Dopo Quasi 50 Anni Ancora Insieme Per Un Concerto Esplosivo. Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre

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Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre – 2 CD/DVD Rhino Records/Warner

I Doobie Brothers sono sempre stati un formidabile gruppo dal vivo, ma forse non avevano mai pubblicato un album che rendesse pienamente merito alla loro reputazione di  live band: in effetti negli anni sono usciti vari dischi registrati in concerto, l’ultimo come data, nel 2011, quello al Greek Theater, inciso però nel 1982, quindi il più recente rimane il Live At Wolf Trap del 2004. Questa volta però le cose state fatte per bene: dopo il tour del 2018 (fatto insieme agli Steely Dan), perché i Doobies hanno comunque continuato a suonare dal vivo senza soluzione di continuità dall’ultima reunion del 1987, poi ribadita nel 1997, quando è entrato nella formazione in pianta stabile come terzo chitarrista, cantante e violinista, John McFee, già presente nell’era Michael McDonald, quando però Tom Johnston era stato poco presente e Patrick Simmons era in ogni caso in un ruolo più subalterno rispetto a McDonald. Dicevo che per l’occasione tutto è stato organizzato alla perfezione; questi sono i Doobie Brothers rock, al limite aggiungendo gli immancabili elementi soul e country, ma si tratta di quelli più energici e gagliardi, quindi oltre ai tre leader, per la serata speciale al Beacon Theatre di New York del 15 novembre dello scorso anno (replicata anche la serata successiva), troviamo Ed Toth alla batteria (ex Vertical Horizon) e Marc Quinones (ex Allman Brothers) alle percussioni, che con il bassista John Cowan completano la sezione ritmica, il grande Bill Payne alle tastiere, Marc Russo al sax, che per l’occasione è raggiunto da Michael Leonhart, tromba, e Roger Rosenberg, sax baritono, della sezione fiati degli Steely Dan.

Il risultato finale è strepitoso, in quanto nella serata speciale, definita “One Night, Two Albums” il gruppo esegue integralmente Toulouse Street e The Captain And Me, i due dischi migliori della loro discografia, il tutto ripreso e registrato splendidamente a livello sonoro, con Bob Clearmountain che ha curato il mixaggio. E anche l’impatto di insieme è veramente gagliardo: sin dalle prime note di Listen To The Music si capisce che sarà un grande concerto, il riff inconfondibile di chitarra, l’organo di Payne ad accarezzare la melodia, con le splendide armonie vocali quasi meglio dell’originale, Johnston ha ancora una voce formidabile, e le chitarre cominciano a scaldare i motori subito, che partenza fantastica, con il pubblico che sta già godendo. Anche Rockin’ Down The Highway è una macchina da guerra rock perfetta, con le chitarre arrotate e Payne che è passato al piano per un altro brano impeccabile; pure le canzoni meno note, alcune mai eseguite in concerto, come l’elettroacustica e caraibica Mamaloi, dove si gustano le percussioni di Quinones, e l’altro pezzo di Simmons, dedicato a New Orleans, come la bellissima Toulouse Street, in cui McFee è impegnato al violino, ben sostenuto dal sax di Russo, sono notevoli. E ancora eccellenti Cotton Mouth, con tutta la sezione fiati in azione e la chitarra di McFee in spolvero, come pure l’organo di Payne, e la bluesata Don’t Start Me Talkin’ diventa l’occasione per una lunga jam strumentale.

Certo, i brani celebri come la coinvolgente Jesus Is Just Alright scatenano l’entusiasmo del pubblico, ma anche la dolce ed intricata White Sun e la potentissima Disciple, con chitarre a manetta, non scherzano. Chiude la prima parte del concerto la sinuosa ed acustica Snake Man, di nuovo con McFee in evidenza, ma è un attimo è la band appare nuovamente sul palco per proporre tutto l’album The Captain And Me, con una sequenza da sogno. Quattro brani, uno in fila all’altro, strepitosi: Natural Thing,  bellissima, seguita dall’introduzione della band e poi l’uno-due micidiale di Long Train Running e China Grove, ancora una volta all’essenza più preziosa della migliore musica rock, in versioni arricchite dai fiati la prima e una vera esplosione di riff la seconda. E anche il blues di Dark Eyed Cajun Woman non scherza, per non dire di versioni deliziose di Clear As The Driven Snow dal finale travolgente come prevede l’originale, mentre Without You rocca e rolla di brutto, prima di lasciare spazio alla sequenza dedicata a Simmons con il trittico della west coastiana South City Midnight Lady, con McFee alla pedal steel, la potente Evil Woman e l’intermezzo strumentale di Busted Down Around O’Connelley Corners,

Brani che fanno da preludio al gran finale, prima con la travolgente Ukiah, presa a velocità da autovelox, poi ad una complessa e quasi commovente versione della corale The Captain And Me, che conclude la sezione dedicata a questo album perfetto. I tre bis immancabili sono altri pezzi da novanta del loro repertorio, come il devastante rock’n’soul di una colossale Take Me In Your Arms (Rock Me), il gospel rock di una estatica Black Water e la ripresa full band con sezione fiati aggiunta di Listen To The Music. Che dire, una vera goduria: e nessun brano, neanche accennato, di Michael McDonald, ma quella era un’altra band, i veri Doobie Brothers sono questi! Nei prossimi giorni articolo retrospettivo in due parti sulla loro carriera discografica.

Bruno Conti

Una Voce E Un Talento Genuini Per Una Esordiente Di “Lusso”! Kelly Hunt – Even The Sparrow

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Kelly Hunt – Even The Sparrow – Rare Bird Records

Da non confondere con la quasi omonima Kelley Hunt, la nostra amica Kelly viene da Memphis, ma rispetto ad altre artiste ha fatto il percorso inverso, andando a stabilirsi per incidere la propria musica in quel di Kansas City. Il suo stile è stato giustamente inquadrato tra la cosiddetta Americana music e il folk tradizionale: sono stati tracciati paragoni con Gillian Welch e Rhiannon Giddens, e ci stanno assolutamente, ma forse la Hunt è ancora più “rigorosa” nel proprio approccio alla musica, veramente scarno e minimale, per quanto sapido. Si tratta di una cantante in possesso di una voce decisamente calda e partecipe, con un bel timbro che potrebbe avvicinarla anche a certe icone femminili del folk britannico come (oso) June Tabor, Cara Dillon, tra le contemporanee e, qui esagero, la Sandy Denny più vicina al folk tradizionale. Mi rendo conto che si tratta di paragoni impegnativi, ma mi pare che il talento ci sia: armata solo di un vecchio banjo tenore, quasi un secolo fa di proprietà di un certo Ira Tamm, uno strumento anche questo dal suono caldo e morbido, quindi pari alla sua voce, e con l’aiuto di pochi musicisti dell’area del Missouri, Stas Heaney, che oltre a co-produrre il disco con lei, ha suonato violino, contrabbasso, organo e delle piccole percussioni,  cui si aggiunge Tyler Giles alla chitarra ed alla pedal steel, e poco altro.

La brava Kelly ha lavorato con questi musicisti per circa un paio di anni, componendo le dodici canzoni che si trovano in questo Even The Sparrow, realizzando un album che giustamente, in un ambito di musica molto di nicchia, sta comunque ottenendo degli ottimi riscontri di critica. Subito dall’iniziale Across The Great Divide, cantata con impeto e la sua bella voce profonda e risonante, si percepisce che questa musicista ha una appassionata e sincera conoscenza della materia che tratta, accompagnata solo dal banjo quasi fosse una chitarra acustica, Il suono ha un che di arcano e senza tempo, molto vicino alla grande musica dell’area scoto-irlandese, rivista però con quello spirito Appalachiano che condivide con la Welch e la Giddens, delicata ma molto coinvolgente, se amate il genere ovviamente. La title track aggiunge il violino quasi dolente di Heaney, la voce si fa più squillante, con quel retrogusto sonoro che ricorda la giovane Sandy Denny, grazie a note che si fanno più lunghe e con accenni di un qualche virtuosismo non fine a sé stesso; Back To Dixie ci trasporta nel Sud degli States, con un brano dal piglio brioso, energico e molto coinvolgente, con banjo, violino, chitarra acustica e contrabbasso che danno una profondità e una complessità sorprendente al risultato finale, veramente una bella canzone, cantata sempre con questa voce che affascina per la propria autorevolezza, nata da un talento naturale posto al servizio dell’ascoltatore non distratto.

Ancora Stati del Sud per una storia ambientata appena dopo l’epoca della Guerra Civile americana, Men Of Blue And Grey, ispirata dal lavoro di un fotografo e documentarista, ci trasporta in quegli anni lontani grazie al solito banjo e al violino che sostengono la voce splendida ed avvolgente della Hunt mentre ci racconta questa storia antica e senza tempo. Sunshine Long Overdue, un brano che se sostituite al banjo di Kelly una chitarra potrebbe ricordare nella sua dolce melancolia qualche pezzo di Nick Drake, e in cui spicca ancora l’ottimo lavoro del violino di Heaney, oppure Fingernail Moon, dall’atmosfera sospesa e una melodia che potrebbe rimandare al lavoro di qualche cantautrice tipo Natalie Merchant oppure la stessa Gillian Welch, grazie nuovamente all’impeccabile lavoro dell’onnipresente violino e al ritmo più vivace impresso dal contrabbasso dell’ottimo Chris De Victor. Delta Blues solo voce e percussioni ci trasporta in qualche campo di lavoro lungo le rive del Mississippi, mentre Bird Song, con i suoi quasi 5 minuti e il picking del banjo con il contrappunto del violino è più gioiosa e solare, grazie anche a delle belle armonie vocali che rendono  ancora più fascinosa questa specie di ninnananna incantevole.

Nothin’ On My Mind sembra un brano di quelli in cui Norah Jones eccelle, tra country, folk e canzone d’autore, cantata con voce svolazzante e dalle timbriche squisite. Oh Brother, Where Art Thou? non c’entra nulla con la colonna sonora del film dei fratelli Coen, ma i profumi che si respirano in questo pezzo sono proprio quelli, tra old time music, country, bluegrass e folk, con banjo, violino e chitarra acustica a rincorrersi gioiosamente sulle asperità delle Ozark Mountains, a cavallo tra Missouri, Arkansas e Oklahoma, nel cuore dell’America. How Long è un altro breve gioiellino folk, solo voce e banjo, con la conclusiva Gloryland, un’altra piccola perla dove il gospel più spirituale vive attraverso le armonie vocali di Havilah e Chris Bruders, l’organo vintage di Heaney e una ennesima interpretazione vocale da manuale di Kelly Hunt che si conferma una esordiente dal talento veramente dirompente e di cui mi permetto di consigliarvi caldamente questo eccellente disco.

Bruno Conti  

Pop Californiano Dalla Louisiana? Si Può! Dylan LeBlanc – Renegade

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Dylan LeBlanc – Renegade – ATO CD

Dylan LeBlanc, originario della Louisiana, è un interessante songwriter attivo dal 2010, che ha già pubblicato tre album nella presente decade. Figlio di James LeBlanc, musicista in proprio a sua volta e sessionman di stanza ai mitici Muscle Shoals Studios (e non di Lenny LeBlanc, cantante degli anni settanta che, insieme a Pete Carr, ebbe un moderato successo con la canzone Falling), Dylan ha però poco da spartire con la musica tipica della sua terra, e con il Sud in generale https://discoclub.myblog.it/2010/08/24/giovani-virgulti-crescono-1-dylan-leblanc-paupers-field/ . Infatti la sua proposta è più vicina a certo pop-rock californiano degli anni settanta (in certi momenti mi fa pensare ai Fleetwood Mac), con melodie orecchiabili ma non banali ed un suono comunque basato sulle chitarre e su ritmi pimpanti e coinvolgenti. Renegade è il titolo del suo quarto album, che conferma il percorso sonoro del nostro ma con qualche passo in avanti sia a livello di composizioni, che sono tutte estremamente gradevoli e riuscite, che di sound, essendosi affidato alle sapienti mani di Dave Cobb. E Cobb, nonostante per una volta non abbia a che fare con sonorità roots (ma vorrei ricordare che in anni recenti ha prodotto anche gruppi come Europe e Rival Sons) se la cava comunque egregiamente, riuscendo a dare ai brani di LeBlanc un deciso feeling anni settanta, avvicinandosi quasi allo stile delle ultime produzioni di Dan Auerbach.

Oltre a Dylan e Dave, che suonano quasi tutte le chitarre e Cobb anche il mellotron, in Renegade troviamo un gruppo ristretto ma capace di musicisti, che comprende James Burgess IV alla chitarra elettrica, Spencer Duncan al basso, Jon Davis alla batteria e Clint Chandler alle tastiere. L’album parte molto bene con la title track, una rock song di ampio respiro, ritmata, elettrica, con una accattivante melodia di presa immediata ed un chiaro sapore seventies: in un mondo perfetto potrebbe addirittura essere un singolo vincente. Born Again è un delizioso pop-rock dal motivo diretto, belle chitarre jingle-jangle ed un altro refrain di quelli che piacciono al primo ascolto: Dylan ha una voce molto melodiosa, quasi femminile, che si sposa molto bene con questo tipo di arrangiamenti. Bang Bang Bang ha un ritmo pulsante ed è piacevole e orecchiabile, decisamente pop nonostante un uso pronunciato delle chitarre (è in pezzi come questo che penso all’ex gruppo di Lindsey Buckingham), Domino è quasi un blue-eyed soul dallo sviluppo sempre diretto, reso più sudista dall’uso del piano elettrico, mentre I See It In Your Eyes è un altro squisito pezzo di quelli dal motivo limpido che piace dopo pochi secondi, con una strumentazione che evoca un certo rock radiofonico del passato (quando in radio non passavano le ciofeche di oggi).

Damned ha una linea melodica che ricorda in parte certe cose di Neil Young, anche se l’accompagnamento è puro power pop, con le chitarre che mordono e la sezione ritmica che non si tira certo indietro; Sand And Stone è uno slow elettroacustico che abbassa un po’ la temperatura, ma Lone Rider è una delle più belle, una ballatona tersa e molto californiana, con piano e chitarre in evidenza ed un retrogusto malinconico. Chiusura con l’intrigante Magenta, altro limpido pop-rock stavolta con un piede negli anni sessanta, e con l’intima Honor Among Thieves, solo voce, chitarra e poco altro, ma con un quartetto d’archi che aggiunge pathos al tutto.  Non lasciatevi trarre in inganno dalle sue origini: Dylan LeBlanc è più californiano di tanti songwriters nati a Los Angeles e dintorni.

Marco Verdi

Ancora Un “Metallaro” Convertito Al Blues, E Lo Fa Pure Bene. Derek Davis – Resonator Blues

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Derek Davis – Resonator Blues – Southern Blood Records

Devo dire che sono sempre stato sospettoso dei metallari pentiti, o anche non pentiti, che improvvisamente si scoprono bluesmen a tutto tondo: c’è stata qualche eccezione, penso a Gary Moore (che però aveva già ruotato intorno al genere ad inizio carriera), oppure nel country di recente Aaron Lewis https://discoclub.myblog.it/2019/07/13/un-ex-metallaro-che-ha-trovato-la-sua-reale-dimensione-aaron-lewis-state-im-in/ , anche Gary Hoey che non è un “metallaro” puro https://discoclub.myblog.it/2019/04/11/un-virtuoso-elettrico-ed-eclettico-questa-volta-senza-esagerazioni-gary-hoey-neon-highway-blues/ , e sinceramente al momento non me ne vengono in mente altri, che comunque ci sono, pensate a  tutti i vari gruppi e solisti che per definizione  inseriamo nel filone blues-rock o rock-blues, a seconda della durezza del suono. Derek Davis è stato, ed è tuttora (visto che mi risulta siano ancora in attività), leader dei Babylon A.D. , un gruppo hard rock/metal in pista da fine anni ’80, di cui Davis era la voce solista ma non il chitarrista. Per Resonator Blues il musicista si scopre quindi anche chitarrista, e in questo terzo album da solista, dopo due dischi che esploravano il rock e il soul/R&B, si rivela provetto praticante delle 12 battute più classiche, tuffandosi  nel Mississippi Delta blues con grande profusione di bottleneck e slide, oltre che di momenti acustici.

Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma si percepisce la sincerità di questa operazione, in cui Davis ha scritto dieci brani originali e scelto due cover di peso per estrinsecare il suo omaggio al blues:il nostro amico ha una voce roca e vissuta (visti i trascorsi musicali), a tratti “esagerata”, ma nell’insieme accettabile. Nell’iniziale Resonator Blues c’è un approccio vocale quasi (ho detto quasi) alla Rory Gallagher, voce ruspante e partecipe, un bel drive della ritmica, molto Chicago blues anni ’50 o se preferite tipo il Thorogood più tradizionale, un bel lavoro della slide e un delizioso assolo del piano di David Spencer, mentre alla batteria siede il fido Jamey Pacheco dei Babylon A.D., chitarre e basso le suona lo stesso Derek, risultato finale molto gradevole; Sweet Cream Cadillac sembra quasi un pezzo di R&R primi anni ’60, con Davis impegnato alla Silvertone acustica, sempre modalità slide e un approccio che rimanda al Brian Setzer meno attizzato, ma anche al Rory Gallagher appena citato. Mississippi Mud potrebbe essere un omaggio a Muddy Waters, ma anche al suono pimpante dei Creedence dei primi dischi,  sempre fatte le dovute proporzioni, con ripetute sventagliate di bottleneck, mentre fa la sua apparizione anche l’armonica di Charlie Knight; Penitentiary Bound è una vera sorpresa, una folk ballad deliziosa, solo voce, chitarra acustica e delle percussioni appena accennate, il consueto tocco di slide, e una bella melodia che si anima nel finale.

In Jesus Set Me Free troviamo Rich Niven all’armonica, per una incalzante cavalcata con qualche retrogusto di musica degli Appalachi, rivista nell’ottica più frenetica di Davis, che non fa mancare neppure la sua primitiva 3 string Cigar Box Guitar; Red Hot Lover è un gagliardo blues di stampo texano di quelli tosti e tirati, con chitarra ed armonica in evidenza. Death Letter è la prima cover, si tratta del celebre brano di Son House, ancora Delta Blues rigoroso ed intenso, vicino allo spirito dei grandi bluesmen del Mississippi, con Whiskey And Water e Unconditional Love, più elettriche e tirate entrambe, con l’armonica di Knight a fare da contraltare alla chitarra incattivita di Davis e il sound che quasi si avvicina a quello della vecchia sua band, più roots-rock ma sempre energico anziché no, con la slide costantemente mulinante, come viene ribadito in una potente cover di It Hurts Me Too di Elmore James, con il bottleneck distorto di Derek Davis che ricrea le atmosfere ferine di Stones e Led Zeppelin. Anche in Back My Arms lo spirito del blues più genuino viene rispettato, sembra quasi di ascoltare i vecchi Fleetwood Mac nei brani a guida Jeremy Spencer. E anche la conclusiva Prison Train non molla la presa su questo Festival della slide, sempre con il valido supporto dell’armonica di Knight.

Forse Davis non saprà ripetersi in futuro, ma per questa volta centra l’obiettivo di un bel disco di blues, solido e per certi versi rigoroso.

Bruno Conti

Un Ottimo Debutto Per Questo “Imponente” Giovanotto. Joshua Ray Walker – Wish You Were Here

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Joshua Ray Walker – Wish You Were Here – State Fair CD

Esordio col botto per questo giovane countryman texano, uno dei migliori album di genere da me ascoltati ultimamente. Ma andiamo con ordine: Joshua Ray Walker, originario di Dallas, dimostra molto meno dei suoi 28 anni, anzi direi che a prima vista sembra un ventenne (con discreti problemi di linea, quelli che si definiscono “personcine”), ma invece è uno che si fa il mazzo da circa quindici anni. Joshua ha infatti iniziato ancora adolescente a suonare, e per anni ha girato in lungo e in largo con una band di quasi coetanei, arrivando a suonare anche 200 date all’anno, fino a quando è stato notato dal conterraneo John Pedigo (che di recente ha prodotto il disco natalizio degli Old 97’s) e portato in studio ad incidere il suo album d’esordio. Ed il lavoro in questione, intitolato Wish You Were Here, è un piccolo grande disco, dieci canzoni originali di puro country, che spaziano dalle ballate ai pezzi più mossi, con influenze non solo texane. La strumentazione è classica, chitarre acustiche ed elettriche, piano e steel in quasi tutti i brani (non sto a citare i musicisti, i nomi non vi direbbero nulla), con un approccio moderno e vigoroso ma anche un gusto non comune per la melodia.

Vero country, come oggi in pochi fanno ancora: Joshua non sembra affatto un esordiente, sa scrivere con il piglio del cantautore esperto e possiede la voce giusta per questo tipo di suono. Forse non lo vedremo mai nelle classiche pose da cowboy (anche perché non vorrei essere al posto del suo cavallo), ma dal punto di vista musicale sa il fatto suo eccome. L’album inizia con una ballata, Canyon, lenta e ricca di pathos, con una melodia di quelle che colpiscono subito: l’arrangiamento è essenziale, voce, chitarra acustica ed una bella steel sullo sfondo. Trouble è un delizioso valzerone texano del tipo più classico, davvero gustoso e punteggiato da uno scintillante pianoforte: sostituite idealmente la voce del nostro con quella di Willie Nelson e non troverete grosse differenze nella struttura musicale, e questa credo non sia una cosa da poco. Molto bella anche Working Girl, tersa e solare country song dal ritmo spedito, un motivo irresistibile ed un mood elettrico che profuma di Bakersfield Sound, mentre Pale Hands è un’intensa ballatona dal passo lento ed alla quale l’organo dona un sapore southern, altro brano dalla scrittura decisamente adulta.

Joshua dimostra di avere talento e numeri, e continua a deliziarci con la tenue e cadenzata Lot Lizard, molto melodica e suonata in maniera raffinata, con rimandi alle ballate californiane degli anni settanta da Jackson Browne in giù; Burn It è invece un trascinante boogie elettrico, diretto e chitarristico, perfetto da ascoltare in un bar di Austin, mentre  Keep è un’altra fulgida country ballad di stampo classico, con un ottimo motivo di fondo e la solita steel a dare un tono malinconico. Strepitosa Love Songs, una canzone in puro stile tex-mex con tanto di fisarmonica e fiati mariachi, un tipo di brano che solo un texano e Tom Russell (e anche i Mavericks) sono in grado di scrivere, splendida e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=y6me6pkgN64 . Il CD termina con l’ennesimo ottimo pezzo, la fluida Fondly, dall’accompagnamento elettroacustico e banjo in evidenza, e con la saltellante Last Call, puro country nuovamente impreziosito da una melodia di prim’ordine ed un refrain decisamente accattivante.

Gran bel debutto: ora dopo tanta gavetta (e, ne sono certo, tante battutine più o meno cattive a proposito della sua stazza) auguro a Joshua Ray Walker di raccogliere quanto seminato.

Marco Verdi

Carole King, The Queen Of Classic Pop: Una Breve Cronistoria, Seconda Parte.

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Seconda Parte.

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Music – 1971 Ode/Epic – ***1/2

E per la serie l’ispirazione inarrestabile non finisce mica qui, a dicembre dello stesso 1971 ecco già pronto un altro album Music, sempre prodotto da Lou Adler, con il consueto nucleo di musicisti dei dischi precedenti, a cui si aggiungono Bobbye Hall alle percussioni e un nutrito gruppo di fiatisti. Non è un altro capolavoro, e come potrebbe essere, ma ancora un ottimo album. Proprio nell’iniziale Brother, Brother si apprezzano le percussioni di Mrs. Hall che danno quasi un’impronta soul alla Marvin Gaye al sound, con il sax in bella evidenza, It’s Going To Take Some Time, uno dei tre brani scritti con la Stern, ha la allure delle migliori canzoni di Carole, anche se la qualità non raggiunge le vette celestiali del precedente album, pur se una certa serenità di fondo traspare anche nella musica.

Deliziose anche Sweet Seasons e la ripresa della dolcissima Some Kind Of Wonderful, un brano targato Goffin/King che fu un successo proprio per Marvin Gaye. Larkey lavora sempre di fino al basso e il suono complessivo del LP ricorda da vicino quello che anche Laura Nyro stava sviluppando in quegli anni, per esempio nella raffinatissima Surely e nella pianistica title-track Music, graziata anche da uno splendido assolo del sax di Curtis Amy, mentre Song Of Long Ago è una sorta di duetto con la King e James Taylor che vocalizzano insieme nello stile West Coast tipico di Carole che rimane una costante di molte canzoni.

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Rhymes And Reasons – 1972 Ode/Epic ***1/2

Come il precedente anche Rhymes And Reasons arriva ai primissimi posti della classifica Usa: Music al 1° e questo al 2°, ma la qualità rimane sempre altissima. Alla batteria arriva Harvey Mason, David T. Walker si alterna a Kortchmar come chitarrista, Carole King oltre che al pianoforte è impegnata anche a clavinet, Wurlitzer e Fender Rhodes,  e i fiati e gli archi sono sempre presenti nella produzione di Adler. Per l’occasione c’è solo una canzone della coppia Goffin/King, ma ben quattro scritte con Toni Stern, le prime  del disco. Piacevole ma non memorabile per i suoi standard, però l’iniziale Come Down Easy, Peace In The Valley, l’orchestrata First Day In August, la ritmata Bitter With The Sweet e Been To Canaan, quasi alla Bacharach, confermano la classe innata.

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Fantasy – 1973 Epic/Ode – ***1/2

E’ una specie di concept album, anzi un song cycle, che viene portato in tour, pure in Europa, e lo ritroviamo nel bellissimo CD/DVD Live At Montreux 1973, di cui leggete la recensione in altra parte del Blog https://discoclub.myblog.it/2019/09/05/dal-passato-di-una-delle-piu-grandi-cantautrici-di-sempre-una-perla-sconosciuta-carole-king-live-at-montreux-1973/, un disco ancora una volta molto influenzato dalla black music, e dal funky leggero ma con tocchi jazz, visto che è accompagnata da una band “nera”, qualche titolo dei brani migliori lo trovate proprio nella recensione.

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Wrap Around Joy – 1974 Epic/Ode – ***

E’ l’ultimo disco in cui appare Larkey, neppure in tutti I brani, visto che nell’album suonano in metà di mille: comunque ancora un buon disco, in cui troviamo l’iniziale deliziosa Nightingale, un singolo di successo come Jazzman, e un paio di ballate Change in Mind, Change of Heart e We Are In All This Together, ma nell’insieme il disco, con la presenza delle figlie Louise e Sherry alle armonie vocali, è fin troppo lavorato e “zuccherino” in molti brani.

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Se volete crearvi la vostra discografia perfetta di Carole King aggiungete questo box a prezzo speciale con gli album del periodo Ode e aggiungete Tapestry e avrete tutto l’indispensabile della prima parte della carriera.

Vediamo Il Meglio ( E Il Peggio) del Resto.

Mentre invece per gli anni successivi il meglio del periodo seguente lo trovate in questo piccolo cofanetto qui sopra sempre a prezzo speciale.

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In effetti Thoroughbred (1976 -***) sarebbe l’ultimo album per la Ode, ancora con Adler alla produzione, e sulla carta, visti i musicisti presenti, a fianco di Kunkel e Kootch Kortchmar ci sono Waddy Wachtel, Lee Sklar, David Crosby, Graham Nash, James Taylor, JD Souther, Tom Scott, dovrebbe essere eccellente, ma a parte qualche brano, come l’iniziale So Many Ways, Daughter Of Light, il singolo Only Love Is Real, There’s Space Between Us, ogni tanto si sfiora l’easy listening, sia pure di gran classe. Nel 1977 firma con la Capitol, ma si sposa anche con Rick Evers, un tossico, ex homeless, che abusa anche fisicamente di lei, per quanto si dica che pure lei avesse il suo caratterino e rapporti difficili con gli altri ex e con gli “amici”. Dopo una serie di album deludenti giustamente decide di rivolgersi al meglio del suo repertorio passato e pubblica nel 1980 Pearls: Songs of Goffin and King  (Capitol 1980 – ***1/2) dove rivisita dieci canzoni del suo songbook, con l’aiuto del cantautore Mark Hallman, che produce l’album. Non male anche One To One – Atlantic -*** del 1982, sempre prodotto da Hallman, con i rientranti Kortchmar e Larkey, ma poi è notte fonda, City Streets suono orrido anni ’80, vede nel 1989 la presenza di Eric Clapton e Branford Marsalis, ma stenderei un velo pietoso.  Negli anni ’90 esce solo Colour Of Your Dreams, disco del 1993 con Slash alla solista, e ho detto tutto.

Negli anni 2000 ricordiamo il discreto disco natalizio del 2011 A Holiday Carole e soprattutto alcuni notevoli  dischi dal vivo, The Living Room Tour (2005 Hear Music  -***), l’ottimo Live At The Troubadour con James Taylor (2010 Concord ***1/2), registrato nel 2007 e l’eccellente Tapestry: Live In Hyde Park (Sony Legacy 2017 – ****) , registrato nel 2016 per festeggiare i 45 anni del suo disco più bello https://discoclub.myblog.it/2017/10/15/uno-dei-dischi-piu-belli-della-storia-della-musica-rock-anche-in-versione-dal-vivo-carole-king-tapestry-live-at-hyde-park/ .

Direi che questo è quanto.

Bruno Conti

Carole King, The Queen Of Classic Pop: Una Breve Cronistoria, Prima Parte.

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Carole Joan Klein, nasce a New York, anzi proprio a Manhattan, da una famiglia di origini ebree, il 9 febbraio del 1942: durante gli anni al Queens College (un nome, un destino) incontra Gerry Goffin, che nell’agosto del 1959 sposerà a Long Island in una cerimonia ebraica, in quanto Carole era già incinta della prima figlia Louise. Nel frattempo i due avevano iniziato a scrivere canzoni insieme, in serata, quando erano terminati gli impegni di lavoro, avendo entrambi abbandonato il college per intraprendere la vita coniugale. Ma la King era una predestinata, aveva già frequentato il mondo musicale, quando era alle scuole superiori uno dei suoi primi fidanzati dell’epoca era stato Neil Sedaka, che proprio nel 1959 ebbe un clamoroso successo con Oh, Carol, per il quale Goffin, sulla stessa melodia, scrisse una canzone di risposta (ai tempi usava) Oh Neil,  cantata dalla King, che però non fu un successo, come neppure il lato B scritto insieme, A Very Special Boy, il secondo singolo ad uscire. I due ci misero poco ad aggiustare l’intesa musicale e già nel 1960 scrissero insieme (lei la musica e lui i testi, questa la formula) Will You Still Love Me Tomorrow?, un mega successo per le Shirelles, il primo brano di un gruppo femminile nero ad arrivare al n°1 delle classifiche, con il risultato che entrambi lasciarono il loro lavoro giornaliero per dedicarsi a tempo pieno alla musica, diventando una delle coppie di maggior successo durante

Gli Anni Del Brill Building 1960-1968

I brani scritti in coppia come Goffin-King, tra il 1960 e il 1968, anno in cui si lasceranno e divorzieranno, furono una infinità, ma almeno una cinquantina entrarono nella top 100 (e per Carole KIng, da sola o in coppia, fino al 1999, furono addirittura 118! Per cui il titolo dell’articolo è più che giustificato). Vediamo alcuni dei titoli più celebri o significativi scegliendo anche tra quelli più belli, magari incisi in seguito anche dalla nostra amica: Some Kind Of Wonderful, sempre del 1960, per i Drifters, ma poi anche in una bellissima versione di Marvin Gaye fu incisa pure da Carole King, come sarà per Will You Still Love Me Tomorrow. Nel 1961 Chains per i Cookies, ma anche i Beatles nel 1963 e la sua versione nel 1980; The Loco-Motion per Little Eva, e nell’album Pearls,  appunto del 1980. Nel 1962 Up On The Roof ancora con per i Drifters, poi su Writer il debutto solista del 1970 e incisa anche dalla “rivale” Laura Nyro lo stesso anno. Nel 1963 Hey Girl per Freddie Scott, ma soprattutto One Fine Day per le Chiffons, entrambe riprese nel disco del 1980. Nel 1965 Goffin e King scrivono anche alcuni brani con Phil Spector e lo stesso anno la splendida Don’t Bring Me Down per gli Animals (la faceva anche Tom Petty). Goin’ Back del 1966 per Dusty Springfield, ma come dimenticare la versione dei Byrds, e la stessa Carole l’ha incisa due volte, la stupenda (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, insuperata nella versione di Aretha Franklin, e poi apparsa su Tapestry

e infine nel 1968 I Wasn’t Born to Follow per i Byrds, che apparirà anche nel disco dei

The City –  Now That Everything’s Been Said – 1968 Ode – ***1/2

the city now that everything's been said

Un trio con il futuro secondo marito, il bassista Charles Larkey e con Danny Kortchmar alla chitarra, oltre naturalmente a Carole King alle tastiere e alla voce, e con “l’ospite” Jim Gordon alla batteria. Un disco che non ebbe successo, sia per la riluttanza della King ad andare in tour, sia perché l’album andò fuori catalogo velocemente a causa di un cambio di distribuzione. Ma comunque giustamente rivalutato quando è stato pubblicato in CD, prima nel 1999 e poi dalla Light In The Attic nel 2015: molti dei brani portano ancora la firma Goffin e King, ma al di là della bellissima I Wasn’t Born To Follow è tutto l’album nell’insieme che per certi versi anticipa l’avvento della musica Westcoastiana. Anche perché nel frattempo Carole, nel 1967, si era trasferita a Los Angeles, nella zona del Laurel Canyon, dove aveva incontrato i primi praticanti di quello stile, altri spiriti affini, e alcune canzoni  del disco furono incise dai Monkees (la deliziosa A Man Without A Dream cantata da “Kootch” Kortchmar) , Blood, Sweat & Tears (la bellissima Hi-De-Ho)-, American Spring (la mossa title track, puro Carole King sound) e il brano dei Byrds fu usato anche nella colonna sonora di Easy Rider.

Lei, che anche in seguito non è mai stata considera una grande cantante, usa comunque alla perfezione quella sua voce unica e particolare, che l’ha resa una delle più grandi cantautrici americane di tutti i tempi. Pezzi come Snow Queen, una bellissima pop ballad o un paio di duetti con Kortchmar mostrano già il suo stile perfettamente formato e fanno da prodromo alla imminente carriera solista, che come in molti altri casi raggiungerà le sue vette nei primi cinque o sei album, quelli usciti tra il 1970 e il 1974.

The  Ode Years 1970-1974

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Writer – 1970 Ode/Epic – ***1/2

Pubblicato nel maggio del 1970, Writer presenta 12 brani, ancora tutti a firma Goffin/King, a parte due canzoni con i testi di Toni Stern, e ci sono le nuove versioni ricordate poc’anzi di Goin’ Back e Up On The Roof. Il disco è prodotto da John Fishbach,  ingegnere e musicista, che suona anche il moog nell’album; Charles Larkey, marito di Carole e Danny Kortchmar, rimangono rispettivamente a basso e chitarra come nel disco dei The City.  James Taylor è presente alla chitarra acustica e alle armonie vocali, mentre Joel O’Brien alla batteria e Ralph Schuckett all’organo completano l’organico. Come per Now That Everything’s Been Said siamo di fronte ad un ottimo album, che precede di pochi mesi quello che sarà un capolavoro assoluto del “rock”.

Lo stile del disco, che poi rimarrà costante per la intera carriera della King, sta in quel giusto equilibrio tra soft rock e pop raffinato, come esplicato nella vibrante Spaceship Races, nella splendida ballata errebì No Easy Down, in un’altra piano ballad come Child Of Mine, nel country-rock delicato in puro stile West Coast di To Love o in What Have You Got To Lose dove le chitarre acustiche si inseguono e il gusto di Carole per le melodie e le intricate armonie vocali regna sovrano., ma niente male anche la jazzata Raspberry Jam e il gospel-rock di Sweet Sweetheart. Se poi non avesse sette/otto mesi  dopo pubblicato il suo capolavoro, sarebbe ricordato comunque come un ottimo album, quale è.

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Tapestry – 1971 Ode/Epic – *****

Registrato a gennaio agli A&M Studios di Hollywood, pubblicato a Febbraio, con la produzione di Lou Adler, l’uomo alle spalle della carriera dei Mamas And Papas, che chiama a raccolta la crema della musica californiana: sono della partita Joni Mitchell e di nuovo James Taylor, le coriste Merry Clayton e Julia Tillman, con Larkey, Schuckett, O’Brien e Kootch Kortchmar sempre al loro posto più bravi che mai, con l’aggiunta di Russ Kunkel alla batteria e di Curtis Amy, Terry King e Barry Socher ai fiati, oltre ad un quartetto di archi. Ci sarà un motivo se il disco ha vinto 4 Grammy l’anno successivo tra cui Album dell’Anno, ha venduto complessivamente 10 milioni di copie negli USA e 25 nel mondo? Si, perché è praticamente perfetto: una sequenza di brani magnifici, uno in fila all’altro, che sentiti ancora oggi a quasi 50 anni dall’uscita non hanno perduto un briciolo della loro magnificenza.

Una ispiratissima Carole King questa volta firma da sola (quindi parole e musica) quasi tutte le canzoni, con l’eccezione di Will You Love Me Tomorrow, il famoso pazzo scritto con il marito Gerry per le Shirelles, bellissima anche nella versione di Carole, e Smackwater Jack un’altra composizione Goffin/King che sarà il secondo singolo estratto dall’album, una sorta si shuffle uptempo, mosso e coinvolgente, con un grande lavoro del dancing bass di Larkey, grande musicista sottovalutato rispetto agli ottimi Schuckett e Kortchmar, e splendidi gli interscambi vocali con Merry Clayton. (You Make Me Feel Like) A Natural Woman scritta da Goffin e King insieme a Jerry Wexler per Aretha Franklin è una ballata pianistica talmente bella che non si poteva evitare di inserirla nel disco, la versione della Queen Of Soul è insuperabile, ma anche Carole King a livello emotivo e pianistico ci mette del suo e il risultato è superbo.

Saltando qui e là ci sono altre due canzoni scritte con Toni Stern: It’s Too Late che raggiunse il primo posto delle classifiche dei singoli nell’aprile 1971 è un’altra di quelle ballate dolenti in cui eccelle la nostra amica, un ritornello cantabile e un lavoro eccellente di tutta la band con l’interscambio delizioso tra la chitarre di Kortchmar e il sax di Curtis Amy, senza dimenticare il piano, l’altro brano firmato con la Stern è Where You Lead, sempre ricca di nuances tra soul e R&B con le avvolgenti armonie di Clayton e Tillman a decorare la voce partecipe della King, in grande spolvero. Rimangono le sette canzoni scritte in solitaria dalla King e sono una più bella dell’altra:

I Feel The Earth Move dà proprio l’impressione, con la sua andatura incalzante e quel pianoforte dal ritmo pressante, di un terremoto sonoro in arrivo, grande brano, e che dire di So Far Away, altra ballata sublime, con la chitarra acustica di James Taylor, e il flauto di Amy a sottolineare l’interpretazione superba della King, sia a livello vocale che per il lavoro del piano, senza dimenticare Kunkel alla batteria e Larkey al basso. Home Again è un’altra perla intima del songbook della cantante newyorchese, un altro brano splendido con il piano a cesellare le note, mentre acustica e ritmica pensano a colorare il suono, Beautiful è viceversa uno dei brani ottimisti e gioiosi, in questa alternanza di temi sonori e tempi musicali, comunque bellissima, seguita giustamente da una canzone più intima e raccolta come Way Over Yonder, con qualche retrogusto jazzato grazie al solito lavoro sofisticato delle “coriste” (anche se è riduttivo chiamarle così) e all’assolo di sax di Amy.

You’ve Got A Friend è uno degli inni universali dedicati all’amicizia più famosi di tutti i tempi, ha pure una bellissima melodia, con gli archi incombenti, il pianoforte accarezzato voluttuosamente, e le armonie vocali di Joni Mitchell e James Taylor, che pubblicherà la sua versione appena un paio di mesi dopo su Mud Slide Slim. Aggiungiamo la title track Tapestry un’altra sontuosa ballata pianistica che certifica le bellezza di questo album impeccabile. Che in CD è uscito in molte versioni: se trovate quella Legacy doppia uscita nel 2008 avete fatto tombola, nel secondo dischetto ci sono versioni dal vivo registrate tra il 1973 e il 1976 di tutti i brani di Tapestry meno uno. Imperdibile, non si può non avere!

Fine prima parte.

Bruno Conti

Un Futuro Fuorilegge Alle Prime Armi. Waylon Jennings – White Lightnin’

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Waylon Jennings – White Lightnin’ – Goldenlane/Cleopatra CD

Non sono un fan delle produzioni discografiche targate Cleopatra, etichetta indipendente californiana che si occupa di materiale d’archivio più o meno inedito: qualche buon prodotto negli anni lo ha pubblicato, ma anche ricicli di cose già uscite e spacciate per nuove o vere e proprie ciofeche, come il recente Joint Effort degli Humble Pie, compilato con materiale di scarto degli anni settanta non esattamente di prima qualità. Questo album intestato al grande countryman texano Waylon Jennings ed intitolato White Lightnin’ non è da considerarsi una fregatura, ma l’assenza di note nella confezione interna lascia (volutamente?) in sospeso l’ascoltatore occasionale sulla provenienza delle canzoni contenute. Alla fine White Lightnin’ è il classico segreto di Pulcinella, in quanto altro non è che la ristampa del primo album in assoluto del nostro, Waylon At JD’s del 1964 (che nonostante il titolo non è un disco dal vivo), al quale sono state aggiunte due canzoni che facevano parte di un raro singolo del 1959: diciamo quindi che questa volta la Cleopatra si è salvata dal giudizio del severo critico, in quanto comunque stiamo parlando di incisioni da tempo fuori catalogo e quindi difficilmente reperibili (ma la “cleopatrata” non manca neanche qui, in quanto sulla confezione vengono riportati dodici titoli invece dei quattordici che ci sono in realtà).

Il disco è dunque piacevole ed offre un interessante ritratto di gioventù di un musicista che negli anni settanta sarebbe diventato un grande del country ed uno degli esponenti di punta del movimento Outlaw. Qui Waylon non ha ancora uno stile ben preciso, alterna brani di classico country ad altri più rock’n’roll, ed in più si affida unicamente a materiale già noto in versioni altrui: il risultato finale è comunque piacevole ed interessante, ed in tutta onestà non mi sento di sconsigliarne l’acquisto, specie per quanto riguarda i fan del nostro. L’album inizia proprio con i due pezzi del singolo del ‘59, il primo in assoluto per Waylon, entrambi con la chitarra e la produzione del mitico Buddy Holly (non dimentichiamo che Jennings all’epoca era uno stretto collaboratore di Buddy, e per puro caso non salì su quel maledetto aereo la sera di quel tragico 3 Febbraio 1959): When Sin Stops è un incrocio tra pop e doo-wop tipico per l’epoca, molto diversa dallo stile futuro del nostro anche se il vocione è già quello, mentre Jole Blon è una versione lenta del noto standard, con il sax strumento solista. Le altre dodici canzoni fanno parte come ho già scritto di Waylon At JD’s, e vedono il nostro a capo di un quartetto che comprende lui stesso alla chitarra solista (Waylon è sempre stato un ottimo chitarrista), Gerald W. Gropp alla ritmica, Paul Foster al basso e Richard Albright alla batteria.

Come già detto si tratta di un disco di cover, con ben due omaggi a Roy Orbison, Crying e Dream Baby, più essenziali nel suono e senza gli arrangiamenti orchestrali tipici di The Big O, con Waylon che pur non avendo l’estensione vocale dell’occhialuto cantante suo conterraneo se la cava egregiamente. Deliziosa invece Don’t Think Twice, It’s Alright, il classico di Bob Dylan ripreso in una spedita rilettura country alla Johnny Cash, e decisamente piacevole anche White Lightnin’, divertente rilettura del noto successo di George Jones (scritta da J.P. Richardson, ovvero il Big Bopper che morì insieme a Holly e Ritchie Valens nel tragico incidente), con un arrangiamento elettrico tra country e rockabilly. Ci sono poi brani che in altre mani erano già delle hit country, come la squisita Sally Was A Good Old Girl (lanciata da Hank Cochran due anni prima), molto rock’n’roll in questa versione, un’ottima Love’s Gonna Live Here di Buck Owens ripresa in puro Bakersfield style, l’honky-tonk Burning Memories di Mel Tillis e la trascinante Big Mamou di Link Davis, dal ritmo molto sostenuto. Detto di un breve omaggio al vecchio amico Buddy con una It’s So Easy riveduta ma non corretta, il CD si chiude con il puro country di Abilene (di George Hamilton IV), una roccata Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, ma più nota per la versione dei Beatles e la dolce ballata Lorena: tre brani che hanno in comune il fatto di non essere cantati da Waylon ma bensì da Gropp e Foster.

Temevo l’imbroglio, invece mi sono trovato tra le mani un dischetto piacevole ed interessante, anche se non certo imperdibile.

Marco Verdi

Dal Passato Di Una Delle Più Grandi Cantautrici Di Sempre Una “Perla Sconosciuta”. Carole King – Live At Montreux 1973

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Carole King – Live At Montreux 1973 – Eagle Vision/Universal

Nella situazione attuale del mercato discografico, diciamo non particolarmente floridissima, con le vendite che si rivelano sempre più declinanti, molti artisti, non solo le ultime leve, ma a maggior ragione anche i “grandi vecchi” della musica, per poter sopravvivere si affidano sempre di più ai concerti dal vivo, che sono diventati la maggiore risorsa di introiti a livello economico: ovviamente facendo i dovuti distinguo tra le cosiddette superstar e quelli chi si arrabattano per guadagnarsi la pagnotta, ma la dimensione live è sicuramente quella che ne garantisce la sopravvivenza. C’è anche tutto quel gruppo di artisti e band di culto che comunque hanno sempre avuto un fedele seguito di fan e da molti anni hanno quindi rivolto verso l’attività concertistica i maggiori sforzi. Carole King a ben vedere forse non rientra in nessuna di queste categorie:i dischi (o video) dal vivo relativi al periodo più fervido della propria carriera si possono contare sulle dita di una mano, anzi di un dito, visto che l’unico album dal vivo di quell’epoca pubblicato dalla King è il bellissimo The Carnegie Hall Concert:June 18, 1971, peraltro uscito solo nel 1996.

Ma poi la situazione è cambiata, anche per le circostanze appena enunciate: nel 1994 è uscito In Concert,  e nel 2005 il Living Room Tour (che poi si è protratto fino al 2008), nel 2010 c’è stato il Live At The Troubadour , insieme a James Taylor, relativo ad una data registrata nel famoso locale a californiano nel 2007, solo in DVD nel 2015 è uscito pure il Musicares a lei dedicato (ok è un tributo, ma la King era sul palco per parecchie canzoni), e infine nel 2017 (ma registrato l’anno precedente) il celebrativo e splendido Tapestry: Live In Hyde Park https://discoclub.myblog.it/2017/10/15/uno-dei-dischi-piu-belli-della-storia-della-musica-rock-anche-in-versione-dal-vivo-carole-king-tapestry-live-at-hyde-park/ . E in tutto questo periodo Carole King aveva pubblicato solo un disco natalizio nel 2011, il discreto A Holiday Carole, e nel 2001 l’ultimo album di materiale originale Love Makes The World. Ora nella benemerita serie Live At Montreux (che se la batte con i concerti del Rockpalast come la migliore e più longeva serie di archivio di concerti dal vivo), esce un volume, in CD+DVD, relativo alla serata tenuta al famoso “Jazz” Festival svizzero il 15 luglio del 1973. Nelle note della confezione viene riportato che si tratta della primissima esibizione della King fuori dagli Stati Uniti, ma in effetti la King si era già esibita per la BBC nel 1971 https://www.youtube.com/watch?v=f_uSaKWiEaU , anche se a livello discografico non era stato pubblicato nulla.

Il concerto è comunque bellissimo: accompagnata da una band eccellente, con una sezione fiati di ben 6 elementi, tra cui spicca Tom Scott al sax, dalla fedelissima Bobbye Hall alle percussioni, Charles Larkey al basso (che all’epoca era suo marito, il secondo dopo Gerry Goffin), Harvey Mason alla batteria, Clarence McDonald al piano e David T. Walker alla chitarra, la King sciorina il meglio del suo album capolavoro Tapestry, ma anche brani tratti da Writer, nonché dal disco del momento Fantasy (ma non curiosamente dai due precedenti). Lo stile per l’occasione oscilla tra uno smooth jazz che si stava imponendo all’epoca grazie allo stesso Tom Scott (e le sue future collaborazioni con la “rivale” Joni Mitchell),  a George Benson, ai Traffic di Low Spark, senza mai dimenticare comunque le sue splendide ballate pianistiche e quel pop raffinato californiano che è sempre stato nella sua cifra stilistica. Ecco quindi scorrere capolavori come la splendida I Feel The Earth Move, solo Carole, i suoi riccioli rossicci, e le efelidi, oltre al suo piano, dove dimostra subito una grande abilità, la voce leggermente roca, a tratti fragile, ma unica, della cantautrice, a cui segue Smackwater Jack, altro brano di Tapestry. Esecuzioni brevi e stringate, 18 canzoni in poco più di 63 minuti, ma tanta classe. Bellissima anche la dolce Home Again, la prima ballata, sempre dal disco del 1971, da cui arriva anche Beautiful, mentre Up On The Roof era su Writer (ma fu anche un successo  per i Drifters, estratto del periodo Brill Building come Goffin/King).

A questo punto della esibizione, dopo una deliziosa It’s Too Late, Carole porta sul palco la band di 11 elementi (quasi tutti “neri”) per eseguire la Fantasy Suite, https://www.youtube.com/watch?v=ApacgMtdFLI  praticamente gran parte delle canzoni dell’album, in cui spiccano le funky You’ve Been Around Too Long e Believe In Humanity, le soffuse e sofferte Being At War With Each Other e That’s How Things Go Down  (brano sull’abbandono di una donna incinta), che mettono anche in luce similarità stilistiche con la grande Laura Nyro, grazie agli spunti jazzy. Haywood, pezzo raffinatissimo che sfocia di nuovo nella black music, racconta una storia di dipendenza dalla droga, e il sound anche grazie alla presenza di Tom Scott, anticipa almeno di sei mesi  la svolta della Mitchell con Court And Spark, mentre Corazòn strizza l’occhio alla musica latina, con gran profusione di fiati e percussioni. Nella parte dei bis non mancano i suoi brani più celebri: You’ve Got A Friend, per la gioia del pubblico presente ed una intensa (You Make Me Feel Like A) Natural Woman, entrambe di nuovo solo per voce e piano. Un ottimo documento per una delle più grandi cantautrici della storia. Nei prossimi giorni sul Blog anche un lungo articolo retrospettivo in due parti dedicato alla sua carriera.

Bruno Conti

Una Splendida Full Immersion Nella Leggenda, 3 Giorni Di Pace E Musica! Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive. Giorno 3

woodstock_deluxebox_productshot_1VV:AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive – Rhino/Warner 38CD/BluRay Box Set

Terza ed ultima parte.

Day 3/CD 24-37. 

CD24/25 – Jefferson Airplane. Il terzo giorno inizia col botto, ovvero con il gruppo che forse incarna più di tutti la Summer Of Love. A distanza di 50 anni il sestetto Slick-Kantner-Balin-Kaukonen-Casady-Dryden (e con la non trascurabile presenza di Nicky Hopkins alle tastiere) suona però datatissimo, ma è una cosa che pensavo anche negli anni ottanta. Restano comunque una  band coi controfiocchi, che esegue un set solido con molte grandi canzoni suonate come Dio comanda (Somebody To Love, White Rabbit, Volunteers, Wooden Ships, ma anche The Ballad Of You & Me & Pooneil e la cover di The Other Side Of Life di Fred Neil si difendono): peccato che il tempo non sia stato galantuomo con queste sonorità. Discorso a parte per i due pezzi a carattere rock-blues nei quali Kaukonen assume il ruolo di leader (Uncle Sam Blues, bluesaccio elettrico e cadenzato, e la splendida e potente Come Back Baby), anticipando in un certo senso l’avventura degli Hot Tuna.

CD26/27 – Joe Cocker. Così come Santana anche il cantante di Sheffield era relativamente sconosciuto (aveva da poco pubblicato il primo album), e nello stesso modo la sua performance entrò nel mito, indirizzando nel verso giusto la sua carriera futura: gran parte del merito va sicuramente al pezzo che chiude lo show, una cover totalmente stravolta ma legggendaria della beatlesiana With A Little Help From My Friends, con Joe letteralmente posseduto, quasi trasfigurato. Ma anche prima il nostro ha intrattenuto la platea da consumato soul-rocker, accompagnato al meglio dalla Grease Band (che prima dell’ingresso di Cocker ha riscaldato l’ambiente con due brani strumentali): Joe propone una serie di standard (non è mai stato un songwriter, anche se le qui presenti Something’s Coming On e Something To Say portano la sua firma) eseguiti in maniera sanguigna e diretta, ed un accompagnamento perfetto da parte della Grease Band. Ben tre brani di Dylan (Dear Landlord, bellissima, Just Like A Woman e I Shall Be Released), due di Ray Charles (Let’s Go Get Stoned ed una monumentale I Don’t Need No Doctor) ed una notevole Feelin’ Alright dei Traffic, con un grande  Chris Stainton al piano elettrico.

CD28 – Country Joe & The Fish. Torna Country Joe McDonald in compagnia del chitarrista Barry “The Fish” Melton ed altri tre elementi per un set elettrico molto diverso da quello acustico del primo giorno. Sonorità principlamente tra rock e psichedelia (anche qui forse un po’ datate), come si evince dall’apertura di Rock & Soul Music, le potenti Love e Not So Sweet Martha Lorraine, in cui dominano chitarra ed organo (Mark Kapner) ed un suono molto simile a quello dei Doors. Lo show, piuttosto lungo, si segnala anche per lo sconfinamento in altri stili, come la gradevole pop song Sing Sing Sing, il folk-rock sotto steroidi Summer Dresses, la lenta e fluida Maria o la magnifica Crystal Blues, un bluesaccio elettrico degno dei grandi del genere, fino alla ripresa full band finale di I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die Rag.

CD29 – Ten Years After. Non poteva mancare il gruppo guidato da Alvin Lee, tra le band più popolari dell’epoca. Un concerto molto blues, con eccellenti riletture di brani di Willie Dixon (Spoonful), Sonny Boy Williamson (Good Morning Little Schoolgirl, con due false partenze dovute a problemi con gli strumenti, ed una straordinaria Help Me), o la suadente I Can’t Keep From Crying Sometimes, intrigante remake di un brano scritto da Al Kooper (con accenno a Sunshine Of Your Love dei Cream). Gli unici due pezzi originali sono Hobbit, scritta dal batterista Ric Lee (in pratica un lungo drum solo) e la sempre strepitosa I’m Going Home, in cui Alvin si conferma il “chitarrista più veloce del West”.

CD30 – The Band. A mio parere la chicca assoluta del box, dato che per 50 anni non era mai uscita neppure una canzone dal set del gruppo canadese. Ed il quintetto di Robbie Robertson non delude le aspettative, producendo un concerto in cui fa uscire al meglio il suo tipico sound da rock band pastorale del profondo Sud; solo tre brani originali (l’iniziale Chest Fever, la meno nota We Can Talk ed il capolavoro The Weight), un paio di pezzi di derivazione soul (Don’t Do It e Loving You Is Sweeter Than Ever), altrettanti standard (Long Black Veil e Ain’t No More Cane, entrambe splendide) e ben quattro canzoni di Dylan (Tears Of Rage, emozionante, This Wheel’s On Fire, Don’t Ya Tell Henry e I Shall Be Released, che diventa quindi l’unico brano ripreso nei tre giorni da tre acts diversi). Gran concerto, e d’altronde i nostri, oltre ad essere di casa a Woodstock, erano nel loro miglior periodo di sempre.

CD31 – Johnny Winter. Il texano albino si presenta alla testa di un power trio ed infiamma la platea con una performance ad altissimo tasso elettrico: subito in palla con due rock-blues tonici e vigorosi del calibro di Mama, Talk To Your Daughter e Leland Mississippi Blues (che servono come riscaldamento), il nostro poi piazza due prestazioni mostruose con il boogie Mean Town Blues e You Done Lost Your Good Thing Now (quest’ultima di B.B. King) di 10 e 15 minuti rispettivamente, due brani in cui dire che fa i numeri con la chitarra è persino riduttivo. Nelle seguenti tre canzoni, tra le quali spicca una dirompente Tobacco Road (John D. Loudermilk), Johnny è raggiunto sul palco dal fratello tastierista Edgar; chiusura con una formidabile e potentissima Johnny B. Goode di Chuck Berry, rock’n’roll come se non ci fosse domani.

CD32 – Blood, Sweat & Tears. Pur senza Al Kooper, che aveva già lasciato i compagni, il gruppo qua guidato da David Clayton-Thomas e Steve Katz suona un set potente, caldo e colorato, un vero esempio di rock band con fiati in leggero anticipo sui Chicago. Pochi i brani originali (I Love You More Than You’ll Ever Know, dal periodo con Kooper, Spinning Wheel e Sometimes In Winter), e soprattutto cover dalla provenienza disparata ma col marchio di fabbrica dei nostri: ottima la ballad di Randy Newman Just One Smile, e di pari livello sono le riletture di Smiling Phases (Traffic), God Bless The Child (Billie Holiday, molto intensa) e And When I Die (Laura Nyro). Un set creativo e stimolante, tra rock, jazz, swing, soul ed errebi.

CD 33 – Crosby, Stills & Nash (& Young). Altro dischetto tra i più attesi, si apre con la performance acustica del trio, che come dice Stephen Stills è appena alla sua seconda apparizione pubblica e quindi un po’ teso. Sette brani che mettono in evidenza le splendide armonie vocali dei tre, con menzioni speciali per Suite: Judy Blue Eyes, Helplessly Hoping e Marrakesh Express, mentre David Crosby ci delizia con la tenue Guinnevere. Poi arriva Neil Young che prosegue la parte “unplugged” con due ottime Mr. Soul e I’m Wonderin’, seguito ancora da Stills con You Don’t Have To Cry. Poi i quattro chiamano sul palco Greg Reeves al basso e Dallas Taylor alla batteria e ci danno dentro con cinque canzoni elettriche e decisamente rock, che anticipano di due anni le magnifiche evoluzioni di Four Way Street. Dopo l’orecchiabile Pre-Road Downs di Graham Nash abbiamo le celebri Long Time Gone e Wooden Ships di Crosby (due esecuzioni superbe), la meno nota Bluebird Revisited di Stills e Sea Of Madness, un inedito assoluto di Young che il canadese non riprenderà mai come solista (particolare importante: la Sea Of Madness apparsa all’epoca sul triplo album originale di Woodstock era stata registrata più avanti al Fillmore East, mentre in questo box appare per la prima volta quella del Festival). Finale ancora acustico con una brevissima Find The Cost Of Freedom e ritorno all’elettrico per la guizzante 49 Bye-Byes.

CD34 – The Butterfield Blues Band. Pur senza Mike Bloomfield (ma con Howard “Buzzy” Feiten che si destreggia comunque abilmente alla sei corde) la BBB regala al pubblico un robusto set di blues al 100%, con Paul Butterfield in buona forma sia alla voce che soprattutto all’armonica, ed un gruppo notevole alle spalle (oltre a Feiten, segnalerei il bassista Rod Hicks, le tastiere di Ted Harris ed il sax della futura star David Sanborn). Belle versioni di classici come una sulfurea Born Under A Bad Sign di Albert King, una lenta e raffinata Driftin’ And Driftin’ di John Lee Hooker, quasi afterhours, fino al finale con una Everything’s Gonna Be Alright di Little Walter decisamente tonica e grintosa. Ma ci sono anche ottimi brani originali come la vigorosa No Amount Of Loving e la fiatistica Morning Sunrise, tra blues e jazz.

CD35 – Sha Na Na. La presenza a Woodstock di questo gruppo che portava avanti una sorta di revival del rock’n’roll e doo-wop degli anni cinquanta è sempre stata un mistero. Non perché non fossero bravi (anche se sparirono presto dalla circolazione), ma perché secondo me erano fuori posto in una manifestazione simile, ed ancora più incomprensibile la scelta di metterli appena prima del momento forse più atteso. Il loro breve set, che recupera brani anche poco noti della golden age del rock’n’roll (di gruppi come The Silhouettes, The Dell Vikings, The Monotones o Danny & The Juniors, anche se c’è spazio anche per una divertita (Marie’s The Name) Of His Latest Flame, portata al successo sia da Del Shannon che da Elvis) è comunque piacevole, divertente ed in alcuni momenti persino trascinante, ma, ripeto, abbastanza fuori contesto.

CD36/37 – Jimi Hendrix. Ed ecco il gran finale del Festival, che verrà ricordato per uno di quei momenti che hanno scritto la storia del rock, cioè quando all’alba del quarto giorno, davanti ad un pubblico stravolto, il mancino di Seattle ha tirato fuori dalla sua chitarra una versione allucinata, potente, psichedelica e distorta dell’inno americano The Star-Spangled Banner. Il resto dell’esibizione di Jimi (qui a capo di un sestetto battezzato per l’occasione The Gypsy Sun And Rainbows, che comprende comunque i fedeli Billy Cox e Mitch Mitchell) è sempre stata giudicata ottima ma forse non all’altezza di altre leggendarie (tipo quella a Monterey). Io la giudico eccellente, a partire da una strepitosa Voodoo Child di 13 minuti ed a seguire con bellissime versioni di Spanish Castle Magic, Foxy Lady e Purple Haze, una Fire sanguigna e diretta ed una delle migliori rese di sempre della bluesata Red House. Finale con due strepitose improvvisazioni strumentali con Jimi che fa cose non umane alla chitarra (Woodstock Improvisation e Villanova Junction) e con la sempre spettacolare Hey Joe.

CD38 – Appendix. Dischetto per completisti, che comprende tutti gli “stage announcements” pre e post concerto, oltre a tutto ciò di non musicale che è avvenuto durante i tre giorni. Dubito che qualcuno lo ascolterà mai.

Spero di non avervi tediato, ma secondo me valeva la pena rivivere quei tre giorni di Agosto 1969 che, volenti o nolenti, hanno rivoluzionato il mondo della musica contemporanea e hanno in un certo senso chiuso la stagione della Summer Of Love, preparando l’ingresso negli anni settanta nei quali il rock diventerà sempre di più un business perdendo la sua innocenza. So che quest’anno sono già uscite importanti riedizioni (il box della Rolling Thunder Revue) ed altre sono in arrivo (Abbey Road), ma credo che nessuno si offenderà se eleggo fin d’ora questo mastodontico cofanetto “ristampa del 2019”.

Marco Verdi