o brani incisi per l’occasione, assomigliando quindi di più alla famosa compilation del 1993 Jump Back (ed anche la copertina la ricorda molto). Per attirare però i fans in modo da fargli ricomprare per la centesima volta le stesse canzoni, le Pietre se ne sono inventata un’altra, e cioè un’edizione deluxe limitata (ma quanto? *NDB Pare sia limitato davvero: ad esempio Grrrr! non è più disponibile da tempo) con un terzo CD che presenta dieci brani dal vivo in versione inedita, una trovata non originalissima in quanto anche di dischi live degli Stones ultimamente ne escono a bizzeffe, ma che sarà sicuramente sufficiente a convincere molti estimatori del gruppo a mettere di nuovo mano al portafoglio. La parte antologica, 36 canzoni, non è fatta neanche male, in quanto comprende chiaramente tutti i classici del periodo in esame (Brown Sugar, Wild Horses, Tumbling Dice, It’s Only Rock’Roll (But I Like It), Miss You, Start Me Up, Angie), qualche successo più “recente” (Mixed Emotions, Love Is Strong, Streets Of Love, Don’t Stop, Out Of Control) ed anche diversi brani che non troviamo spesso nei greatest hits di Jagger e soci (Rocks Off, Happy, Rough Justice, Dancing With Mr. D, Hot Stuff, Rain Fall Down, Waiting On A Friend, Saint Of Me).

Ci sono anche sia Doom And Gloom che One More Shot, i due brani nuovi di Grrr! (rendendola dunque una compilation obsoleta) e tre pezzi dal disco blues del 2016 Blue And Lonesome, ad oggi ultima prova di studio dei nostri (Ride’em On Down, Just Your Fool e Hate To See You Go). Ma veniamo al disco dal vivo, che è quello che ci interessa più da vicino. Intanto non contiene tutti brani registrati lo scorso anno come pensavo inizialmente, ma anche un paio di pezzi del 2017, uno del 2015 e due addirittura del 2013, e poi il problema è che ci sono solo dieci tracce, con quindi parecchio spazio inutilizzato sul resto del dischetto. Sulla qualità nulla da dire, gli Stones dal vivo sono sempre una macchina da guerra, qualsiasi tour venga preso in esame, anche se ci sono dei duetti con gente che avrei fatto a meno di sentir cantare di fianco a Jagger: se Brad Paisley ci può stare dato che è anche un ottimo chitarrista (e poi Dead Flowers è talmente un capolavoro che quasi non importa chi la canti), sia Ed Sheeran che Florence Welch (leader dei Florence And The Machine) che quel fracassone di Dave Grohl non sono esattamente tra i più graditi da chi scrive.

Ma si sa che i nostri (soprattutto Jagger) sono inclini alle mode, e quindi becchiamoci Sheeran che si alterna a Mick nella sempre fantastica Beast Of Burden, un rock-errebi torrido e spettacolare, la Welch che non se la cava neanche male nella splendida ed emozionante Wild Horses, e Grohl che si butta a pesce nello scatenato rock’n’roll di Bitch: alla fine i tre non fanno nemmeno troppi danni. Gli altri sei pezzi vedono i nostri da soli con la loro abituale band di supporto, per tre coinvolgenti classici degli anni sessanta suonati a tutta adrenalina (Get Off Of My Cloud, Let’s Spend The Night Together e Under My Thumb), una rara ed annerita Dancing With Mr. D, meglio qui che nella versione originale che apriva Goats Head Soup, e soprattutto i due highlights assoluti del CD (insieme a Dead Flowers), cioè la stupenda soul ballad Shine A Light, calda e con umori tra southern e gospel, ed una scintillante She’s A Rainbow, deliziosa pop song che era anche l’unico grande brano del pasticciato Their Satanic Majesties Request.

Ascoltare i Rolling Stones dal vivo è sempre un piacere (ed a giugno uscirà Bridges To Bremen, un nuovo live inedito, stavolta registrato nel 1998), peccato che questa volta per farlo vi dovrete ricomprare per l’ennesima volta canzoni che conoscete a memoria.

Marco Verdi

In Attesa Del “Nuovo” Album Stay Around In Uscita Il 26 Aprile, Ecco 8 Dischi Da Avere Se Amate La Musica Di JJ Cale! Parte II

jj cale 5

Seconda parte.

5 – 1979 – Island/MCA – ***1/2

5 esce dopo una pausa di tre anni e presenta due novità sostanziali: una nuova etichetta discografica, dopo gli anni con la Shelter, e la prima apparizione su disco di Christine Lakeland,  che resterà  con lui, prima come musicista e in seguito  anche come moglie, fino alla sua morte avvenuta nel 2013. Non cambiano il solito produttore Audie Ashworth e molti dei musicisti utilizzati, mentre il suono si fa a tratti più “rotondo” e corposo, meglio definito, con la voce in primo piano e un approccio più vicino al rock, come testimoniano l’iniziale vigorosa Thirteen Days e I’ll Make Love To You Anytime sul cui sound i Dire Straits di Mark Knopfler hanno costruito una intera carriera.

Senza dimenticare la sinuosa Don’t Cry Sister, cantata in duetto con la Lakeland e che Cale inciderà di nuovo con Clapton in The Road To Escondido e la delicata e raffinata The Sensitive Kind con fiati e archi aggiunti e sul lato rock ancora l’ottima Friday, mentre Let’s Go To Tahiti ha qualche tocco etnico quasi alla Ry Cooder e Mona è un’altra di quelle ballate malinconiche in cui eccelle il nostro.

 

jj cale shades

Shades – 1981 – Island/MCA – ***1/2

 Il primo album della nuova decade completa un filotto di sei album che hanno cementato la reputazione di JJ Cale come artista di culto. Al solito ci sono decine di musicisti impiegati tra cui molti altri chitarristi, non ultimi Reggie Young e James Burton. La copertina riproduce una parodia dei pacchetti di sigarette Gitanes, mentre tra i brani l’iniziale vibrante Carry On è un altro dei suoi classici senza tempo, Deep Dark Dungeon è blues allo stato puro, Wish I Had Not Said That è un altra delle sue ballatone mid-tempo e la cover di Mama Don’t va di rock che è un piacere. Ma tutto l’album conferma la classe del musicista, che poi, tra lunghe pause, inciderà parecchi altri altri buoni album, senza forse più arrivare a questi livelli.

 

jj cale eric clapton the road to escondido

The Road To Escondido with Eric Clapton – 2006 – Duck/Reprise – ***1/2

Gli anni 2000 vedono un ritorno in grande stile di Cale, che dopo l’eccellente To Tulsa And Back del 2004 realizza finalmente un disco in coppia con Eric Clapton: i due amici se lo producono e chiamano a raccolta un vero parterre de roi di musicisti, da Billy Preston che fa la sua ultima apparizione, ad altri “discepoli” come John Mayer, Derek Trucks e Doyle Bramhall II, Taj Mahal all’armonica e tutto il giro di musicisti di Manolenta. Oltre alle riprese di Don’t Cry Sister e Anyway The Wind Blows, brilla una cover di Sporting Life Blues di Brownie McGhee e anche se il suono a tratti è fin troppo “professionale”, a causa del tocco di Simon Climie, i due si divertono ad improvvisare e canzoni come l’iniziale Danger, Heads In Georgia, la bluesata Missing Person, sono quasi interscambiabili nel repertorio dei due, anche se portano la firma di JJ.

When The War Is Over ha sprazzi del vecchio Cale, e niente male il tuffo nel country-rock di Dead End Road, con violino in grande spolvero come pure la chitarra di Albert Lee, ma tutti suonano come delle cippe lippe; l’intero l’album è comunque ottimo, da It’s Easy a Hard To Thrill, scritta da Mayer e Clapton, passando per la morbida Three Little Sister, Last Will And Testament e la vibrante e chitarristica Ride The River. JJ Cale appare poi nel Crossroads Guitar Festival di Eric e partecipa al tour di Clapton del 2007 da cui verrà tratto l’ottimo Live In San Diego, prima di lasciarci per un attacco di cuore il 26 luglio del 2013.

eric clapton & friends the breeze

Eric Clapton & Friends –  2014 – The Breeze An Appreciation of JJ Cale – Bushbranch/Surfdog – ***1/2

L’anno dopo la morte di JJ Cale esce questo bellissimo tribute album creato da Eric Clapton e pubblicato sulla propria etichetta.  Call Me The Breeze del solo Eric apre il tributo, con la stessa intro della versione originale è uno dei classici brani del Clapton più ispirato, con Albert Lee alla seconda chitarra, Rock And Roll Records, cantata a due voci, propone una inconsueta accoppiata tra Enrico e Tom Petty che funziona alla grande; Someday è affidata ad un altro fedele discepolo come Mark Knopfler, con Christine Lakeland alla seconda chitarra e Mickey Raphael all’armonica. Lies è affidata al duo Clapton e John Mayer, mentre per la felpata Sensitive Kind viene rispolverato un vecchio amico e compagno di avventura come Don White, uno degli originatori del Tulsa Sound, con Cajun Moon che Clapton riserva nuovamente per sé con eccellenti risultati.

La versione di Magnolia è cantata con classe e stile da John Mayer, prima del ritorno della strana coppia Petty/Clapton con una vibrante I Got The Same Old Blues e del duo Willie Nelson/Eric Clapton che illustra il lato più country di Cale con una sognante Songbird,  lato poi ribadito nella saltellante I’ll Be There (If You Ever Want Me), cantata ancora da Don White con il supporto di Eric, che suona anche il dobro, lasciando la chitarra a Albert Lee.

Tom Petty in solitaria rilascia una delicata The Old Man And Me e il trio White/Knopfler/Clapton ci delizia in una raffinata Train To Nowhere, prima di lasciare spazio a Willie Nelson che accompagnato da Derek Trucks rilegge in modo “stiloso” Starbound, prima di tornare al rock chitarristico di Don’t Wait, affidata a John Mayer e Clapton. In chiusura niente Cocaine, ma una versione in punta di dita di Crying Eyes, cantata de Eric con la Lakeland, mentre Trucks lavora di fino alla slide. Tra pochi giorni esce il “nuovo” album di JJ Cale Stay Around e la storia continua.

Bruno Conti

In Attesa Del “Nuovo” Album Stay Around In Uscita Il 26 Aprile, Ecco 8 Dischi Da Avere Se Amate La Musica Di JJ Cale! Parte I

jj cale naturally

Ce ne sarebbero anche più di 8, gran parte della sua discografia meriterebbe di  essere (ri)conosciuta, ma questi diciamo che sono gli essenziali, sette più il tributo postumo curato dal suo fan ed amico Eric Clapton.

Naturally – 1971 – Shelter/A&M/Mercury  – ****

Quando nel 1970 Eric Clapton pubblica sul suo omonimo disco di esordio solista la cover di After Midnight https://www.youtube.com/watch?v=AvxJ0TVvVzE , Cale era uno squattrinato musicista che viveva a Los Angeles, dove era letteralmente alla fame: quando sente il brano alla radio quasi non ci crede, e il suo amico produttore Audie Ashworth gli propone di entrare in studio di registrazione e capitalizzare quel successo con un proprio album che avrebbe proposto il Tulsa Sound prima negli Stati Uniti e poi in tutto al mondo. Soldi non ce n’erano per cui Cale ed Ashworth raccolgono un gruppo di musicisti pagati con le tariffe sindacali minime e in qualche brano JJ utilizza una primitiva drum machine da lui stesso “inventata”,  grazie ai suoi trascorsi come ingegnere del suono. Il disco, 12 brani firmati dallo stesso Cale, ha un suono minimale, spesso quasi come fossero dei demo (quali erano in effetti), ma contiene alcune delle canzoni più famose del songbook del musicista di Oklahoma City.

Call Me The Breeze (poi resa celeberrima dai Lynyrd Skynrd su Second Helping) è appunto uno dei brani che prevede l’utilizzo della drum machine, un riff e un ritornello tipici dello stile laidback di JJ, il suo tocco di chitarra raffinato, guizzante ed inconfondibile e quella voce quasi sussurrata che sarà sempre il suo marchio di fabbrica; l’album contiene anche la sua versione di After Midnight, più “pigra” e rilassata di quella di Clapton, ma deliziosa. Nel disco suonano molti musicisti di valore (Tim Drummond, Carl Radle, Norbert Puttnam, David Briggs, Mac Gayden, Weldon Myrick, Karl Himmel, tanto per ricordarne alcuni) e i risultati si sentono, il suono sarà anche minimale ma ricco di particolari e con una passione per i dettagli quasi minuziosa, che poi sarà sempre presente anche nelle sue opere successive. Parliamo di una versione molto personale delle 12 battute del blues riviste attraverso la sua ottica: tutti i brani sono ottimi, Call The Doctor e le vivaci, Woman I Love, Bringing It Back, con fiati e armonica, a metà tra Clapton e il sound futuro degli Steely Dan ridotto all’osso, ma anche la splendida ballata Magnolia (che ricordo in una versione meravigliosa su Crazy Eyes dei Poco https://www.youtube.com/watch?v=Pkh2hUbwTmo ), Crazy Mama, con un wah-wah malandrino, il suo unico successo nei Top 40 USA, un errebì inconsueto come Nowhere To Run, insomma tutto molto bello.

jj cale really

Really – 1972 – Shelter/A&M/Mercury – ***1/2

Really esce l’anno dopo, è ancora un ottimo album anche se non contiene molte canzoni celebri: I musicisti impiegati sono in metà dei brani  quelli dei  Muscle Shoals Sound Studios e gli altri dei Bradley’s Barn di Nashville, una delle mecche della country music, tra cui Josh Graves e Vassar Clements, due che JJ Cale ammirava moltissimo e per lui era stato un onore suonare con loro. L’iniziale Lies è uno dei suoi brani tipici, come pure la brillante I’ll Kiss The World Goodbye e la raccolta Changes che perfezionano il suo Tulsa Sound, mentre If You’re Ever In Oklahoma, Playin’ In The Streets e Louisiana Woman appartengono alla categoria bluegrass meets JJ Cale, e il resto è il “solito” ottimo stile laidback, ma brillante, del miglior JJ.

jj cale okie

Okie – 1974 – Shelter/A&M/Mercury – ***1/2

Okie, altro titolo stringato come d’uso nei suoi dischi, prevede ancora una volta l’uso più o meno degli stessi musicisti, e quindi con echi country e anche gospel, diversamente dal precedente contiene moltissimi brani famosi che saranno ripresi da altri artisti e una rara cover country di Ray Price, I’ll Be There (If You Ever Want Me): per il resto troviamo I Got The Same Old Blues, suonata anche da Clapton e brani ripresi dai Brother Phelps, da Herbie Mann, Bill Wyman, Poco, Randy Crawford, Tom Petty, a dimostrazione dell’ecumenismo della musica del nostro, canzoni tra cui spiccano Rock And Roll Records, The Old Men And Me, Cajun Moon, I’d Like To Love You Baby e Anyway The Wind Blowss, tanto per citarne alcune, oltre all’altra cover country della splendida Precious Memories.

jj cale troubadour

Troubadour –1976 –  Shelter/A&M/Mercury –  ***1/2

Troubadour “forse, “ma forse, non è tra I migliori album del nostro amico, però contiene Cocaine, che l’anno successivo diventerà un successo colossale per Clapton, uno dei riff più famosi della storia del rock e la futura tranquillità finanziaria garantita vita natural durante per Cale.

Nel disco c’è anche un altro brano che Slowhand inciderà su Reptile nel 2002, ovvero l’incalzante Travelin’ Light, brano ripreso anche dai Widespread Panic e usato, nella versione di JJ, come sveglia mattutina sullo shuttle spaziale. Tra l’altro il disco, per gli standard di Cale, ha un suono più variegato, tra country, R&B, rock, un pizzico di swing, oltre all’amato blues, e spiccano l’iniziale Hey Baby, con la pedal steel di Lloyd Green, la swingante Hold On, con quella di Buddy Emmons, nonché la quasi caraibica You Got Something, il R&R di Ride Me High, la cover sempre energica del pezzo blues I’m A Gypsy Man di Sonny Curtis, e il funky fiatistico Let Me Do It to You, a completare un altro ottimo album.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Finalmente Un Record Store Day Con Diverse Uscite Interessanti: Bob Dylan, Elton John, R.E.M. E Grateful Dead.

record store day 2019

Bob Dylan – Blood On The Tracks Test Pressing – Columbia/Sony LP

Elton John (With Ray Cooper) – Live From Moscow 1979 – Virgin EMI/Universal 2LP

Bingo Hand Job – Live At The Borderline 1991 – Concord/Universal 2LP

Grateful Dead – The Warfield, San Francisco, CA 10/09/80 & 10/10/80 – Rhino/Warner 2LP – 2CD

Non sono mai stato un grande fan del Record Store Day, un’iniziativa nata qualche anno fa con uno scopo meritorio (salvaguardare i negozi di dischi indipendenti, una specie purtroppo in via di estinzione), ma trasformatasi in breve tempo nell’ennesima operazione commerciale volta a spillare soldi dalle tasche degli acquirenti di musica “fisica”. Tanto per cominciare non ho mai capito perché il 90% delle pubblicazioni siano disponibili solo in vinile, dato che l’iniziativa è in onore dei negozi e non dei supporti a 33 o 45 giri, ma la cosa ha cominciato ad avere secondo me poco senso quando si sono cominciate a proporre costose versioni esclusive e limitate tra album, singoli e cofanetti, ma pubblicando sempre meno materiale inedito. Le poche volte che il sottoscritto ha acquistato dischi usciti nel RSD (che si svolge due volte l’anno, ad Aprile e durante il Black Friday a Novembre) è stato appunto quando si è trattato di materiale non disponibile in altre vesti (di artisti che mi interessano, è ovvio, se esce qualcosa di inedito di Madonna o Bronski Beat lo lascio volentieri nei negozi), ovvero i due volumi dal vivo Kiss My Amps di Tom Petty, splendidi, e l’EP American Beauty di Bruce Springsteen, abbastanza deludente. Quest’anno però il RSD ha riservato parecchie sorprese, con almeno quattro pubblicazioni che potrei definire imperdibili se non fosse per il fatto che mentre leggete queste righe potrebbero anche già essere esaurite, e che mi sono quindi accaparrato senza quasi neanche accorgermene (sarà il fatto che la data scelta di uscita era il 13 Aprile, giorno del mio compleanno?). Ecco quindi una disamina dei miei acquisti, che vi consiglio caldamente a meno che non vi chiedano cifre fuori dal mondo.

bob dylan blood on the tracks rsd

Bob Dylan: il cofanetto sestuplo More Blood, More Tracks è stata forse la ristampa del 2018, un box meraviglioso che finalmente faceva piena luce sulle sessions complete di quel capolavoro assoluto che è Blood On The Tracks, che a parte la trilogia elettrica del 1965/66 può essere a buon titolo riconosciuto come il miglior lavoro di Dylan. Evidentemente però lo scorso anno la Columbia si era tenuta l’asso nella manica da calare proprio in occasione del RSD, e cioè la riproduzione perfetta (veste grafica spartana compresa) del famoso Test Pressing che era stato stampato in poche copie per fini non commerciali ma mandato alle radio a scopo promozionale prima della pubblicazione ufficiale dell’album, una versione che riproduceva pari pari la tracklist del disco ma con dei missaggi non definitivi (e che oggi sul mercato dei collezionisti ha raggiunto valutazioni esorbitanti). Sto parlando ovviamente delle sessions di New York, quando ancora la Columbia non sapeva che Dylan, su pressioni del fratello David, si sarebbe recato a Minneapolis a registrare ex novo cinque brani dell’album, ritardando così la pubblicazione di Blood On The Tracks.

Oggi il Test Pressing in questione è a disposizione dei fortunati che sono riusciti a procurarselo, ed è una vera chicca in quanto i vari missaggi sono inediti, e non erano stati inclusi neppure in More Blood, More Tracks (e le takes che sono state usate sono diverse da quelle della versione singola del box). Certo, bisogna conoscere a memoria le sessions per distinguere le differenze, ma per esempio è abbastanza evidente una traccia di organo inedita sia in You’re A Big Girl Now (nella quale si sente anche di più la steel rispetto alla take inclusa in Biograph nel 1985) che in Idiot Wind, ed in Meet Me In The Morning c’è un riff di slide in risposta alle frasi di Dylan che non avevo mai sentito. Ed è comunque sempre un piacere immenso ascoltare un capolavoro assoluto, anche in una versione alternata.

elton john live from moscow

Elton John: nel 1979 il tour del cantante e pianista inglese, all’epoca all’apice della popolarità, sbarcò anche nell’allora Unione Sovietica, un fatto più unico che raro per una rockstar in quel periodo. La parte centrale furono le serate alla Rossiya Hall di Mosca, tra le quali quella del 28 Maggio venne trasmessa dalla BBC, ma mai pubblicata ufficialmente fino ad oggi (i bootleg dell’evento però negli anni hanno proliferato). Ora esce finalmente questo Live From Moscow 1979, un doppio LP in vinile trasparente che riprende pari pari il broadcast radiofonico (che non era il concerto completo): la particolarità di questo tour è il fatto che Elton si presentasse sul palco senza band, eseguendo il primo set in totale solitudine, dividendosi tra piano a coda ed elettrico, ed il secondo con l’ausilio del famoso percussionista Ray Cooper, ricreando così le atmosfere dello strepitoso live album 17-11-70, in cui c’era però anche un bassista. E Live In Moscow 1979 è un disco bellissimo nonostante l’assenza di un gruppo rock, in quanto ci presenta un artista in grande forma vocale e che riesce a riempire gli spazi vuoti con una performance pianistica da applausi a scena aperta.

Ovviamente ci sono le hits dell’epoca (Daniel, Rocket Man, Don’t Let The Sun Go Down On Me, Candle In The Wind, la grandissima Goodbye Yellow Brick Road, Bennie And The Jets, Sorry Seems To Be The Hardest Word, anche se manca a sorpresa Your Song), oltre ad una Take Me To The Pilot servita da una performance pianistica strepitosa. C’è anche spazio per brani meno noti come la peraltro splendida Skyline Pigeon, una delle ballate più toccanti di Elton (è sempre stata la mia preferita tra quelle del vecchio Reginald), l’intensa Tonight e la bellissima Better Off Dead, suonata con molta forza grazie anche all’aiuto di Cooper. Ed il percussionista è un elemento imprescindibile nella seconda parte, quando vengono eseguite canzoni che avrebbero reso di meno con il solo pianoforte, come la maestosa Funeral For A Friend e due scatenati medley, il primo tra Saturday Night’s Alright For Fighting e Pinball Wizard ed il secondo tra Crocodile Rock e Get Back dei Beatles (con accenno finale a Back In The U.S.S.R.). Ma l’highlight assoluto è, ancora nella prima parte, una fantastica rilettura del classico di Marvin Gaye I Heard Through The Grapevine della durata di dodici minuti, in cui Elton delizia il pubblico con magnifiche improvvisazioni pianistiche.

bingo hand job live at the borderline

Bingo Hand Job: altro concerto mitico e “bootlegatissimo”, da parte di un gruppo misterioso che in realtà non sono altro che i R.E.M., con l’aggiunta come ospiti in alcune canzoni di Billy Bragg, Robyn Hitchcock e Peter Holsapple. Il doppio LP in questione si riferisce ad uno showcase del 15 marzo 1991 (il secondo di due, il primo si era svolto la sera prima) avvenuto al Borderline, un locale di Londra nel quartiere di Soho, appena tre giorni dopo l’uscita di Out Of Time, album al quale non seguì una vera e propria tournée ma solo spettacoli isolati e quasi a sorpresa come questi due accreditati appunto ai BHJ. Il concerto è completamente acustico (in quel periodo iniziava ad imperare la moda degli show unplugged) e molto bello, con il quartetto di Athens (Bill Berry era ancora nel gruppo) che offre riletture intime ed intense di classici del suo repertorio uniti a qualche sorpresa: la strumentazione è parca, chitarra acustica, mandolino, basso, percussioni, ogni tanto la fisarmonica, e la voce inconfondibile di Michael Stipe che si staglia sicura. I tre ospiti citati prima suonano e cantano soprattutto i cori, mantenendosi abbastanza nelle retrovie (c’è stato qualche duetto con Bragg, ma qui non è stato incluso…infatti lo show non è completo), ed i R.E.M./BHJ si divertono a presentare scherzosamente i vari brani, smentendo in parte la fama di gruppo troppo serioso.

Ci sono ovviamente molti classici dell’epoca, come World Leader Pretend, che apre la serata con una versione molto intensa, la splendida The One I Love, Perfect Circle, la nuova ma già applauditissima Losing My Religion (perfetta per essere suonata acustica) e la sempre deliziosa Fall On Me. Out Of Time è ben rappresentato: oltre a Losing My Religion abbiamo la vibrante Radio Song, l’intrigante Low, Endgame, Belong, la gentile Half The World Away ed una trascinante Get Up, l’unica con una vera e propria batteria alle spalle. Non mancano i brani rari (l’enigmatica Disturbance At The Heron House, la drammatica Fretless, presa dalla colonna sonora del film di Wim Wenders Until The End Of The World, e la profonda Swan Swan H) ed anche qualche cover: un interessante medley tra Jackson di Johnny Cash e Dallas di Jimmie Dale Gilmore, la bellissima Love Is All Around dei Troggs, da sempre nel repertorio live dei nostri, ed un finale particolare con una versione a cappella dell’evergreen Moon River. Ed il disco poteva essere ancora più bello, in quanto sono state lasciate fuori canzoni come Hello In There di John Prine e A Hard Rain’s A-Gonna Fall e You Ain’t Goin’ Nowhere di Bob Dylan.

grateful dead live at the warfield

Grateful Dead: a proposito di show unplugged, il gruppo guidato da Jerry Garcia era avanti anche in questo, dato che già nel 1980 proponevano durante i loro spettacoli una parte completamente acustica, che occupava la prima ora di concerto. Nel 1981 uscì Reckoning, uno splendido doppio album che riepilogava il meglio di quei momenti a spina staccata, con canzoni prese da varie serate al Warfield di San Francisco ed al Radio City Music Hall di New York, in assoluto uno dei migliori album dei Dead. Ora per il RSD esce questo altro doppio (anche in CD!) che prende in esame le parti acustiche complete degli show del 9 e 10 Ottobre al Warfield, inedite al 99% (la sola Jack-A-Roe del 10 appariva su Reckoning). E l’album è quasi bello come quello del 1981, con i nostri in forma strepitosa che ci regalano circa cento minuti di musica purissima suonata alla grande, tra cover, brani tradizionali e pezzi del loro repertorio. Un modo di suonare che darà a Garcia l’ispirazione per formare in seguito la Jerry Garcia Acoustic Band, anche se qui il suono è anche più completo grazie alla doppia batteria, al piano di Brent Mydland ed alla seconda chitarra di Bob Weir.

Due scalette di dieci e nove brani rispettivamente e solo quattro ripetizioni in entrambe le serate, con canzoni che Jerry riprenderà anche con la JGAB (I’ve Been All Around This World e Oh Baby, It Ain’t No Lie) e strepitose versioni di classici “deaddiani”, con punte di eccellenza nella splendida Dire Wolf, una Cassidy con un lungo e spettacolare assolo di Garcia, la lenta ed intensa Bird Song (una per sera, meglio quella del 10), una stratosferica To Lay Me Down, tra i brani più belli e meno suonati dei nostri, oltre alla favolosa Ripple, che chiude entrambi i CD (o LP). Ci sono poi vere e proprie gemme come due cristalline Dark Hollow, la già citata Jack-A-Roe, irresistibile, due lucide riletture del traditional On The Road Again, con il piano di Mydland a dare il tocco in più, ed una Monkey And The Engineer di Jesse Fuller tra folk e country, decisamente coinvolgente. Perfino un brano non proprio di primissima scelta come lo strumentale Heaven Help The Fool di Weir qui sembra un pezzo da novanta.

Direi che è tutto: avrei voluto prendermi anche Rated PG, una collezione di Peter Gabriel con brani usati solo in colonne sonore (con diverse canzoni mai uscite prima commercialmente), ma siccome è stato pubblicato come picture disc, che notoriamente non ha un gran suono, attendo fiducioso un’eventuale ristampa su scala più larga.

Marco Verdi

Un Classico Power Trio “Nero” Di Grande Potenza. Dennis Jones Band – WE3 Live

dennis jones band we3 live

Dennis Jones Band – WE3 Live – Blue Rock Records

Questo signore nasce a Baltimore nel Maryland nel 1958, quindi I 60 anni li ha passati anche lui: ha vissuto anche in Europa per un periodo e dalla metà degli anni ’80 la sua residenza è a Los Angeles in California. Un curriculum forgiato soprattutto attraverso la permanenza, come secondo chitarrista, nella Zac Harmon Band, poi dagli anni 2000 ha creato un proprio trio la Dennis Jones Band, classico power trio, o meglio forse non classico, visto che sono tre musicisti di colore, comunque suono potente ispirato da Jimi Hendrix era Band Of Gypsys e Srevie Ray Vaughan, oltre che dai grandi nomi del blues, soprattutto quelli dello stile urbano, elettrico. Cinque dischi in studio, e ora questo WE3 Live, registrato alla Brewer Creek Brewery di Wilbaux, Montana, non esattamente una delle mecche della musica live. Comunque il risultato è eccellente, 13 brani originali di Jones e una cover di Born Under A Bad Sign, di un altro Jones, Booker T, e di William Bell, un classico per Albert King (che la registrò anche con Stevie Ray Vaughan), ma anche per i Cream.

Il problema usuale e principale di questi album, per chi non vive negli USA (ma anche lì non devono essere proprio facili da trovare) è purtroppo la reperibilità, ma ormai lo sappiamo, Jones ha anticipato di parecchio questa tendenza sempre più imperante nel mercato indipendente, dandosi alla auto distribuzione sin dagli inizi della carriera solista. Il pubblico presente al concerto non sembra molto numeroso, ma appare entusiasta e soddisfatto da quanto ascolta: Dennis Jones ha anche una bella voce, grintosa e con sfumature ricche di soul, i suoi due soci, Sam Correa al basso e Raymond Johnson alla batteria, formano una sezione ritmica di tutto rispetto; il disco è inciso molto bene, con un suono nitido e ben delineato, e poi c’è il solismo dirompente della  Stratocaster del nostro amico, che mescola impeto ed eccellente tecnica, come è subito evidente fin dalla iniziale Blue Over You, dove le mani di Jones volano sul manico della sua chitarra in modo fluente ed incalzante. In When I Die, un bello shuffle, il timbro vocale ricorda quello di un altro grande “colored” del rock-blues come Phil Lynott dei Thin Lizzy, la chitarra è molto SRV, mentre la lunga Passion For The Blues cita nel testo coloro che lo hanno influenzato negli anni, Robert Johnson, Muddy Waters, Etta James, Johnny Winter, Stevie Ray Vaughan, in una sorta di passaggio di consegne ideale, con la chitarra sempre in grande evidenza, visto che Jones è sì un virtuoso dello strumento, ma non della categoria “esagerati” https://www.youtube.com/watch?v=VtKoUdb2LZI .

Stray Bullet, come l’iniziale Blue Over You è una canzone che verte sulle delusioni d’amore, uno degli argomenti tipici nel blues (e non solo), c’è qualche rimando al Jimi più vicino al R&B, e quindi anche a Robert Cray, nel sound sognante della solista, con la vorticosa Hot Sauce che va a tempo di boogie e cita il riff di Third Stone From the Sun nell’assolo. Don’t Worry About Me è un altro “bluesaccio” ruvido, temprato nel funky e nell’errebì, seguito da Super Deluxe altro shuffle che è un veicolo per il fluido solismo del chitarrista, sempre sulla lunghezza d’onda del grande Jimi; Enjoy The Ride è di nuovo più funky e sensuale, mentre You Don’t Know A Thing About Love ha più di un retrogusto latineggiante, sempre misto a quel soul’n’blues raffinato tipico di molti pezzi di Jones, ma poi esplode nel solito assolo energico. Kill The Pain, nel gioco continuo di citazioni all’interno dei brani, parte con Black Velvet di Alannah Myles e poi ritorna di continuo al suono dell’immancabile Hendrix, fonte continua di ispirazione, Big Black Cat, sempre con la chitarra in overdive, un ritmo intricato e qualche citazione jazzy è un altro ottimo esempio della classe e della tecnica del nostro amico, che ritorna al funky-blues per Devil’s Nightmare, prima di regalarci un altro ottimo shuffle blues nella travolgente I’m Good. In chiusura la citata Born Under A Bad Sign che più che alla versione dei Cream rende omaggio, anche con wah-wah innestato, all’Hendrix febbrile e sfrenato di Voodoo Chile, grande brano comunque e molto bravo questo Dennis Jones.

Bruno Conti

Tra Soul E Country, Una Bravissima Nuova Cantante E’ In Città! Yola – Walk Through Fire

yola walk trough fire

Yola – Walk Through Fire – Easy Eye Sound CD

Album di debutto per una nuova, bravissima cantante, originaria di Bristol, in Inghilterra, ma con il cuore musicale ben piantato in America. Yola (nome d’arte di Yolanda Quartey), ex lead vocalist del gruppo Phantom Limb, ha esordito come solista nel 2016 con l’EP Orphan Offering, ed in seguito è stata notata da Dan Auerbach, leader dei Black Keys, musicista geniale e produttore tra i più richiesti del momento (Dr. John, Ray LaMontagne, Grace Potter, The Pretenders), che l’ha voluta con sé nei suoi studi Easy Eye Sound di Nashville. Insieme i due hanno scritto una bella serie di canzoni, collaborando alla stesura anche con grandi nomi come il pianista Bobby Wood (già con Elvis), l’abituale collaboratore di John Prine Pat McLaughlin, oltre al leggendario Dan Penn. Il risultato di questa collaborazione è Walk Through Fire, un disco splendido che ci fa conoscere una cantante dalla voce formidabile e con una notevole forza interpretativa, un piccolo gioiello di country-got-soul che è pane per i denti di Auerbach, perfettamente a suo agio con questo tipo di sonorità tra pop, errebi, soul e country molto fine anni sessanta/inizio settanta, come già dimostrato nel suo bellissimo album solista Waiting On A Song e nel sorprendente Goin’ Platinum di Robert Finley.

Ma Walk Through Fire non è solo produzione, in quanto ci sono soprattutto Yola con le sue canzoni e la sua grande voce, un talento che qualcuno ha già paragonato ad un incrocio tra Aretha Franklin e Glen Campbell, mentre altri, parlando del rapporto tra l’artista ed il suono del disco, ha scomodato addirittura il mitico Dusty In Memphis di Dusty Springfield. Io sono abbastanza d’accordo con entrambi i paragoni, ed aggiungerei una rimembranza della giovane Mavis Staples nei pezzi più gospel. Nomi importanti quindi, ma Yola è una cantante con il suo stile e la sua personalità, ed in questo lavoro, grazie anche all’eccellente lavoro di Auerbach, il suo talento viene fuori alla grande. Come ciliegina, abbiamo diversi sessionmen di gran nome: oltre ai già citati McLaughlin e Wood (ed allo stesso Auerbach), troviamo il noto Nashville Cat Charlie McCoy all’armonica, il grande mandolinista Ronnie McCoury, lo steel guitarist Russ Pahl (grande protagonista del disco), la sezione ritmica di Dave Roe (Johnny Cash) e Gene Chrisman (Aretha ed Elvis, tra i tanti), per finire con le armonie vocali di Vince Gill. Faraway Look apre il CD nel modo migliore, con una deliziosa soul ballad che ci fa ammirare da subito la splendida ugola di Yola, ed un arrangiamento in puro stile pop orchestrale, non ridondante ma anzi perfetto per il crescendo melodico del ritornello.

Shady Grove è una squisita pop song d’altri tempi, di stampo bucolico e con una strumentazione cucita alla perfezione intorno alla voce formidabile di Yola, in cui spiccano pianoforte e violino. Ride Out In The Country è splendida, una ballata country-soul di ampio respiro, con una bellissima linea melodica, ottimi interventi di chitarra elettrica ed un organo caldo alle spalle. Un piano elettrico ed una languida steel introducono l’intensa It Ain’t Easier, country ballad di notevole livello, impreziosita dalla solita prestazione vocale impeccabile della ragazza, che aggiunge l’elemento soul; la title track è ancora più country, ed è una delle più belle, un brano cadenzato in cui Yola sembra proprio la Staples, con un coro che aggiunge un sapore gospel: la canzone poi è strepitosa di suo, e si sente che è quella in cui ha collaborato Penn. Che dire di Rock Me Gently? Un’altra deliziosa pop song che mi ricorda i primi Bee Gees  (i migliori), ed anche l’arrangiamento sta da quelle parti, con però steel e banjo che riportano tutto a Nashville; mi piace molto anche Love All Night (Work All Day), altra country tune mossa e scorrevole, con il consueto motivo che colpisce al primo ascolto ed un accompagnamento ricco in cui spiccano chitarra elettrica, piano ed ancora la magnifica steel di Pahl.

La breve e lenta Deep Blue Dream è puro soul, Lonely The Night invece è una grandiosa pop song dal chiaro sapore sixties, arrangiata con la solita finezza (la mano di Auerbach è evidente), mentre Still Gone è un errebi solare e decisamente godibile. Il CD termina con Keep Me Here, brano soul intenso e romantico, e con la scintillante Love Is Light, altro brano pop di lusso e contraddistinto da un gusto melodico non comune, ennesimo gioiellino di un album bello e sorprendente. Dan Auerbach si sta costruendo passo dopo passo una reputazione da produttore di livello eccelso, ma con una cantante come Yola il suo lavoro è stato certamente più facile.

Marco Verdi

Uno Splendido Viaggio Nella Golden Age Del Folk-Rock Britannico. VV. AA. – Strangers In The Room

strangers in the room

VV.AA. – Strangers In The Room: A Journey Through The British Folk Rock Scene 1967-73 – Grapefruit/Cherry Red 3CD Box Set

 La Gran Bretagna della seconda metà degli anni sessanta era percorsa da numerosi fermenti musicali (e non). Mentre i quattro gruppi inglesi principali (Beatles, Rolling Stones, Who e Kinks) in quegli anni pubblicavano loro album migliori, nella terra di Albione nascevano diverse correnti di grande importanza, come il British Blues, con i Bluesbreakers di John Mayall, i Cream, i Fleetwood Mac di Peter Green ed il Jeff Beck Group (ma anche i Taste di Rory Gallagher), la psichedelia (che ebbe nei Pink Floyd la band di punta), l’hard rock con i Led Zeppelin, i Free e gli Humble Pie, e naturalmente il folk-rock, che non rassomigliava a quello americano dei Byrds ma prendeva spunto dalle antiche ballate inglesi e scozzesi per arrivare ad un sound elettrico che poteva anche sconfinare nella stessa psichedelia e nel prog.

In passato abbiamo avuto diverse compilation che si occupavano di questo genere fondamentale, basti pensare ai vari volumi della serie Electric Muse o al box triplo della Island uscito nel 2009, ma spesso ci si occupava dei gruppi e solisti più celebri, e con le loro canzoni più note: questo nuovo e bellissimo box triplo intitolato Strangers In The Room (ad opera della Grapefruit, la stessa del recente cofanetto dei Flamin’ Groovies) percorre una strada diversa, dando cioè spazio ad artisti considerati di seconda o terza fascia, ed in alcuni casi praticamente sconosciuti (io stesso devo ammettere che molti di essi non li avevo mai sentiti nominare) e limitandosi solo a trattare il periodo d’oro del genere in questione, cioè gli anni che vanno dal 1967 al 1973. Certo, non mancano i capostipiti del genere (Fairport Convention, Pentangle, Steeleye Span, tanto per citare i tre più famosi), ma anche loro non con i brani più noti: la maggior parte del box però si occupa di musicisti che hanno avuto scarsa fortuna, scegliendo di pubblicare vere è proprie rarità, tra le quali molti singoli mai apparsi prima su CD e persino quattro canzoni inedite, il tutto corredato da un bellissimo libretto di 40 pagine con dettagliati commenti ad ognuno dei 60 brani inclusi; qualche assenza c’è (a memoria mi vengono in mente Lindisfarne, Amazing Blondel e Martin Carthy, ma non avrebbero sfigurato neanche Cat Stevens e John Martyn). Ma ecco una (non tanto) veloce disamina del contenuto dei tre CD, e vi giuro che ho fatto fatica a limitarmi ai pezzi che sto per citare.

CD1: si comincia con Michael Chapman (tornato in auge negli ultimi anni con due bellissimi album) con Stranger In The Room, una solida e potente ballata elettroacustica, molto suggestiva e decisamente più rock che folk, e la chitarra elettrica di Mick Ronson grande protagonista. Dopo la drammatica The Blacksmith degli Steeleye Span (una delle poche scelte “scontate”), dominata dalla vocalità di Maddy Prior, abbiamo il primo inedito, cioè una versione alternata della pimpante e frenetica Dangerous Dave degli Spirogyra. I restanti 17 pezzi sono appannaggio di gruppi o solisti i cui nomi non sono certo tra i più noti, ma ci sono chicche che rendono l’ascolto piacevole al massimo, come l’enigmatica ma deliziosa Murdoch ad opera dei Trees, la rockeggiante ed orecchiabilissima Shoeshine Boy degli Humblebums (che vedono alla voce un giovane Gerry Rafferty), Martha di Harvey Andrews, dalla splendida linea melodica (e con Cozy Powell alla batteria), la tonica Hanging Tree, tra folk, rock e psichedelia dei dimenticatissimi Oo Bang Jiggly Jang (il cui leader Peter Bramall entrerà in seguito nei pub-rockers The Motors come Bram Tchaikovsky ), o la fluida e “fairportiana” Amongst Anemones eseguita dai Jade, un trio che durò il tempo di un solo album.

Meritano un cenno anche la pianistica e bellissima The Sailor da parte di Robin Scott (che rispunterà anni dopo come leader del gruppo M con i ritmi disco-elettronici di Pop Musik), l’eterea e sublime Here Comes The Rain dei Trader Horne, un duo la cui voce femminile era Judy Dyble, prima cantante dei Fairport, la diretta ed immediata My Delicate Skin di Dave Cartwright, un singolo che avrebbe meritato maggior fortuna, la toccante Almost Liverpool 8 di Mike Hart (tra le migliori del primo CD), la tersa e bucolica Don’t Know Why You Bother Child di Gary Farr e la corale e coinvolgente We Can Sing Together di Alan Hull.

CD2: i tre gruppi più conosciuti del dischetto sono i Matthews Southern Comfort con una cristallina rilettura di Woodstock di Joni Mitchell, dallo stile decisamente pastorale, gli Strawbs (senza Sandy Denny) con la vibrante e maestosa The Man Who Called Himself Jesus, ed i Fairport Convention con la prima versione di Sir Patrick Spens, registrata con la stessa Denny ai tempi di Liege & Lief e pubblicata solo in una delle successive ristampe. Ci sono anche cinque nomi non proprio sconosciuti, ma indubbiamente di culto: The Woods Band, gruppo formato da Gay e Terry Woods dopo il loro allontanamento dagli Steeleye Span (As I Roved Out, un brano tradizionale arrangiato alla perfezione e con un intermezzo strumentale strepitoso), Bill Fay, tornato ad incidere dopo una vita in tempi recenti, con un demo del 1969 della stupenda Be Not So Fearful, Bridget St. John alle prese con l’allegra filastrocca folk There’s A Place I Know, la Third Ear Band con Fleance, dal suono più tradizionale che mai, e i Dando Shaft con Riverboat, pura, cristallina e cantata splendidamente.

E poi ci sono gli acts meno noti, tra cui gli Unicorn (prodotti da David Gilmour) con l’armoniosa I Loved Her So Long, chiaramente influenzata da Crosby, Stills & Nash, la beatlesiana Sarah In The Isle Of Wight di Al Jones (solo a me ricorda Lucy In The Sky With Diamonds?) https://www.youtube.com/watch?v=QXcjC2SSC8I , l’epica nonché oscura Pucka-Ri degli Urban Clearway, i Daylight con la limpida e corale Lady Of St. Clare (45 giri che fu anche la loro unica incisione!), la sinuosa ed emozionante Love Has Gone della bravissima Mary-Anne Paterson, una delle gemme del cofanetto (sentite che voce, da brividi), il demo della gentile What I Am dei Fresh Maggots, secondo inedito del box, ed una rilettura molto “roots” e sicuramente interessante del classico di Bob Dylan Like A Rolling Stone da parte dei Canticle.

CD3: il dischetto con la maggior parte di artisti famosi, a partire dai Pentangle con la nota The Cuckoo (tratta dal mitico Basket Of Light), per seguire con Ralph McTell e la sua ottima prova cantautorale Father Forgive Them, la strepitosa Just As The Tide Was A-Flowing, frutto della collaborazione di Shirley Collins con la Albion Country Band (una delle più belle canzoni del triplo), l’intensa Oh Did I Love A Dream della Incredible String Band, che ha il sapore di un canto marinaresco, e la squisita All In A Dream di Steve Tilston, lucida ballata guidata da piano e chitarra. C’è anche una giovanissima Joan Armatrading con la piacevole City Girl, un inatteso Gerry Rafferty solista con una versione inedita di Who Cares, diversa dallo stile pop che il nostro avrà in seguito, e chiude la già citata Sandy Denny (come poteva mancare?) con la sua signature song Who Knows Where The Time Goes in una rara versione voce e chitarra incisa prima di entrare nei Fairport.

Tra i pezzi rimanenti segnalerei la delicata Queen Of The Moonlight World di Andy Roberts, dallo splendido arpeggio di chitarra e con una melodia ariosa, il rarissimo singolo di Mr. Fox Little Woman, bellissima folk song dal sapore più irlandese che inglese, Mike Cooper con la solare ed ottimistica Your Lovely Ways, la misteriosa Jude, che incise questa intensa Beverley Market Meeting insieme a qualche altro demo e poi sparì, la quasi west-coastiana Carry Me dei Prelude, Furniture, grande rock song ad opera degli irlandesi Horslips (con uno strepitoso assolo chitarristico), ed il quarto ed ultimo inedito, cioè l’orientaleggiante Waxing Of The Moon dei Lifeblud https://www.youtube.com/watch?v=4D6MP_AnIm4 .

Un cofanetto quindi difficile da ignorare se siete appassionati del genere folk-rock (ma anche della buona musica in generale), anche perché non costa una cifra esagerata.

Marco Verdi

Sempre Raffinato E Ricercato, Nuovo Album Per Il “Ry Cooder” Svizzero. Hank Shizzoe – Steady As We Go

hank shizzoe steady as we go

Hank Shizzoe – Steady As We Go – Blue Rose Records

Hank Shizzoe, come è forse noto ai più, è un chitarrista e cantante svizzero di 52 anni, con una discografia cospicua (15 o 16 album, a seconda delle fonti, lui o la casa discografica, comunque parecchi dall’esordio del 1994 Low Budget): spesso nelle sue recensioni si fa riferimento a JJ Cale e Ry Cooder come musicisti che, se forse non sono stati fonti di ispirazione, sicuramente condividono un certo tipo di fare musica, ispirata dal blues, e dalla grande tradizione della musica americana in generale, con uno stile laidback, molto raffinato e ricercato. Shizzoe è un virtuoso delle chitarre, soprattutto suonate in stile slide con il bottleneck, ma è proficiente anche a lap steel, pedal steel, chitarre con accordatura tradizionale, e se la cava, per così dire, anche a banjo e bouzouki. E pure la voce non è male, abbastanza piana e senza sussulti, però in grado di evocare sensazioni ora dolci ed avvolgenti, ora più briose e mosse, come la sua musica d’altronde: il nostro Hank è un tipo eclettico, nel suo repertorio ha cantato e suonato di tutto, da Celentano a Hank Williams, l’amato JJ Cale, ma anche i Creedence, Marylin Monroe (!), Traveling Wilburys e classici del blues assortiti.

Anche per l’occasione di Steady As We Go Shizzoe ha spaziato un po’ ovunque: dai blues di Mississippi John Hurt, Washboard Sam, Lonnie Johnson, a brani di Tammy Wynette e Bob Nolan, passando per cover di Randy Newman e Tom Petty, di cui interpreta con passione ed amore California, e per completare il tutto anche tre pezzi originali. Nelle sue parole il nostro amico definisce questo album il proprio disco migliore di sempre, quello che voleva fare da decenni (ma come ho scritto altre volte i musicisti lo dicono sempre, e sarebbe strano il contrario): da quello che ho ascoltato potrebbe averci preso. Il CD ha un suono molto caldo ed intimo, sia per il fatto di essere stato registrato in presa diretta con i quattro musicisti insieme in studio a Berna, e soprattutto per l’eccellente lavoro di mastering fatto in California da Stephen Marcussen, uno dei maestri in questo tipo di lavoro che ha lavorato in passato con Johnny Cash per American Recordings, Rolling Stones, Tom Petty per Wildflowers, Ry Cooder, Willie Nelson. Careless Love è uno standard che è stato inciso decine di volte anche da nomi molti celebri, ma la versione di Shizzoe è ritagliata sull’arrangiamento di Lonnie Johnson, un blues raffinato che ricorda il miglior Ry Cooder anni ‘70/’80 (ma anche dell’ultimissimo periodo), cantato con voce felpata, con la chitarra accarezzata e il clarinetto di Tinu Heineger ad impreziosirla https://www.youtube.com/watch?v=O6Vjae_aqZw ; anche I Been Treated Wrong di Washboard Sam viaggia sempre su traiettorie blues, con la slide decisamente più guizzante, la ritmica più pressante, ma comunque sempre in modalità fine e ricercata.

 

On Top Of Old Smokey, che era anche nel repertorio di Hank Williams, qui riceve un trattamento sobrio e delicato, alla Willie Nelson per intenderci, anche nel cantato quasi forbito, una ballata tra country e l’american songbook classico, con in evidenza il piano di Hendrix Ackle e  la pedal steel suadente di Shizzoe, mentre Make Me A Pallet On Your Floor di Mississippi John Hurt rimanda ancora al Cooder più errebì e vivace https://www.youtube.com/watch?v=c67yN0RgKsA , con Days Of Heaven che è un gioiellino poco noto di Randy Newman che si trovava nel box con inediti del 1998, suonata e cantata con gran classe da Hank. La title track Steady As We Go, uno dei brani firmati da Shizzoe, si inserisce in questo filone di raffinata eleganza sonora, con il trombone di Michael Flury ad impreziosire le evoluzioni dei vari strumenti a corda suonati dal nostro amico, che nella successiva Cool Water, il brano di impronta country scritto da Bob Nolan, lo adorna di qualche tocco etnico con l’uso di percussioni e del shakuhachi che comunque non distolgono dalla bellezza quasi austera di questa ballata. Stand By Your Man è proprio il pezzo di Tammy Wynette, sempre in un arrangiamento morbido e soave che stempera il country dell’originale per un approccio ancora una volta di grande eleganza. Splendido addirittura Havre De Grace, un altro pezzo di Shizzoe cantato con grande trasporto e con un arrangiamento che testimonia di una classe quasi inattesa (ma non del tutto) di questo signore. Che poi si supera addirittura in una versione elettroacustica  ed incantevole della classica California di Tom Petty. Semplicemente un disco molto bello ed inatteso, non saprei che altro dire.

Bruno Conti