Un Sensazionale Cofanetto Per Uno Dei Tour Più Famosi (e Belli) Di Sempre. Bob Dylan – Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings

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Bob Dylan – Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings – Columbia/Sony 14CD Box Set

In questi giorni, per l’esattezza dal 12 Giugno in poi (e solo l’11 in poche sale cinematografiche mondiali, in Italia la città scelta è Bologna) uscirà sulla piattaforma Netflix l’attesissimo documentario curato da Martin Scorsese Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story, che come suggerisce il titolo narra le vicende del famoso tour del 1975 di Bob Dylan con la Rolling Thunder Revue, con immagini di repertorio, sia inedite che riprese dal noto film Renaldo And Clara, diverse performances dal vivo e le testimonianze odierne dei protagonisti di allora, Dylan incluso (spero in una prossima pubblicazione su DVD e BluRay, dato che non ho intenzione di abbonarmi a Netflix solo per vedere un singolo evento). La storia della RTR è abbastanza nota: nel 1975 Dylan era a livelli di popolarità simili a quelli del biennio 1965-66, dopo la trionfale tournée dell’anno prima con The Band, lo splendido album Blood on The Tracks e la pubblicazione del doppio LP The Basement Tapes. Bob non aveva dato seguito a Blood On The Tracks con un tour, ma verso fine anno gli venne appunto l’idea della Rolling Thunder Revue, che si rivelò essere un magnifico carrozzone di musicisti di varia estrazione che girò l’America esibendosi sia in arene già usate per concerti rock che in posti meno canonici, a volte perfino senza alcun battage pubblicitario.

bob dylan rolling thunder revue box

Una sorta di “anti-tour” quindi, ma che vide il nostro autore di alcune tra le migliori performance della sua carriera, coadiuvato da una super band che vedeva al suo interno chitarristi come T-Bone Burnett, Mick Ronson e Steven Soles, il polistrumentista David Mansfield, la bravissima violinista Scarlet Rivera (scoperta da Dylan stesso mentre suonava per strada) e la sezione ritmica di Rob Stoner al basso e Howie Wyeth alla batteria. Come ciliegina, giravano con Bob artisti del calibro di Joan Baez (che tornava quindi on stage con Dylan dopo dieci anni), Roger McGuinn, Ramblin’ Jack Elliott, Joni Mitchell, Bob Neuwirth, Allen Ginsberg e Ronee Blakley, che avevano tutti, chi più chi meno, dei momenti da solista durante gli spettacoli (Bob aveva invitato ad unirsi al tour anche Patti Smith e Bruce Springsteen, che però declinarono cordialmente in quanto avevano tutti e due una carriera in rampa di lancio).

Il tour ebbe due fasi, intramezzate dalla pubblicazione nel Gennaio del 1976 dell’album Desire (registrato con il nucleo della RTR, senza gli ospiti ma con Emmylou Harris alla seconda voce): l’autunno del 1975 e la primavera del 1976, che vedeva una versione più canonica e meno pittoresca del gruppo, e con meno super ospiti (questa seconda incarnazione è quella immortalata nel live album Hard Rain). Il tour divenne leggendario quindi per le serate del 1975, grazie anche alla forte campagna per la liberazione del pugile Rubin “Hurricane” Carter (incarcerato per triplice omicidio, ma innocente per gran parte dell’opinione pubblica), campagna della quale Dylan fu uno dei principali promotori, e non solo per il popolare singolo Hurricane. Finora questa prima parte del tour, a parte il già citato film Renaldo And Clara (comunque fallimentare) era stata documentata soltanto dal quinto episodio delle Bootleg Series dylaniane (che ora viene ristampato per la prima volta su triplo vinile), un doppio CD bellissimo che però adesso viene reso completamente inutile da questo monumentale cofanetto intitolato Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings, un’opera di immenso valore artistico che è anche in un certo senso il compendio audio del film di Scorsese.

Il box, 14 CD più un libretto di 56 pagine, non ha la pretesa di documentare l’intera tournée (com’era successo per l’altro box dylaniano “a cubo” con i concerti del 1966), ma inserisce “solo” le cinque serate migliori e meglio registrate (solo la parte di Bob, non quella in cui si esibiscono gli ospiti), ma con l’aggiunta di ben tre dischetti di prove di studio mai sentite prima neanche nei bootleg, ed un CD di rarità assortite. Il Bootleg Series del 2002 è presente nella sua interezza, e così anche le quattro canzoni del raro EP 4 Songs From Renaldo And Clara, uscito nel 1978, ma il resto è inedito, ed è di qualità manco a dirlo eccezionale. Certo, non mancano le ripetizioni (le scalette dei concerti erano piuttosto rigide), non è stata inclusa la famosa “Night Of The Hurricane” al Madison Square Garden, ma direi che non ci possiamo lamentare ed anzi dobbiamo godere di queste performances, che scivolano via talmente bene che il box si ascolta relativamente in poco tempo. Last but not least, nei dischetti delle prove sono presenti alcuni inediti dylaniani assoluti (anche se alcuni appena accennati), che non verranno mai più ripresi da Bob in seguito. Ma vediamo in dettaglio il contenuto dei 14 CD.

CD 1: S.I.R. Rehersals, New York Ottobre 1975. Registrato in mono come i CD numero 2, 3 e 14 (mentre i concerti sono in stereo) questo dischetto comprende diverse takes incomplete, tra cui una versione improvvisata del traditional Rake And Ramblin’ Boy, una rara I Want You (nel senso che non appariva nelle scalette dei concerti, ed è un peccato perché prometteva bene), una countryeggiante She Belongs To Me cantata con un’insolita voce carezzevole e l’inedita Hollywood Angel, un discreto pezzo di matrice blues. Tra i brani completi abbiamo la gioiosa Rita May, un breve accenno al gospel What Will You Do When Jesus Comes? (altro inedito dylaniano), una struggente Spanish Is The Loving Tongue (doveva proprio piacere a Bob, in quegli anni la ficcava ovunque) ed una ripresa del classico di Peter LaFarge The Ballad Of Ira HayesCD 2. Come il primo, anche questo CD si occupa delle prove ai S.I.R. Studios della Big Apple: come chicche abbiamo due strepitose She Belongs To Me e A Hard Rain’s A-Gonna Fall entrambe in versione blues, un medley fantastico tra This Wheel’s On Fire, Hurricane e All Along The Watchtower e due rarità come Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts (eseguita una sola volta durante il tour) e It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding). Ci sono altre due canzoni inedite scritte da Bob, la discreta ballata pianistica Gwenevere e la toccante Patty’s Gone To Laredo (molto bella, peccato sia poi sparita dai radar), senza dimenticare una splendida If You See Her, Say Hello in perfetto stile DesireCD 3: Seacrest Motel Rehersals, Falmouth, MA. Uno dei dischetti più belli del box, solo otto canzoni ma suonate con una professionalità tale che sembrano tratte da un concerto, con gemme come la stupenda Tears Of Rage (con Joan Baez), il traditional Easy And Slow, deliziosa e commovente, tra gli highlights assoluti del cofanetto, e la rara (in questo tour) Ballad Of A Thin Man.

CD 4-5: Worcester 19/11/75. Bellissimo concerto, che inizia con una bella versione, piena e rotonda, di When I Paint My Masterpiece, per poi proseguire con una scattante It Ain’t Me, Babe  ed una ispiratissima The Lonesome Death Of Hattie Carroll, davvero magnifica. Detto di sei lucide e vibranti proposte dall’imminente Desire (Romance In Durango, Isis, Hurricane, Oh Sister, One More Cup Of Coffee e Sara) e di un’eccellente Tangled Up In Blue con Bob da solo sul palco, troviamo anche un delizioso intermezzo elettroacustico con Dylan e la Baez che armonizzano come ai bei tempi con Blowin’ In The Wind, Mama, You Been On My Mind (in puro stile country-rock) ed il traditional Wild Mountain Thyme, e Joan che resta sul palco anche per una bella cover del classico di Merle Travis Dark As A Dungeon ed una fluida I Shall Be Released. Gran finale con Just Like A Woman, Knockin’ On Heaven’s Door (in cui Bob duetta con McGuinn) ed una rilettura quasi bluegrass dell’evergreen di Woody Guthrie This Land Is Your Land, dove anche la Baez, McGuinn, Elliott, Neuwirth e la Mitchell cantano una strofa. CD 6-7: Cambridge 20/11/75. Scaletta pressoché identica a quella dei due dischetti precedenti, con la sola eccezione di Tangled Up In Blue sostituita da una toccante Simple Twist Of Fate, cantata con passione e sentimento. Dylan è in formissima e molti brani sono anche meglio che a Worcester, come per esempio When I Paint My Masterpiece, Romance In Durango, Blowin’ In The Wind e Hurricane.

CD 8-9: Boston 21/11/75, Afternoon Show. Qualche cambiamento in scaletta, come una trascinante A Hard Rain’s A-Gonna Fall dal ritmo sostenuto ed arrangiamento rock-blues, una strepitosa Mr. Tambourine Man acustica (una delle più belle mai sentite) e, nella parte con la Baez, Blowin’ In The Wind e Wild Mountain Thyme sostituite rispettivamente da una splendida The Times They Are A-Changin’ e dalla squisita I Dreamed I Saw St. Augustine, mentre Dark As A Dungeon cede il posto ad una rilettura di Never Let Me Go di Johnny AceCD 10-11: Boston 21/11/75, Evening Show. Una delle migliori serate di tutto il tour, con il ritorno della scaletta “istituzionale”, compresa anche la vivace It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry al posto di Hard Rain. Non mancano comunque un paio di chicche, cioè un’intensa interpretazione del brano tradizionale The Water Is Wide (con Joan) ed una rara riproposizione di I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met) per voce, chitarra e armonica. CD 12-13: Montreal 04/12/75. Altro concerto strepitoso e scaletta più ricca del solito, 23 canzoni contro le consuete 19/20: abbiamo in aggiunta una fluida Tonight I’ll Be Staying Here With You ed un uno-due acustico da favola con le stupende It’s All Over Now, Baby Blue e Love Minus Zero/No Limit. In più, la migliore It Ain’t Me, Babe di tutte ed altrettante grandissime versioni di Hattie Carroll, Hard Rain, Just Like A Woman, una Sara di rara intensità ed una Blowin’ In The Wind con il ritornello cantato in francese.

CD14: Rarities. L’ultimo dischetto contiene una serie di brani suonati una sola volta durante il tour, o performances comunque particolari, ed inizia con una vera gemma, una toccante One Too Many Mornings a due voci (Bob e Joan), e con Eric Andersen alla chitarra, registrata al Gerde’s Folk City di New York, locale storico del Village in cui si esibì anche un giovane Dylan nel 1961. Si prosegue con una strana Simple Twist Of Fate per sola voce, piano ed una batteria insistita (versione bizzarra, ho sentito di meglio) e con una bella Isis che il violino della Rivera rende più simile a quella finita poi su Desire. Ed ecco un po’ di rarità assortite, una serie di canzoni che vedono Bob esibirsi in acustico e registrate amatorialmente, con una qualità da discreto bootleg anche se le performance sono comunque di grande valore artistico ed i titoli parlano da soli: With God On Our Side, It’s Alright Ma, The Ballad Of Ira Hayes, Your Cheatin’ Heart di Hank Williams (questa registrata un po’ meglio, ma sembra più un rehearsal che un brano live), The Tracks Of My Tears di Smokey Robinson ed una bella rilettura del traditional Jesse James. Chiusura con una tostissima It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, incisa a New York durante il concerto “Night Of The Hurricane” e con Robbie Robertson alla chitarra solista. Un cofanetto imperdibile quindi, con un prezzo tutto sommato giusto per il contenuto (circa 70 Euro): alla fine dell’ascolto sarete talmente soddisfatti che 14 CD vi potranno sembrare anche pochi.

Marco Verdi

Una Dichiarazione Di Intenti Sin Dal Titolo: A “Sorpresa” Un Eccellente Disco! Peter Frampton Band – All Blues

peter frampton band all blues

Peter Frampton Band – All Blues – Universal Music Enterprises

Sono passati quasi 50 anni (anzi sono cinquanta proprio quest’anno) dall’uscita del primo album degli Humble Pie (celebrata recentemente anche su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2019/03/25/humble-pie-la-quintessenza-del-rock-agli-inizi-e-poi-un-lungo-lento-declino-parte-i/ ), e per l’occasione Peter Frampton torna al blues, sempre condito da una forte componente rock, ma nell’occasione, visto che si tratta di un album incentrato quasi completamente su una selezione di famosi standard delle 12 battute, ancora più rigoroso, almeno nella scelta del materiale. L’album è attribuito alla Peter Frampton Band, ovvero Adam Lester (seconda chitarra/voce), Rob Arthur (tastiere/chitarra/voce) e Dan Wojciechowski (batteria), nomi direi non celeberrimi, ma…ci sono alcuni ospiti, per certi versi anche sorprendenti, come Kim Wilson, Larry Carlton, Steve Morse e Sonny Landreth, e il risultato mi sembra quello del miglior disco di Peter Frampton, da molto tempo a questa parte, magari con l’eccezione di qualche CD dal vivo celebrativo. Il nostro amico non ha più quei bei boccoli vaporosi che erano un suo tratto distintivo, ma non ha perso il tocco eccellente alla solista, tocco che ne aveva fatto uno dei chitarristi più gagliardi in ambito rock-blues, e pure con le migliori cifre di vendita, grazie all’ottimo Peter Frampton Comes Alive, multidisco di platino con oltre undici milioni di copie vendute, ma poi anche con una serie di altri buoni dischi, soprattutto negli anni ’70.

Ma bando alle nostalgie, anzi forza con la nostalgia, visto che questa volta è per una buona causa, il blues, che sembra essere uno dei generi che stranamente (e per fortuna) non passa mai di moda: I Just Want To Make Love To You era uno dei cavalli di battaglia di Muddy Waters e Etta James, ma l’hanno incisa decine di altri artisti, in ambito rock-blues per esempio i Foghat, e Frampton, nel presentare il disco, ha ricordato che la sua passione per i brani blues è stata rivitalizzata anche dal fatto di averne suonati una manciata a serata, nel recente tour insieme alla Steve Miller Band. La versione del brano appena ricordato si situa giusto al crocevia tra quella classica di Waters, grazie anche alla presenza di Kim Wilson all’armonica, e un suono più grintoso e vicino al rock, in ogni caso una versione sapida e potente, con la ritmica sul pezzo, le tastiere ben inserite, la voce di Peter che si è irrobustita con il passare degli anni e la chitarra che lavora di fino ma anche di forza su uno dei riff più celebrati del genere. She Caught The Katy è è uno standard scritto da Taj Mahal e Yank Rachell, che ricordiamo anche nella versione dei Blues Brothers, la parafrasi (mi è scappato) di Frampton, con la chitarra molto impegnata in continui soli e rilanci, mi ha ricordato, per strane associazioni di idee, un sound alla Jeff Healey, ma anche con rimandi a certo southern rock di qualità, mentre Georgia On My Mind non si può certo definire uno standard blues, o meglio uno standard lo è di certo, e giustamente non potendo misurarsi con la versione di Ray Charles, Frampton decide saggiamente di trasformarlo in una ballata strumentale suadente e struggente, con la sua chitarra che confeziona un assolo dove tecnica e feeling vanno a braccetto con gusto sopraffino, grande assolo.

Can’t Judge A Book By The Cover in origine era stata scritta da Willie Dixon per Bo Diddley, poi negli anni, dai Cactus in giù, è diventato un must anche per i rockers, il nostro amico decide quindi di unire il riff e il drive alla Diddley con un sound più muscolare e tirato, con grande lavoro di slide che ricorda un poco i suoi trascorsi negli Humble Pie; Me And My Guitar, se la memoria non mi inganna era un pezzo di Freddie King, un altro brano ricco d vigore, con la chitarra di Frampton sempre in grande spolvero, a conferma che il tocco magico non si perde con il trascorrere degli anni, ragazzi se suona. E che dire di una ricercata e soave traccia strumentale come All Blues, tutta tecnica e tocco, un duetto jazzato dove Frampton rivaleggia con Larry Carlton a chi è più raffinato nel trattare questo classico di Miles Davis, entrambi ben spalleggiati dal piano di Arthur; eccellente anche la rilettura di The Thrill Is Gone, una fantastica versione di questa meraviglia di B.B. King, rispettosa il giusto, ma con Frampton (ottimo anche a livello vocale) e Sonny Landreth a scambiarsi licks e soli di chitarra con una fluidità quasi disarmante.

E in Going Down Slow, il duetto con Steve Morse, l’atmosfera si fa più rovente, sempre senza esagerare e trasformare il tutto in caciara, le chitarre ci danno dentro alla grande, ma il suono rimane chiaramente e decisamente ancorato al miglior blues elettrico, quasi rigoroso nel suo dipanarsi, con Peter e Chuck Ainlay, che hanno prodotto il disco negli studi Phoenix di Frampton a Nashville, optando per un tipo di suono molto caldo e ben delineato. Altro omaggio a Mastro Muddy in una vibrante I’m A King Bee, la quintessenza del Chicago Blues, anche se forse per l’occasione manca un poco di nerbo, ma è un parere personale e comunque il breve ritorno della chitarra in modalità talk box (giusto un assaggino in ricordo di Show Me The Way) giunge quasi a sorpresa, potremmo dire “Show Me The Waters  https://www.youtube.com/watch?v=NaeNQifZp5I . Gran finale con un altro super classico di Freddie King, la magnifica  ballatona Same Old Blues, suonata quasi alla Clapton https://www.youtube.com/watch?v=EuU1hwJkBRU , con la chitarra che viaggia fluida che è un piacere, ottimo finale per un album veramente bello ed inaspettato, e che mi sento di consigliarvi caldamente.

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Bello Giocare In Casa! Bruce Springsteen – Meadowlands July 25, 1992

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Bruce Springsteen – Meadowlands July 25, 1992 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Nuovo episodio degli archivi live di Bruce Springsteen e secondo show tratto dal tour di Human Touch e Lucky Town dopo quello splendido di East Rutherford del 1993. La location è la medesima (la Meadowlands Arena e la Brendan Byrne Arena sono due modi di chiamare lo stesso posto, come Stadio Giuseppe Meazza e San Siro), quindi siamo a poche miglia da casa di Bruce, ma se nel precedente concerto si era alle battute finali del tour, qui siamo appena alla seconda data (che è anche la seconda di ben undici consecutive nella cittadina del New Jersey). Quella tournée divenne famosa in quanto era la prima volta che il Boss si presentava senza la E Street Band, ma con un gruppo di buoni musicisti ribattezzati in modo un po’ spregiativo The Other Band: il chitarrista e direttore musicale era Shane Fontayne, la sezione ritmica era nella mani del bassista Tommy Sims e del batterista Zach Alford, poi c’era Crystal Taliefero che faceva un po’ di tutto tra cantare, ballare, suonare la chitarra ed il sassofono ed un gruppo di ottimi backing vocalists tra i quali spiccavano Bobby King (per anni con Ry Cooder) e Carol Dennis, all’epoca seconda moglie di Bob Dylan.

La quota E Street era rappresentata da Roy Bittan, grandissimo pianista al quale evidentemente Bruce non riusciva a rinunciare e che attenuava in parte lo shock di sentire il Boss con un suono diverso e meno esplosivo. Il triplo CD in questione è decisamente buono, in alcune parti ottimo, con Bruce che canta alla grande durante tutte le tre ore abbondanti senza neanche una sbavatura, anche se in certi momenti si sente che la band è ancora in rodaggio e non ancora pienamente “dentro” alle canzoni del nostro come sarà a fine tour (ed il live del 1993 testimonia questa differenza): stiamo parlando comunque di un gruppo superiore alla maggior parte delle rock’n’roll band in circolazione, ed il concerto risulta quindi molto godibile. L’apertura dello show, con tre dei brani migliori dei due album all’epoca usciti in contemporanea (Better Days, Local Hero e Lucky Town), è più che buona, poi la serata entra nel vivo con una superba Darkness On The Edge Of Town, nella quale si capisce perché Bittan sia indispensabile, ed una travolgente Open All Night con Bruce che inizia da solo e termina con un irresistibile coda full band a tutto rock’n’roll.

Ci sono ovviamente parecchi estratti dai due album pubblicati da pochi giorni, con l’inspiegabile eccezione di Human Touch: alcune canzoni sono ottime (la struggente ballata If I Should Fall Behind, il trascinante gospel-rock Leap Of Faith), altre buone (il coinvolgente rock’n’roll All Or Nothin’ At All, la grintosa Living Proof), qualcuna normale (Roll Of The Dice, Man’s Job) e non mancano neanche un paio di passi falsi (la brutta 57 Channels (And Nothin’ On) e l’insulsa Real Man, con un synth invadente). Nella prima parte dello show ci sono solo un paio di classici (Badlands e The River), ma troviamo anche i due pezzi migliori di Tunnel Of Love (Brilliant Disguise e la spettacolare Tougher Than The Rest, entrambe cantate con la moglie Patti Scialfa) ed una rara rilettura del brano di Wilson Pickett Ninety-Nine And A Half (Won’t Do), vero e proprio showcase per il gruppo di coristi. Finale spumeggiante con vari brani tratti da Born In The USA (la title track, che forse è quella che risente di più dell’assenza degli E Streeters, Working On The Highway, una torrenziale Glory Days e Bobby Jean), le superclassiche Hungry Heart, Thunder Road (acustica) e Born To Run e la chiusura con la toccante My Beautiful Reward.

Nel prossimo volume vedremo Bruce ancora a East Rutherford, ma stavolta con un balzo in avanti di ben vent’anni.

Marco Verdi

Una “Favolosa” Fedina Penale. Jimmy Barnes – My Criminal Record

jimmy barnes my criminal record deluxe jimmy barnes my criminal record

Jimmy Barnes – My Criminal Record – Bloodlines/Liberation Records – 2 CD Deluxe Edition

Continua il mio personale percorso di scovare e recensire le ultime uscite di artisti australiani: in questo caso parleremo di uno tra i più importanti protagonisti del rock’n’roll  “down under”, il noto rocker Jimmy Barnes, autore e cantante dalle solide radici nel rock americano classico, ma con un “background” intriso di rhythm and blues e soul di tutto rispetto https://discoclub.myblog.it/2016/07/10/supplemento-della-domenica-favoloso-vero-soul-australiano-jimmy-barnes-soul-searchin/ , il tutto a partire dalle sue prime esperienze con i Cold Chisel di oltre 40 anni fa e poi in seguito con una corposa carriera ultra ventennale da solista. Questo ultimo lavoro My Criminal Record arriva a circa dieci anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio Rage And Ruin (in mezzo è uscito anche un disco di canzoni per l’infanzia), e come sempre la qualità di scrittura delle canzoni è prioritaria per Barnes, dove la parte del leone (co-autore in sei brani) la fa il suo amico e collaboratore di lunga data Don Walker (Cold Chisel), il resto è farina del suo sacco, con l’apporto di amici intimi quali Daniel Wayne Spencer e Davey Lane alle chitarre, il genero Benjamin Rodgers al basso, Clayton Doley alle tastiere, e da una sezione ritmica composta da Warren Trout alle percussioni e da suo figlio Jackie Barnes alla batteria, per una manciata di brani di amore e rabbia sociale (18 nell’edizione deluxe, di cui due cover d’autore), che ci rimanda ai tempi gloriosi di For The Working Class Man (85), affidando il tutto al noto e fidato produttore sudafricano Kevin Shirley (Aerosmith, Journey, Dream Theather, ma anche Bonamassa, Beth Hart, John Hiatt, l’ultimo George Benson).

Le “malefatte” iniziano con il singolo My Criminal Record, un blues con un suono lunatico e una voce fumosa, a cui fanno seguito una poderosa Shutting Down Our Town dal caratteristico e noto andamento “Springsteeniano”, e una muscolosa I’m In A Bad Mood ( che ricorda il primo Mellencamp), mentre Stolen Car (The Road’s On Fire, Pt.1) ci porta su strade diverse, con un intrigante lavoro di chitarre a metà brano, canzone cantata in modo superbo da Barnes, per poi arrivare al solido “stomp-blues” di una diabolica My Demon (God Help Me) con le chitarre, steel e slide in evidenza. Si prosegue con una versione meravigliosa del classico Working Class Hero di John Lennon, accompagnata da una sezione ritmo “granitica” (e dalla vigorosa interpretazione di Jimmy),per poi  affidarsi all’introduzione pianistica di una melodiosa e nello stesso tempo grintosa Belvedere And Cigarettes, omaggiare il suo amico Chris Cheney dei Living End, con una versione deliziosa di I Won’t Let You Down, ritornare di nuovo alle sue classiche ballate con la soffusa e dolce Stargazer.

Con la martellante Money And Class, Barnes fa un tuffo nel passato quando guidava i Cold Chisel, mentre la seconda parte di Stolen Car (The Road’s On Fire, Pt.2) risulta più breve, ma viene sviluppata con un diverso arrangiamento, più veloce e grintoso, non mancano i ritmi e coretti degli anni “Stax” di una coinvolgente If Time Is On My Side (che andrebbe a pennello ad un tipo come Southside Johnny), per poi andare a chiudere con una strepitosa versione di Tougher Than The Rest di Springsteen (un autentico inno di eterna devozione per tutte le persone amate). Il bonus CD  non fa altro che aggravare la “fedina penale” del buon Jimmy, in quanto propone lo sporco “funky-soul” di una sincopata Reckless Beauty, mentre con l’energica Waitin’ On A Plane si bada al sodo, un paio di chitarre, batteria e basso (ogni cosa sembra registrata  nello scantinato di Barnes), viene riproposta una versione alternata del brano del Boss Tougher Than The Rest, con sfumature “mainstream” e interpretata se possibile in maniera ancora più grintosa, prima di consegnarsi (al carcere) con una torrenziale rilettura di I’m In A Bad Mood, con la presenza al mixer di Bob Clearmountain. Che conosciate o meno Jimmy Barnes, alla fine si ritorna sempre li, alle radici del rock’n’roll, al blues, al rhythm and blues, a tutto un mondo musicale classico, anche se visto dalle parti di un continente come l’Australia: questo My Criminal Record è comunque un lavoro da fare proprio, in primis per il genio e il talento assoluto dell’artista, poi per la qualità delle canzoni che hanno un’anima, e questa anima è testimoniata dalla forza e dalla passione di un tipo che nonostante tutte le traversie disalute (é reduce negli ultimi anni da varie operazioni a cuore aperto), rimane uno tra i più importanti protagonisti del rock’n’roll “Aussie”, anche se James Dixon Swan (vero nome di Barnes), è nato a Glasgow!

Tino Montanari

Ieri Se Ne E’ Andato Anche Dr. John A.k.a. Mac Rebennack 1941-2019 R.I.P.

Dr. John Bruce Weber

Dr. John Photo Bruce Weber

Dopo una tregua che durava da qualche tempo sono riprese le morti eccellenti.Ieri ci ha lasciati purtroppo anche Dr. John: aveva 77 anni, nato a New Orleans, si è spento per un infarto: qui sotto potete leggere quello che avevo scritto alla fine del 2017 su di lui.in relazione ai suoi anni migliori a livello musicale.

dr. john atco alnum collection

Dr. John – The Atco Albums Collection: Prima Che Sia Troppo Tardi!

Dr. John, a.k.a Mac Rebennack, è stato sicuramente uno dei musicisti più importanti generati dalla scena di New Orleans: rimanendo in un ambito contemporaneo, e senza tornare troppo indietro nel tempo, lo si può accostare a Professor Longhair, Fats Domino (e forse James Booker), tra quelli in azione dagli anni ’50, Allen Toussaint, la famiglia Neville, sia come Meters che come Neville Brothers, probabilmente anche Irma Thomas (nel passato Jelly Roll Morton, Sidney Bechet e Louis Armstrong, ma anche Mahalia Jackson, tanto per non fare nomi), fino ad arrivare ai vari Marsalis, la Dirty Dozen Brass Band, i Radiators tra i bianchi, Trombone Shorty e così via, ne ho dimenticati sicuramente molti. Ma Dr. John è certamente uno di quelli che meglio è riuscito a fondere le radici jazz e blues, con il R&B e il soul, il rock, il boogie woogie, in modo magistrale nel Gumbo: la sua carriera discografica, per certi versi parte tardi, il suo primo album solista è del 1968, quando Rebennack aveva già 28 anni, ma poi è stata ricca e feconda, con tantissimi dischi pubblicati negli anni, e a livello di ristampe del  suo catalogo è sempre stata servita discretamente bene. Gli album principali sono raccolti nel boxettino economico della Original Album Series, tuttora in produzione, che ne riporta 5 dei primi 6 (manca solo Remedies)e anche gli album singoli sono stati spesso editi in passato in edizione singola, anche se attualmente la maggior parte non sono reperibili facilmente, per usare un eufemismo.

Dr. John – The Atco Albums Collection 7 CD Warner/Rhino

Quindi questo cofanetto della Rhino che raccoglie i sette dischi del periodo Atco, quello migliore, cade proprio a fagiolo, prima che sia troppo tardi , per una volta si festeggia la carriera di un grande da vivo ((ora non più, purtroppo): ci sono Gris – Gris, Babylon, Remedies, The Sun Moon & Herbs, Dr. John’s Gumbo, In The Right Place, Desitively Bonaroo, tutti di elevato valore qualitativo con la punta di eccellenza di Gumbo, per molti il suo capolavoro assoluto. Sono usciti, con cadenza abbastanza regolare, nel periodo che va dal 1968 al 1974, vediamoli, abbastanza velocemente., ma non troppo. I primi tre escono come Dr. John, “The Night Tripper”, lo pseudonimo adottato agli inizi, quando si presentava visivamente come un incrocio tra Screamin’ Jay Hawkins con i suoi copricapi eccentrici, un santone voodoo e qualche personaggio del Mardi Gras, mentre musicalmente fondeva il R&B di New Orleans con rock psichedelico e qualche abbondante spruzzata di jazz molto personalizzato: Gris-Gris, registrato nel 1967, esce a gennaio del 1968, prodotto da Harold Battiste, una delle leggende della scena locale, e usando una pattuglia di musicisti della Crescent City che avevano tutti il prefisso Dr. nel nome, a parte Bob West, che era Senator, all’inizio non fu accolto molto bene a livello critico, ma poi, grazie anche alla presenza di  una “misteriosa” I Walk On Guilded Sprinters (di cui ricordiamo, tra le tante, le versioni poderose degli Humble Pie e di Paul Weller) ma anche Gris-Gris Gumbo Ya-Ya che introduceva in pochi tratti il suo personaggio, tra ritmi tribali e voodoo jazz, Mama Roux, una sorta di ondeggiante boogaloo (come lo chiamò Ahmet Ertegun, il presidente della Atlantic, che non voleva pubblicare l’album), o Danse Frambeaux ,tutte firmate Dr. John Creaux, e che definire bizzarre ed avventurose significa non fargli torto; tradotto, l’ascolto non è facilissimo.

Babylon, il secondo album, esce un anno esatto dopo, stesso produttore, qualche nuovo musicista, e lo stesso Dr. John che si esibisce anche alla chitarra, i tempi musicali sono sempre abbastanza strani, ma il R&B è più accentuato, per esempio nell’iniziale title-track o nella mossa Glowin’, con sonorità a tratti zappiane o alla Captain Beefheart, per la voce particolare, roca e vissuta di Rebennack; Black Widow Spider è rock psichedelico, come anche The Lonesome Guitar Strangler, mentre la lunga Twilight Zone, ha degli elementi del futuro Dr. John balladeer confidenziale.

Remedies del 1970 è l’ultimo disco come Night Tripper, prodotto da Tom Dowd e Charles Greene, contiene la lunghissima Angola Anthem, ispirata da una brutta esperienza nella celebre prigione americana, un brano dove le percussioni di Jessie Hill giocano un ruolo molto importante, con il sound che ruota intorno a un classico chitarra, basso e batteria, molto funky e continui cambi di tempo, mentre il piano è assente; in Loop Garoo, What Goes Around Comes Around, Wash, Mama, Wash, e Chippy Chippy già impera il classico suono di Dr. John, tipicamente New Orleans, mentre la lunga Mardi Gras Day è più frammentaria.

Un disco di transizione, prima di arrivare a The Sun, Moon & Herbs l’album del 1971, dove ci sono i Memphis Horns in tre brani e i fiati anche in altri pezzi, ma pure moltissimi i musicisti impiegati, tra cui nomi celeberrimi come Eric Clapton alla chitarra in molti pezzi, che si porta dietro altri componenti di Derek And The Dominos, Mick Jagger alle armonie vocali, ma pure Bobby Whitlock e Doris Troy, il suono è molto espansivo e brani come la complessa Black John The Conqueror, la deliziosa Where Ya At Mule, il voodoo blues di Caney Crow, il puro New Orleans sound di Familiar Reality e Pots On Fiyo, sono gli antenati del sound di Meters e Neville Brothers, mentre la “funerea” Zu Zu Mamou è più dispersiva. Il disco arriva ben al 184° posto delle classifiche e fa da apripista per quello che per molti forse è il suo capolavoro assoluto.

Dr. John’s Gumbo, il disco del 1972 che è un tuffo nella tradizione musicale della sua città natale, composto tutto (meno un pezzo a firma Mac Rebennack) da brani classici come Iko Iko, trascinante e con fiati e voci femminili di supporto scatenate, mentre il Dottore lavora di fino sulla tastiera del piano, e poi Blow Wind Blow di Huey Piano Smith, Big Chief un brano, anche fischiettato, di Earl Gaines, dove si apprezza l’organo di Ronnie Barron; c’è anche Somebody Changed The Lock del “Dottore”, che è una anticipazione di Such A Night o Right Place, Wrong Time, per non dire di Let The Good Times Roll, Junco Partner, Stack-A-Lee e pure Tipitina, ma vi sfido a trovare un brano scarso.

Come pure nel successivo In The Right Place, uscito nel 1973, che fu il suo disco di maggiore successo, ben 33 settimane nelle classifiche di Billboard, per il sottoscritto anche il suo suo migliore, un disco dove suonano Allen Toussaint, che è anche il produttore, i Meters, Ralph McDonald, David Spinozza, e una sezione fiati guidata da Gary Brown: la trascinante Right Place, Wrong Time, con l’assolo di Spinozza https://www.youtube.com/watch?v=fvxJxLwGOMI , Same Old Same Old, e ancora Life, firmata da Toussaint, Such A Night (che nella versione del grande fan italiano di Dr. John, Renzo Arbore, diventerà Smorza ‘è Lights), ma pure la ballata Just The Same, la super funky I’ve Been Hoodood (su cui Willy De Ville ha costruito mezza carriera, l’altra metà è grande rock), e che dire del R&B di Qualified, insomma non c’è un brano scarso, neppure a cercarlo con il lanternino.

Conclude il periodo Atco Desitively Bonnaroo il disco del 1974, che è non è affatto un brutto album, anzi, ma confrontato con i due precedenti non può reggere il paragone: Allen Toussaint e i Meters sono ancora in pista, le registrazioni avvengono sempre tra i Criteria Studios di Miami e i Sea-Saint Recording di New Orleans, l’atmosfera trasuda come al solito Funky e il tipico Gumbo sound di Dr. John, non ci sono “classici”, però i buoni brani non mancano: Quitters Never Win, una sorta di James Brown perduto, Stealin’ e What Comes Around (Goes Around) due discrete funky tunes, la ballata pianstica Me –You – Loneliness, sulla stessa lunghezza d’onda del cittadino onorario di NOLA Randy Newman o l’incalzante Mos’Scocious, che diventerà il titolo di una sua antologia del 1993 e ancora le deliziose e contagiose Let’s Make A Better World e Sing Along Song, come pure la ballata gospel-country Go Tell The People e altri brani del CD.

Insomma, per cinque euro scarsi a CD direi che questo cofanetto s’ha da avere, sia se non possedete nulla di Dr. John, ma anche se ve ne manca solo qualcuno di quelli contenuti in questo Box. Ed avrete un souvenir sonoro indelebile di uno dei più grandi musicisti della scena di New Orleans. Riposa in pace Mac!

Bruno Conti

Per Chi Ama La Chitarra Elettrica (E Robben Ford). Jeff McErlain – Now

jeff mcerlain now

Jeff McErlain – Now  – 13J Records

La prima cosa che colpisce guardando la copertina di questo album (manco a dirlo di non facile reperibilità) è la scritta “featuring Robben Ford”.  Ma non è la solita partecipazione pro forma, il chitarrista californiano appare in questo Now in ogni singolo brano del CD come seconda solista, e ha anche curato la produzione del disco (fatto rarissimo se non unico). Nel disco, oltre a Jeff McErlain e Ford, appare anche la sezione ritmica formata da Anton Nesbitt al basso e da Terence Clark alla batteria, aiutati in alcuni brani da Mike Hayes all’organo Hammond e Kendra Chantelle, voce solista nei due brani non strumentali. Il tutto è stato registrato in quel di Nashville al Sound Emporium, lo studio di Ford, con l’ausilio dell’ingegnere del suono Casey Wasner, abituale collaboratore di Robben, anche nell’ultimo Purple House.

Jeff McErlain è un musicista ed “istruttore di chitarra”, in giro per il mondo in fiere e festival (è venuto anche a Umbria Jazz), autore pure di alcuni corsi in video che trovate in rete: viene da Brooklyn, New York, e si dichiara influenzato da Jeff Beck, Eric Clapton, Allan Holdsworth, Eddie Van Halen e  Michael Schenker, ma anche da Miles Davis e John Coltrane, e ovviamente dal blues di Howlin’ Wolf e Little Walter, scoperti tramite la frequentazione con Ford. Ha già pubblicato un album nel 2009 I’m Tired, quindi questo Now è quindi il suo secondo CD: lo stile è un classico blues-rock con forti influenze fusion e la parte virtuosistica naturalmente non manca, anzi. Otto brani in tutto, alcuni firmati da McErlain, altri da Robben Ford (un paio già apparsi in passato nei dischi dei due in altre versioni,) più una cover del classico Albatross dei Fleetwood Mac di Peter Green https://www.youtube.com/watch?v=hk0rXwcodFs : It Don’t Mean A Thing si apre subito sugli interscambi scoppiettanti delle soliste di McErlain e Ford, che in quanto a tecnica non sono secondi a nessuno, c’è molto blues, ma anche lo stile virtuosistico di stampo jazz-rock di uno come Allan Holdsworth viene subito in mente in questo strumentale dal ritmo vorticoso.

Marta è più riflessiva e ricercata, una ballata raffinata dove le chitarre vengono accarezzate con voluttà, mentre It’s Your Groove, come da titolo, è decisamente più funky e risente della influenza del Miles Davis di metà anni ’70 che fu mentore del Robben Ford più jazzato di quell’epoca. 1968 è un blues, comunque sempre influenzato dalla black music e dal R&B, con le due soliste a rincorrersi di continuo, lasciando alla felpata e sognante Albatros un maggiore ricorso alla melodia, che era uno dei punti di forza di questo grande strumentale scritto da Peter Green. negli anni d’oro dei primi Fleetwood Mac. Better Things, cantata dalla brava Kendra Chantelle, è un vigoroso tuffo nel rock-blues più grintoso e sferzante, con le chitarre che si scatenano nella parte finale; Habit è lo slow blues che non può mancare in un disco come questo, sempre cantato con passione dalla Chantelle e con le due soliste che continuano a rincorrersi https://www.youtube.com/watch?v=EgrhKklA-G4 , dedicato agli amanti del Robben Ford più tecnico (per quanto anche McErlain non scherza). In chiusura Balnakiel un altro eccellente pezzo strumentale molto bluesato, dove si apprezza la bravura di Jeff che sfoggia la sua tecnica sopraffina, senza dimenticarsi di fare comunque appello ad un feeling impeccabile che sarà sicuramente apprezzato dagli appassionati della chitarra elettrica (e di Robben Ford nello specifico).

Bruno Conti

Anche In Versione Acustica La Conferma Di Una Voce Splendida. Marc Broussard – Home (The Dockside Sessions)

marc broussard home

Marc Broussard Home (The Dockside Sessions) – G-Man Records

New Orleans, e tutta la Louisiana in generale, in ambito musicale sono rimasti uno degli ultimi baluardi della buona musica, quella vera, naturale, ruspante, rispettosa della tradizioni, una barriera contro il cattivo gusto imperante nella musica attuale: gli artisti, sia quelli autoctoni che i cosiddetti “oriundi”, nati altrove ma che lì si sono stabiliti, offrono una resistenza, quasi una resilienza, verso le derive della massificazione che tendono a rendere tutto uguale ed assimilato, il mondo della rete e dei social media ha questa tendenza a fagocitare tutto (per non parlare dei cosiddetti talent) e quindi i veri talenti fanno fatica ad emergere o appunto a resistere, e diventano purtroppo sempre più piuttosto marginali. A New Orleans e dintorni non è così, la musica si respira ancora nelle strade, nei locali, nei Festival, anche se fa fatica ad uscire da quei confini: qualcuno ci prova ed insiste, come Marc Broussard, che dopo l’uno-due eccellente del 2016-2017 con Save Our Soul 2 e Easy To Love https://discoclub.myblog.it/2017/11/23/diverso-dal-precedente-ma-sempre-musica-di-classe-marc-broussard-easy-to-love/ , ci delizia con questo Home (The Dockside Sessions) che raccoglie una serie di esibizioni (molte peraltro facilmente rintracciabili su YouTube in formato video) registrate appunto ai Dockside, gli studi casalinghi situati a Maurice, sempre in Louisiana.

Un album dove Marc, con l’aiuto di pochissimi musicisti, spesso solo una chitarra acustica ed un pianoforte, non sempre insieme, ha (ri)visitato una serie di canzoni, sia proprie che classici del  soul , in una veste intima e delicata, ma non priva della forza intrinseca insita nella musica di Broussard, che è poi la sua voce: splendida, vellutata, da bianco con l’anima nera, con uno stile che per una volta è stato definito con esattezza attraverso il termine di “Bayou Soul”, un misto di R&B, funky, swamp rock, pop, blues e ovviamente soul , eseguito con una naturalezza quasi disarmante. Il nostro amico ha passato la sua giovinezza e gli anni formativi tra Carencro, dove è nato (e che era il titolo del suo secondo album) e Lafayette, dove il babbo Ted Broussard (una leggenda locale con i Boogie Kings) lo ha nutrito a pane e musica, e i risultati si sentono in ogni disco che pubblica: anche il “nuovo” Home è una vera panacea per le nostra orecchie torturate spesso da sonorità insulse e senza costrutto,  si tratta sicuramente di musica di culto, destinata a pochi, anche per la scarsa reperibilità dei suoi dischi, che però meritano sicuramente lo sforzo di una ricerca.

French Café, posta in apertura, è una canzone di David Egan (altro figlio della Louisiana, autore sopraffino scomparso nel 2016), un brano solo voce e pianoforte (il padre Ted, anche se è principalmente un chitarrista), ballata suadente e di gran classe, che, anche in questa versione più intima di quella che era presente sul disco di esordio del 2002, riluce delle sue squisite capacità interpretative, uno che in questo campo non è sicuramente inferiore a gente come John Hiatt o Delbert McClinton, tanto per non fare nomi. Broussard non tradisce neppure come autore, canzoni come le bellissime The Wanderer , con chitarra acustica aggiunta, Lonely Night In Georgia, The Beauty Of Who You Are, con i suoi altopiani vocali, la dolce e malinconica Gavin’s Song, l’intensa Let Me Leave, l’avvolgente Send Me A Sign (e le altre che non cito per brevità, ma non ce n’è una scarsa), parlano di un interprete affascinante per la sua capacità di immergersi  a fondo nell’atmosfera della canzone.

E che poi eccelle anche quando viene a confrontarsi con canzoni immortali come lo splendido blues I Love You More Than You’ll Ever Know, il brano di Al Kooper che grazie alla voce superba di Marc e alla elettrica di Ted Broussard, nonché di un piano elettrico, raggiunge livelli di intensità straordinari, poi replicati in versioni  eccezionali di Do Right Woman, Do Right Man, dove quasi non fa rimpiangere la grande Aretha, per non parlare di una mirabile Cry To Me, il capolavoro di Solomon Burke, che era già presente come bonus in Save Our Soul II, e di una splendida These Arms Of Mine, che sono sicuro il grande Otis Redding da lassù avrebbe certamente approvato. Chiude un album eccellente l’unico pezzo con la band completa, una intensa e tirata Home Anthology che illustra anche il lato elettrico di questo grande cantante. Ancora una volta, sentire per credere.

Bruno Conti

Il Ritorno Di Un Disco Bello Ma Quasi Dimenticato. Dave Mason & Cass Elliot

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Dave Mason & Cass Elliot – Dave Mason & Cass Elliot – Cherry Red/Universal CD

All’inizio del 1971 il cantante e chitarrista inglese Dave Mason, membro fondatore dei Traffic, era già entrato ed uscito ben due volte dal gruppo guidato da Steve Winwood e Jim Capaldi (ed era in procinto di unirsi a loro per la terza volta, anche se per un solo tour), oltre ad aver pubblicato l’anno prima il suo primo e più riuscito album solista, Alone Together, che aveva ottenuto anche un discreto successo. Ma Mason non era del tutto soddisfatto, ed avrebbe voluto aumentare la sua fama anche in America, e così ebbe l’idea di registrare un disco assieme a Cass Elliot (che aveva conosciuto da poco grazie ad un amico in comune), ancora molto popolare negli USA in quanto ex voce solista femminile dei Mamas And Papas. Dave entrò quindi con la giunonica cantante negli studi Record Plant di Los Angeles insieme ad un ristretto gruppo di musicisti (i noti Paul Harris e Russell Kunkel rispettivamente alle tastiere e batteria e Bryan Garo al basso) per registrare una decina di pezzi in puro West Coast style, un genere tra country e rock che all’epoca andava decisamente per la maggiore. “Mama” Cass ebbe l’onore di avere il disco accreditato a sé stessa nella stessa misura di Mason, anche se il suo contributo si limitava alle armonie vocali e con un solo pezzo cantato interamente da sola (ed anche dal punto di vista della scrittura il suo nome compariva come co-autrice in appena due brani).

Una mossa apparentemente da gentleman da parte di Dave, ma che nascondeva una certa paraculaggine in quanto il nostro sperava così di conquistare una fetta maggiore di pubblico statunitense. Dave Mason & Cass Elliot era da tempo fuori mercato (su CD era uscito brevemente nel 2008), ed ora la Cherry Red lo ripubblica con una rimasterizzazione degna di nota, pur non aggiungendo materiale extra (non so se ce ne fosse, di sicuro ci sarebbe stato dato che l’album dura poco più di mezz’ora). Ed il disco è ancora decisamente fresco e piacevole a quasi cinquant’anni dalla pubblicazione, un lavoro all’insegna di un country-rock suonato benissimo e cantato ancora meglio (c’è anche la presenza alla voce di Leah Kunkel, sorella di Cass e moglie del batterista Russell), con parti strumentali di grande finezza ed una serie di canzoni che mostrano la bravura con la penna di Mason, autore spesso sottovalutato. L’iniziale Walk To The Point è una ballata basata sul suono di chitarra e piano ed uno squisito mood californiano perfetto per l’epoca, con armonie vocali stratificate che ricordano non poco quelle di Crosby, Stills & Nash (anche se qui Mama Cass rimane abbastanza nelle retrovie). On And On è decisamente più elettrica e mossa, con un bel riff iniziale seguito da una melodia limpida ed orecchiabile che sfocia in un bellissimo refrain corale: puro pop-rock della West Coast, con l’aggiunta di una notevole performance chitarristica di Mason.

To Be Free è solare, piacevole e ha uno stile che rimanda parzialmente ai Byrds (ma quelli della fase finale della carriera), con la Elliot che si fa sentire maggiormente ed un bel finale pianistico e leggermente orchestrato, mentre Here We Go Again è di stampo più acustico e folk, ed è anche l’unico brano in cui la voce solista è esclusivamente di Cass, ancora con una sezione archi arrangiata con gusto e misura. La movimentata Pleasing You è un gradevole botta e risposta tra Dave e le sorelle Elliot (o Cohen, che è il loro vero cognome), e vede ancora il piano di Harris splendido protagonista (e Paul da lì a breve entrerà nei Manassas di Stephes Stills), Sit And Wonder è intensa e melodicamente impeccabile, una delle migliori dell’album, con un ritornello perfetto; Something To Make You Happy, nella quale i due leader duettano in maniera sicura denotando una certa intesa, è allegra ed immediata, e fu scelta all’epoca come primo singolo. Too Much Truth, Too Much Love, più intima, è dotata di un motivo delizioso ed un arrangiamento cristallino dai toni quasi caraibici, nonché di un irresistibile finale con ritmo in crescendo: bellissima. Chiudono l’album la rockeggiante Next To You, con Mason ancora ottimo alla chitarra elettrica, e con Glittering Facade, godibile e raffinata ballad contraddistinta da un vivace organo, dalle solite inappuntabili armonie vocali e da uno strepitoso finale in cui Dave rilascia un assolo acustico da applausi. Dopo questo disco la carriera di Mason continuerà fino ai giorni nostri, con ancora qualche successo minore a metà degli anni settanta, mentre Mama Cass sarà decisamente più sfortunata, in quanto un attacco cardiaco se la porterà via nel sonno nel 1974, a soli 32 anni.

Un motivo in più per non ignorare questa bella ristampa.

Marco Verdi

Un’Altra Delizia In Arrivo Dalla Louisiana! New Orleans Jazz Orchestra – Songs: The Music Of Allen Toussaint

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New Orleans Jazz Orchestra – Songs – The Music Of Allen Toussaint – Storyville Records

La musica di New Orleans non cessa mai  di essere viva e vitale, magari fa più fatica ad essere di attualità al di fuori dei confini della Louisiana. Fats Domino ed Allen Toussaint non ci sono più, Dr. John è piuttosto malandato, band come i Radiators e i Galactic di Stanton Moore si lasciano e si riprendono di continuo, dei Neville Brothers non si hanno più notizie, comunque periodicamente escono dischi che segnalano ancora la voglia di farsi sentire con dei prodotti spesso eccellenti, come il recente disco di Johnny Sansone https://discoclub.myblog.it/2019/03/18/un-bellissimo-disco-di-uno-dei-segreti-meglio-custoditi-di-new-orleans-veramente-un-peccato-che-si-trovi-con-molta-difficolta-johnny-sansone-hopeland/  o quello di George Benson per citarne un paio https://discoclub.myblog.it/2019/05/04/il-classico-disco-che-non-ti-aspetti-veramente-una-bella-sorpresa-george-benson-walking-to-new-orleans/ , o anche di non nativi locali come Mitch Woods https://discoclub.myblog.it/2019/05/31/anche-senza-amici-un-travolgente-disco-dal-vivo-in-puro-new-orleans-style-mitch-woods-a-tip-of-the-hat-to-fats/ .

Il New Orleans Jazz And Heritage Festival, più noto come Jazz Fest, si tiene regolarmente tutti gli anni a cavallo tra aprile e maggio, con frotte di musicisti di tutti i generi che ne animano i palchi e i locali più piccoli. Tra le iniziative interessanti,destinate a preservare la musica della Crescent City, è uscito anche questo Songs – The Music Of Allen Toussaint, che vuole appunto preservare la musica di uno dei cittadini più illustri ed influenti di NOLA, attraverso questo tributo realizzato dalla New Orleans Jazz Orchestra, una ampia formazione musicale che da diversi anni, quasi 17, periodicamente realizza degli album a proprio nome (questo è il quarto, registrato in studio, nel maggio del 2018), che, anche se poco conosciuti fuori dai confini della Louisiana, sono dei piccoli gioiellini destinati agli appassionati della buona musica, quella delle radici della musica americana, che partendo dal jazz della ragione sociale, tocca anche il R&B, il soul e le altre forme sonore della città della Crescent City.

Il nome più conosciuto tra i partecipanti a questo album è sicuramente quello di Dee Dee Bridgewater, che però canta solo in un paio di brani, poi gli altri sono tutti luminari locali, guidati per l’occasione da Adonis Rose, il batterista che in questo CD ha raccolto il testimone della leadership lasciata vacante dallo scomparso Toussaint nel 2016 e che ha realizzato un disco dove vengono ripresi sei brani di Allen, un paio di pezzi scritti per l’occasione e uno che era spesso eseguito da Toussaint, come la celeberrima Tequila dei Champs. L’orchestra è composta da 18 elementi, più diversi musicisti aggiunti, quindi il suono è corposo e quasi lussureggiante, estremamente godibile, ma anche complesso e raffinato: tutte le canzoni, visto l’organico impiegato, hanno sonorità da big band, pure le cosiddette “hits”, come l’iniziale Southern Nights, cantata con grande verve dal trombonista Michael Watson, che poi rilascia anche un ottimo assolo al suo strumento, doppiato dal sassofonista Ricardo Pascal, e ottimo anche l’arrangiamento in puro stile swingante.  It’s Raining era uno dei cavalli di battaglia di Irma Thomas, ma, è quasi inutile dirlo, Dee Dee Bridgewater fa un ottimo lavoro nel catturare lo spirito dell’originale, che diventa comunque più solenne e jazzata, grazie anche all’eccellente lavoro del pianista storico dell’orchestra Victor Atkins e al sax di Ed Petersen.

 WorkingIn The Coal Mine va più di groove e l’attitudine funky della canzone è più evidente, anche in questa rilettura divertita. Altro brano molto legato a Irma Thomas era sicuramente Ruler Of My Heart, qui cantata da Nayo Jones che nella “ miliardata” di musicisti impiegati nel disco non è neppure indicata nelle note, ma la canta veramente bene, per poi lasciare spazio al puro jazz made in Crescent City della parte strumentale. La divertente Java era stato negli anni ’60 il maggior successo a livello commerciale di Toussaint, nella versione di Al Hirt, e qui viene ripreso dalla tromba di Ashlin Parker, mentre Gert Town, scritta e cantata dal percussionista Gerald French, ha lo spirito Mardi Gras della città stampato nel sound, prima di passare alla bellissima With You In Mind, che in origine era cantata da Aaron Neville e qui viene proposta come un duetto tra la Bridgewater e Phillip Manuel, splendida ballata. Leon Brown ha scritto e canta Zimple Street, un pezzo che miscela con gran classe soul e swing, prima di lasciare spazio al puro divertissement danzereccio della conclusiva Tequila. Molto bello, da cercare ed ascoltare con attenzione.

Bruno Conti

Non Che Ci Volesse Molto, Ma Sono Meglio Adesso Di Prima! Brooks & Dunn – Reboot

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Brooks & Dunn – Reboot – Arista Nashville/Sony CD

Kix Brooks e Ronnie Dunn, provenienti rispettivamente da Louisiana e Texas ma da tempo trapiantati a Nashville, sono stati probabilmente il duo country più popolare di sempre, vendite alla mano almeno. Dal 1991 hanno infatti venduto svariati milioni di dischi, piazzando venti singoli e cinque album al numero uno, oltre ad essere stati protagonisti di una miriade di concerti sold out in tutta America, almeno fino alla separazione pacifica avvenuta nel 2010. Ora i due ci hanno ripensato e si sono rimessi insieme per un nuovo disco con tour al seguito, complice forse il fatto che le rispettive carriere soliste non sono mai veramente decollate (con Dunn comunque più attivo di Brooks, anche se il suo ultimo lavoro, Tattoed Heart, era una mezza porcheria): Reboot è dunque l’appropriato titolo del CD che fa ricominciare la carriera del duo, e che comprende dodici brani già pubblicati in passato come singoli, scelti senza una logica apparente, presentati in versioni nuove di zecca e con altrettanti ospiti a cantare con loro. Una via di mezzo quindi tra un greatest hits 2.0 e un disco di duetti, un’operazione commerciale tesa a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo: l’album venderà tanto solo per il fatto che i nostri sono tornati insieme ed in più servirà come pretesto per lanciare la tournée, che poi è quello che a B&D interessa veramente dato che con i dischi oggi non si arricchisce più nessuno.

Devo ammettere che non sono mai stato un fan dei due countrymen, essendo la loro tipologia di musica troppo compromessa con il suono di Nashville e quindi troppo spesso tendente al pop, ma devo anche riconoscere che in Reboot (prodotto dall’esperto Dann Huff) le cose sono state fatte con criterio, dando alle canzoni un suono sì rotondo e radio-friendly, ma con gli strumenti giusti, le chitarre che si sentono e la batteria che è autentica e non programmata. Un ulteriore punto a favore è dato dal fatto che i due hanno limitato al minimo le ballate, privilegiando i pezzi più mossi del loro repertorio: gli ospiti non è che incidano più di tanto sul risultato finale (non c’è per esempio un Willie Nelson a fare la differenza), ma Reboot resta comunque un disco gradevole, pur non cambiando la storia della musica country (ma io in realtà temevo la ciofeca). L’album inizia con la pimpante Brand New Man, che è stato anche il loro primo singolo nel 1991, un rockin’ country potente e dal refrain contagioso, oltre ad un buon impatto chitarristico e la terza voce di Luke Combs. Brett Young si unisce ai nostri per Ain’t Nothing ‘bout You, un brano dal tempo cadenzato ed un motivo forse ruffiano ma piacevole, non molto country a dire il vero ma non disprezzabile (e poi il suono vigoroso fa la differenza). Anche My Next Broken Heart, con Jon Pardi, è decisamente riuscita, un honky-tonk elettrico e divertente, dall’approccio energico e quasi rock; Kacey Musgraves è brava e raffinata, ma nonostante faccia del suo meglio Neon Moon non è un granché, anche per un arrangiamento discutibile e un po’ finto,.

Molto meglio Lost And Found, una country ballad tersa e limpida, impreziosita dall’intervento di Tyler Booth: vero country, orecchiabile e ben fatto. Hard Workin’ Man è puro rockin’ country (non li ricordavo così grintosi): chitarre in tiro ed i Brothers Osborne che portano un sapore southern nonostante vengano dal Maryland, mentre la languida You’re Gonna Miss Me When I’m Gone è perfetta per la voce gentile di Ashley McBride, e non è neppure troppo mielosa. My Maria, con Thomas Rhett, ha una buona melodia di fondo ed un suono robusto che le dona una spinta in più, Red Dirt Road vede la partecipazione del bravo Cody Johnson, ma è un lento piuttosto nella norma, a differenza di Boot Scootin’ Boogie, tra honky-tonk e rockabilly, tosta e coinvolgente quanto basta grazie anche al trio texano Midland (e c’è una bella slide). Chiusura con Mama Don’t Get Dressed Up For Nothing, con la giovane band LANCO, che è un altro country-rock dal ritmo accattivante, e con lo slow Believe (con Kane Brown), non indispensabile. Reboot non mi farà certo cambiare idea sul passato discografico di Brooks & Dunn, ma si tratta comunque di un lavoro piacevole ed in grado di soddisfare anche i palati più esigenti.

Marco Verdi