Una Ristampa Interessante, Ma Di Certo Non Per Tutti! Terry Allen – Pedal Steal/Four Corners

terry allen pedal steal

Terry Allen – Pedal Steal/Four Corners – Paradise Of Bachelors 3CD/LP

Se siete abituali frequentatori di questo blog non devo dirvi io chi è Terry Allen: texano, cantautore e musicista geniale e spesso dissacrante, ma anche artista a 360 gradi, pittore, scultore e chi più ne ha più ne metta. Una figura non da poco quindi, talmente originale e bonariamente “fuori di testa” da attirare l’attenzione di David Byrne, un altro non proprio normale, che nel 1986 lo volle come collaboratore nel suo celebre progetto True Stories. Musicalmente Allen negli ultimi anni ha parecchio diradato i suoi contributi: Bottom Of The World, il suo album più recente, è del 2013, e seguiva il precedente Salivation dopo ben 14 anni; ma Terry non è mai stato molto prolifico come musicista in proprio, anche se in passato ci ha regalato almeno un capolavoro assoluto come Lubbock (On Everything) https://discoclub.myblog.it/2016/10/27/due-notevoli-ristampenel-segno-del-texas-steve-earle-guitar-townterry-allen-lubbock-on-everything/  ed altri grandi dischi come Juarez, Human Remains e lo stesso Salivation.

Nel 1985 Allen ricevette dalla Margaret Jenkins Dance Company di San Francisco l’incarico di comporre una colonna sonora per un balletto (!), e la risposta fu Pedal Steal, una suite della durata di poco più di mezz’ora idealmente basata sulla figura di Wayne Gailey, suonatore di steel guitar semisconosciuto ma molto considerato da Allen. Pedal Steal venne messo in commercio all’epoca insieme a Rollback, un album di canzoni più canoniche, e riedito in CD solo nel 2006 (senza Rollback). Oggi la Paradise Of Bachelors ristampa una versione rimasterizzata (devo dire in maniera eccelsa) di Pedal Steal, e lo fa in grande stile, in una confezione identica a quella di un doppio LP “gatefold” con il CD dell’opera, il vinile contenente lo stesso album, e soprattutto altri due CD che contengono altri quattro lavori di Allen, quattro drammi radiofonici andati in onda tra il 1986 ed il 1993 ma mai pubblicati prima né in vinile né in CD, ed anch’essi della durata di 30 minuti circa ciascuno, con l’aggiunta finale di un bel booklet formato maxi con tutti i testi e foto rare di dipinti e sculture che rivelano l’arte visionaria di Allen.

I titoli delle quattro “radio plays” sono Torso Hell (1986, all’epoca circolato brevemente in musicassetta, ma sfido chiunque a dimostrare di possederne una copia), Bleeder (1990), Reunion (Return To Juarez) (1992) e Dugout (1993), qui rinominate per brevità Four Corners, come si fossero quattro elementi della stessa suite (ma gli argomenti trattati sono diversissimi tra loro). Aspettate però a fregarvi le mani compiaciuti, in quanto qui il Terry Allen cantautore è molto poco presente, in quanto sia Pedal Steal che le quattro parti di Four Corners sono in realtà dei lunghi racconti (anche abbastanza “strani”) con la maggioranza di parti narrate, in gran parte da Terry stesso e dalla moglie Jo Harvey Allen, e di musica ce n’è davvero poca. Delle cinque opere, Pedal Steal è forse quella con più equilibrio tra narrazione e musica, ma siamo sempre su un rapporto di 75/25, anche se il gruppo che accompagna Allen (chiamato per l’occasione The Panhandle Mystery Band) presenta nomi di tutto rispetto come Lloyd Maines (che tra le varie chitarre suona anche la pedal steel, lo strumento ovviamente principale), Richard Bowden al violino e mandolino, Bobby Keys e Don Caldwell ai sassofoni e Butch Hancock come special guest.

Come ho già detto Pedal Steal è composto da un’unica traccia, una narrazione con tanto di pause, rumori ambientali e diavolerie varie, qualche parte strumentale di collegamento ma anche frammenti di canzoni, ed i pochi brani completi sono comunque interrotti dalla parte narrata, per poi riprendere. Le parti musicali sono sublimi (ma, ripeto, troppo brevi, spesso finiscono quando ci si comincia a prendere gusto), come l’introduzione in cui spicca la steel di Maines, o Billy The Boy, uno strepitoso brano dal sapore messicano, o ancora la scintillante Fort Sumner, bellissima country song per chitarre acustiche, elettriche e marimba, o ancora Lonely Road, un pezzo dal sapore western diretto e vibrante. C’è anche un lungo assolo quasi distorto di steel, alla Jimi Hendrix, e due brani non di Allen, cioè un breve accenno all’evergreen Sentimental Journey per solo sax ed il traditional Give Me The Flowers, splendidamente eseguito da Hancock, voce e chitarra.

Un’opera dunque affascinante, ma capisco che l’ascolto possa non essere facile, soprattutto se siete abituati al Terry Allen “semplice” songwriter. Torso Hell è ancora più straniante: nato da un’idea per un film horror mai realizzato (si parla della vita post-guerra di un reduce dal Vietnam senza braccia e gambe, ma miracolosamente vivo, ed il tutto è raccontato in maniera anche piuttosto cruda), è narrato al 90% e le poche parti strumentali sono prodotte da synth e tastiere, più degli effetti che musica vera e propria. Nelle altre tre mini-suite ci sono strumenti più “convenzionali” (tutti suonati da Allen, Maines e Bowden), ma anche qui le parti parlate la fanno da padrone e di musica vera ce n’è poca, per non parlare di canzoni: solo brevi accenni al traditional Auld Lang Syne, al classico gospel Rock Of Ages ed alla cover del brano di Carl Perkins Dixie Fried in Bleeder, qualche intermezzo strumentale tra Messico e musica “desertica” (alla Ry Cooder) in Reunion, e praticamente nulla in Dugout.

In conclusione, una ristampa che non manca di interesse, ma che può risultare decisamente  complessa e poco digeribile per l’ascoltatore “casuale”, e che mi sento di consigliare tuttalpiù ai die-hard fans di Terry Allen.

Marco Verdi

Un “Virtuoso” Elettrico Ed Eclettico, Questa Volta Senza Esagerazioni. Gary Hoey – Neon Highway Blues

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Gary Hoey – Neon Highway Blues – Mascot/Provogue

Dopo una carriera trentennale e una ventina di album nel suo carnet, nel 2016 anche Gary Hoey era approdato alla Mascot/Provogue, che negli ultimi anni sta diventando la casa di gran parte dei migliori chitarristi (e non solo) in ambito blues-rock. Dopo meno di tre anni arriva ora questo Neon Highway Blues che fin dal titolo vuole essere un omaggio alle 12 battute, come ricorda lo stesso Hoey, che cita tra le sue influenze tutti i grandi King del blues, Albert, B.B. e Freddie, e poi aggiunge scherzando anche Burger King, ah ah (battuta che neppure io mi sarei permesso di sottoporre ai lettori). Il chitarrista di Lowell, Massachusetts, anche se il suo stile è sempre stato decisamente più hard’n’heavy, evidentemente nel proprio cuore ha sempre riservato uno spazio pure per il blues, accanto alle derive più “esagerate” e virtuosistiche della sua musica. Diciamo che per l’occasione, autoproducendosi nel suo studio casalingo nel New Hampshire, ha cercato di temperare gli eccessi, riuscendoci in gran parte.

La politica della sua etichetta, la Mascot/Provogue, prevede spesso la partecipazione di alcuni ospiti interscambiabili tra loro nei vari album di ciascuno; per l’occasione nell’iniziale super funky  Under The Rug, a fianco di Gary troviamo Eric Gales, per un brano molto scandito e tirato che ha vaghe parentele con il Jeff Beck meno canonico, con i due che si scambiano sciabolate chitarristiche a volume sostenuto, ma con buoni risultati, anche se Hoey come cantante non è certo memorabile. Josh Smith, ex bambino prodigio della chitarra e protetto di Jimmy Thackery, dà una mano in Mercy Of Love, un blues lento intenso e carico di feeling , di quelli lancinanti, duri e puri, con le soliste che si sfidano in grande stile, e anche in Don’t Come Crying, altro slow di quelli giusti, Hoey si fa aiutare, questa volta dal figlio Ian, ancora una volta con eccellenti risultati https://www.youtube.com/watch?v=HZAAgedTJ0s . L’ultimo ospite è Vance Lopez, che duetta con Gary in un pimpante shuffle come Damned If I Do; per il resto il nostro amico fa tutto da solo, come nella vivace Your Kind Of Love, dove va di slide alla grande, o anche nella swingante I Still Believe In Love, dove il Texas blues di Stevie Ray Vaughan viene omaggiato con la giusta intensità e classe.

Non mancano i brani strumentali, una caratteristica costante nei suoi album: Almost Heaven, in bilico tra acustico ed elettrico ricorda certi pezzi del collega Eric Johnson, e anche, come tipo di sound, il lato più romantico e ricercato delle ballate di Gary Moore, con tutto il virtuosismo del musicista di Boston in bella evidenza. I Felt Alive è un’altra ballata, però dal suono decisamente più duro, con qualche aggancio agli Zeppelin e al loro seguace Joe Bonamassa, però non entusiasma più di tanto, meglio l’altro strumentale, la sognante, maestosa e raffinata Waiting On The Sun https://www.youtube.com/watch?v=IxXA8osxk-A . Viceversa Living The Highlife, più dura e molto riffata, è classico hard-rock seventies style di buona fattura. Il blues torna nell’ultimo brano dell’abum, la title track Neon Highway Blues, un’altra raffinata blues ballad dove si apprezza la sempre notevole tecnica di questo signore. Per chi ama i chitarristi elettrici ed eclettici, questa volta mi pare Gary Hoey abbia centrato il bersaglio.

Bruno Conti

Tre Annate Diverse, Ma Lo Stesso Godimento! Jerry Garcia Band – Electric On The Eel

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Jerry Garcia Band – Electric On The Eel – ATO 6CD Box Set (+ Bonus CD “Acoustic On The Eel”)

Sospesa momentaneamente la serie Garcia Live, ecco un nuovo album dal vivo che vede protagonista la Jerry Garcia Band, e questa volta sono state fatte le cose in grande. Electric On The Eel è infatti un box sestuplo che presenta ben tre concerti completi del gruppo capitanato dal leader dei Grateful Dead, registrati rispettivamente nelle estati del 1987, 1989 e 1991 nella medesima location, cioè al French’s Camp presso il fiume Eel vicino a Piercy, una suggestiva località californiana in mezzo ai boschi non lontana da dove sorge la Hog Farm, cioè la più grande comune hippie d’America: anzi, questi concerti erano stati organizzati proprio per raccogliere fondi da destinare a quella comunità, per iniziativa di Bill Graham e di quel vecchio fricchettone di Wavy Gravy. In quel periodo Garcia, dopo i gravi problemi di salute della metà degli anni ottanta, era tornato più in forma che mai e dal vivo era una garanzia, sia che si esibisse coi Dead che con il suo gruppo, ed in questi tre show ci troviamo di fronte ad un crescendo continuo: ottimo quello del 1987, eccellente quello del 1989, splendido quello del 1991.

La band è la stessa in tutte e tre le date: Melvin Seals alle tastiere, vero alter ego di Jerry (tranne quando si sposta al synth), John Kahn al basso, David Kemper alla batteria ed i contributi vocali di Gloria Jones e Jacklyn LaBranch; la struttura è quella tipica degli spettacoli di Garcia solista, cioè una piccola selezione di brani originali ed una grande maggioranza di cover. La differenza sostanziale con i Dead, ma anche con la JGB degli anni settanta, è che questi concerti sono più basati sulle canzoni e meno sulle jam, con il risutato di avere più brani del solito e con durate più limitate (anche se stiamo comunque parlando di pezzi che vanno in media dai cinque ai dieci minuti). E, oltre alla bravura straordinaria di Jerry che è ormai assodata (ma non sottovaluterei l’apporto della band, che fornisce un suono compatto e solido), ci sono anche diverse sorprese in scaletta, soprattutto nella serata del 1991; ovviamente non mancano le ripetizioni (alcuni brani in due serate, alcuni in tutte e tre), anche se va detto che Garcia era uno di quelli che non suonava mai lo stesso pezzo due volte allo stesso modo.

CD 1-2, 29/08/87: che Garcia sia in forma lo capiamo sin dalle prime note della guizzante How Sweet It Is (To Be Loved By You) (Marvin Gaye), in cui il nostro ci fa sentire da subito il suono sublime della sua chitarra (ma Seals non è da meno all’organo), ed anche dal punto di vista vocale è in buona forma, cosa non scontata. Solo tre brani vengono dal repertorio di Jerry, la pimpante Run For The Roses, la sempre trascinante Deal e la rara Gomorrah; tre anche gli omaggi all’amico Bob Dylan, con una splendida Forever Young, cantata forse con qualche sbavatura ma con un paio di assoli celestiali, una solida I Shall Be Released ed una lunga e liquida Tangled Up In Blue posta in chiusura di serata. Altri highlights sono una bellissima And It Stoned Me, uno dei capolavori di Van Morrison, una breve ma ficcante Evangeline (Los Lobos), l’omaggio al reggae con The Harder They Come di Jimmy Cliff, grande canzone nonostante io non ami il genere, ed il momento rock’n’roll con una torrida Let It Rock di Chuck Berry, in cui Jerry fa quello che vuole con il suo strumento.

CD 3-4, 10/07/89: qui Jerry e la band sono anche più in forma di due anni prima, e lo dimostrano subito con una vibrante I’ll Take A Melody (Allen Toussaint), dieci minuti suonati con classe (peccato il synth nel finale); qui i brani scritti da Garcia sono quattro, le “ripetizioni” di Run For The Roses e Deal, la nota They Love Each Other e Mission In The Rain, in una delle versioni più fluide mai sentite. C’è ancora I Shall Be Released di Dylan, ma è una rilettura magnifica, forse la migliore di sempre per quanto riguarda Garcia, e risulta gradevolissima anche Stop That Train di Peter Tosh (Jerry riusciva a farmi piacere anche il reggae). Detto di una rara I Hope It Won’t Be This Way Always, un oscuro brano degli Angelic Gospel Singers, gli altri pezzi da novanta del concerto sono la sempre bellissima Waiting For A Miracle di Bruce Cockburn, una vigorosa ripresa di Think (Jimmy McCracklin, non il classico di Aretha Franklin dallo stesso titolo), che vede il nostro perfettamente a suo agio anche con il blues, e soprattutto una monumentale Don’t Let Go (Jesse Stone) di 14 minuti, con una performance chitarristica incredibile da parte di Mr. Captain Trips.

CD 5-6, 10/08/91: il concerto più breve dei tre, ma anche quello con la setlist più rivoluzionata e con diverse sorprese, oltre ad essere in assoluto quello che vede i nostri in forma migliore, cosa che si capisce immediatamente con la scintillante The Way You Do The Things You Do (The Temptations) in apertura, e con la sempre grandissima And It Stoned Me subito dopo: raramente Jerry ha cantato così bene. Dicevo delle rarità in scaletta, a partire con l’altro omaggio a Berry con una spettacolare You Never Can Tell (conosciuta anche come C’Est La Vie), rock’n’roll allo stato puro contraddistinto dalle magiche evoluzioni chitarristiche del leader ed il gruppo che è un treno lanciato. Ma la maggior parte delle sorprese sono nella seconda parte (e c’è in tutto lo show un solo pezzo di Jerry, la solita Deal), a cominciare da un doppio omaggio a Eric Clapton con una potente Lay Down Sally e la meno nota See What Love Can Do (scritta da Jerry Lynn Williams, era su Behind The Sun), per poi proseguire con la splendida Twilight dal repertorio di The Band ed un gran finale con Lazy Bones di Hoagy Carmichael, dal sapore antico e con Jerry che canta in maniera quasi confidenziale, e con il grande classico soul Everybody Needs Somebody To Love, in versione leggermente rallentata ma con Garcia che suona in maniera divina. Con le prime copie di Electric On The Eel (da accaparrarsi in pre-ordine, cosa che ho fatto) veniva dato in omaggio un ulteriore CD, ora purtroppo esaurito, intitolato Acoustic On The Eel, che prendeva in esame uno show unplugged registrato nell’agosto del 1987 dalla versione acustica della JGB, con una formazione che conservava solo Jerry alla chitarra e Kahn al basso, ed aggiungeva il vecchio amico David Nelson alla seconda chitarra e Sandy Rothman al banjo, dobro e mandolino. Ed il CD è, manco a dirlo, davvero stupendo, con cristalline versioni tra folk, country e bluegrass di classici della tradizione come I’ve Been All Around This World, Little Sadie e I’m Troubled, vecchi blues rivisti alla maniera folk come Deep Elem Blues, Oh Babe It Ain’t No Lie (Elizabeth Cotton) e Spike Driver Blues (Mississippi John Hurt), oltre ad un paio di classici dei Dead del calibro di Friend Of The Devil e Ripple.

Ma se non ce l’avete fatta a fare vostro anche il dischetto acustico, direi che Electric On The Eel può bastare a regalarvi quasi sei ore di puro godimento musicale.

Marco Verdi

Sceneggiatore E Autore Per Cinema E TV, Ma Anche Ottimo Musicista. John Fusco And The X-Road Riders

john fusco and the x-road riders

John Fusco And The X-Road Riders – John Fusco And The X-Road Riders – Checkerboard Lounge Records

Il nome di John Fusco come musicista sicuramente dice poco ai più, ed in effetti questo album con gli X-Road Riders è il suo esordio. Ma se scaviamo più in profondità scopriamo che questo signore è colui che ha scritto il soggetto originale di Crossroads (in Italia Mississippi Adventure), l’ottimo film del 1986 di Walter Hill, che proponeva una versione romanzata del famoso patto siglato al crocevia tra Robert Johnson e il Diavolo, con la colonna sonora di Ry Cooder e Steve Vai nella parte di quel “diavolo” di un chitarrista che duella con Ralph Macchio. Fusco ha comunque scritto anche i soggetti di Young Guns I e iI, Hidalgo, Spirit, l’imminente Highwaymen di Kevin Costner, la serie televisiva Marco Polo per la Netflix, quindi non è il primo pirla che passa per strada, e comunque ha anche questa “passionaccia” per la musica, il blues(rock) nello specifico e per il suo esordio discografico si fa aiutare da Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, che nel CD suona chitarra, dobro, piano, basso e batteria, lasciando le tastiere a Fusco, che si rivela essere anche un notevole cantante, in possesso di una voce profonda, vissuta e risonante, ben sostenuta dalle gagliarde armonie vocali di Risse Norman, una vocalist di colore dal timbro intriso di soul e gospel, come dimostrano tutti insieme nella potente Rolling Thunder che apre l’album e dove la slide tangenziale di Dickinson è protagonista assoluta del sound.

Drink Takes The Man è anche meglio, con l’organo di Fusco e la chitarra di Cody a duettare, mentre John, con l’aiuto sempre della Norman, imbastisce un blues-rock quasi alla Allman Brothers, sapido e gustoso, sempre con le chitarre di Dickinson in grande spolvero. L’album è stato registrato ai Checkerboard Lounge Studios di Southaven, Mississippi, ed esce per l’etichetta dello stesso nome, al solito con reperibilità diciamo difficoltosa, ma vale la pena di sbattersi, perché il disco merita: in Poutine c’è anche una piccola sezione fiati guidata dalla tromba di Joshua Clinger, e il suono si fa più rotondo, con elementi soul sudisti, sempre caratterizzati dalla voce allmaniana di Fusco, dal suo organo scintillante, dalle chitarre di Dickinson e dalla calda vocalità della Risse. Hello Highway, con l’armonica dell’ospite Mark Lavoie in evidenza, più che un brano di Dylan (con cui ha comunque qualche grado di parentela) sembra un brano della Band, quando cantava Rick Danko, con il tocco geniale di un piano elettrico a rendere più intensa la resa sonora di questa bellissima canzone. E non è da meno anche A Stone’s Throw un’altra bella ballata gospel-rock che miscela il sound della Band e quello degli Allman, con la lirica solista di Dickinson a punteggiare splendidamente tutto il brano, mentre Fusco e la Norman si sostengono a vicenda con forza.

Non ci sono brani deboli in questo album, anche I Got Soul, quasi una dichiarazione di intenti, di nuovo con l’armonica di Lavoie e il sax solista di Bradley Jewett, ha ancora questo impeto del miglior blues sudista, con Fusco che rilascia un ottimo assolo di organo, senza dimenticare di lavorare di fino anche al pianoforte. Can’t Have Your Cake, sembra la sorella minore di Midnight Rider di Gregg Allman, un’altra southern ballad di grande fascino, cantata con impeto dal nostro amico, mentre la chitarra è sempre un valore aggiunto anche in questo brano https://www.youtube.com/watch?v=HAOlJvEL_lE ; Boogie On The Bayou, è un altro blues di quelli gagliardi, con piano elettrico, chitarra, ed organo a supportare con trasporto la voce vellutata e vibrante di Fusco. Anche Once I Pay This Truck Off non molla la presa sull’ascoltatore, questa volta sotto la forma di una ballata elettroacustica insinuante, sempre calda ed appassionata, grazie all’immancabile lavoro di grande finezza offerto da Cody Dickinson https://www.youtube.com/watch?v=roz27n9cTlU , che per il brano finale chiama a raccolta anche la solista del fratello Luther per una versione di grande forza emotiva del super classico di Robert Johnson Crossroad Blues, con la band che rocca e rolla di brutto sul famoso riff della versione dei Cream, e la slide che imperversa nel brano, grande anche la Norman, anche se forse avrei evitato il freestyle rap di Al Kapone che comunque non inficia troppo una grande versione https://www.youtube.com/watch?v=RgAWx9IhzU8 , all’interno di un album di notevole spessore complessivo.

Bruno Conti

Dopo Quello A Van Zandt, Un Altro Toccante Omaggio Ad Un Grande Texano. Steve Earle & The Dukes – Guy

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Steve Earle & The Dukes – Guy – New West CD

Esattamente dieci anni fa Steve Earle pubblicò Townes, un bellissimo album nel quale il cantautore di Guitar Town omaggiava la figura e le canzoni del grande Townes Van Zandt, leggendario songwriter texano che fu una vera e propria ossessione per il giovane Steve, che fin dai primi anni settanta si era messo in testa di doverlo incontrare a tutti i costi (poi riuscendoci), in quanto suo idolo assoluto all’epoca. In questa operazione di ricerca, ad un certo punto Earle si imbatté anche nella figura di Guy Clark, che in quel periodo era considerato un cantautore di belle speranze ma non aveva ancora pubblicato alcunché. L’esordio di Clark però, il formidabile Old # 1 (1975), provocò un terremoto nel mondo musicale texano (e di Nashville, dove fu registrato), ed ancora oggi è considerato tra i più importanti dischi di cantautorato country di sempre. Ebbene, quel disco vide anche la prima apparizione ufficiale di Steve, alle backing vocals, in quanto Guy si era nel frattempo preso a cuore le vicende del nostro insegnandogli i segreti del songwriting e diventando per lui una sorta di mentore. Ed Earle negli anni non ha mai dimenticato quello che Clark e Van Zandt hanno significato per lui, citandoli più volte come fonte di ispirazione primaria e riconoscendo che per la sua formazione sono stati più importanti di Bob Dylan; in più, tra i tre si era sviluppata una profonda amicizia sia personale che artistica, che era culminata con la pubblicazione nel 2001 del live a tre Together At The Bluebird Café.

Oggi Steve completa il discorso idealmente cominciato nel 2009 con Townes e pubblica Guy, che fin dal titolo fa capire che questa volta al centro del progetto ci sono le canzoni di Clark. Ed il disco è, manco a dirlo, davvero splendido, di sicuro al pari di Townes ma secondo me anche superiore, e vede un Earle più ispirato che mai regalarci una serie di interpretazioni di brani di livello altissimo inerenti al songbook clarkiano. D’altronde Steve ultimamente è in gran forma: il suo ultimo lavoro, So You Wanna Be An Outlaw (che segnava il ritorno alle atmosfere country-rock delle origini https://discoclub.myblog.it/2017/07/05/uno-splendido-omaggio-al-country-texano-anni-settanta-steve-earle-the-dukes-so-you-wannabe-an-outlaw/ ), è stato uno dei migliori dischi del 2017, e l’album di duetti con Shawn Colvin dell’anno prima Colvin & Earle era un divertissement fatto con classe. Per Guy Earle non ha chiaramente dovuto occuparsi della stesura delle canzoni (come per Townes, d’altronde), dovendo comunque limitarsi ad escluderne parecchie per riuscire a stare dentro un album singolo, data la qualità assoluta del songbook appartenente al cantautore texano. Avendo quindi i brani già belli e pronti, Steve li ha comunque interpretati con cuore, passione, amore e grande rispetto, aiutato, a differenza di Townes che era accreditato al solo Steve (e con la presenza di musicisti di studio), dai fidi Dukes: Chris Masterson, chitarra, Eleanor Whitmore, violino, mandolino e chitarra, Ricky Ray Jackson, steel guitar, Kelley Looney, basso, e Brad Pemberton alla batteria; il disco ha quindi un bel suono country-rock robusto e vigoroso, lo stesso di So You Wanna Be An Outlaw.

Un’ora netta di musica, sedici canzoni una più bella dell’altra, tra brani di stampo folk, momenti di puro country texano e qualche sconfinamento nel rock: i superclassici di Clark ci sono tutti, dalla mitica Desperados Waiting For A Train (versione da pelle d’oca, con la voce di Steve che quasi si spezza) alla drammatica The Randall Knife, passando per capolavori come Texas 1947, L.A. Freeway (grandissima versione), Rita Ballou, stupenda anch’essa, ed una That Old Time Feeling più toccante che mai. Ma Earle ed i suoi Dukes dicono la loro anche nei pezzi meno famosi, a partire da una potente ripresa della splendida Dublin Blues, title track di uno degli album più belli di Clark: ritmo acceso, arrangiamento quasi alla Waylon con chitarre, violino e steel in evidenza e la voce arrochita ma espressiva del nostro come ciliegina. Oppure la meno nota The Ballad Of Laverne And Captain Flint, puro country con bel refrain corale, la toccante ballata Anyhow I Love You, che non ricordavo così bella, la guizzante e swingata Heartbroke, una strepitosa Out In The Parking Lot elettrica, roccata e che sembra uscire direttamente da Copperhead Road, o ancora la struggente She Ain’t Going Nowhere, in assoluto una delle ballate più belle di Guy. C’è anche un pezzo, The Last Gunfighter Ballad, non inciso oggi, ma risalente allo splendido tributo a Clark This One’s For Him del 2011, una versione spoglia voce e chitarra che evidentemente Steve pensava non fosse necessario rifare. Per finire poi con l’intensa ed emozionante Old Friends, un inno all’amicizia in cui Earle è accompagnato da un dream team di musicisti, che comprende i vecchi compagni di Clark Shawn Camp e Verlon Thompson a mandolino e chitarra, Mickey Raphael naturalmente all’armonica, e soprattutto il contributo alle lead vocals di gente come Emmylou Harris, Terry Allen, Jerry Jeff Walker e Rodney Crowell.

Degno finale per un disco di rara bellezza.

Marco Verdi

Chiamateli Pure Phil & Don 2.0! The Cactus Blossoms – Easy Way

cactus blossoms easy way

The Cactus Blossoms – Easy Way – Walkie Talkie CD

Giunti al terzo album di studio (ma il primo è introvabile), i Cactus Blossoms sono un duo proveniente da Minneapolis e formato dai fratelli Jack Torrey e Page Burkum (Torrey è un cognome d’arte), due musicisti cresciuti ascoltando altre grandi coppie di fratelli del passato come i Louvin Brothers e gli Everly Brothers, oltre a copiose dosi di folk e country. E la loro proposta musicale è quasi una prosecuzione di quella degli Everly, lo stesso tipo di armonie e di linee melodiche, unite ad un’indubbia finezza strumentale ed abilità nel songwriting. Ma i Fiori di Cactus non sono dei cloni, anche se i riferimenti sono quelli che vi ho già detto, dato che alcune canzoni hanno anche arrangiamenti più moderni, pur restando in ambito vintage come tipo di approccio musicale. You’re Dreaming, il loro album del 2016, aveva fatto ben parlare di loro, ma è con questo nuovo Easy Way che i due fratelli cercano di compiere un ulteriore passo in avanti.

E Easy Way è un piacevolissimo disco di moderno folk-rock con più di un aggancio al passato, una collezioni di brani tutti scritti dai due Burkum (con l’aiuto di Dan Auerbach in due pezzi) e suonata da pochi ma validi collaboratori, tra cui il terzo fratello Tyler Burkum come chitarrista aggiunto, il batterista Alex Hall, lo steel guitarist Joel Paterson ed il sassofonista Michael Lewis (già con Bon Iver). Molto indicativa del suono del disco è la canzone d’apertura, Desperado, un delizioso folk-rock dal sapore anni sessanta in cui i nostri ricordano abbastanza palesemente Don e Phil Everly, ma l’accompagnamento è decisamente energico e rock, dall’uso della sezione ritmica fino al bell’assolo di chitarra twang https://www.youtube.com/watch?v=Qj7jJk8TPZk . Anche I’m Calling You non si schioda dai sixties, bella melodia solare, strumentazione vintage, chitarre con riverberi e quant’altro: alla produzione di brani come questo non vedrei male uno come Jeff Lynne. Please Don’t Call Me Crazy è leggermente più moderna, ha un accompagnamento grintoso e deliziosamente rock’n’roll, con Jack e Page che ci regalano un motivo diretto e coinvolgente, che mi ricorda certe cose di Dave Edmunds. 

Got A Lotta Love è più lenta e quasi country, le solite voci gentili ed armoniose, un leggero gioco di percussioni ed una chitarrina che ricama in sottofondo aiutata dall’organo. La languida Easy Way è un lento da ballo della mattonella, tenue, raffinato e quasi jazzato, mentre Downtown è puro pop, diretto e scintillante, con note di Beatles e Kinks ed un ritornello immediato; un organo d’altri tempi introduce Boomerang, altra slow song dal sapore antico, eseguita come sempre con estrema finezza. La bella See It Through è una ballata country-rock elettroacustica di ampio respiro, tra le più moderne come struttura, e precede le conclusive I Am The Road, squisito brano countreggiante nobilitato da uno dei refrain più piacevoli del CD, e la romantica Blue As The Ocean, che ci lascia con una nota malinconica ed il sapore della musica di cinque o sei decadi fa.

Quindi una bella prova da parte dei Cactus Blossoms, un disco davvero gradevole e delizioso che si muove in perfetto equilibrio tra antico e moderno.

Marco Verdi

Il 31 Maggio Uscirà Questo Bel Cofanetto Ricchissimo Di Materiale Inedito. Rory Gallagher – Blues

rory gallagher blues

Rory Gallagher – Blues – 3 CD Chess/Universal – 31-05-2019

Ammetto di essere sempre stato un grande fan di Rory Gallagher, per cui quando qualche tempo fa avevo saputo dell’uscita di questo box ero combattuto tra il timore della ennesima fregatura (perché spesso il materiale raro ed inedito contenuto in questo tipo di pubblicazioni è talmente minimo da sconsigliarne l’acquisto) e la speranza che, visto che il materiale proviene dagli archivi gestiti dalla famiglia di Rory, ed in particolare dal fratello Donal, che da parecchi anni cura le (ri)pubblicazioni del vecchio materiale dell’artista irlandese, per l’occasione avremmo avuto quello che ci aspettavamo. E questa volta, per una volta tanto, il lavoro di ricerca del materiale raro ed inedito è stato quasi certosino, con la presenza tra i 36 brani che faranno parte di questo Blues di ben il 90% di pezzi mai pubblicati prima. Oltre a tutto anche il prezzo che viene annunciato è veramente interessante, a livello indicativo dovrebbe essere intorno ai 20-22 euro.

Ecco come al solito la lista completa dei brani contenuti nel box, dove ci sono anche parecchie collaborazioni tra Rory Gallagher e garndi musicisti del calibro di Muddy Waters, Albert King, Jack Bruce, Lonnie Donegan, e la Chris Barber Orchestra.

 CD1: Electric Blues]
1. Don’t Start Me Talkin’ (Unreleased track from the Jinx album sessions 1982)
2. Nothin’ But The Devil (Unreleased track from the Against The Grain album sessions 1975)
3. Tore Down (Unreleased track from the Blueprint album sessions 1973)
4. Off The Handle (Unreleased session Paul Jones Show BBC Radio 1986)
5. I Could’ve Had Religion (Unreleased WNCR Cleveland radio session from 1972)
6. As the Crow Flies (Unreleased track from Tattoo album sessions 1973)
7. A Million Miles Away (Unreleased BBC Radio 1 Session 1973)
8. Should’ve Learnt My Lesson (Outtake from Deuce album sessions 1971)
9. Leaving Town Blues (Tribute track from Peter Green ‘Rattlesnake Guitar’ 1994)
10. Drop Down Baby (Rory guest guitar on Lonnie Donegan’s “Puttin’ On The Style” album 1978
11. I’m Ready (Guest guitarist on Muddy Waters ‘London Sessions’ album 1971)
12. Bullfrog Blues (Unreleased WNCR Cleveland radio session from 1972)

[CD2: Acoustic Blues]
1. Who’s That Coming (Acoustic outtake from Tattoo album sessions 1973)
2. Should’ve Learnt My Lesson (Acoustic outtake from Deuce album sessions 1971)
3. Prison Blues (Unreleased track from Blueprint album sessions 1973)
4. Secret Agent (Unreleased acoustic version from RTE Irish TV 1976)
5. Blow Wind Blow (Unreleased WNCR Cleveland radio session from 1972)
6. Bankers Blues (Outtake from the Blueprint album sessions 1973)
7. Whole Lot Of People (Acoustic outtake from Deuce album sessions 1971)
8. Loanshark Blues (Unreleased acoustic version from German TV 1987)
9. Pistol Slapper Blues (Unreleased acoustic version from Irish TV 1976)
10. Can’t Be Satisfied (Unreleased Radio FFN session from 1992)
11. Want Ad Blues (Unreleased RTE Radio Two Dave Fanning session 1988)
12. Walkin’ Blues (Unreleased acoustic version from RTE Irish TV 1987)

[CD3: Live Blues]
1. When My Baby She Left Me (Unreleased track from Glasgow Apollo concert 1982)
2. Nothin’ But The Devil (Unreleased track from Glasgow Apollo concert 1982)
3. What In The World (Unreleased track from Glasgow Apollo concert 1982)
4. I Wonder Who (Unreleased live track from late 1980s)
5. Messin’ With The Kid (Unreleased track from Sheffield City Hall concert 1977)
6. Tore Down (Unreleased track from Newcastle City Hall concert 1977)
7. Garbage Man Blues (Unreleased track from Sheffield City Hall concert 1977)
8. All Around Man (Unreleased track from BBC OGWT Special 1976)
9. Born Under A Bad Sign (Unreleased track from Rockpalast 1991 w/ Jack Bruce)
10. You Upset Me (Unreleased guest performance from Albert King album ‘Live’ 1975)
11. Comin’ Home Baby (Unreleased track from 1989 concert with Chris Barber Band)
12. Rory Talking Blues (Interview track of Rory talking about the blues)

Come vedete il materiale dei 3 CD è stato diviso pezzi elettrici, pezzi acustici e brani registrati dal vivo.

Quindi non ci rimane che attendere il 31 maggio per godere di queste piccole delizie sonore di uno dei più grandi esponenti di sempre del blues bianco nei suoi vari aspetti più genuini, ruspanti ed appassionanti, un altro tassello di una carriera incredibile e forse fin troppo breve.

Bruno Conti

Non So Se Fosse Necessaria Un’Edizione Deluxe, Ma E’ Comunque Sempre Un Bel Sentire! Keith Richards – Talk Is Cheap 30th Anniversary

keith richards talk is cheap 30th anniversary 2 cd keith richards talk is cheap 30th anniversary box

Keith Richards – Talk Is Cheap 30th Anniversary – Mindless/BMG 2CD – Super Deluxe 2CD/2LP/2x45rpm

Tanto per cominciare, l’album in questione è uscito in origine nel 1988, e quindi gli anni non sono 30 ma 31, e poi non avrei mai pensato che Talk Is Cheap, primo LP di Keith Richards lontano dai Rolling Stones, avrebbe potuto beneficiare di una ristampa deluxe, non perché non fosse un bel disco (anzi), ma perché non riveste chissà quale importanza nella storia del rock. Sul finire degli anni ottanta in molti ci si interrogava se gli Stones fossero o meno ancora una band, dato che gli ultimi due album di studio, i traballanti Undercover e Dirty Work, non erano stati seguiti da una tournée, i rapporti interni diciamo che non erano idilliaci e Mick Jagger aveva dato alle stampe due album da solista, She’s The Boss e Primitive Cool, che definire brutti è fargli un complimento.

Poi, nel 1988, anche Richards era uscito con il suo primo solo album in assoluto, Talk Is Cheap appunto, fatto che sembrava mettere una pietra tombale sulla storia degli Stones, che invece sarebbero tornati l’anno dopo con un nuovo lavoro di buon livello (Steel Wheels) e soprattutto con un nuovo tour in grande stile. Ma torniamo a Talk Is Cheap, che da molti viene considerato il miglior album di Keith (io personalmente preferisco il suo seguito, Main Offender, ma di un’attaccatura) e meglio anche degli ultimi lavori dell’epoca degli Stones (e qui sono d’accordo), un disco che vedeva finalmente un membro della storica band tornare a fare del sano rock’n’roll, dopo le porcherie danzereccie di Jagger. D’altronde Richards è sempre stata l’anima rock delle Pietre, ed in questo disco la cosa viene fuori alla grande: canzoni semplici, dirette (tutte scritte a quattro mani da Keith con il batterista Steve Jordan, che è anche il produttore) e decisamente chitarristiche e coinvolgenti. Certo, la voce di Richards non è quella di Jagger, ma il suo tono sghembo, incerto, quasi stonato è paradossalmente in grado di produrre più emozioni di una voce ben impostata ma priva di feeling (non mi riferisco a Mick, ma alla miriade di cantantucoli che già nel 1988 spopolavano nelle classifiche).

Keith è sicuramente un rocker dal pelo duro, ma a modo suo è anche un romanticone, e lo ha sempre dimostrato nelle (rare) ballate che ha scritto; in Talk Is Cheap il nostro si fa aiutare da una serie di sessionmen di gran nome, che donano al disco un suono potente e coeso: oltre a Jordan, abbiamo Waddy Wachtel alla seconda chitarra, sia ritmica che solista, Ivan Neville al piano, la vecchia conoscenza Bobby Keys al sax, oltre a partecipazioni di Chuck Leavell all’organo, Joey Spampinato, ex bassista degli NRBQ, Maceo Parker al sax alto, il grande Johnnie Johnson al piano, l’ex Stones Mick Taylor ovviamente alla chitarra e Patti Scialfa ai cori. La nuova edizione deluxe, presentata in un’elegante confezione dalla copertina dura, presenta l’album originale sul primo CD (rimasterizzato alla perfezione) ed un secondo dischetto, molto interessante, con sei brani inediti tratti dalle stesse sessions, per altri 32 minuti di musica. Esisterebbe anche una costosa versione Super Deluxe, che però non offre neppure un minuto di musica in più rispetto all’edizione “povera”, ma solo i due CD, due LP con lo stesso contenuto, i due 45 giri dell’epoca ed un libro di 80 pagine. Il CD originale inizia con Big Enough, un brano funky sudaticcio e vizioso, dal ritmo cadenzato ed il sax di Parker a punteggiare: il suono è potente ma non è esattamente una grande canzone, sembra più Jagger solista che Richards. Meglio, molto meglio Take It So Hard (il primo singolo di allora), che comincia con un riff “alla Keith” ed una ritmica tipica delle Pietre Rotolanti, un rock’n’roll coinvolgente e gioioso, con il nostro che incrocia la chitarra con quella di Wachtel.

La scattante e mossa Struggle è un’altra rock song elettrica di buon livello, un’ottima scusa per far sentire le sei corde, con un basso molto pronunciato a dettare il tempo. Irresistibile I Could Have Stood You Up, un vero e proprio rockabilly anni cinquanta con tanto di coro in sottofondo ed il formidabile pianoforte di Johnson a svettare, un brano divertentissimo sia per chi lo suona che per chi lo ascolta; Make No Mistake è invece un caldo errebi con tanto di fiati dei Memphis Horns, e la voce quasi confidenziale di Keith, imperfetta ma ricca di fascino, doppiata da quella più impostata di Sarah Dash. Ancora rock’n’roll, potente e stonesiano (ma va?), con You Don’t Move Me, con Wachtel che passa alla slide assumendo un po’ il ruolo di Ronnie Wood, ed ancora meglio è How I Wish, puro rockin’ sound 100% Stones, solita attività chitarristica goduriosa e Keith che canta anche abbastanza bene, mentre Rockawhile è più lenta ma sempre cadenzata e dall’atmosfera paludosa, quasi voodoo: non a caso una parte importante ce l’ha la fisarmonica di Stanley “Buckwheat” Dural, direttamente dalla Louisiana. Il disco termina con Whip It Up, ennesimo trascinante rock’n’roll a cui manca solo la voce di Mick (ma c’è il sax di Keys, e sembra davvero vintage Stones sound), Locked Away, evocativa e splendida ballata dal suono potente e cantata da Richards con il cuore in mano (forse il pezzo migliore dell’album), e It Means A Lot, che chiude con un funk-rock vigoroso e godibile, dall’ottimo finale chitarristico.

Nel dischetto con i sei brani bonus due sono jam sessions, intitolate semplicemente Blues Jam la prima e Slim la seconda, entrambe con una superband formata da Keith, Taylor, Johnson, Spampinato, Keys, Jordan e Leavell. E se la prima, poco più di quattro minuti, è di “riscaldamento”, la seconda di minuti ne dura ben dieci ed è assolutamente strepitosa, con una prestazione pianistica mostruosa da parte di Johnson, vero protagonista di un pezzo che da solo vale l’acquisto del doppio CD. Abbiamo poi due cover sempre dal sapore blues (con la stessa band): My Babe di Willie Dixon, soffusa, quasi jazzata e suonata con classe sopraffina, e la più “grassa” Big Town Playboy di Little Johnny Jones, dominata dalla slide di Taylor. Chiudono il CD la pimpante Mark On Me (unica canzone originale del dischetto), purtroppo rovinata da un synth anni ottanta che la fa sembrare un brano di Prince, non dei migliori, e Brute Force, un’altra jam strumentale ma stavolta senza superband, quattro minuti di chitarre in libertà. In definitiva una ristampa forse non indispensabile ma di sicuro interesse, non fosse altro che per il secondo CD, o almeno per due terzi di esso. Se invece non possedete il disco originale…ci state ancora pensando?

Marco Verdi

Un Gruppo Di Texani Anomali. The Vandoliers – Forever

vandoliers forever

Vandoliers – Forever – Bloodshot Records

Sono in sei, vengono dal Texas,  ma incidono per una etichetta di Chicago, la Bloodshot, e il disco è stato registrato in quel di Memphis. Forever è il terzo disco dei Vandoliers, band proveniente dall’area di Dallas/Forth Worth, e come molti gruppi sotto contratto con la Bloodshot il loro genere ha comunque strette parentele con lo stile alternative e punk frequentato da gruppi come gli Old 97’s, i Mekons, ma anche pescando nel passato, Jason And The Scorchers, oppure su lato più vicino al folk arrabbiato, i Dropkick Murphys. Il leader dei Vandoliers Joshua Fleming, ha anche raccontato di una recente passione per la musica country, e per Marty Stuart nello specifico, sviluppata durante un periodo di riabilitazione da un infezione alla vista, passata guardando lo show televisivo di quest’ultimo. Tutto questo quindi ci porta al fatidico cow-punk, termine abbastanza” inflazionato” che comprende influenze country, alternative rock, ovviamente punk, ma anche elementi di roots music e Americana, insomma un calderone dove confluisce un po’ di tutto.

In America hanno ricevute molte definizioni lusinghiere: dai Pogues americani, a un incrocio trai Calexico e Dropkick Murphys, ma anche Tex-Mex punk e via discorrendo. Ascoltando il loro disco tutto torna, queste influenze e rimandi naturalmente ci sono, aiutati da una formazione che affianca una sezione ritmica particolarmente grintosa ed un chitarrista diciamo energico come Dustin Fleming, che non è parente di Joshua, alla presenza di un violinista, Travis Curry e di un multistrumentista come Cory Graves, tastiere ma anche tromba, per cui tutte le suggestioni sonore poc’anzi ricordate ci sono,  per carità niente di straordinario, comunque si apprezzano almeno freschezza e vivacità confortanti per chi ama il genere. Joshua Fleming ha la classica voce vissuta e roca, temprata dal passato punk, mitigata da questa “nuova” commistione con stili meno roboanti: ecco allora il Red Dirt country energico dell’iniziale Miles And Miles, dove il violino guizzante di Curry si affianca alle chitarre ruvide e alla voce scartavetrata di Fleming, per un brano che potrebbe rimandare anche ai Gaslight Anthem https://www.youtube.com/watch?v=3eiTD0BkBbs. La galoppante Troublemaker, con il suo ritmo incalzante e la voce sgangherata ricorda appunto quasi dei Pogues  in trasferta sui confini messicani, con violino e tromba ad animare le influenze folk e tex-mex immerse in un punk barricadero. Trombe che imperversano anche in All In Black, altro brano energico, con una chitarra twangy a ricordarci i vecchi Jason And The Scorchers: insomma tutta roba già sentita, piacevole ma nulla più.

Fallen Again è nuovamente border music, non particolarmente innovativa ma con qualche spunto sonoro più interessante, a voler essere benevoli. Sixteen Years con trombe mariachi che si innestano su una base di rock americano blue collar, e con la voce urgente di Fleming e la chitarra dell’altro Fleming a menare le danze, è sempre gradevole, ma non travolgente; Shoshone Rose potrebbe ricordare un Popa Chubby (anche per il tipo di voce) convertito ad un roots-rock di stampo ’70’s e Bottom Dollar Baby vira verso un “countrabilly” più frenetico, di nuovo in bilico tra Messico e chitarre twangy. E non manca neppure una ballata “ruffiana” come Cigarettes And Rain, che comunque non dispiace, un pezzo di chiaro stampo southern, che però mi sembra sincero e partecipe, bella melodia corale e anche l’interpretazione dei due Fleming è efficace, con il violino che torna a farsi sentire; Nowhere Fast ci scaraventa di nuovo verso la frontiera con il Messico, anche se poi il sound vira verso un rock mainstream quasi radiofonico, se le emittenti FM contassero ancora. A chiudere arriva Tumbleweed, altra ballatona country-folk eletroacustica di impianto vagamente celtico, grazie al solito violino che interagisce con una chitarra elettrica più lirica del solito https://www.youtube.com/watch?v=LhLhC9TTgSc . Abbiamo già sentito tutto, ma essendoci in giro decisamente molto di peggio, diciamo sufficienza risicata con riserva.

Bruno Conti

Un Cofanetto Ideale Per Riscoprire Una Band Formidabile! Flamin’ Groovies – Gonna Rock Tonite!

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Flamin’ Groovies – Gonna Rock Tonite! The Complete Recordings 1969-71 – Grapefruit/Cherry Red 3CD Box Set

Per usare un’espressione inflazionata, i Flamin’ Groovies sono uno dei segreti meglio custoditi della storia del rock. Originari di San Francisco ed ancora in attività (il loro reunion album del 2017, Fantastic Plastic, non era affatto disprezzabile), i Groovies erano considerati una fusione tra Beatles e Rolling Stones di stampo americano, più i secondi dei primi devo dire, ma con robuste dosi di energia quasi da garage band e punk ante-litteram, specie nelle infuocate esibizioni dal vivo https://discoclub.myblog.it/2017/06/10/se-fosse-anche-inciso-bene-sarebbe-perfetto-3-flamin-groovies-live-1971-san-francisco/ . Questa la teoria, in pratica il quintetto (Roy Loney, voce e chitarra, Cyril Jordan e Tim Lynch, chitarre, George Alexander, basso, Danny Mihm, batteria) era una rock’n’roll band davvero formidabile, una vera e propria macchina da guerra che però non ebbe neppure un decimo del successo che avrebbe meritato, al punto che oggi sono considerati al massimo un gruppo di culto. Un po’ ci misero del loro: litigarono con la Epic dopo l’uscita del loro debutto Supersnazz, non si presero mai molto con Bill Graham (che all’epoca a San Francisco era un vero e proprio deus ex machina, ed averlo contro non era consigliabile per la riuscita di una carriera), ed in più decisero in maniera quasi suicida di non andare in tour dopo il loro secondo album Flamingo, dal quale non estrassero neppure un singolo.

Ora i tre album del loro periodo d’oro (oltre ai due già citati, il terzo, e secondo per l’ormai defunta Kama Sutra, si intitolava Teenage Head) vengono riuniti in un pratico boxettino e gratificati da una rimasterizzazione di tutto rispetto, oltre che dall’aggiunta di diverse bonus tracks (nessuna delle quali inedita, va detto) e di un libretto con note esaurienti. E Gonna Rock Tonite! è perfetto per riscoprire (o scoprire se non li conoscete) un gruppo che all’epoca non aveva nulla da invidiare ai giganti del genere, una serie di canzoni a tutto rock’n’roll che vi faranno godere come ricci, proposte da quella che è giustamente considerata la migliore formazione del gruppo (all’indomani di Teenage Head infatti sia Lynch che Loney lasciarono la band).

Supersnazz (1969) ci mostra subito un combo che ha voglia di spaccare tutto: l’inizio del disco è al fulmicotone, dal grintoso blues elettrico Lord Have Mercy, chiaramente figlio degli Stones e con energia da punk band, alla potente versione di The Girl Can’t Help It di Little Richard, puro rock’n’roll con un assolo magnifico, passando per la deliziosa Laurie Did It, dal sapore beatlesiano (ma con una chitarra decisamente rock e “californiana”) ed una trascinante rilettura del classico di Huey “Piano” Smith Rockin’ Pneumonia And The Boogie Woogie Flu. Ma anche le (rare) ballate non deludono, come la vibrante A Part From That, ancora influenzata dai Fab Four, e con parti orchestrali un po’ barocche; altri pezzi degni di nota sono un fulminante medley tra Somethin’ Else di Eddie Cochran ed la nota country tune Pistol Packin’ Mama, il travolgente boogie The First One’s Free, l’orecchiabile pop-rock in odore di vaudeville Pagan Rachel, con splendido piano honky-tonk, e Brushfire, tra country e psichedelia. Le quattro bonus track di questo primo dischetto sono del tutto trascurabili, essendo semplici single versions di quattro pezzi dell’album.

Flamingo (1970) è certamente il disco più “famoso” dei Groovies, ed è un altro grande album, che inizia in maniera roboante con Gonna Rock Tonite, uno strepitoso rockabilly a tutte chitarre e adrenalina, seguito dal rock-blues Comin’ After You, con un riff rubato ai Creedence. Ma il disco trasuda rock’n’roll alla Stones in diversi momenti, dall’aggressiva Headin’ For The Texas Border, con assoli incredibili ed un raro lead vocal di Lynch, la secca e cadenzata Sweet Roll Me On Down, l’irresistibile Second Cousin, che ironizza sul matrimonio di Jerry Lee Lewis con la cugina minorenne, e la bluesata Jailbait. Oltre alla splendida Childhood’s End, una country song sghemba nel miglior stile delle Pietre, e ad una scatenata cover di Keep A-Knockin’, ancora di Little Richard. E proprio le cover costituiscono il succo delle bonus tracks di Flamingo: una session del gennaio del 1971 in cui i nostri suonano alla loro maniera, cioè eccezionale, una serie di classici del rock’n’roll, pezzi che rispondono ai titoli di Shakin’ All Over, That’ll Be The Day,  Louie Louie, My Girl Josephine, Around And Around ed ancora Rockin’ Pneumonia And The Boogie Woogie Flu, il tutto completato da una jam session dal sapore blues intitolata Going Out: sensazionale.

Teenage Head (1971) è considerato da molti il capolavoro dei Groovies, ma fu anche il disco che vendette meno e creò i problemi insanabili tra i componenti della band. Un grandissimo rock’n’roll album, ed il più “stonesiano” dei nostri, a partire dal potentissimo rock-blues in apertura, High Flyin’ Baby, dominato da una slide appiccicosa e con voce più jaggeriana che mai, per proseguire con l’acustica City Lights, country song decadente e sbilenca, o ancora la superba rock ballad elettrica Yesterday’s Numbers. Non manca il puro rock’n’roll, come la strepitosa cover di Have You Seen My Baby? di Randy Newman, il saltellante rockabily alla Elvis (periodo Sun) Evil Hearted Ada, una squisita e travolgente Doctor Boogie, una pimpante rivisitazione elettroacustica del classico di Robert Johnson 32-20, o addirittura agganci agli Stooges nell’aggressiva title track. Per finire con la stupenda ballata Whiskey Woman, un mezzo capolavoro. Anche qui le bonus sono poderose riletture di classici del rock’n’roll e del blues (Scratch My Back, Carol, Rumble, una Somethin’ Else anche meglio di quella su Supersnazz, Walking the Dog), ed anche qui sono chiuse da una versione, più lunga e migliore, di Going Out. Da lì in poi i nostri, con una formazione rimaneggiata, pubblicarono altri tre album negli anni settanta (di cui almeno uno, Shake Some Action, imperdibile), uno negli ottanta ed uno nei novanta, fino al già citato Fantastic Plastic di due anni orsono, con Jordan ed Alexander ancora alla guida del gruppo.

Se non possedete già i tre dischetti in questione (si trovano comunque senza troppe difficoltà), Gonna Rock Tonite! è un cofanetto che, se siete amanti del rock’n’roll, non dovete lasciarvi sfuggire assolutamente.

Marco Verdi