Il Testamento “Postumo” Di Leonard. Thanks For The Dance – Leonard Cohen

leonard cohen thanks for the dance

Leonard Cohen – Thanks For The Dance – Columbia/Legacy– LP – CD

Sono passati poco più di tre anni dalla scomparsa di Leonard Cohen, e anche da un mio “post” sul Blog, dove ripercorrevo la sua straordinaria discografia (disco per disco). Questo Thanks For The Dance (in uscita in questi giorni), è il primo disco di inediti (postumo) del cantautore canadese, e questo lo si deve solo grazie al figlio Adam Cohen, che sette mesi dopo la morte  del padre (su sua esplicita richiesta), ha recuperato degli appunti sparsi, bozzetti, e tracce musicali, finalizzando tutto il lavoro che era rimasto incompiuto del precedente e ultimo You Want It Darker.

Per fare le cose al meglio il buon Adam si è attaccato al telefono, e ha giustamente invitato alcuni amici e colleghi a contribuire anche con il loro talento alla buona riuscita del disco, a partire dal grande musicista spagnolo Javier Mas (elemento di spicco negli ultimi anni di tournée con Leonard), ammiratori e collaboratori di lunga data come Jennifer Warnes, Sharon Robinson (entrambe coriste storiche di Cohen),  Leslie Feist, Damien Rice, Beck,, il compositore Dustin O’Halloran al piano, Richard Reed Parry degli Arcade Fire) al basso, Bryce Dessner il chitarrista dei National, il tutto con il supporto del coro berlinese Cantus Domus e della Congregation Shaar Hashomayim  (già impiegata nel disco precedente), oltre ad altri amici di lunga data Patrick Watson alle tastiere, che ha curato gli arrangiamenti dei fiati e di Daniel Lanois chitarra e piano. Ma nel disco sono stati impiegati complessivamente più di quaranta musicisti. Data la particolarità del lavoro, mi è sembrato giusto sviluppare i brani “track by track”:

Happens To The Heart – Il brano iniziale, dopo qualche secondo come in un “fil-rouge”, riparte da dove era terminato l’ultimo meraviglioso You Want It Darker, con le note iniziali della chitarra flamenco di Mas, il piano vellutato di Lanois, e il solito canto meditativo di Cohen, che mette i brividi alla schiena di ogni ascoltatore.

Moving On – Questa canzone è l’ennesimo omaggio all’amata Marianne Ihlen, una tenue ballata declamata da Leonard e sussurrata come una preghiera, sostenuta solamente dalle note della chitarra di Javier, e dal suono lieve di uno scacciapensieri.

The Night Of Santiago – Meritevole recupero di un poema di Garcia Lorca, che era gia apparsa in Book Of Longing di Philip Glass, e che nella versione suddetta era cantata in forma corale e operistica, in questa nuova rilettura di Adam viene rivoltata come un calzino ed eseguita in una versione “spagnoleggiante”, che si dipana tra accordi di pianoforte che flirtano con il virtuosismo dell’artista spagnolo, accompagnando la voce baritonale del “maestro”.

Thanks For The Dance – Anche questo brano era stato già interpretato da Anjani Thomas in Blue Alert (06), uno dei suoi memorabili valzer che richiama immancabilmente il famoso Take This Waltz, un bellissimo commiato in musica impreziosito ai cori dalle voci sensuali di Jennifer Warnes e Leslie Feist.

It’s Torn – Un giro di basso accompagnato dal pianoforte di Lanois introduce It’s Torn, uno dei brani più oscuri del lavoro, una ballata “dark” che si avvale nella parte finale, della voce sinuosa e vellutata di una delle sue tante brave coriste, Sharon Robinson.

The Goal – Sempre dal libro di poesie e poemi Book Of Longing, viene recuperata questa brevissima lirica in musica, recitata in forma di monologo dal grande Leonard.

Puppets – Questo è certamente il brano più politico del disco (viene ricordato lo sterminio degli Ebrei vittime del genocidio nazista, conosciuto storicamente come Shoah), dove la voce quasi minacciosa dell’autore, viene accompagnata dalla chitarra di Michael Chaves, e dal coro solenne dei berlinesi Cactus Domus, e monastico dei Shaar Hashomayim Choir.

The Hills – Indubbiamente questo è il pezzo più in formato canzone dell’album, una piccola gemma che si sviluppa in modo crescente, con un arrangiamento ricco e vario dove spiccano le voci angeliche delle sconosciute (ma brave) Erika Angell, Molly Sveeney, Lilah Larson

Listen To The Hummingbird – Il testo di questo brano altro non sono che i versi recitati da Cohen nell’ultima conferenza stampa ai tempi di You Want It Darker, con il piano delicato di Larry Goldings che detta la scarna melodia, valorizzata dalle voci di Damien Rice e del figlio Adam.

Giunto alla fine dell’ascolto del CD di Leonard e Adam Cohen,(sono solo poco più di 28 minuti, ma molto intensi) ho la netta sensazione che il figlio d’arte abbia fatto un lavoro splendido e altamente meritevole, tenendo fede alla promessa fatta al padre prima di morire, confermando anche che sarà l’unico album postumo che uscirà a suo nome, perché deve essere chiaro che la discografia ufficiale di Cohen finisce con questo ultimo viaggio, senza le eventuali contaminazioni discografiche varie. La carriera di Leonard Norman Cohen è stata un lungo percorso di epitaffi, poemi e poesie , cantati e arrangiati con scrupolo,  con una voce (la cosa più bella di questo Thanks For The Dance) incredibilmente bassa, baritonale, che sembra parlare al cuore e all’anima di ognuno di noi. Purtroppo, non ci sarà una prossima volta (vedremo se sarò vero), ma grazie per l’ultimo ballo Mr. Cohen.

*NDT: Se non conoscete Adam Cohen (nonostante il fardello di essere figlio di cotanto padre), ha una dignitosa carriera alle spalle, composta da quattro uscite discografiche, di cui almeno due Like A Man (11) e We Go Home (14), altamente consigliate. Cercate gente, cercate.!

Tino Montanari

Lo Springsteen Della Domenica: Un Emozionante Ritorno “In Solitaria” Al Passato. Bruce Springsteen – Asbury Park 11/24/96

bruce springsteen live asbury park 1996

Bruce Springsteen – Asbury Park 11/24/96 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Ci sono luoghi che sono indissolubilmente legati a musicisti in particolare: se nomino per esempio il Cavern Club la mente va direttamente ai Beatles, e nello stesso modo se parlo dello Stone Pony di Asbury Park viene automatico pensare a Bruce Springsteen che nel locale di punta della cittadina del New Jersey mosse i primi passi artistici nei primi anni settanta (e come lui gli amici Little Steven e Southside Johnny). Durante la tournée acustica seguita alla pubblicazione nel 1995 di The Ghost Of Tom Joad, in assoluto il primo tour in cui il nostro era da solo sul palco, Bruce decise di fissare delle date nei luoghi della sua gioventù, tra cui la natia Freehold (concerto già pubblicato in precedenza nell’ambito dei bootleg ufficiali dal vivo del Boss) ed appunto Asbury Park, dove Bruce tenne tre spettacoli nel Novembre del 1996, il primo dei quali è ora disponibile come ultima pubblicazione in ordine di tempo.

C’è da dire che lo Stone Pony all’epoca aveva già chiuso i battenti da cinque anni per bancarotta (avrebbe però riaperto nel 2000), e quindi lo show si svolge al Paramount Theatre: l’atmosfera è comunque la stessa, con il nostro che fa capire che per lui non è una serata come le altre cambiando sensibilmente la scaletta rispetto alle altre sere del tour, Freehold compresa (le setlist dei concerti acustici di Bruce, comprese quelle della tournée del 2005 seguita a Devils And Dust, sono sempre state più rigide di quelle con la E Street Band, cosa strana in quanto essendo da solo sul palco potrebbe fare ancora di più ciò che vuole). In più, Springsteen non è da solo in quanto, a parte le tastiere “off stage” di Kevin Buell, durante lo show salgono sul palco il vecchio compagno Danny Federici con la sua fisarmonica in cinque pezzi, la futura E Streeter Soozie Tyrell al violino e voce in sette canzoni e la moglie del Boss Patti Scialfa alle armonie vocali in altri quattro brani (tutti in comune con la Tyrell). Le novità cominciano già dai tre pezzi iniziali, presi tutti dal primo album di Bruce che citava Asbury Park anche nel titolo, tre sentite versioni di Blinded By The Light, Does This Bus Stop At 82nd Street? e la sempre acclamatissima Growin’ Up.

Poi si parte con una miscellanea di brani tratti da vari periodi della carriera del Boss, con una dietro l’altra Atlantic City, Independence Day (unica performance di tutto il tour), l’allora nuova Straight Time, una Darkness On The Edge Of Town davvero energica (con Bruce che passa alla dodici corde), la sempre trascinante Johnny 99 e la sempre toccante Mansion On The Hill. C’è posto anche per Wild Billy’s Circus Story, presa dal secondo album ed assoluta rarità dal vivo, mentre Patti viene introdotta dall’irriverente e scherzosa Red Headed Woman e si unisce al marito per una sentita Two Hearts, una eccellente When You’re Alone (un brano che andrebbe riscoperto) ed una splendida Shut Out The Light, altra rarità che in origine era sul lato B del singolo Born In The U.S.A., arricchita dalla fisa di Federici. La seconda parte dello show si apre con alcune delle più belle canzoni di The Ghost Of Tom Joad, vale a dire la title track, Sinaloa Cowboys, The Line e Across The Border, inframezzate da un’intensissima Racing In The Street. Conclusione con due brani che suonare senza band alle spalle denota coraggio, cioè Working On The Highway e Rosalita, con in mezzo una vibrante rilettura della bellissima This Hard Land, per finire con la struggente 4th Of July, Asbury Park (e come poteva mancare?) e la chiusura tipica di quel tour affidata a The Promised Land.

Un bel concerto quindi, con importanti risvolti di carattere emotivo, anche se personalmente continuo a preferire il Bruce Springsteen nelle vesti di rocker.

Marco Verdi

Altro Grandissimo Concerto, Con in Più Un Ospite Speciale “Abbastanza” Bravo! The Rolling Stones – Bridges To Buenos Aires

rolling stones bridges to buenos aires

The Rolling Stones – Bridges To Buenos Aires – Eagle Rock/Universal BluRay – DVD – 3LP – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Il colossale tour degli stadi che i Rolling Stones tennero nel biennio 1997-98 in supporto all’album Bridges To Babylon fu uno dei più riusciti della loro storia, ed anche tra quelli di maggiore successo. I nostri devono poi essere particolarmente affezionati a quella tournée dato che, giusto ad un anno di distanza dallo splendido Bridges To Bremen (che documentava uno show del Settembre 1998 in Germania https://discoclub.myblog.it/2019/07/03/due-giorni-con-gli-stones-parte-2-bridges-to-bremen/ ) hanno deciso di pubblicare questo Bridges To Buenos Aires (fantasia nei titoli al potere…), che si occupa della serata del 5 Aprile sempre del ’98 nella capitale argentina, una di cinque consecutive tutte esaurite al River Plate Stadium. Ed il concerto non perde certo il confronto con quello di Brema, in quanto vede le Pietre in forma strepitosa che intrattengono alla grande per oltre due ore il pubblico sudamericano, pescando a piene mani tra le hits del loro repertorio inimitabile ed aggiungendo più di una chicca.

Ma la cosa che forse eleva questo concerto ad un gradino superiore rispetto a quello tedesco pubblicato lo scorso anno è la presenza nientemeno che di Bob Dylan nella sua Like A Rolling Stone, un’apparizione a sorpresa e non annunciata che fa letteralmente impazzire i fans: e la performance è splendida, in quanto Dylan (che è la voce principale) appare in buona forma, rilassato e perfino sorridente, e vederlo fianco a fianco di Mick Jagger (con il quale ha anche una buona intesa vocale nonostante qualche frase fuori tempo – ma duettare con Bob non è cosa facile) è un evento che non capita certo tutti i giorni. Ma sarebbe sbagliato concentrarsi solo sulla presenza del leggendario cantautore americano, in quanto tutto il concerto è ad altissimi livelli, ed è reso ancora più godibile da una regia dinamica (sì, per una volta faccio la recensione basandomi sulla parte video) ed attenta ai dettagli. I quattro si presentano subito pimpanti: Jagger con una giacca lunga in velluto (della quale si libererà presto, ma tutti quanti cambieranno innumerevoli outfit durante lo show) e camicia gialla, Keith Richards con un “sobrio” cappotto tigrato, Ron Wood con sigaretta d’ordinanza e l’impassibile Charlie Watts con una semplice t-shirt. Il concerto comincia col botto con la classica (I Can’t Get No) Satisfaction, con Jagger che inizia a macinare chilometri sul gigantesco palco (e manterrà una incredibile pulizia vocale durante tutto lo show), Keith che riffa da par suo ed il resto della band che è già un treno.

La scaletta all’inizio ed alla fine della serata ricalca quella del concerto di Brema, e quindi si prosegue con una spettacolare Let’s Spend The Night Together, una tosta Flip The Switch ed una favolosa Gimme Shelter, “cattiva” più che mai e con la consueta sensuale performance da parte di Lisa Fischer. A questo punto Mick prende la chitarra acustica ed introduce uno dei momenti magici della serata, cioè una fantastica Sister Morphine tesa e tagliente come una lama, con la slide di Wood che rimpiazza quella della versione originale di Ry Cooder, e Chuck Leavell fa lo stesso con la parte di piano di Nicky Hopkins. La sempre trascinante It’s Only Rock’n’Roll (But I Like It) precede il soul-rock dell’allora nuova Saint Of Me e la travolgente Out Of Control, uno dei brani migliori degli Stones negli ultimi trent’anni. Miss You quella sera è strepitosa, con Mick alla chitarra elettrica, Darryl Jones che si destreggia da grande bassista ed uno straordinario assolo di sax da parte di Bobby Keys; dopo la già citata Like A Rolling Stones Mick introduce i vari musicisti e lascia spazio a Richards, che propone nel suo classico stile informale e “scazzato” Thief In The Night e la poco nota Wanna Hold You. I nostri si spostano quindi sul b-stage, il piccolo palco sistemato in mezzo al pubblico, dove ci deliziano con tre brani a tutto rock’n’roll come Little Queenie di Chuck Berry, When The Whip Comes Down e You Got Me Rocking.

Tornati sul palco principale Jagger e compagni portano a termine la serata con una magnifica Sympathy For The Devil, in cui Keith si “prende” la canzone con un grande assolo, e con la solita raffica finale di rock’n’roll all’ennesima potenza, formata da Tumbling Dice, Honky Tonk Women, Start Me Up, Jumpin’ Jack Flash e Brown Sugar, un fuoco incrociato micidiale appena stemperato dalla splendida You Can’t Always Get What You Want.  Spero che i Rolling Stones non smettano di pubblicare live d’archivio nel periodo pre-natalizio, dato che i risultati sono sempre esaltanti: quest’anno poi abbiamo una ciliegina chiamata Bob Dylan, non esattamente l’ultimo arrivato.

Marco Verdi

Tornano Le Ragazze Scatenate Del Blues Caravan 2019 – Katarina Pejak, Ina Forsman, Ally Venable

blues caravan 2019 Katarina Pejak, Ina Forsman, Ally Venable

Katarina Pejak, Ina Forsman, Ally Venable  – Blues Caravan 2019 – CD+DVD Ruf Records

La “carovana del blues” della Ruf è una tradizione annuale che si perpetua ormai dal lontano 2005: ogni anno l’etichetta tedesca raduna tre artisti diversi scelti dal proprio roster e li spedisce on the road in tour, per rinverdire e riproporre quelle che sul finire anni ’60, primi ’70 si chiamavano soul revue. Fatte le debite proporzioni, e su scala molto più ridotta, pensate al Joe Cocker di Mad Dog, Ike & Tina Turner, o le stesse sortite degli artisti Stax in Europa, giusto per dare una idea. Poi la Ruf sceglie una data della tournée, di solito in Germania (in questo caso siamo al Café Hahn di Coblenza il 15 febbraio del 2019) e la registra e la filma per pubblicare poi una confezione CD + DVD, che riporta quanto è avvenuto in quella specifica serata. Nelle edizioni  passate di solito non c’era molta differenza tra  audio e video, un paio di brani, ma questa volta il DVD ha ben otto tracce in più rispetto al CD. Per chi recensisce invece, avendo a disposizione la versione “povera” audio, ci si accontenta: le protagoniste del Blues Caravan 2019 sono tre giovani ed avvenenti donzelle, la cantante finlandese Ina Forsman, forse la più talentuosa del terzetto, in possesso di una voce notevole e con due eccellenti album per la Ruf, specie il primo omonimo del 2016, lo stesso anno in cui aveva già partecipato al Blues Caravan https://discoclub.myblog.it/2017/03/05/ancora-una-volta-lunione-fa-la-forza-ina-forsman-tasha-taylor-layla-zoe-blues-caravan-2016-blue-sisters-in-concert/ , la serba Katarina Pejak , che suona anche le tastiere oltre a cantare, e la texana Ally Venable, la più giovane con i suoi 20 anni, che è anche la chitarrista.

Completano la formazione il bassista Roger Inniss e il batterista della Venable Elijah Owings. Le varie musiciste si alternano alla guida e al canto con tre canzoni a testa (cinque nel DVD) e poi uniscono le forze in alcuni brani: il tutto, al solito, è molto piacevole e ben suonato. L’iniziale e corale They Say I’m Different mette subito in luce la voce potente della Forsman in un brano blues con ampie venature R&B e soui, con la chitarra della Venable che inchioda un assolo veramente pungente, e le altre due che “rispondono” ad Ina in un call and response di buona fattura ,con citazioni all’interno del branodi Muddy Waters, Nina Simone, Stevie Ray Vaughan, Aretha Franklin, Ray Charles e Jimi Hendrix; She’s Coming After You cantata dalla Pejak mette in mostra il suo stile più raffinato e jazzato, poi ribadito in Roads That Cross la dolce e ammiccante title track del suo debutto per la Ruf, brani che evidenziano anche il suo talento di pianista, unito a d una voce piacevole ma non dirompente come quella della Forsman. Turtle Blues è una cover pianistica del celebre brano di Janis Joplin, mentre con Texas Honey parte la sezione del concerto dedicata a Ally Venable, la più rockeggiante del trio nel proprio approccio, anche lei voce non memorabile ma ottimo talento chitarristico, come conferma in una serie di assoli fiammeggianti, anche nel boogie tiratissimo di Nowhere To Hide dove va di slide alla grande https://www.youtube.com/watch?v=ZIethtLDlxQ , oppure nella gagliarda Broken dove la Pejak offre un ottimo supporto all’organo.

Poi tocca alla Forsman con una sinuosa All Good, un brano errebì con qualche rimando anche a Amy Winehouse, e a seguire un intenso blues lento come Miss Mistreated, ancora con l’organo insinuante della Pejak che supporta la voce potente della cantante finlandese, che conclude la sua porzione con la mossa e brillante Genius. La parte corale prevede una bella versione di Love Me Like A Man, un bellissimo blues scritto da Chris Smither, ancora con la slide in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=4QNPB87Nsks , I’m A Good Woman un gagliardo brano soul di Barbara Lynn, una divertente e coinvolgente Sixteen Tons di Merle Travis e una brillante versione di The House Is Rockin’ di Stevie Ray Vaughan, rallentata ad arte nella prima parte e poi con finale a tutta velocità con le tre ragazze scatenate.

Bruno Conti

Cofanetti Autunno-Inverno 8. Il Loro Disco Più Discusso E’ Anche (Finora) La Ristampa Più Interessante! The Doors – The Soft Parade 50th Anniversary

doors soft parade

The Doors – The Soft Parade 50th Anniversary – Rhino/Warner 3CD/LP Box Set

Dal 2017 anche i Doors hanno iniziato una campagna di ristampe dell’intero catalogo per celebrare il cinquantesimo anniversario di tutti i loro album. Se la riedizione del loro mitico esordio omonimo del 1967 era stata una delusione (nessun vero inedito, ed una performance dal vivo al Matrix solo parziale rispetto ad un live pubblicato anni fa), Strange Days era stata una presa in giro, con soltanto le versioni stereo e mono del disco in un doppio CD (che quindi non si allinea neppure logisticamente sugli scaffali con i cofanetti pubblicati finora). L’uscita lo scorso anno del box di Waiting For The Sun aveva lasciato intravedere qualche inedito dal vivo, ma solo cinque brani tratti da un concerto a Copenhagen, mentre il resto era formato da semplici “rough mixes” di alcuni pezzi dell’album originale https://discoclub.myblog.it/2018/10/02/con-il-terzo-cinquantenario-arriva-anche-qualche-misero-inedito-the-doors-waiting-for-the-sun-50th-anniversary/ . Non avevo quindi grosse aspettative per la riedizione del quarto lavoro della band californiana The Soft Parade, ed invece devo dire che questa volta i nostri (John Densmore e Robby Krieger gli unici membri ancora in vita) hanno avuto il braccino meno corto e, a parte il solito “inutile” LP che serve solo a rendere più elegante la confezione ma anche a far salire il prezzo, ci hanno gratificato di ben due CD di brani quasi del tutto inediti, con addirittura delle parti strumentali ri-suonate ex novo e la pubblicazione per la prima volta nella sua interezza di un brano leggendario.

La cosa ironica è che finora la migliore tra le ristampe celebrative del quartetto di Venice Beach riguarda il loro album più discusso e meno amato di sempre, The Soft Parade appunto, un disco all’epoca molto criticato per la scelta del produttore Paul Rothchild di “manipolare” le canzoni dei nostri con arrangiamenti a base di archi e fiati per dare ai brani stessi una veste più pop. Se aggiungiamo a questo il fatto che per la prima volta le canzoni non erano frutto di una collaborazione di gruppo ma recavano in gran parte la firma di Krieger in quanto Jim Morrison in quel periodo era più interessato alle suo poesie che a registrare musica, capirete il perché The Soft Parade sia sempre stato guardato come il disco meno rappresentativo dello stile dei nostri. Tra l’altro nell’album l’unico pezzo che nel 1969 si fece un po’ valere in classifica fu il primo singolo Touch Me, che riuscì ad arrivare fino alla terza posizione. Risentito oggi il disco originale (che occupa il primo CD del box appena uscito, opportunamente rimasterizzato) non è affatto male, anche se posso capire la sorpresa di fans e critici all’epoca nel sentire sonorità non troppo familiari: detto della presenza al basso in diversi pezzi del grande Harvey Brooks (Bob Dylan, Electric Flag), dato che come saprete i nostri non avevano un vero bassista nella line-up, partiamo con una disamina dei contenuti del cofanetto.

L’album del 1969 parte con Tell All The People, una gradevole pop song dalla base pianistica, un motivo immediato e con l’accompagnamento dei fiati che ci sta anche bene, brano seguito dalla già citata Touch Me, vivace pezzo cantato da Jim in maniera fluida e rilassata, con un refrain delizioso nel quale sentiamo gli archi per la prima volta. A questo punto abbiamo un poker di brani senza orchestra, con i nostri che si esibiscono quindi nel loro ambiente sonoro naturale, come l’ottima Shaman’s Blues, un tipico pezzo in cui Morrison gioca con la voce in un crescendo emozionale mentre Ray Manzarek si fa largo tra organo e clavicembalo, Krieger ricama da par suo e Densmore tiene il ritmo col suo solito stile raffinato di influenza jazz. Do It ha un buon train sonoro rock anche se dal punto di vista dello script si può definire un brano minore, Easy Ride (unica a provenire dalle sessions del disco precedente, Waiting For The Sun) è un coinvolgente e pimpante rockabilly dominato dallo splendido organo di Ray e con Robbie che suona in stile quasi country, mentre  Wild Child è un rock-blues vibrante e diretto. Tornano i fiati nella saltellante Runnin’ Blue, tra jazz e rock ma con un ritornello (cantato da Krieger) quasi bluegrass e con tanto di violino e mandolino, e con la melodiosa Wishful Sinful, che forse sarebbe stata meglio senza archi. Finale con la lunga title track, quasi nove minuti di cambi di tempo e melodia: inizio ipnotico, poi si prosegue tra rock, funky e cabaret ed una parte centrale jammata e decisamente creativa; come bonus abbiamo Who Scared You, discreta rock song che era in origine sul lato B di Wishful SInful.

Il secondo CD vede un nuovo remix da parte dello storico tecnico del suono Bruce Botnick dei cinque pezzi con archi e fiati (compresa Who Scared You), riproposti qui nudi e crudi: infatti Botnick all’epoca non era d’accordo con Rothchild sulla direzione musicale del disco, ed oggi in un certo senso si prende la rivincita. I brani in questione sono ancora più diretti e piacevoli, specialmente Tell All The People e Touch Me, ed in Runnin’ Blue, Wishful Sinful e la stessa Touch Me vedono nuove parti di chitarra suonate quest’anno da Krieger (mentre alla fine del CD gli stessi tre pezzi sono riproposti con le tracce chitarristiche originali, ma sempre senza orchestrazioni). Una delle chicche del box sono però i tre brani eseguiti dai Doors come trio (Morrison era assente, pare, ingiustificato), con Manzarek che assume il ruolo di leader e cantante con lo pseudonimo di Screamin’ Ray Daniels: due blues di Muddy Waters (Don’t Go No Further, che verrà re-incisa con Jim alla voce per un lato B del 1971, e I’m Your Doctor), entrambi suonati alla grande, e soprattutto una prima e già trascinante versione del futuro classico Roadhouse Blues, che meno di un anno dopo aprirà Morrison Hotel (questi tre pezzi vedono anche nuove parti di basso incise nel 2019 da Robert DeLeo degli Stone Temple Pilots)

Il terzo CD, a parte un frammento di 40 secondi intitolato I Am Troubled, un’invettiva da predicatore di Morrison (Seminary School) che servirà da introduzione alla title track e la bizzarra Chaos, è tutto incentrato sulla leggendaria e monumentale Rock Is Dead, uno dei brani più mitizzati di quel periodo, una sorta di suite di 64 minuti in cui i nostri ripercorrono alla loro maniera la storia del rock con improvvisazioni a go-go, Morrison che gigioneggia alla grande, citazioni di brani famosi (Love Me Tender e Mystery Train di Elvis, Pipeline degli Chantays), ed un misto di rock, blues, jazz ed un pizzico di avant-garde: il brano è qui proposto nella sua interezza per la prima volta, dato che finora ne era uscita solo una parte in un’antologia del 1997. Un tour de force incredibile che da solo vale la spesa del box, e per una volta non è una frase fatta. Speriamo che questa bella ristampa abbia invertito il trend per quanto riguarda le riedizioni dei Doors: lo scopriremo il prossimo anno quando toccherà a Morrison Hotel.

Marco Verdi

Preziose Missive Dal Passato. The Animals – The Complete Live Broadcasts 1 1964-1966

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The Animals – The Complete Live Broadcasts 1 1964-1966 – 2 CD Rhythm & Blues Records

Ammetto che quando ho letto le prime notizie di questo doppio CD dedicato agli Animals temevo il peggio: da dove è sbucata questa Rhythm And Blues Records, etichetta inglese specializzata in ristampe e compilations di materiale “antico”, diciamo dell’era pre-copyright, quindi con almeno 50 anni sul groppone, canzoni e album sui quali le case discografiche originali non sono più proprietarie esclusive dei diritti? Quindi spesso CD con un suono scadente, poche informazioni sulla provenienza dei brani,  libretti assenti o con note approssimative: niente di tutto ciò, siamo di fronte ad un lavoro fatto con i fiocchi, libretto di 16 pagine ricchissimo di notizie, lista dei brani estremamente dettagliata con indicazioni precise sulle trasmissioni radiofoniche da cui proviene ciascuno dei brani contenuti in questa antologia, e soprattutto un suono perlopiù sorprendentemente brillante e dettagliato (non in tutti i brani, forse sarebbe stato troppo pretenderlo), mono come è ovvio, visto che si tratta di registrazioni relative al periodo 1964-1966, al solito il problema probabile è la scarsa reperibilità.

animals complete animals

Già la discografia degli Animals è piuttosto complicata, con le versioni inglesi degli album dell’epoca (come succedeva per le discografie dei “rivali” Beatles e Stones, ma anche per tutti gli altri) senza i singoli di successo, poi inseriti in raccolte successive oppure nelle versioni americane degli LP, titoli ingannevoli, Animalism e Animalisms e via così. Se non siete dei partiti della band di Eric Burdon e quindi avete già tutti i loro album, l’ideale per conoscere il gruppo di Newcastle sarebbe recuperare il doppio antologico della Parlophone The Complete Animals, che attraverso 41 brani in ordine cronologico copre splendidamente il periodo dal 1964 al 1965, evitando doppioni e ripetizioni (è ancora disponibile a prezzo speciale,lo vedete qui sopra). Tornando a Broadcasts 1964-1966, qui il periodo seguito è più ampio e segue le esibizioni radiofoniche di quel quintetto, oltre al grandissimo Burdon alla voce, Alan Price all’organo, Hilton Valentine alla chitarra, il futuro manager di Jimi Hendrix Chas Chandler al basso e John Steel alla batteria (che guida ancora l’attuale incarnazione del gruppo). Detto che House Of The Rising Sun non c’è, il resto del materiale BBC, e di altre emittenti dell’epoca, riporta i grandi successi  ed una serie notevole di chicche che vanno a scavare in profondità nel repertorio tra R&B, Blues, R&R s e proto-rock che era nelle corde della band, una miscela esplosiva che aveva pochi rivali in Inghilterra, a parte gli Stones, i Them di Van Morrison, i primi Yardbirds e forse anche le band pre British Blues come quelle di Alexis Korner e Cyril Davies.

Il primo CD riporta cinque sessions per la trasmissione della BBC Saturday Club Session dal febbraio ’65 a marzo ’66, 27 brani + una intervista, inframmezzati ogni tanto dalle leggendarie ed affascinanti presentazioni vintage degli speaker dell’emittente britannica: qualche leggero e contenuto calo nella qualità sonora , ma anche versioni da sballo di Don’t Let Me Be Misunderstood, Dimples, Mess Around, Bring It On Home To Me, We’ve Gotta Get Out Of This Place, spesso più belle degli originali, con la chitarra di Valentine e l’organo e il piano di di Price a pennellare il sound, il basso pulsante di Chandler e la batteria di Steel a sostenere la voce potente, ispiratissima e negroide di Eric Burdon, una delle più grandi voci di sempre. Per non dire di versioni fantastiche di una jazzata In The Wee Wee Hours di Chuck Berry, Heartbreak Hotel di Elvis, rallentata ad arte, l’iniziale furiosa Gonna Send You Back To Walker con Eric che canta con un impeto formidabile, Drown In My Own Tears di Ray Charles, una splendida Work Song di Cannonball Adderley, tra le grandi hits dimenticavo una spumeggiante It’s My Life con il suo celebre riff e il ritornello incalzante, inside Looking Out del 1966, uno dei rari brani firmati dalla band, una scattante Sweet Little Sixteen e tantissime altre.

Il secondo CD è forse più dispersivo, ancora un brano dalle Saturday Club Sessions del 1966, poi si salta agli unici tre brani del marzo 1964, tratti dalla trasmissione A Whole Lotta Shakin’, una tripletta scoppiettante con Talkin’ Bout You, una rauca e selvaggia Shout e Around And Around: Bruce Springsteen  sintonizzato alla radio, probabilmente ascoltava e prendeva nota, poi brani dal vivo dallo spettacolo dei NME Poll Winners, con pubblico urlante, prevedono una primeva Boom Boom, una delle altre varie versioni di Don’t Let Me Misunderstood, mentre da  una trasmissione del 1965 una vibrante We’ve Gotta Get Out Of This Place, entrambi i brani poi ripetuti  in altri concerti come Gadzooks dell’aprile ’65 e dalla esibizione all’Olympia di Parigi per la RTL nel marzo del ’66, tantissima energia sempre, ma la qualità sonora è meno brillante, se no parleremmo di un album da 4 stellette. Ma tra le chicche finali, gli ultimi due brani registrati a Ready Steady Go del 16 settembre 1966 vedono Eric Burdon raggiungere sul palco la band di Otis Redding per una pimpante Hold On I’m Coming, e poi insieme al King Of Soul e a Chris Farlowe dare vita a una colossale versione di Shake. Le sei interviste conclusive, interessanti, sono probabilmente superflue, ma il resto, per dirla in due parole, forse tre, s’ha da avere.

Bruno Conti

Un Disco Che E’ Pura Sofferenza Messa In Musica. Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen + Un Breve Saluto A Paul Barrere.

nick cave ghosteen

Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen – Ghosteen/Awal 2CD – 2LP

Quando nel 2016 avevo recensito Skeleton Tree, l’allora nuovo album di Nick Cave ed i suoi Bad Seeds, era chiaro che avevo tra le mani il lavoro più drammatico e personale del cantautore australiano, un disco che era stato ispirato dalla tragica morte del figlio Arthur di 15 anni a causa di una caduta dalla scogliera di Ovingdean Gap vicino a Brighton https://discoclub.myblog.it/2016/09/30/rispetto-il-dolore-questuomo-nick-cave-and-the-bad-seeds-skeleton-tree/ . Un album che comprensibilmente rifletteva lo stato d’animo di un genitore distrutto dal dolore, formato da canzoni ancora più cupe del solito (Cave come saprete non è mai stato un tipo euforico e solare, e la morte ha sempre fatto parte delle tematiche trattate nei suoi brani) e contraddistinte da sonorità fredde e quasi di stampo ambient. Ma con questo nuovissimo doppio Ghosteen (uscito un po’ a sorpresa sulle piattaforme online circa un mese prima della versione “fisica”) Nick scava ancora più a fondo nel suo dolore, mettendosi a nudo come raramente un musicista ha fatto in passato:

Cave è indubbiamente portato per questo tipo di mood, ma un conto è ritagliarsi un ruolo di un certo tipo nell’ambito della canzone d’autore internazionale (recitando di fatto una parte), un altro è vivere in prima persona una tragedia terribile dalla quale è impossibile riprendersi fino in fondo. Ghosteen è quasi una seduta psicanalitica in cui Nick è il paziente e noi ascoltatori il dottore (anche se purtroppo non abbiamo nessun tipo di terapia da assegnargli), con una musica che spinge ancora di più sul pedale dell’elettronica, e la voce del nostro che si muove in mezzo a paesaggi sonori gelidi e molto poco accattivanti. Il risultato finale è un’opera di grande fascino pur essendo di non facile ascolto, con la voce del leader mai così fragile come in queste tracce: i Bad Seeds, poi, non sono mai stati così nelle retrovie, con Warren Ellis unico membro davvero impegnato tra synth, loops vari, flauto e violino, mentre gli altri (George Vjestica, chitarra, Jim Sclavunos, percussioni e vibrafono, Martyn Casey, basso e Thomas Wydler, batteria) sono presenti più che altro per onor di firma.

L’oscurità delle canzoni è in netta contrapposizione con la splendida copertina bucolica, una delle più belle tra quelle viste negli ultimi anni, e che potrebbe anche giustificare l’acquisto del doppio LP in luogo del CD, doppio anch’esso (un po’ inspiegabilmente, dato che la durata complessiva delle undici canzoni è di 68 minuti). L’elettronica domina fin dall’iniziale Spinning Song, introdotta da un raggelante tappeto di synth al quale si unisce quasi subito la voce rotta dal dolore di Cave, che più che cantare recita: il brano è volutamente una non-canzone, ma non posso comunque negare che il pathos è notevole: sul finale Nick inizia improvvisamente ad intonare una struggente preghiera con tanto di coro simil-ecclesiastico, da pelle d’oca. Bright Horses vede il nostro accompagnarsi al piano anche se il sintetizzatore non manca neppure qui, per una canzone toccante e splendida, ancora con la voce fragile che sembra sul punto di spezzarsi in più di un momento, e ad un certo punto entra anche una vera orchestra; ancora il piano introduce la cupa Waiting For You, con Cave che canta ancora con il cuore in mano intonando un ritornello splendido in cui invoca il ritorno del figlio, un momento di straordinaria commozione in grado di far capitolare anche l’animo più duro, mentre Night Raid è di nuovo un pezzo tutto costruito attorno alla voce grave di Nick e a pochi effetti sonori di fondo, un brano meno diretto del precedente ma intenso come pochi.

Sun Forest è gelida e tesa come una lama, con la voce che entra dopo più di due minuti di introduzione “sintetizzata” (ma il piano non manca), ancora con un’intonazione da preghiera, Galleon Ship vede nuovamente Cave cantare con alle spalle un tappeto elettronico ed un’atmosfera inquietante per uno dei pezzi più ostici del disco. Il primo CD si chiude con l’angosciosa Ghosteen Speaks, nella quale Nick quasi ci trasmette fisicamente la sua immane sofferenza (grazie anche ad un coro spettrale alle spalle), e con Leviathan, che per merito dell’uso di una tabla sembra quasi un canto tribale indiano, anche se l’atmosfera è sempre tetra. Il secondo dischetto è formato da sole tre canzoni, a partire dalla lunga title track (12 minuti), che ha un’introduzione strumentale potente e straniante al tempo stesso e con la voce di Cave che entra solo al quarto minuto aprendosi nel refrain in un raro momento di ampio respiro, quasi maestoso. La breve Fireflies è in realtà un brano recitato con un accompagnamento degno di un film horror, e precede la conclusiva Hollywood, che di minuti ne dura addirittura 14 ma senza cambiare il mood del disco, anzi forse accentuandone la componente drammatica.

Un lavoro dunque complicato, ostico e per nulla immediato questo Ghosteen, ma di una sincerità e profondità da far venire i brividi.

Marco Verdi

Paul-Barrere-of-Little-Feat

P.S: visto che siamo in clima funereo, volevo brevemente ricordare (con colpevole ritardo) la figura di Paul Barrere, deceduto lo scorso 26 Ottobre a causa di un cancro al fegato diagnosticatogli nel 2015. Chitarrista dalla tecnica sopraffina, Barrere ha legato il suo nome a doppio filo a quello dei leggendari Little Feat, gruppo del quale entrò a far parte nel 1972 affiancando l’unico chitarrista nonché leader della band Lowell George fino alla morte di quest’ultimo nel 1979 e conseguente scioglimento della band, e prendendone il posto nella line-up riformata nel 1988 per il comeback album Let It Roll fino ai giorni nostri, affiancato a sua volta da Fred Tackett (con il quale registrò anche un paio di album acustici in duo  ).

Barrere portò in dote nel gruppo le sue conoscenze in materia di musica rock, blues, cajun e funky ed era l’elemento giusto al momento giusto in quanto in grado di arricchire ulteriormente il suono del gruppo californiano. La sua bravura nella tecnica slide ne fece il naturale sostituto di George, che era un maestro del genere, anche se non riuscì mai ad avvicinarne le capacità come songwriter: i brani più noti scritti da Paul sono Skin It Back, Feats Don’t Fail Me Now, Time Loves A Hero e Down On The Farm.

Più che dignitosa comunque la sua carriera nell’ultima fase del gruppo, con alcuni lavori di ottima fattura (Representing The Mambo, Ain’t Had Enough Fun, Join The Band) che forse erano anche meglio di un paio di dischi dei Feat negli anni settanta come Time Loves A Hero e The Last Record Album. Di sicuro si è già ritrovato lassù a jammare come ai bei tempi proprio con i vecchi amici Lowell ed il batterista Richie Hayward.

Il Suo Lavoro Più Intimo E Profondo. Joe Henry – The Gospel According To Water

joe henry the gospel according to water

Joe Henry – The Gospel According To Water – EarMusic/Edel CD

L’album di cui mi accingo a parlare oggi potrebbe far parte di un ipotetico “trittico del dolore” con altri due lavori usciti in questo periodo, vale a dire il bellissimo Blood di Alison Moorer, del quale mi sono occupato pochi giorni fa, e del nuovo Ghosteen di Nick Cave, nei prossimi giorni su queste pagine virtuali. Joe Henry è ormai diventato uno dei produttori più richiesti insieme a Dave Cobb e Dan Auerbach, ed i lavori con lui dietro la consolle sono sinonimo di raffinatezza e qualità. A volte però si tralascia il fatto che Joe nasce come artista in proprio, e negli anni in cui si è costruito una carriera non ha praticamente mai sbagliato un disco, pubblicando diversi album di grande livello come Shuffletown, Short Man’s Room, Kindness Of The World, Trampoline, Tiny Voices, Civilians ed Invisible Hour (ma potrei tranquillamente citarli quasi tutti). The Gospel According To Water (bellissimo titolo) è il suo nuovo lavoro, che arriva a due anni dall’ottimo Thrum https://discoclub.myblog.it/2017/11/06/piu-che-strimpellare-qui-si-cesella-joe-henry-strum/  e a tre dal celebrato viaggio in treno con Billy Bragg che aveva prodotto Shine A Light, ed è un disco che ha avuto una genesi particolare.

Infatti lo scorso anno a Henry è stato diagnosticato un cancro alla prostata, una di quelle notizie che ti cambiano la prospettiva della vita, e la cosa lo ha portato a comporre di getto una serie di canzoni che ora possiamo ascoltare in questo album; The Gospel According To Water, pur essendo un lavoro dalle atmosfere raccolte ed intime, è però un disco nel quale il suo autore ci parla di amore per il prossimo e per la vita (pur essendo i testi spesso di difficile interpretazione), risultando quindi diverso nelle tematiche dai già citati album della Moorer (nel quale l’autrice viene a patti con un’infanzia terribile a causa del padre violento) e di Cave (ancora profondamente sconvolto per la tragica scomparsa del figlio): detto per inciso, pare che Henry abbia risposto molto bene alle cure, anche se ovviamente non può ancora cantare vittoria. L’altra particolarità del disco è la sua veste sonora scarna ed essenziale, dovuta al fatto che Joe aveva inizialmente inciso le canzoni accompagnandosi solo con la chitarra con l’intenzione di ricavarne dei demo, ma una volta risentito il tutto ha deciso che non serviva molto altro a questi brani per essere completi, e quindi si è fatto aiutare esclusivamente dal figlio Levon Henry al sax e clarinetto, da John Smith alla seconda chitarra e da Patrick Warren al piano. Niente batteria quindi, ed il basso solo in un brano, ma il risultato è comunque un album intenso e profondo, che, se ascoltato con attenzione, è in grado di regalare più di una emozione.

Un disco di ballate per voce e chitarra quindi, completate da un rintocco di piano qua, qualche nota di sax là e poco altro: l’atmosfera è calma e pacata ma non triste come vedremo nell’album di Cave, ma anzi si percepisce rilassatezza e distensione da parte dell’autore. Famine Walk inizia con la chitarra acustica alla quale si unisce quasi subito il pianoforte, mentre Joe intona una melodia lineare e per nulla ostica, di chiara matrice folk: un brano facile da apprezzare nonostante la veste sonora scarna. Due chitarre introducono la title track, un pezzo dall’incedere lento e meditato che si apre un po’ nel ritornello grazie anche all’approccio vocale caldo ed espressivo di Henry; in Mule a Joe e la sua chitarra si unisce Levon al clarinetto, che diventa protagonista nel delineare il motivo quasi al pari della voce del padre, Orson Welles (titolo che non c’entra nulla con il contenuto della canzone, in quanto frutto di uno scherzo tra Joe e la moglie Melanie Ciccone, sorella di Madonna) vede invece Henry Jr. commentare al sax in maniera decisamente discreta, risentiamo anche il piano ed il brano, struggente e cantato con voce forte, risulta uno dei più belli del CD.

Non è da meno Green Of The Afternoon, altra ballata folkeggiante dalla melodia diretta e vagamente dylaniana, ed anche In Time For Tomorrow è contraddistinta da un motivo splendido ed un accompagnamento di gran classe, solo chitarra, piano, clarinetto e le voci di Allison Russell e JT Nero, ovvero il duo Birds Of Chicago. The Fact Of Love è pacata ed interiore, con un bel gioco di chitarre ed un synth usato con molta misura, Book Of Common Prayer è lenta, profonda e con David Piltch che accompagna Henry al basso, mentre Bloom è puro folk, suonato con molta forza nonostante la strumentazione parca: voce, due chitarre ed un motivo diretto, ancora con reminiscenze dylaniane (sembra una outtake di Blood On The Tracks, e credo non sia un complimento da poco). La pianistica e notturna Gates Of Prayer Cemetery # 2 è meno immediata ma non per questo meno interessante, Salt And Sugar è discorsiva, raffinata ed ancora punteggiata in maniera discreta dal piano; il CD termina con la toccante General Tzu Names The Planets For His Children (altro bel titolo) e con la limpida Choir Boy, ennesimo brano di eccellente fattura in un disco dai suoni ridotti all’osso ma all’insegna della purezza.

Marco Verdi

Un Inatteso E Sorprendente Ritorno A Livelli Di Eccellenza. Ralph McTell – Hill Of Beans

ralph mctell hill of beans

Ralph McTell – Hill Of Beans – Leola Music

Toh, guarda chi si rivede e si risente! Ralph McTell, da Farmsborough, Kent, dove è nato quasi 75 anni fa, ma da sempre cittadino di Londra, anzi del sobborgo di Croydon, città alla quale ha dedicato il suo brano più celebre, Streets Of London, con 212 versioni cantate in giro per il mondo, non escluse ben sei (o forse sette) dello stesso Ralph, l’ultima delle quali, incisa nel 2017 insieme a Annie Lennox  per raccogliere fondi per una associazione che si occupa dei senzatetto, per la prima volta ha raggiunto il primo posto delle classifiche inglesi (prima non c’era mai riuscito, arrivando al massimo al n°2). Ma è stato anche uno dei migliori e più prolifici rappresentanti del filone del folk britannico, con oltre 50 album pubblicati, in una carriera iniziata nel lontano 1968 con un album Eight Frames A Second, prodotto da Gus Dudgeon e arrangiato da Tony Visconti (che torna a riunirsi proprio con McTell, producendo questo Hill Of Beans). Il nostro amico diciamo che pur essendo un eccellente chitarrista (solo nell’ultima decade ha rilasciato una serie di sei album dal vivo, Songs For Six Strings), è da ascrivere più al filone dei cantautori, fatte le dovute proporzioni e diverse attitudini, quello che ha prodotto Donovan, Cat Stevens, John Martyn, Nick Drake, i Fairport Convention, insieme ai quali ha spesso partecipato al loro leggendario Festival di Cropredy, ma pure Wizz Jones, altro importante musicista folk inglese col quale ha inciso diversi dischi, due anche di recente.

Hill Of Beans (che si può tradurre come montagna di fagioli, ma non ne ho mai viste, oppure come un fico secco o cosa di poco conto) è il primo album di canzoni originali di McTell dal 2010, anno in cui uscì Somewhere Down To Road, e come detto riunisce Ralph con il suo vecchio amico Tony Visconti, che già gli produsse Not Till Tomorrow del 1972: per l’occasione Visconti si porta dietro anche la ex moglie Mary Hopkin e la figlia Jessica Lee Morgan, oltre al grande contrabbassista Danny Thompson. Il CD contiene 11 canzoni, per la maggior parte scritte negli ultimi anni, ma anche una composta nel 1978 e una nel 1988, esce per la sua etichetta personale la Leola Music, e come è consuetudine dei dischi di McTell tratta dei temi più disparati, a conferma dello stile eclettico, ricco di spunti letterari, artistici e anche musicali, delle sue canzoni: la voce, nonostante lo scorrere del tempo, è ancora profonda e risonante, immediatamente riconoscibile, come certifica subito la bella Oxbow Lakes, una canzone dove le questioni amorose si intrecciano con metafore geografiche e il fingerpickinng di Ralph si immette su un arrangiamento semplice ma amabile realizzato da Visconti, che suona anche il recorder nel brano https://www.youtube.com/watch?v=FGti92mx2qs , Brighton Belle per certi versi è una affettuosa storia della propria famiglia durante la II guerra mondiale, raccontata attraverso un brano che ha l’afflato e la profondità delle più belle canzoni di Christy Moore, con il quale il nostro ha più di una affinità sia a livello di timbro vocale che per la facilità con cui sa costruire belle melodie di grande fascino, in questo caso solo con l’acustica di McTell e il contrabbasso di Thompson a scandirne i tempi.

Clear Water era già apparsa su Myths And Heroes il disco del 2015 dei Fairport Convention, qui in una versione più intima e raccolta, anche se gli archi e il coro celestiale aggiunti da Visconti gli conferiscono un livello quasi spirituale non lontano dai fasti del passato, Gertrude And Alice, è un accorato racconto che narra dell’amore tra Alice Toklas e Gertrude Stein nella Parigi degli anni ’20, attraverso un arrangiamento incentrato sul raffinato uso di fisarmonica, cello ed archi. Gammel Dansk ha una atmosfera tra cabaret mitteleuropeo, chansonnier francesi e tocchi klezmer, cantata quasi alla Leonard Cohen, molto bella, Shed Of Song è uno dei brani dalla melodia più “splendente”, tra cello, archi, piano e il solito recorder, suono molto avvolgente e classico. Close Shave è uno dei brani più tradizionali, tra blues e ragtime acustico, mentre When They Were Young,  una canzone sui fremiti del primo amore, evidenzia ancora una volta l’uso della fisarmonica e degli archi, con una melodia  incantevole e Sometimes I Wish I Could Pray, a tempo di valzer, è quasi una country song con uso di organo e steel guitar, ma con un coro gospel aggiunto, con la Hopkin e la figlia, https://www.youtube.com/watch?v=urdpp0_ViBo . In chiusura Hill Of Beans che prende in prestito le atmosfere romantiche del film Casablanca, incrociate con le esperienze parigine giovanili di McTell come busker, con tanto di citazione testuale finale “You played it for her, play it for me. Play it. Play it Sam.”. E per non farsi mancare nulla c’è anche un sentito omaggio finale al giovane Bob Dylan, quello dell’amore per Suze Rotolo, tra sbuffi di armonica e chitarra arpeggiata, West 4th Street And Jones registrata dal vivo, è un delizioso tuffo nel passato, che mette il sigillo ad un album sorprendentemente bello https://www.youtube.com/watch?v=C88NrWUENoE .

Bruno Conti

Un Disco Bellissimo Nato In Conseguenza Di Un’Infanzia Terribile. Allison Moorer – Blood

allison moorer blood

Allison Moorer – Blood – Autotelic/Thirty Tigers CD

Anche la bella e brava Allison Moorer, sorella di Shelby Lynne https://discoclub.myblog.it/2010/05/19/un-disco-di-gran-classe-shelby-lynne-tears-lies-and-alibis/  nonché ex moglie di Steve Earle ed attuale fidanzata di Hayes Carll, ha ormai superato il ventennio di carriera, e a quattro anni dal suo ultimo lavoro Down To Believing https://discoclub.myblog.it/2015/04/02/pene-damor-perduto-ritorno-alle-origini-del-suono-allison-moorer-down-to-believing/  (ma in mezzo c’è stato il bel disco di cover inciso insieme alla Lynne Not Dark Yet https://discoclub.myblog.it/2017/08/12/un-ottimo-esordio-per-due-promettenti-ragazze-shelby-lynne-allison-moorer-not-dark-yet/ ) ha deciso di consegnarci il suo album più personale in assoluto. Blood è infatti un’opera autobiografica che accompagna il libro di memorie dallo stesso titolo scritto dalla cantautrice dell’Alabama, un volume nel quale Allison racconta senza censure o limitazioni di alcun tipo gli anni tremendi della sua infanzia, durante i quali lei e la sorella Shelby erano in balia di un padre alcolizzato ed aggressivo: un periodo fatto di abusi e violenze domestiche che è culminato con la terribile scena dell’omicidio della madre da parte del genitore ed il suo conseguente suicidio. Avvenimenti che avrebbero potuto portare all’instabilità se non addirittura alla follia più di una persona, ma sia Allison che Shelby si sono dimostrate persone forti ed equilibrate, ed ora la minore delle due sorelle ha deciso che è arrivato il momento di togliere il velo da quei tragici anni.

Non so il libro, ma l’album Blood è un lavoro davvero ispirato e splendido, un disco in cui Allison affronta senza paura i suoi demoni e si mette a nudo in dieci canzoni di un’intensità rara, dieci capitoli di una sorta di autobiografia musicale che la nostra affronta con l’aiuto del suo abituale produttore e chitarrista Kenny Greenberg (i due suonano l’80% degli strumenti, tra chitarre, pianoforte, steel e basso), il batterista Evan Hutchings e la nota violinista Tammy Rogers. Allison però non ce l’ha con i suoi genitori (più che altro col padre, dato che anche la madre è una vittima), anzi li omaggia con una bellissima foto di famiglia riprodotta all’interno della confezione in digipak del CD e, come ha lei stessa dichiarato in una recente intervista, con questa doppia operazione libro-disco cerca in un certo senso la redenzione per il padre. Tra i dieci brani, otto sono nuovi di zecca mentre due erano già apparsi (in versione ovviamente diversa) in album precedenti della cantante dai capelli rossi, dei quali uno, Cold Cold Earth, addirittura sul suo secondo lavoro The Hardest Part del 2000 (come ghost track), a dimostrazione che Allison aveva già da tempo queste canzoni dentro di lei. Il CD si apre con Bad Weather, una splendida ballata dal passo lento dotata di un motivo toccante e di ampio respiro, interpretata dalla Moorer con il giusto pathos e con un arrangiamento classico basato su chitarre e steel. Cold Cold Earth, ispirata agli ultimi momenti di vita dei genitori, è un profondo e struggente slow dal sapore folk, con il violino della Rogers a fendere l’aria ed Allison che canta davvero con il cuore in mano https://www.youtube.com/watch?v=cOGOQpngdAo .

Nightlight è un delizioso bozzetto costruito intorno alla voce della protagonista e ad una chitarra acustica pizzicata (e con un’altra melodia cristallina), alle quali si aggiungono una steel lontana, la sezione ritmica discreta ed anche una malinconica tromba, ed è seguita da The Rock And The Hill, un brano più mosso ed elettrico, una rock ballad affrontata da Allison con il solito approccio elegante, servita da un accompagnamento potente e con un coinvolgente crescendo ritmico https://www.youtube.com/watch?v=GIYXMzahgxM . I’m The One To Blame è un testo che Shelby ha trovato nella 24 ore del padre, scritto da lui, ed al quale la Lynne ha aggiunto la musica (e vengono i brividi soltanto a leggere il titolo, “Sono Io Quello Da Incolpare”, sapendo ciò che è successo dopo), e vede la Moorer sola con la sua chitarra, per un brano intenso e sincero fino al midollo https://www.youtube.com/watch?v=St0SqBGUa6M , così come Set My Soul Free, che pur essendo leggermente più strumentata mantiene una certa drammaticità di fondo (ed il feeling dell’autrice fa il resto), mentre The Ties That Bind non è quella di Springsteen ma è comunque un brano davvero stupendo, sfiorato dal country e dotato di una melodia di quelle che colpiscono dritto al cuore: probabilmente la migliore del disco. La grintosa e roccata All I Wanted (Thanks Anyway), trascinante e cantata veramente bene, confluisce direttamente nella title track (che era già apparsa in Down To Believing), ancora acustica e decisamente profonda, la quale a sua volta precede la conclusiva Heal, scritta a quattro mani con Mary Gauthier (un’altra che sa cosa sono il dolore e la sofferenza), una magnifica ballata sotto forma di preghiera che mette la parola fine ad un album tanto intenso e personale quanto splendido.

Marco Verdi