Questo E’ Blues In Giacca E Cravatta! Jimmie Vaughan – Baby, Please Come Home

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Jimmie Vaughan – Baby, Please Come Home – Last Music Company CD

Essere fratello, per giunta maggiore, di uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi non è facile, specie se fai il suo stesso mestiere: se poi tale fratello è scomparso ancora giovane in tragiche circostanze ed è diventato una leggenda, il rischio è quello di essere per sempre classificato come “il fratello di…”. Sto parlando di Jimmie Vaughan, grande bluesman e chitarrista texano, titolare di una lunga e rispettabilissima carriera prima con i Fabulous Thunderbirds e poi da solista, che per molti è ancora oggi solo il fratello dell’immenso Stevie Ray Vaughan, uno dei maestri assoluti di sempre dello strumento (personalmente lo metto nella mia Top 3 degli axemen dopo Jimi Hendrix – non sono mai stato un fan sfegatato dell’Hendrix musicista ma l’Hendrix chitarrista è inarrivabile ancora oggi – e Jimmy Page). Jimmie però se ne è sempre fregato dei paragoni ed è giustamente andato avanti per la sua strada, e d’altronde i due non avrebbero potuto essere più diversi: se Stevie Ray era un uragano che dal vivo rischiava di mandare metaforicamente a fuoco il palco ad ogni performance, l’approccio al blues di Jimmy è sempre stato più composto, classico ed elegante, pur non rinunciando anch’egli ad accendere la miccia negli spettacoli live, specie con i Thunderbirds.

Musicalmente il nostro era fermo addirittura dal 2011, anno della pubblicazione del secondo capitolo di Plays Blues, Ballads And Favorites (ma in mezzo c’è stato anche https://discoclub.myblog.it/2017/11/05/pochi-ma-buoni-ora-anche-dal-vivo-jimmie-vaughan-trio-featuring-mike-flanigin-live-at-c-boys/ ), e quindi è con grande piacere che ho accolto questo Baby, Please Come Home, nuovissimo capitolo di una discografia di tutto rispetto, album nel quale il chitarrista texano prosegue con la sua personale reinterpretazione di classici del blues e non, il tutto con la consueta classe e bravura. Infatti Baby, Please Come Home ci mostra un Jimmy in ottima forma, e che ci regala in 35 intensi minuti undici brani di blues ad alto livello, coadiuvato da una band che comprende musicisti che troviamo abitualmente nei suoi lavori ed anche qualche new entry: la sezione ritmica vede operare il batterista George Rains ed alternarsi due diversi bassisti (Ronnie James e Billy Horton), poi abbiamo l’eccellente Mike Flanigin all’organo e l’altrettanto bravo Jarrod Bonta al piano, Billy Pitman alla chitarra ritmica ed una corposa sezione fiati che dona calore e colore al disco, e che vede all’opera i sassofonisti Doug James, Greg Piccolo (quest’ultimo già con i Roomful Of Blues), John Mills e Kaz Kazanoff, i trombettisti Al Gomez e Jimmy Shortell e Randy Zimmerman al trombone.

Proprio i fiati sono grandi protagonisti di questo album e danno ancora più spessore a brani già ottimi di loro, a volte perfino “relegando” in secondo piano la chitarra del leader, che va detto non va mai sopra le righe ed offre sempre assoli brevi e misurati, restando quindi al servizio delle canzoni ed evitando qualsiasi atteggiamento da axeman fine a sé stesso. Si parte con una saltellante e ritmata versione della title track (brano di Lloyd Price), resa ancora più coinvolgente proprio dai fiati, mentre Jimmy rilascia un paio di assoli ficcanti ma assolutamente composti https://www.youtube.com/watch?v=h35qWP9GL70 . Just A Game (Jimmy Donley) è sempre cadenzata ma più lenta e vede ancora i fiati protagonisti con l’organo a rendere più caldo il suono: Vaughan non è forse il miglior blues vocalist sulla piazza, ma se la cava in ogni caso più che bene; No One To Talk To (But The Blues) nonostante sia di Lefty Frizzell viene “de-countryzzata” da Jimmy che la rivolta come un calzino e la trasforma in un bluesaccio sanguigno e davvero godibile, grazie anche alla solida performance della band, mentre Be My Lovey Dovey (scritta da Richard Berry ma resa nota da Etta James) è giusto a metà tra jump blues e rock’n’roll, con il classico botta e risposta voce/coro e ritmo sostenuto.

Decisamente trascinante What’s Your Name?, classico blues di Chuck Willis dal tempo veloce e che fa muovere il piedino, il tutto sempre affrontato in grande stile e con pregevoli assoli di sax e della sei corde di Jimmy; Hold It è una deliziosa rilettura di uno strumentale di Bill Doggett, in cui domina l’organo di Flanigin con una prestazione maiuscola, e con il nostro che rilascia un assolo in punta di dita, ed è seguita da I’m Still In Love With You (T-Bone Walker), puro slow blues dalle atmosfere afterhours ed un pianoforte dal sapore jazzato, altra prova di classe sopraffina. La mossa It’s Love Baby (24 Hours A Day), un classico inciso da mille artisti da Louis Brooks a Hank Ballard, passando per Ruth Brown e Jackie DeShannon, è blues nella sua accezione più classica, e per Jimmie è come bere un bicchiere d’acqua, So Glad è un omaggio del nostro a Fats Domino, un divertente pezzo in perfetto equilibrio tra blues ed un pizzico di rock’n’roll, con Vaughan che ci offre la miglior performance chitarristica del disco, mentre la strepitosa Midnight Hour (Clarence “Gatemouth” Brown), con grande lavoro del piano di Bonta, prelude alla conclusiva Baby, What’s Wrong di Jimmy Reed (registrata dal vivo), questa sì rock’n’roll al 100%, degno finale di un disco senza sbavature e suonato davvero a regola d’arte.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 1. Blinded By The Light Colonna Sonora Con “Inediti” Di Springsteen

blinded by the light soundtrack

Blinded By The Light Original Soundtrack – Sony Legacy – 09-08-2019

Il film uscirà nelle sale cinematografiche dal 9 agosto, e lo stesso giorno verrà pubblicata anche la colonna sonora. Perché ne parliamo? Non credo per i meriti del film, anche se ovviamente non l’ho visto: si dovrebbe trattare delle classiche storie giovanilistiche, i riti di passaggio dalla gioventù ( o dramma provocatorio, come dice il trailer) , ispirato dalla vita del giornalista inglese di origine pakistana Sarfraz Manzoor e dalla sua passione anomala per le canzoni di Bruce Springsteen, che diventa una pellicola per la regia di Gurinder Chada, quello di Sognando Beckham. Perché nel film ci sono ben 12 brani di Bruce, che ha dato il suo pieno appoggio al progetto, tanto da ripescare anche dai suoi brani inediti I’ll Stand By You, una canzone che con il titolo di I’ll Stand By You Always avrebbe dovuto fare parte della colonna sonora di Harry Potter e la pietra filosofale, il primo film della saga, ma poi per problemi di diritti non se ne fece nulla, anche se il pezzo venne stampato come promo e regalato ai dirigenti della Columbia nel 2001, anno della sua creazione.

Tra le 12 tracce di Springsteen ci sono anche altri due “inediti”: The River, nella versione registrata per i concerti No Nukes, la serata del 21 settembre 1979, ma non inserita nella colonna sonora originale e neppure nella edizione in doppio CD del 2012, ma per i fan più accaniti è stata comunque pubblicata nel doppio Live venduto direttamente sul sito di Bruce https://discoclub.myblog.it/2019/03/06/lo-springsteen-delmercoledi-due-storiche-serate-finalmente-al-completo-bruce-springsteen-the-e-street-band-no-nukes-1979/  e quindi si trova già in commercio. Non è cosi per l’altro brano dal vivo, una versione acustica di The Promised Land registrata al Concert for Valor – The National Mall, Washington DC, l’11 novembre del 2014; poi se vogliamo tra i brani “rari” c’è anche una versione dal vivo di Thunder Road dal concerto del Roxy Theater di Hollywood del 18 ottobre del 1975. Il problema per fans e simpatizzanti del Boss è che per avere questi brani bisogna cuccarsi una serie di dialoghi del cast del film, ispirati dalla musica di Springsteen, oltre a canzoni di Pet Shop Boys, A-ha e un paio di pezzi di A.R. Rahman, il musicista indiano noto per le sue colonne sonore e per la partecipazione al “funesto” supergruppo SuperHeavy, con Jagger, Joss Stone, il figlio di Marley e Dave Stewart.

Comunque ecco la lista completa dei contenuti:

Ode To Javed/Javed’s Poem – A.R. Rahman
It’s a Sin – Pet Shop Boys
The Sun Always Shines On T.V. – a-ha
“The Boss Of Us All” (dialogue)
Dancing In The Dark – Bruce Springsteen
“You Should Be Listening To Our Music” (dialogue)
“I Never Knew Music Could Be Like This” (dialogue)
*The River – Bruce Springsteen & The E Street Band (Live at Madison Square Garden, New York, NY – September 21, 1979) (previously unavailable on an album)
“Number One Paki Film” (dialogue)
Badlands – Bruce Springsteen
Cover Me – Bruce Springsteen
Thunder Road– Bruce Springsteen & The E Street Band (Live at The Roxy Theater, West Hollywood, CA – October 18, 1975)
Get Outta My Way Fascist Pigs – Amer Chadha-Patel
“Do It For Me” (dialogue)
Prove It All Night – Bruce Springsteen
Hungry Heart – Bruce Springsteen
“You, Me…and Bruce” (dialogue)
Because The Night – Bruce Springsteen
Maar Chadapa – Heera
*The Promised Land – Bruce Springsteen (Live on The National Mall, Washington, D.C. – November 11, 2014)
Blinded By The Light – Bruce Springsteen
Born To Run – Bruce Springsteen
*I’ll Stand By You – Bruce Springsteen (previously unreleased studio recording)
*For You My Love – A.R. Rahman (new original song for film)

Vedete voi, io ho riferito: come detto esce il 9 agosto.

Da oggi riprendo ad aggiornarvi, dopo una pausa dovuta ad altri problemi, non solo di tempo, con segnalazioni mirate su alcune delle più interessanti prossime uscite dei mesi a cavallo tra l’estate e l’inizio autunno, ovviamente senza interrompere i Post abituali con le recensioni, ma alternandoli agli stessi..

Bruno Conti

50 Anni Non Li Dimostrano Affatto: Il Disco Folk Dell’Anno? Steeleye Span – Est’d 1969

steeleye span est'd 1969

Steeleye Span – Est’d 1969 – Park CD

Ed anche gli Steeleye Span, storico gruppo che insieme a Fairport Convention e Pentangle forma una ideale triade di band cardini del folk-rock inglese (a mio giudizio la pur ottima Albion Band è un gradino sotto), sono arrivati a celebrare i 50 anni di attività, essendosi formati nel 1969 su iniziativa del “Governatore” Ashley Hutchings. Ma a differenza dei Fairport, che a partire dal 25° anniversario hanno festeggiato ogni lustro in pompa magna, gli Span si sono limitati a fare quello che hanno sempre fatto, cioè incidere nuova musica e pubblicare un nuovo album (il loro 23° in studio), che limita al titolo, Est’d 1969, il riferimento alla ricorrenza in questione (*NDB Almeno il 40° Anniversario lo avevano festeggiato https://discoclub.myblog.it/2010/06/24/40-anni-e-non-sentirli-steeleye-span-live-at-a-distance/). Dopo anni di album di buon valore ma in cui prevaleva il mestiere rispetto a tutto il resto, le presente decade ha visto un ritorno dei nostri ad uno stato di forma invidiabile, prima con l’ottimo Wintersmith (2013, il loro disco più venduto dal 1976) e poi con l’ancora relativamente recente Dodgy Bastards di due anni e mezzo fa, un lavoro molto valido che vedeva un gruppo in palla ed alle prese con una serie di canzoni suonate con invidiabile grinta https://discoclub.myblog.it/2017/03/23/tra-folk-e-rock-una-storica-band-britannica-sempre-in-gran-forma-steeleye-span-dodgy-bastards/ .

Ma con questo Est’d 1969 andiamo aldilà di ogni più rosea previsione, in quanto i nostri ci hanno consegnato un disco di una bellezza sorprendente, nove canzoni ispiratissime ed eseguite da una band in stato di grazia: sarà stato l’anniversario, ma non esagero se dico che sembra di essere tornati agli anni settanta, e non ho paura di eleggere questo disco come il più bello uscito finora in ambito folk nel 2019. L’unica componente del nucleo originale è come saprete Maddy Prior, grande cantante e superba interprete, mentre l’altro membro con la più lunga militanza è il batterista Liam Genokey, in quanto l’ex marito della Prior Rick Kemp ha lasciato il gruppo (per la seconda volta) all’indomani delle sessions di Dodgy Bastards: gli altri componenti attuali sono Julian Littman, chitarra, tastiere e voce solista maschile, Andrey Sinclair, chitarra, Benji Kickpatrick (figlio di John), bouzouki, mandolino, banjo e chitarra, Jessica May Smart, violino, e Roger Carey al basso. Come di consueto, gli Span prendono brani della tradizione britannica e anche Child Ballads e le adattano al loro stile, ed in questo album arrotondano il tutto con un paio di brani di origine più recente. Est’d 1969 si apre con Harvest, un brano che non posso che definire splendido, un folk-rock elettrico dalla melodia emozionante e con un refrain corale dai toni epici, un pezzo tra modernità e tradizione che riesce a coinvolgere al massimo sin dalle prime note: dopo quattro minuti il brano cambia (in effetti è una sorta di medley tra due canzoni diverse) e si trasforma in un’altra fantastica folk song dalla maggiore vena rock ma con lo stesso livello di eccellenza. Sette minuti e mezzo di puro godimento, un pezzo che da solo vale l’album (e siamo solo all’inizio).

Old Matron è una folk ballad dal sapore antico, con accompagnamento potente in cui mandolino e violino vengono suonati con grinta da rock band, ed in più abbiamo la partecipazione del flauto di Ian Anderson (che in passato aveva già collaborato con gli Span, producendo Now We Are Six), che avvicina inevitabilmente il pezzo allo stile dei Jethro Tull di album come Songs From The Wood. The January Man è una canzone scritta da Dave Goulder ed incisa in passato anche da Christy Moore (ma la versione dei nostri è ispirata a quella che un giovane Tim Hart, altro loro ex membro fondatore, usava suonare nei folk club ad inizio carriera): l’incedere è drammatico ed il passo è cadenzato e quasi marziale, con il banjo a scandire il tempo ed un ottimo e pertinente intervento di chitarra elettrica, e con la voce vissuta della Prior ad aggiungere pathos. Decisamente bella anche The Boy And The Mantle, altro lungo ed epico brano impreziosito da un motivo corale splendido, e con il suono arricchito dal delizioso clavicembalo di Sophie Yates che dona al tutto un sapore “rinascimentale”; a seguire troviamo Mackerel Of The Sea, che forse ha un suono più addomesticato ma è nobilitata dalla solita impeccabile prestazione vocale di Maddy (e poi l’atmosfera è anche qui di grande presa emotiva), mentre Cruel Ship’s Carpenter è nettamente più rock delle precedenti, una ballata elettrica che unisce una bellezza cristallina ad un approccio vigoroso, e presenta l’ennesima linea melodica notevole.

La saltellante Domestic è di nuovo uno strepitoso e trascinante folk-rock eseguito in maniera superba, ancora con un cambio di ritmo a metà canzone ed un finale decisamente rock. Il CD si chiude con la lenta Roadways, forse il brano più “mainstream” ma suonato comunque con indubbia classe, e con la breve ma toccante e suggestiva Reclaimed (scritta da Rose-Ellen Kemp, figlia di Kemp e della Prior), cantata interamente a cappella. Buon compleanno quindi agli Steeleye Span, anche se questa volta il regalo lo hanno fatto loro a noi.

Marco Verdi

Un Concerto Strepitoso E Di Grande Valore Storico. Bob Dylan – Hollywood Bowl ‘65

bob dylan hollywood bowl 65

Bob Dylan – Hollywood Bowl ’65 – Rox Vox CD

Se la celeberrima tournée del 1966 di Bob Dylan non ha ormai più segreti grazie al box The 1966 Live Recordings pubblicato nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/27/supplemento-della-domenica-forse-il-tour-piu-importante-sempre-volta-prezzo-contenuto-bob-dylan-the-complete-1966-live-recordings/ , molto più avvolta nel mistero è la seconda parte del tour svoltosi nel 1965, che si tenne in America tra la fine di Agosto e Dicembre e che vedeva alle spalle del leader una vera rock band, per la prima volta dopo la leggendaria apparizione al Festival di Newport dello stesso anno (mentre nella prima parte del ‘65 il tour, svoltosi nel Regno Unito, era stato solo acustico nonché documentato nel famoso film Don’t Look Back). I pochi bootleg in circolazione che si occupavano di quegli show erano perlopiù di infima qualità, ed anche il download omaggio offerto agli acquirenti della versione Super Deluxe del dodicesimo volume delle Bootleg Series, The Cutting Edge, non era di livello molto migliore. E’ quindi con grande sorpresa e soddisfazione che posso affermare che questo Hollywood Bowl ’65 (uno dei soliti bootleg di produzione inglese spacciati per album semi-legali) è invece inciso in maniera eccellente, ancor di più se pensiamo che all’epoca le tecniche di registrazione non erano certo all’avanguardia.

Ma la cosa che più ci interessa è la performance di Dylan, che è altrettanto splendida: Bob solo pochi mesi prima del tour del 1966 sembra quasi un’altra persona, rilassato, spiritoso e ben disposto verso il pubblico che, bisogna dirlo, accetta di buon grado la parte elettrica del concerto senza protestare come avverrà in Inghilterra l’anno seguente (ma anche in alcune date americane a seguire). La cosa si riflette chiaramente sul nostro che è molto meno teso e di conseguenza meno arrabbiato (e forse anche un po’ meno sotto l’effetto di anfetamine), e quindi anche la parte elettrica è molto più musicale e meno “fuckin’ loud” di quelle del 1966. Il CD inoltre ha una confezione quasi comparabile ai dischi ufficiali, in digipak e con un libretto interno corredato da diverse foto e la riproduzione di un articolo dell’epoca del Los Angeles Times. La serata in questione è quella del 3 Settembre, e vede Bob esibirsi nella prima parte in perfetta solitudine, solo con chitarra acustica ed armonica come era sempre stato fino a quel momento. Sette canzoni, tutti classici uno più bello dell’altro, partendo da She Belongs To Me e passando da To Ramona (versione ispiratissima), Gates Of Eden, It’s All Over Now, Baby Blue, una Desolation Row già intensa ed emozionante (l’album Highway 61 Revisited era uscito da appena quattro giorni), per finire con due splendide e cristalline Love Minus Zero/No Limit e Mr. Tambourine Man, quest’ultima troncata durante l’ultimo assolo di armonica per un difetto del nastro originale.

Nella seconda parte (dalla quale purtroppo mancano Tombstone Blues e It Ain’t Me, Babe) Bob viene dunque raggiunto da una band che è un misto tra i sessionmen di Highway 61 Revisited (Al Kooper all’organo, e si sente, e Harvey Brooks al basso) e gli Hawks, cioè i futuri The Band, che accompagneranno il nostro l’anno seguente (Robbie Robertson alla chitarra e Levon Helm, che però nel ’66 non ci sarà sostituito da Mickey Jones, alla batteria). I Don’t Believe You è molto più folk-rock e più pacata di quelle delle future setlist britanniche, con Bob che canta i versi invece di urlarli nel microfono, mentre Just Like Tom Thumb’s Blues non è molto diversa da quella in studio, una rilettura fluida e distesa. La chicca del CD è però senza dubbio From A Buick 6, rock-blues adrenalinico che, nonostante la buona riuscita (assolo chitarristico compreso), non verrà mai più ripreso da Dylan in carriera, neppure nel resto di questo tour, diventando così con sole due performance totali uno dei suoi brani più rari dal vivo (a parte la moltitudine di pezzi che non ha proprio mai suonato). Lo show si conclude con Maggie’s Farm, puro rock’n’roll con ottimo background di organo e chitarra, la già maestosa e luciferina Ballad Of A Thin Man ed il gran finale con Like A Rolling Stone, una versione davvero spettacolare con Dylan rigorosissimo al canto come non lo avevo mai sentito, ed un accompagnamento formidabile da parte della band (d’altronde avere Kooper, cioè l’uomo che aveva inventato il famoso riff di organo del brano aiuta non poco).

Un pezzo che da solo vale il CD, che comunque ha diversi altri punti a favore: performance scintillante, incisione quasi professionale e, non ultimo, un costo decisamente contenuto.

Marco Verdi

Un Set Musicale “Acustico” Suonato E Cantato Con Grande Passione. Carla Olson & Todd Wolfe – The Hidden Hills Sessions

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Carla Olson & Todd Wolfe – The Hidden Hills Sessions – Red Parlor Records

Ultimamente sono usciti sul mercato musicale una serie di dischi cantati da coppie abbastanza differenti (Brooks & Dunn, Calexico And Iron & Wine, Buddy And Julie Miller), in questo caso Carla Olson e Todd Wolfe, due veterani della musica che avevano già suonato insieme in passato, ed essendo due spiriti liberi ed affini hanno deciso di collaborare nuovamente in questo The Hidden Hills Sessions, che si rivela un lavoro gradevolissimo e prettamente acustico, in cui le voci si intrecciano in bellissime armonie. La Olson, come i nostri lettori sanno bene, ha costruito la sua carriera come cantante, compositrice e anche produttrice nella zona di Los Angeles, prima come leader dei Textones,  una grande band nata a metà degli anni ’80 ( che si sono riuniti lo scorso anno con Old Stone Gang https://discoclub.myblog.it/2018/11/01/sono-passati-piu-di-30-anni-ma-ma-non-hanno-dimenticato-come-si-fa-buona-musica-textones-old-stone-gang/ ), raggiungendo poi ulteriore notorietà collaborando con persone del calibro di Gene Clark, Mick Taylor (ex Stones), Don Henley Ry Cooder,  mentre Wolfe inizialmente ha trascorso anni in giro per il mondo suonando per Sheryl Crow, Lesile West e Stevie Nicks, e gli ultimi venti è stato in giro anche per l’Europa con la sua Todd Wolfe Band, pubblicando nove album da solista (da sentire assolutamente il torrenziale Live del 2011 https://discoclub.myblog.it/2011/03/18/dagli-states-un-grande-chitarrista-todd-wolfe-band-live/ ).

Trattandosi di un lavoro di stampo “unplugged”, Carla chitarra e voce, e Todd chitarra, mandolino e voce, si sono comunque portati nei Rancho Relaxo Studios di Hidden Hills una sezione ritmica formata dal batterista e percussionista Victor Bisetti, da Bobby Perkins e Todd Wadhams al basso, con alla consolle il duo Kim Rosen e Mikal Reid, creando un buon equilibrio in un CD composto da sette brani originali (4 di Olson e 3 di Wolfe), integrati da quattro avvincenti “covers”, il tutto con la produzione della stessa Olson. Long Road Back, la traccia iniziale, fa capire immediatamente con il suo incedere di chitarre in stile “unplugged” quale sarà il percorso sonoro del disco https://www.youtube.com/watch?v=RII-9jIsbFo , brano a cui fanno seguito il “folk-roots” sciolto di Gave It All I Got, un vecchio pezzo di Steve Winwood (quando era nei Blind Faith) ovvero Can’t Find My Way Home, in cui la coppia dimostra il proprio perfetto affiatamento, sancito anche da un omaggio alle “ceneri” dei Byrds con una scoppiettante Sideshow https://www.youtube.com/watch?v=DSGUv4IVVjE . C’è anche un recupero meritorio di un brano abbastanza “oscuro” del Mick Jagger solista, una Blue scritta con Matt Clifford di cui ignoravo l’esistenza, canzone tipicamente bluesy https://www.youtube.com/watch?v=zfzZoITRAk8 , per poi passare ad una If You Want Me dal giusto incedere “country-rock”.

Non poteva mancare l’omaggio a Gene Clark con la splendida In A Misty Morning, con il cantato delizioso di Carla e la bravura al mandolino di Todd, mentre Burn For You  è una canzone che viaggia sui consueti binari del “groove” acustico dominante in questo album. Con One Lost Love è il momento della tipica ballata californiana, con tutti gli strumenti al posto giusto, e  dove si trova pienamente a suo agio la voce un po’ mascolina della Olson, con il controcanto dell’autore Todd Wolfe https://www.youtube.com/watch?v=mZalKQVAmMQ , ancora blues acustico in una “desert song” come Light Of Day, per andare a chiudere infine alla grandissima con la cover di Wild Horses degli Stones , in cui Carla e Todd  rispettano con sensibilità la bellezza della versione originale, confermando il famoso detto “la classe non è acqua”.

The Hidden Hills Sessions è in definitiva un set musicale dal forte spirito acustico, certo niente di trascendentale, ma  composto da belle canzoni, suonate e cantate con passione con una piccola banda di musicisti, album dove trasuda il piacere quasi viscerale di fare musica con le persone giuste, a partire naturalmente da Carla Olson e Todd Wolfe. Consigliato, in quanto a mio parere il “new acoustic” potrebbe anche passare da qui.

Tino Montanari

Una Coppia Affiatata, Non Solo Nella Vita. Shovels & Rope – By Blood

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Shovels & Rope – By Blood – Dualtone CD

Settimo album in dodici anni (quinto di materiale originale, più due di covers) per gli Shovels & Rope, un duo formato dai coniugi Michael Trent e Cary Ann Hearst, che hanno iniziato ad incidere insieme nel 2008 dopo qualche anno di carriere soliste separate. Inizialmente si sarebbe dovuto trattare di un progetto estemporaneo, ma un po’ il rafforzarsi del loro legame sentimentale un po’ il fatto che i loro primi album hanno subito riscosso un buon successo di critica e pubblico, eccoci ancora qui a commentare una incisione a loro nome. By Blood prosegue il discorso musicale intrapreso più di una decade fa da Mike e Cary Ann, una musica in bilico tra folk, country e rock con brani dalla struttura perlopiù classica ma arrangiati con sonorità moderne, ed una buona predisposizione dei due a scrivere melodie fruibili ed immediate, I nostri sono poi un’autentica “two-men band” (anzi, sarebbe meglio dire “one couple band”), in quanto si occupano in prima persona di tutte le parti vocali e strumentali, facendosi aiutare da musicisti esterni solo nelle esibizioni dal vivo: anche in By Blood si conferma la tendenza polistrumentistica del duo originario della Carolina del Sud, con l’unico contributo di Daniel Coolik al violino in un brano e di una piccola sezione fiati in un altro.

Mike si occupa anche della produzione, e By Blood si rivela essere un dischetto molto gradevole e ben eseguito, che non deluderà chi già conosce lo stile dei nostri, mentre potrebbe anche contribuire ad allargare nuovamente i loro orizzonti dopo che il precedente album Little Seeds (2016) non aveva bissato il successo di Swimmin’ Time del 2014, ad oggi il lavoro più popolare degli S&R. I’m Comin’ Out è un inizio molto particolare, un folk-rock corale e gradevole dal punto di vista melodico ma con il contrasto di un accompagnamento sghembo e modernista, una chitarra elettrica distorta sullo sfondo, ritmo cadenzato e suono potente, una miscela strana ma che tutto sommato funziona. Mississippi Nuthin’ va più sul tradizionale con una chitarra acustica strimpellata con forza, un motivo a due voci decisamente immediato e piacevole ed un ritmo sostenuto: una buona canzone, che potrebbe ricordare lo stile dei Lumineers, ma Mike e Cary Ann sono meno eterei e più concreti https://www.youtube.com/watch?v=mMKxTjo21bI . The Wire inizia con chitarra elettrica e batteria che sembra che vadano ognuna per conto suo, poi i nostri cominciano a cantare e tutto va a posto, con notevole aumento dell’energia rock nel refrain https://www.youtube.com/watch?v=7jpgvPwC7RA , C’Mon Utah! è invece una folk ballad limpida e dal sapore classico, ottima melodia ed un evocativo assolo di armonica, una bella canzone con un retrogusto anni settanta.

Carry Me Home inizia pianistica e lenta, le voci sono sempre all’unisono ed il motivo di fondo è toccante, con una leggera ed apprezzabile aura pop. Twisted Sisters è dotata di un’atmosfera anni sessanta, anche se i nostri cantano in maniera grintosa (soprattutto Mike), ma il motivo di fondo è bello e ad un certo punto spunta persino una sezione fiati mariachi, mentre Good Old Days è davvero un’ottima canzone, una distesa ballata tra folk e cantautorato puro, intensa, struggente e guidata da piano, organo ed una splendida chitarra acustica. https://www.youtube.com/watch?v=LjQomuXEnf8  Pretty Polly non è il traditional dallo stesso titolo ma un brano nuovo di zecca, una rock song elettroacustica dal ritmo e melodia coinvolgenti ed un suono vigoroso, Hammer, aperta da un violino, è una country song decisamente (e volutamente) sgangherata, ma anche creativa e particolare, mentre il CD si chiude con la title track, una ballata acustica molto bella e profonda, una delle più toccanti e riuscite dell’album https://www.youtube.com/watch?v=bRcm2HFKZsU . Non sono mai stato un acceso fan degli Shovels & Rope, ma non li ho mai neppure osteggiati, e devo dire che un disco come By Blood è gradevole, ben fatto e meritevole di attenzione.

Marco Verdi

Un Duo Decisamente Interessante, Lei Una Voce Affascinante. Native Harrow – Happier Now

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Native Harrow – Happier Now – Different Time Records/Loose Music

I Native Harrrow si presentano come un gruppo, ma come lascia intuire la foto di copertina di questo Happier Time, il “loro” terzo album, che ritrae le gentili e delicate fattezze di Devin Tuel, in effetti si tratta principalmente della creatura di questa musicista dell’area newyorchese, benché abilmente supportata dal membro maschile del gruppo, che c’è e risponde al nome di Stephen Harms, il quale suona tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, basso e batteria, lasciando a Devin “solo” la composizione dei brani, la voce solista e una chitarra acustica, che sono poi forse le componenti essenziali di questo sodalizio artistico. La prima cosa che balza all’occhio, anzi all’orecchio, è la bellissima voce della Tuel, non quelle vocettine sospirose che spesso vengono identificate con questo tipo di neo folk alternativo, quanto una cantante affascinante, con un timbro corposo e dalle sofisticate nuances sonore, che se non pareggiano quelle di Joni Mitchell o Sandy Denny (e ce ne vuole) comunque si muovono su quelle coordinate folk-rock anni ’70, che intersecano anche le sonorità dei Fairport Convention o di Nick Drake.

Tutte citazioni e rimandi che ci stanno, ma forse caricano di aspettative eccessive, sia gli ascoltatori, che la comunque brava Devin Tuel, una che da giovane voleva diventare una ballerina classica, poi ha studiato da cantante d’opera, ha passato un momento in cui avrebbe voluto essere Patti Smith, prima di ritirarsi nel suo appartamento al Greenwich Village a New York e, sotto il nome d’arte di Native Harrow,  approdare a questo terzo album, registrato in quel di Chicago ai Reliable Recorders Studios, con la co-produzione di Alex Hall (JD McPherson, The Cactus Blossoms, Pokey LaFarge), album che conferma le buone impressioni dei primi due e contiene tutte le indicazioni ed i rimandi ricordati finora. Il disco in effetti è già uscito da Aprile negli States (e per il download è comunque disponibile), con la stessa distribuzione indipendente dei primi due, ma in Europa, tramite l’etichetta Loose, vedrà una circolazione più curata dai primi di agosto: l’iniziale Can’t Go On Like This, pervasa nel testo dalla puntura della precarietà, musicalmente illustra subito questo suono ricco e ricercato, percorso dalla vocalità sicura e ricca di sfumature della Tuel, deliziosa e sinuosa nel suo approccio, mentre chitarre e tastiere e una ritmica basica, ma comunque presente, avvolgono questo fascinoso strumento che è appunto la sua voce, attraverso un folk-rock vibrante e delizioso, che poi sfocia in How You Do Things, che è il brano più vicino alla Joni Mitchell del periodo Court And Spark, malinconica ma assertiva.

Blue Canyon è un omaggio a quella California immaginata, ma forse mai vissuta, un brano acustico, sognante e intimo, che mi ha ricordato certe cose di Nick Drake, sempre per quella melancolia di fondo che si respira nella canzone; e anche se Happier Now, nonostante il titolo, non trasuda felicità, è comunque un altro bell’esempio della musica soffice e delicata, ma complessa, che si respira negli arrangiamenti raffinati dei Native Harrow, sempre con quella deliziosa voce a galleggiare leggiadra, anche con qualche acrobazia vocale appena accennata. Hard To Take è quella che più si ispira al Van Morrison dei primi tempi, con qualche retrogusto à la Ryley Walker, pur se l’approccio è comunque tipico di una unicità femminile, con Something You Have, che, grazie al bellissimo suono vintage di un organo Hammond, rimanda magari alla Band o alla musicalità più influenzata dal soul di una Laura Nyro meno infervorata.

Arc Iris è più elettrica e mossa, con strati di voci sovraincise e una maggiore urgenza nell’approccio sonoro, grazie alla solista di Harms più presente, mentre Hang Me Out To Dry, dal titolo ironico, con la sua chitarra acustica arpeggiata e un cantato più laconico, ha sempre quelle improvvise aperture “mitchelliane” a nobilitarlo, ed è un altro eccellente esempio della vocalità di Devin, che poi si estrinseca al massimo nella lunga e conclusiva Way To Light, una sorta di fantasia agra ed ironica sulla ricerca di una sontuosa ed ipotetica stabilità, brano che secondo alcuni ricorda il giro musicale di Dear Prudence dei Beatles, ma poi nel calderone sonoro introduce anche una ricorrente e pungente slide che punteggia i crescendo sonori e vocali di questo complesso ed articolato brano, uno tra i più interessanti di questa nuova e valida proposta da inserire nel filone folk-rock e tra i nomi da ricordare.

Bruno Conti

E Da Questo Disco In Poi La Sua Carriera Cambiò Passo! Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary

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Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary – Craft/Universal CD

All’indomani dello scioglimento dei Blasters avvenuto a metà degli anni ottanta, tutti avrebbero scommesso su una fulgida carriera del cantante del gruppo, Phil Alvin, che invece si infilò in un vicolo cieco ed è tuttora fermo a County Fair 2000 del 1994 (anche se ci sono state reunion sporadiche con gli stessi Blasters, con o senza Dave Alvin, ed i due recenti album proprio in duo con il fratello). Quello che invece ha avuto un percorso costante e fatto di album di qualità media sorprendentemente alta è stato proprio Dave, che nei Blasters era il chitarrista e l’autore delle canzoni: mancava la voce, ma fin dal suo debutto solista Romeo’s Escape (Every Night About This Time in Europa) rivelò di possederne una bellissima, profonda e baritonale, completamente in contrasto con quella nasale ed un po’ chioccia di Phil. I due lavori successivi, Blue Blvd. e Romeo’s Escape, erano due ottimi esempi di rock americano al 100%, ma è con King Of California del 1994 che Dave fece il botto (di critica, non di vendite purtroppo), un album davvero splendido, uno dei primi e più fulgidi esempi di quel roots-rock che nei primi anni novanta andava per la maggiore in decisa contrapposizione con l’imperante movimento grunge. Prodotto da Greg Leisz, King Of California vedeva Dave rivisitare alcune pagine del suo passato, proporre una manciata di cover ed anche introdurre un paio di pezzi nuovi, ma con un approccio perlopiù acustico ed una visione che andava dal folk al blues al country, in cui il rock veniva solo sfiorato.

Da lì in poi Dave venne giustamente considerato come uno dei principali esponenti del rock d’autore made in USA, ed oggi la Craft, etichetta distribuita dalla Universal (in origine il CD uscì per la Hightone), ristampa quel disco fondamentale per il venticinquesimo anniversario, rimasterizzandolo ad arte ed aggiungendo tre bonus tracks. E, se possibile, King Of California è cresciuto ancora in tutti questi anni migliorando ulteriormente: le sonorità cristalline ad opera di Dave (che qui suona solo la chitarra acustica) e di Leisz, superbo musicista che si occupa di tutti ali altri strumenti a corda, risplendono magnificamente anche a distanza di cinque lustri, grazie alla bravura degli altri sessionmen coinvolti (tra cui segnalerei Bob Glaub e James Intveld al basso, Donald Lindley alla batteria, Skip Edwards alla fisarmonica ed organo e Steve Van Gelder al violino) e soprattutto alla bellezza delle canzoni. Come ho accennato prima i brani nuovi sono soltanto due ed il primo è proprio la title track con la quale inizia l’album, una splendida folk ballad con il vocione caldo di Dave a tessere un motivo che profuma di tradizione, con il solo accompagnamento di una chitarra acustica arpeggiata con forza, la slide acustica e il mandolino di Leisz ed una leggera percussione; anche meglio Goodbye Again, meravigliosa canzone dal sapore messicano in cui Alvin duetta con Rosie Flores (che è anche co-autrice del pezzo), una melodia cristallina e grande lavoro di fisa di Edwards: grandissimo brano, me lo ero (colpevolmente) dimenticato.

Dave ripropone anche un paio di pezzi dai suoi primi album solisti: Fourth Of July rimane una splendida canzone anche in questa versione più roots, con ritmo sempre sostenuto ed ottime parti di chitarra (l’elettrica è di Leisz) ed organo, ed anche Every Night About This Time non è da meno neppure in questa rilettura lenta ma piena di pathos, dotata di un crescendo degno di nota. Alvin ci delizia poi con quattro cover: una gustosa East Texas Blues (di Whistlin’ Alex Moore) eseguita in totale solitudine, voce e chitarra alla Mississippi John Hurt, una bellissima Mother Earth di Memphis Slim, sempre blues ma con un godurioso arrangiamento a base di slide acustica, mandolino, basso e batteria (e sentori di old-time music), la tenue Blue Wing, scritta dall’amico Tom Russell ma fino a quel momento inedita (un tipico pezzo del cantautore californiano, con profumo di frontiera), ed uno splendido duetto con Syd Straw sulle note di What Am I Worth (vecchio brano di George Jones), versione formidabile che mantiene intatto lo spirito country dell’originale. Dulcis in fundo, Dave riprende in mano cinque canzoni dei Blasters, a partire da Barn Burning, originariamente una robusta rock song che qui viene spogliata di ogni parte elettrica ma mantiene il suo approccio coinvolgente, diventando uno scintillante boogie acustico (con sezione ritmica) degno di un consumato bluesman. Bus Station diventa una deliziosa country ballad con tanto di steel e fisarmonica, Little Honey un folk elettrificato di grande forza e guidato dalla slide elettrica di Leisz, degna di Ry Cooder, mentre (I Won’t Be) Leaving è un lento fluido e disteso.

Ma il vero capolavoro di re-interpretazione è senza dubbio la celebre Border Radio, che da scatenato rock’n’roll si trasforma in una folk ballad lenta e di incredibile intensità, con solo due chitarre, un basso ed un feeling enorme: praticamente un’altra canzone. Le bonus tracks iniziano con l’inedita Riverbed Rag, squisito strumentale di stampo bluegrass, un brano originale di Dave che sarebbe stato benissimo nell’album del 1994, con Leisz strepitoso al dobro; The Cuckoo è un traditional in duetto con Katy Moffatt (tratto da un album della cantante texana), bellissima e folkeggiante, mentre il CD si chiude definitivamente con la toccante rilettura da parte di Dave di Kern River, brano di Merle Haggard di recente incluso anche nel tributo dedicato dalla Ace al grande countryman, Holding Things TogetherKing Of California si conferma quindi in tutto il suo splendore anche dopo 25 anni, anzi forse è ancora più bello: se uscisse oggi sarebbe disco dell’anno a mani basse.

Marco Verdi

Questi Cognomi Mi Dicono Qualcosa! The Allman Betts Band – Down To The River

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The Allman Betts Band – Down To The River – BMG CD

Nel mondo della musica internazionale essere figlio d’arte di grandi artisti è un po’ come ricevere il bacio della morte, nonostante ci siano vari casi di ottimi musicisti che però non arriveranno mai ad eguagliare le gesta dei padri (come Jakob Dylan, Rosanne Cash, Hank Williams Jr., A.J. Croce, Norah Jones e Jeff Buckley, quest’ultimo l’unico che forse ce l’avrebbe potuta fare ma non lo sapremo mai). Se poi sei il figlio di Gregg Allman e decidi di formare una band di southern rock dimostri di avere una buona dose di coraggio, se poi quella band la crei in società con il figlio di Dickey Betts il coraggio si trasforma in sfrontatezza, se poi ancora decidi di chiamare il gruppo The Allman Betts Band (cioè con lo stesso acronimo di “quelli là”), allora te la vai a cercare. Eppure questo è proprio il caso di Devon Allman, secondogenito di Gregg e già titolare di diverse esperienze musicali (tra cui Honeytribe, Royal Southern Brotherhood ed apparizioni nelle band di papà, sia Allman Brothers Band che Gregg Allman Band), che ha deciso di formare un nuovo gruppo con Duane Betts, figlio del grande Dickey, e battezzandolo proprio in modo da rendere facile l’associazione con la storica band dei due genitori (i quali a differenza dei figli, negli ultimi anni, cioè dall’ultimo allontanamento di Betts dagli ABB fino alla morte di Gregg avvenuta nel 2017, non si sono più rivolti la parola).

In realtà i due avrebbero potuto anche aggiungere un terzo cognome nel moniker del gruppo, in quanto il bassista è Barry Oakley Jr., che è proprio il figlio del membro originale della prima versione della ABB, scomparso tragicamente un anno dopo il mitico Duane Allman ed in circostanze analoghe. Eppure io ero fiducioso sull’esito di questa nuova collaborazione, dato che in certi casi buon sangue non mente, ma con tutto l’ottimismo possibile non pensavo di trovarmi tra le mani un lavoro come Down To The River, che posso definire senza mezzi termini un grande disco. Il gruppo infatti ha un suono solido e grintoso, ed è formato da gente che dà del tu agli strumenti, oltre a suonare con una dose enorme di feeling: Devon e Duane si alternano sia al canto che alle chitarre ritmiche e soliste, ben coadiuvati da Johnny Stachela, terzo chitarrista che si destreggia anche alla slide (rispettando quindi la tradizione sudista di avere tre potenziali solisti nel gruppo), il già citato Oakley al basso che fornisce un background potente insieme al batterista John Lum ed al percussionista R. Scott Bryan, mentre il piano e l’organo sono suonati dall’ottimo Peter Levin che però è esterno alla band (ma in un brano, Good Ol’ Days, c’è il grande Chuck Leavell).

Prodotto da Matt Ross-Spang, Down To The River è dunque un disco sorprendente per la sua bellezza, anche perché rivela un’indubbia capacità dei due leader di scrivere brani di notevole spessore (sette dei nove pezzi totali sono originali); il suono è tipicamente sudista, ma con un approccio più rock e molto meno blues rispetto al mitico combo dei loro padri: diciamo che il filone è più quello dei Blackberry Smoke e degli Sheepdogs, anche se qui siamo un gradino sopra e comunque in più di un brano si intuisce una tendenza alla jam session che dal vivo porterà i nostri a dilatare parecchie canzoni, che qui hanno tutto sommato una durata abbastanza contenuta (tranne che in un caso). L’inizio è a tutto rock con la coinvolgente All Night, un robusto boogie elettrico molto trascinante, in cui Allman mostra di avere la voce giusta (soul e “negroide” sullo stile di quella di Gregg) e le chitarre dardeggiano che è un piacere, con un assolo centrale decisamente southern. Se la voce di Devon ricorda quella del padre, lo stesso si può dire di quella di Duane rispetto a Dickey (un timbro quindi più “country-rock”), e lo sentiamo subito nella limpida Shinin’, caratterizzata da una ritmica potente ed uno sviluppo fluido, con chitarre ed organo a stendere un tappeto sonoro di tutto rispetto, mentre Betts Jr. intona una melodia diretta e piacevole, mentre Try è un rock’n’roll altamente godibile ed immediato, dalle sonorità ruspanti e le solite ottime chitarre.

La title track è splendida, un gustoso e caldo pezzo tra southern soul ed errebi, superbamente eseguito e con un motivo calibrato alla perfezione, e precede l’highlight del disco, cioè una cover di quasi nove minuti di Autumn Breeze (un brano del soul singer Homer T. Williams), qui rivisitata in una sontuosa chiave rock, una cavalcata elettrica che parte lenta e cresce man mano che prosegue, una canzone-jam che dal vivo farà certamente faville: formidabile la prestazione dei tre axemen del gruppo. Good Ol’ Days è una piacevole rock ballad con leggeri elementi country, l’organo di Leavell che ricama da par suo, un’ottima slide ed una melodia tersa ed ariosa, mentre Melodies And Memories è puro southern rock dal refrain corale vincente ed ancora punteggiata da una slide tagliente. Il CD volge al termine, giusto il tempo per una splendida e toccante versione del classico di Tom Petty Southern Accents, una grande canzone che i nostri non devono far altro che interpretare alla loro maniera (cioè benissimo, con solo voce, piano e slide), e per Long Gone, sei minuti e mezzo di vibrante soul-rock, una ballatona di grande impatto emotivo in cui i due leader si alternano alla voce solista e poi ci deliziano con una coda strumentale strepitosa.

Non era facile ben figurare avendo l’ombra ingombrante di due giganti come Gregg Allman e Dickey Betts alle spalle, ma direi che i due figlioli hanno portato a casa il risultato pieno, e quindi posso affermare senza paura di essere smentito che la ABB è tornata!

Marco Verdi

Sempre Della Serie Non Solo Blues. Keb’ Mo’ – Oklahoma

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Keb’ Mo’ – Oklahoma – Concord/Universal

Cosa c’entra Keb’ Mo’ (o Kevin Roosevelt Moore se preferite) con l’Oklahoma.? In effetti il nostro amico è nativo di Los Angeles, è lì ha sempre vissuto, fin quando nove anni fa non si è trasferito nel Tennessee, e quindi non dovrebbero esserci punto di contatto, ma in questo album la title track nasce da un incontro di Keb Mo con Dara Tucker, una musicista nativa americana, con uno stile tra jazz e soul: i due hanno scritto insieme questo brano, nato da una visita allo stato nel 2013, luogo di catastrofi naturali, tornado e una ricca storia anche musicale (il famoso Tulsa sound) che ha intrigato Kevin tanto da unire le forze con la stessa Tucker, che da lì proviene. Il risultato è un brano dove pure il produttore Colin Linden ci mette del suo nel forgiare lo stile di Keb Mo, che parte dal blues, ma poi è un ibrido di vari generi, con l’aiuto di alcuni amici, tra cui la lap steel di Robert Randolph, al solito brillantissima anche in modalità wah-wah, il violino di Andy Leftwich, le armonie vocali della stessa Tucker, e tutti gli altri musicisti che suonano nel disco, dal bassista Eric Ramey, a diversi batteristi e tastieristi che si alternano nel corso dell’album. Che al solito dà spazio anche alle 12 battute ibride dell’iniziale I Remember You, un pezzo scritto con Bill Labounty, grande praticante negli anni ‘70 dello stile solare che frequenta anche il musicista californiano, un brano raffinato e sapido che va molto di groove, tra chitarre e tastiere sinuose, il tutto guidato dalla sua splendida voce https://www.youtube.com/watch?v=us1klKNsFbM .

Tra i tanti ospiti che si alternano nell’album, per esempio nel gagliardo inno femminista, scritto insieme a Beth Nielsen Chapman, e che risponde al titolo Put Woman In Charge (non una cattiva idea) appare anche Rosanne Cash, per una galoppante cavalcata dove lo spirito gospel è fortissimo, ma la figlia del grande Johnny è la perfetta e sorprendente controparte per la voce calda e maschia di Keb’ Mo’, veramente un piccolo gioiello a livello musicale, mentre This Is My Home è una delle sue tipiche ballate, più intimiste e con un arrangiamento quasi minimale, con le armonie vocali affidate alla pop star latina Jaci Velasquez, per un pezzo che tratta con delicatezza il tema dell’immigrazione https://www.youtube.com/watch?v=9Irip5pIRb4 , mentre un’altra voce femminile è quella di Robbie Brooks Moore, che duetta con il marito nella conclusiva e delicata Beautiful Music, una dolce ballata d’amore dove le due voci si intrecciano, accompagnate solo dalla chitarra acustica in fingerpicking di Kevin, con gli archi che entrano nella parte finale. Ma non manca una collaborazione con l’amico Taj Mahal, insieme al quale lo scorso anno ha vinto il Grammy nella sezione Blues per  lo splendido TajMo https://discoclub.myblog.it/2017/07/28/il-disco-blues-dellanno-forse-no-ma-soltanto-perche-non-e-solo-blues-taj-mahal-keb-mo-tajmo/ , il brano scritto insieme a Colin Linden si chiama Don’t Throw It Away, una canzone che è una sorta di inno ambientale, dove Taj suona anche il basso e contribuisce con la sua armonica a quel sound New Orleans https://www.youtube.com/watch?v=BBI50CxQ1co , ritmato e divertito, con un mandolino malandrino, a dispetto dell’argomento serissimo, il tutto trattato comunque con leggerezza.

The Way I nel testo parla del grande problema della depressione, mentre a livello musicale è un’altra di quelle deliziose e struggenti ballate avvolgenti che Keb ci sa regalare con assoluta naturalezza, mentre Ridin’ On A Train è il pezzo più tirato del CD, con un riff ricorrente e la batteria che spinge il ritmo, mentre l’acustica in modalità slide aumenta il sapore blues di questo eccellente tuffo nel le 12 battute più canoniche, per quanto sempre con il suo approccio particolare. I Should’ve è più divertente e divertita, con un drive dove ci sono pure chiari elementi country  e l’armonica suonata dallo stesso Keb Mo la rende leggiadra e godibilissima; manca ancora la ritmata Cold Outside, altro pezzo decisamente di impianto più rock, con un bel assolo di chitarra elettrica nella parte centrale, pure questo tipico di uno stile più cantautorale, filone che non manca mai nei suoi album. Quindi un disco assolutamente piacevole, per sintetizzare con quanto diceva Nero Wolfe al suo assistente Archie Goodwin, “soddisfacente”!

Bruno Conti