Un Doppio Antipasto In Attesa Della Portata Principale. Blue Oyster Cult – Cult Classic/Hard Rock Live Cleveland 2014

blue oyster cult cult classic blue oyster cult hard rock clive cleveland 2014

Blue Oyster Cult – Cult Classic – Frontiers CD

Blue Oyster Cult – Hard Rock Live Cleveland 2014 – Frontiers 2CD/DVD

Uno degli eventi musicali più attesi del 2020, almeno per quanto riguarda il filone “classic rock”, sarà il ritorno discografico dei Blue Oyster Cult, grande gruppo americano spesso poco capito dalla critica (che in passato lo aveva liquidato come band hard rock o addirittura heavy metal), ma capace di produrre specie negli anni settanta una serie di ottimi album da musica rock raffinata e testi di stampo letterario tra l’orrorifico ed il fantascientifico (ad opera soprattutto del loro produttore e mentore Sandy Pearlman), e di costruirsi una solida reputazione di live band grazie a concerti infuocati e coinvolgenti. I BOC non si sono mai ufficialmente sciolti e non hanno mai smesso di esibirsi dal vivo, ma discograficamente sono fermi al non indispensabile Curse Of The Hidden Mirror del 2001, anche se in realtà hanno smesso di incidere con regolarità nell’ormai lontano 1987 (lo splendido Imaginos), pubblicando solo tre album di studio nei successivi 32 anni. Ora si sono accasati alla Frontiers, etichetta napoletana specializzata in gruppi e solisti di genere classic rock e AOR (nel suo portfolio passato e presente troviamo Whitesnake, Def Leppard, Toto, Alan Parsons, REO Speedwagon, Journey e molti altri), per la quale i nostri pubblicheranno un album nuovo di zecca nel corso dell’anno.

 

Per festeggiare l’evento la Frontiers ha stuzzicato l’appetito dei fans immettendo sul mercato la ristampa rimasterizzata (ma senza bonus tracks) dell’ormai fuori catalogo Cult Classic del 1994, nel quale i BOC reincidevano alcuni loro brani celebri, ed il live inedito Hard Rock Live Cleveland 2014 in una confezione che comprende sia la versione audio che quella video (e non è finita qui, in quanto ai primi di marzo uscirà Agents Of Fortune Live 2016, un CD sempre inedito contenente una porzione di concerto in cui la band newyorkese rivisita il suo disco più famoso dall’inizio alla fine). Cult Classic è un ottimo lavoro, ovviamente per le canzoni contenute ma anche per il tipo di riproposizione da parte dei nostri (che qui vedono i membri storici Eric Bloom, Donald “Buck Dharma” Roeser ed Allen Lanier affiancati da una sezione ritmica nuova formata da Jon Rogers al basso e Chuck Burgi alla batteria): versioni aggiornate ma non stravolte, una rivisitazione rispettosa ed estremamente piacevole del meglio del loro repertorio (pur con qualche assenza, penso a Career Of Evil).

Non mancano chiaramente i pezzi più noti, la mitica (Don’t Fear) The Reaper su tutte, ma anche Godzilla, l’orecchiabile Burnin’ For You, la solida Cities On Flame With Rock And Roll (che nel 1972 fu il loro primo singolo) e la trascinante This Ain’t The Summer Of Love. Troviamo poi quelli che chi sa le cose e definisce “selected album tracks”, cioè brani importanti pur non essendo stati successi a 45 giri, come la strepitosa e potente E.T.I., tre rock’n’roll songs coinvolgenti come Me-262, O.D.’d On Life Itself e Harvester Of Eyes, la bella Flaming Telepaths, dal motivo vincente e roboante finale chitarristico, o l’irresistibile strumentale Buck’s Boogie. Dulcis in fundo, non poteva mancare la meravigliosa Astronomy, in assoluto la più bella canzone dei BOC, un brano epico di oltre otto minuti che qualche critico ha paragonato addirittura a Stairway To Heaven (forse esagerando, ma comunque è un pezzo della Madonna), anche se forse questa versione rivisitata ha meno pathos dell’originale.

Facciamo ora un salto in avanti di vent’anni per Hard Rock Live Cleveland 2014, registrato in realtà nel sobborgo di Northfield il 17 ottobre con una formazione che vede solo Bloom e Roeser facenti parte del nucleo originale, essendo Lanier passato a miglior vita l’anno precedente e sostituito dal chitarrista e tastierista Richie Castellano, mentre al basso e batteria troviamo rispettivamente Kasim Sulton e Jules Radino. Cleveland 2014 non si avvicina ai leggendari live degli anni settanta (On Your Feet Or On Your Knees e Some Enchanted Evening), ma vede i nostri in ottima forma ed è comunque un bel sentire: Bloom e Buck Dharma non sono mai stati dei grandissimi vocalist ma non hanno perso colpi, e Roeser rimane una macchina da guerra per quanto riguarda le scorribande chitarristiche, ben assistito da Castellano che si dimostra una valida spalla. La scaletta comprende qualche hit ma anche scelte non scontate (ed anche qualche assenza dolorosa, come Astronomy, ed anche un grande disco come Imaginos viene totalmente ignorato); nulla proviene dagli ultimi due album del gruppo datati 1998 e 2001 e poco, solo tre pezzi, dagli anni ottanta: l’orecchiabile Burnin’ For You, i nove minuti della scorrevole Shooting Shark, tra rock e AOR, e la diretta Black Blade, forse con un po’ troppi synth.

Il resto arriva tutto dai seventies, con ben otto pezzi presi dalla mitica trilogia iniziale dei BOC (Blue Oyster Cult, Tyranny And Mutation e Secret Treaties), a partire dall’uno-due iniziale a tutto rock’n’roll di O.D.’d On Life Itself e The Red And The Black, la formidabile Career Of Evil, scritta all’epoca insieme ad una giovane Patti Smith (e si sente), una Me-262 più travolgente che mai, la nota Harvester Of Eyes, il finale ad alto tasso elettrico di Hot Rails To Hell e Cities On Flame With Rock And Roll e soprattutto una imperdibile Then Came The Last Days Of May di dieci minuti, una rock ballad epica con improvvise e strepitose accelerazioni, tra le migliori canzoni in assoluto del gruppo. Da Agents Of Fortune proviene solo l’immancabile (Don’t Fear) The Reaper, sempre un piacere, mentre dal popolare Spectres i nostri suonano la dura, quasi rock-blues, Golden Age Of Leather, la lenta e gradevole I Love The Night ed una monumentale versione di Godzilla di ben dodici minuti, durante i quali ogni componente della band ha il suo momento da solista. Completano il quadro la poco nota The Vigil, discreta rock song senza troppi fronzoli, e naturalmente Buck’s Boogie, consueta cavalcata chitarristica e vero showcase per l’abilità di Roeser.

Due ottimi antipasti quindi (uno solo se come il sottoscritto possedete già Cult Classic, che merita comunque un ripasso): ci rivediamo a marzo per Agents Of Fortune Live 2016, sperando che questa abbondanza di Blue Oyster Cult non ci rovini l’appetito per il piatto forte. Personalmente non credo proprio.

Marco Verdi

Folk Elegante E Classico, Begli Intrecci Vocali, Da Sentire. The Other Favorites – Live In London

the other favorites live in london

The Other Favorites – Live In London – Last Triumph   

The Other Favorites sono un duo folk basato a Brooklyn, New York, formato da Josh Turner (che cura anche la parte tecnica delle registrazioni) e Carson McKee, autori di un paio di album autogestiti, e molto popolari su YouTube, tanto che questo Live In London, registrato il 20/8/2019 alla Bush Hall di Londra, è integralmente disponibile anche in video gratuito, appunto su YouTube. Se però siete amanti del supporto fisico il concerto è stato pubblicato pure in CD. I due sono entrambi eccellenti chitarristi e le loro armonizzazioni vocali sono godibilissime nei vari brani, che sono un giusto mix di composizioni originali e cover molto celebri o inconsuete. Turner in particolare ha portato in Tour anche uno spettacolo basato su Graceland di Paul Simon, e in passato aveva già lavorato anche sul repertorio di Simon & Garfunkel, che come si intuisce facilmente sono tra le maggiori influenze a livello stilistico degli Other Favorites: nel 2019 Turner ha anche pubblicato il suo primo album solista As Good A Place As Any. In due brani dell’album appaiono anche le brave vocalist Reina Del Cid e Toni Lindgren, entrambe provenienti dal Minnesota, che si esibiscono insieme e spesso anche con Turner e McKee, anche loro appassionate di Simon & Garfunkel.

A questo punto vi aspetterete che tra le cover del CD ci sia qualche brano di Simon, e invece troviamo una sorprendente rilettura in chiave country-bluegrass della splendida 1952 Vincent Black Lightning di Richard Thompson con Mckee che passa al banjo, per intricati interscambi strumentali con il pard,  Don’t Think Twice, It’s Alright di Dylan è abbastanza fedele all’originale, benché più suadente di quella di Bob, con Turner che è sempre la voce solista, con il suo timbro caldo e carezzevole su cui si innestano comunque le armonizzazioni dei due. The Tennesse Waltz è un classico della musica country ed è uno dei due pezzi dove appaiono la Del Cid e la Lindgren che elevano ulteriormente la qualità vocale della esibizione, con Reina che ha un timbro vocale veramente squisito, mentre The Parting Glass è un brano tradizionale irlandese cantato a cappella che alcune volte è apparso anche nel repertorio live di Ed Sheeran.

Non manca neppure una vibrante versione di Folsom Prison Blues di Johnny Cash, sempre con in evidenza la risonante voce di Joshua Turner che invece fisicamente ricorda Marcus Mumford, e per completare le cover, come ultimo brano arriva una sorta di competizione tra i quattro in una frenetica versione bluegrass di Dooley dei non dimenticati (?) Dillards. Anche il materiale originale non è affatto male: l’intricato strumentale iniziale di MKee confluisce nella delicata Angelina, mentre la mossa Solid Ground mi ha ricordato molto le prime e migliori canzoni più acustiche degli America, The Ballad of John McCrae è, ehm, una intensa ballata, inserita nella grande tradizione del country-folk, con intrecci ed interscambi vocali e strumentali tra i due veramente interessanti. Flawed Recording è più dolce e sognante, ma sempre godibile, con The Levee, l’ultimo brano originale, che è una incantevole canzone di stampo cantautorale. Nell’insieme un disco molto piacevole, se vi piacciono i Milk Carton Kids, magari meno raffinati e complessi e comunque quel tipo di folk elegante e classico questi The Other Favorites potrebbero fare per voi.

Bruno Conti

L’Ex “Desaparecido” Ci Ha Preso Gusto! Bill Fay – Countless Branches

bill fay countless branches

Bill Fay – Countless Branches – Dead Oceans CD

La storia di Bill Fay, cantautore e pianista inglese classe 1943 (nato e residente a Londra), potrebbe essere il soggetto per un film. Autore di due album dalla vena intimista per la Deram nel 1970 e 1971 (Bill Fay e Time Of The Last Persecution), Bill fu scaricato senza tanti complimenti dall’etichetta dopo il secondo lavoro, sia per i suoi toni troppo pessimistici che per le vendite pressoché nulle; questo evento gettò Fay in una profonda depressione che durò anni, e nonostante verso la fine della decade avesse ripreso a scrivere e ad incidere, il risultato di quelle sessions rimase nei cassetti ed il nostro fece “musicalmente” perdere le sue tracce per quasi trent’anni. Una storia per certi versi simile a quella di Sixto Rodriguez, ma a differenza del musicista americano che riprenderà ad esibirsi senza però pubblicare nuovo materiale, Fay ritornerà a sorpresa nel 2012 con l’ottimo Life Is People https://discoclub.myblog.it/2012/08/13/il-ritorno-di-un-genio-bill-fay-life-is-people/ . Parte del merito della riscoperta di Bill va a Jeff Tweedy, che con i suoi Wilco era uso suonare dal vivo una cover della sua Be Not So Fearful ed in seguito si era adoperato affinché venissero pubblicate le sessions inedite di Fay del periodo 1978-1981, cosa che avverrà nel 2005 con Tomorrow, Tomorrow & Tomorrow.

Ma come ho detto poc’anzi il vero ritorno di Bill è stato con Life Is People, un CD sorprendentemente pieno di belle canzoni eseguite con piglio da cantautore consumato, come se non fossero passati 41 anni dall’album precedente. Il buon successo di critica ha poi convinto Fay a proseguire, e così nel 2015 ecco Who Is The Sender?, altro valido lavoro anche se un gradino sotto a Life Is People, mentre è uscito da poche settimane Countless Branches, il terzo disco del nostro dalla sua “rinascita” artistica, che si pone invece allo stesso livello del comeback album del 2012. In Countless Branches Bill è andato a ripescare brani scritti durante gli anni ma mai incisi professionalmente, rivelandoci che i suoi cassetti erano ancora pieni di gemme che avevano solo bisogno di venire alla luce: sì, perché ci troviamo di fronte ad un lavoro di grande spessore, con canzoni intense ed emozionanti eseguite perlopiù in strumentazioni ridotte all’osso, in pratica solo la voce del nostro (delicata, quasi fragile), il suo pianoforte e poco altro: una chitarra acustica qua, un violoncello là, qualche nota di organo e solo in un caso un arrangiamento full band. Il tutto sotto la produzione sapiente, come nei due album precedenti, di Joshua Henry, e con la presenza di pochi ma validi musicisti che rispondono ai nomi di Matt Deighton e Matthew Simms (entrambi alle chitarre), Alex Eichenberger (cello), Matt Armstrong (basso) e Mikey Rowe (tastiere).

Però in questo album Bill ha voluto fare una sorpresa ai suoi estimatori, aggiungendo alla fine dei dieci brani che compongono la tracklist ben sette bonus tracks, quasi un altro disco che però è suonato con alle spalle una band elettrica (e senza riportare i dettagli sulla confezione, ma solo su un foglietto aggiuntivo all’interno). L’inizio è riservato alla lenta In Human Hands, che vede Bill in totale solitudine, un brano lento registrato in presa diretta, meditato ed eseguito con classe e misura; How Long, How Long vede l’aggiunta del cello, una chitarra acustica pizzicata con delicatezza ed un organo appena accennato, e la canzone è pura e cristallina, con una melodia tenue che ricorda alla lontana il Cat Stevens dei tempi d’oro: splendida https://www.youtube.com/watch?v=Qt3jfsAA-3w . Your Little Face è l’unico pezzo più strumentato della parte “normale” del CD, ci sono chitarra elettrica e batteria ma il mood non cambia, anzi forse l’atmosfera è ancora più struggente e drammatica, grazie anche alla voce frangibile del nostro; Salt Of The Earth (non è quella degli Stones, i brani sono tutti originali) è ancora un bozzetto per voce e piano, con le tastiere aggiunte a fornire uno sfondo sonoro discreto e la voce del leader che ha un tono quasi supplicante, mentre I Will Remain Here è il secondo pezzo che vede in scena solo Bill, che canta un motivo toccante quasi sillabando le parole.

Due chitarre ed un basso affiancano il piano del nostro in Filled With Wonder Once Again, delicata e dallo squisito sapore folk, Time’s Going Somewhere è decisamente emozionante grazie alla melodia ricca di pathos ed a un malinconico violoncello, nell’intensa Love Will Remain spunta anche una tromba e la voce di Bill si propone in maniera più commovente che mai. L’album vero e proprio si chiude con la spoglia title track (solo piano, voce e cello) e con la notevole One Life, dotata di un motivo struggente e bellissimo, da cantautore vero. Le bonus tracks “elettriche” partono con l’inedita Tiny, cantata sempre con voce tenue ma con un suono pieno e forte che aumenta il pathos; Don’t Let My Marigolds Die è una riproposizione live in studio di un brano che era su Time Of The Last Persecution, una canzone intensa seppur breve, mentre The Rooster è un raffinato e soffuso pezzo dal sound classico, con chitarra elettrica ed organo a fornire un alveo sonoro perfetto. Il CD termina definitivamente con la versione acustica, piano e basso, di Your Little Face (l’unica elettrica nella prima parte del disco) e con tre scintillanti riletture full band di Filled With Wonder Once Again, How Long, How Long e Love Will Remain, tutte splendide e molto diverse dalle loro controparti “intime”.

Altro ottimo lavoro dunque per il redivivo Bill Fay, forse il più bello insieme al suo “secondo esordio” Life Is People del 2012, ed un ringraziamento a Jeff Tweedy per aver, anche se involontariamente, riacceso l’interesse nei suoi confronti.

Marco Verdi

Blues-Rock-Americana Da Un Illustre “Sconosciuto”. Jim Roberts And The Resonants – A Month Of Sundays

jim roberts and the resonants a month of sundays

Jim Roberts & The Resonants – A Month Of Sundays – Bo$$ PoGG Music

Jim Roberts, come si intuisce dalla foto di copertina, non è proprio uno di primo pelo, in pratica ha avuto due vite, prima musicista part time fino al 1992, poi con il suo vero nome di James R. Poggensee, per mantenere la famiglia, venti anni come ufficiale di polizia, infine il ritorno (definitivo?) alla musica: residente a  Los Angeles, dove ha registrato finora tre album, compreso questo A Month Of Sundays con i Resonants, vive alcuni mesi dell’anno anche in Francia (in cui sono state registrate parti di questo disco), da cui si muove per portare la sua musica anche in giro per l’Europa. Già ma che tipo di musica direte voi? Catalogato sul suo sito come” Blues-Rock-Americana”, direi che il termine è abbastanza esplicativo del suo stile. Un altro nome “sconosciuto” da aggiungere alla infinità lista di bravi musicisti che costellano ancora, anche in tempo di crisi acuta del mercato, la scena musicale indipendente americana.

Roberts è un ottimo chitarrista slide, che inizia subito ad impiegare nel blues urbano di Skeeters, dove una coppia di fiati si aggiunge alla sezione ritmica di Rick Hollander, bassista e co-autore di Jim in metà dei brani  del CD e Mike Michael Leasure alla batteria (dove si alterna con Mike Harvey), per un solido tuffo nelle 12 battute sudiste, in cui si apprezza anche la voce calda e vissuta del leader; in What Her Evil Do Roberts impiega una Cigar Box Guitar acustica con bottleneck per un tuffo a metà strada tra Chicago e Mississippi, con il bassista Hollander anche al mandolino e l’ottimo Joey G.(Joey Gomez) che aggiunge pure  la sua armonica. Intendiamoci niente per cui stracciarsi le vesti, ma il disco si ascolta con piacere, come ribadisce il mid-tempo sapido della insinuante Belle Of the Ball, o una rotonda A Month Of Sundays, dove il pulsante groove del basso di Hollander permette alla chitarra di Roberts una raffinata serie di divagazioni strumentali sempre in modalità slide, che mi hanno ricordato gli ottimi Delta Moon, anche senza la doppia trazione bottleneck che però viene impiegata nella gagliarda Miss Detroit City 1963, dove Grant Cihlar, che ha firmato il brano con Roberts, aggiunge una seconda slide alle procedure.

Non mancano neppure una bella ballata sudista dalle melodie ariose, cantata a voce spiegata, come l’avvolgente Made A Promise, scritta nuovamente con il bassista Hollander, oppure la grintosa e “cattiva” Long Haired Mississippi Hippie, dove impazza nuovamente il bottleneck di Jim. O ancora la malinconica e atmosferica Miss Her Love dove Roberts è impegnato anche al mandolino , mentre la sua voce assume un timbro che mi ha ricordato quello di Michael Chapman, sempre con la slide che continua ad impazzare, nella storia di una vendetta amorosa raccontata in Pay The Price, con Moonshine Maiden che ci fa poi rituffare nelle atmosfere minacciose del blues del delta e si apprezza pure il funky-jazz-blues di  I’m Walkin’ On , con basso slappato e un breve assolo di sax di Pat Zicari nel finale, con la immancabile slide lavoratissima di Roberts in bella evidenza. Il breve stompin’ blues acustico di Steppin’ Out , con solo acustica slide e banjolele a duettare, chiude in modo spensierato questo piacevole album.

Bruno Conti

Il Primo Disco Da “Top Ten” Del 2020? Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick

terry allen just like moby dick

Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick – Paradise Of Bachelors CD

Sinceramente non pensavo che Terry Allen, grandissimo cantautore texano attivo dagli anni settanta, avesse ancora voglia di scrivere ed incidere canzoni alla sua veneranda età (quest’anno sono 77 primavere), anche perché nel nuovo millennio ha dato alle stampe solo un album di materiale nuovo, l’ottimo Bottom Of The World del 2013. E invece Allen (che si dà ancora molto da fare come pittore, scultore ed artista multimediale) non solo ha appena pubblicato quasi a sorpresa un disco nuovo di zecca, Just Like Moby Dick, ma è riuscito a darci un lavoro di qualità eccelsa, probabilmente il suo migliore almeno da Human Remains del 1996 (qualcuno lo ha giudicato il suo album più riuscito dopo il capolavoro Lubbock (On Everything) del 1979, altri addirittura il suo migliore in assoluto: io direi più prudentemente che è meglio di tutto quello che Terry ha pubblicato tra Lubbock e Human Remains e anche dopo, e stiamo parlando di uno che non ha mai sbagliato un colpo).

Just Like Moby Dick ci consegna un artista lucidissimo ed in forma strepitosa, ancora in grado di scrivere canzoni splendide e di interpretarle con un feeling straordinario che non risente per nulla dell’età avanzata: i suoi brani partono sempre dal country per toccare quasi tutti i generi della musica americana (qui forse un po’ meno che in Lubbock), tra folk, rock, blues e ballate, e non mancano i testi tra il surreale ed il sarcastico, altro marchio di fabbrica del nostro. La voce di Terry con gli anni è diventata più profonda (ricorda un po’ quella di Kris Kristofferson), ed in questo disco si fa aiutare spesso e volentieri dall’ugola squillante della brava Shannon McNally https://discoclub.myblog.it/2017/07/12/cosi-brave-ce-ne-sono-poche-in-giro-shannon-mcnally-black-irish/ , che spesso diventa la voce solista, mentre alla produzione non c’è il solito Lloyd Maines (che però suona nel disco, slide acustica e dobro) ma un altro nome-garanzia: Charlie Sexton. Oltre ai tre musicisti appena citati la Panhandle Mystery Band in questo album è completata dal figlio di Terry, Bukka Allen, al piano e soprattutto fisarmonica, Richard Bowden al violino e mandolino, Glenn Fukunaga al basso, Davis McLarty alla batteria e Brian Standefer al violoncello.

Just Like Moby Dick è quindi un disco di canzoni pure, senza le stranezze della ristampa dello scorso anno Pedal Steal + Four Corners https://discoclub.myblog.it/2019/04/12/una-ristampa-interessante-ma-di-certo-non-per-tutti-terry-allen-pedal-stealfour-corners/: solo grande musica. Houdini Didn’t Like The Spiritualists (titolo super) è una splendida ballata dal chiaro sapore texano, limpida e distesa, in cui Terry duetta alla grande con la McNally in un tripudio di chitarre acustiche, slide, fisarmonica e violino ed un ritornello delizioso: un inizio notevole. Abandonitis è più ritmata, elettrica e spigolosa, ma è smussata dalla fisa e dalla slide di Maines, e poi l’incedere del brano tra country e rock è decisamente coinvolgente; Death Of The Last Stripper, scritta da Terry con la moglie Jo Harvey Allen e con Dave Alvin, è un’altra Texas ballad pura e cristallina, di nuovo servita da una melodia di prima qualità e da un’intensità non comune, merito anche della voce carismatica del nostro. All That’s Left Is Fare-Thee-Well prosegue sullo stesso stile, una canzone di confine dal pathos incredibile eseguita a tre voci (canta anche Sexton, che è co-autore del pezzo con Terry e Joe Ely) e con intermezzi strumentali da pelle d’oca, grazie all’onnipresente fisa di Bukka e a Maines, qui al dobro.

La lenta Pirate Jenny alterna strofe intense e profonde in cui Allen quasi parla al solito squisito refrain a due voci, mentre American Childhood è uno dei punti cardine del disco, una sorta di mini-suite in tre movimenti che fa crescere ulteriormente di livello il lavoro, e che inizia con la trascinante Civil Defense, elettrica e bluesata, prosegue con l’incalzante Bad Kiss e termina con la mossa e vibrante Little Puppet Thing, altro brano dallo sviluppo strumentale splendido ed influenze quasi tzigane. La pianistica All These Blues Go Walkin’ By è semplicemente meravigliosa, una ballatona cantata (solo da Shannon) e suonata in modo sontuoso, da brividi lungo la schiena, che contrasta apertamente con la saltellante City Of The Vampires, quasi cabarettistica nell’accompagnamento ma dannatamente seria nell’insieme ed indubbiamente coinvolgente. Il CD si chiude con la languida Harmony Two, una incantevole country song d’altri tempi, direi anni cinquanta, e con Sailin’ On Through, altra irresistibile ballata tipica del nostro, nuovamente intrisa di Texas fino al midollo.

Un grande disco questo Just Like Moby Dick, un lavoro che, pur essendo uscito alla fine di Gennaio, ritroveremo a Dicembre in molte classifiche di fine anno.

Marco Verdi

Una Ristampa Per Intenditori E…Ornitologi! Bert Jansch – Avocet

bert jansch avocet 40th anniversary

Bert Jansch – Avocet – Earth CD

Continuano le ristampe del catalogo del grande Bert Jansch a cura della Earth, dopo i quattro curatissimi cofanetti che prendevano in esame la parte iniziale (fino ai primi anni settanta) e finale (gli anni novanta e duemila) della carriera del compianto chitarrista scozzese e la riedizione del Live In Australia del 2001 https://discoclub.myblog.it/2017/02/12/una-doverosa-appendice-al-cofanetto-1-bert-jansch-live-in-australia/ . Ora la piccola label londinese abbandona il criterio cronologico e va a recuperare uno degli album più particolari di Jansch, vale a dire Avocet, disco uscito nel 1978 solo in Danimarca (dove fu anche inciso) e l’anno seguente nel resto del mondo: questa ristampa è sottotitolata “40th Anniversary Edition”, e facciamo finta di non notare che essendo uscita nel Gennaio del 2020 alla Earth sono andati un po’ lunghi coi tempi…Prima ho detto che Avocet è un disco particolare, in primo luogo perché è un album totalmente strumentale, e poi perché i sei brani che lo compongono hanno tutti come titolo il nome di un uccello acquatico (e nel booklet interno all’elegante confezione in digipak queste sei specie vengono tutte diligentemente raffigurate per mano della pittrice Hannah Alice).

Bert in questo lavoro si presenta in trio, affiancato da Danny Thompson, suo ex compagno nei Pentangle, al basso e soprattutto dal bravissimo Martin Jenkins, che con il suo splendido violino (ma suona anche il flauto ed il mandocello) assume un vero e proprio ruolo da co-protagonista a fianco dell’inimitabile chitarra di Bert (che in un brano si cimenta anche al pianoforte). Nonostante il gruppo ridotto ed il fatto che nessuno canti, Avocet non è assolutamente un disco di difficile fruizione, in quanto i sei brani si ascoltano con estremo piacere e godimento grazie alla tecnica sopraffina dei protagonisti: la musica si divide tra folk e jazz, mentre il blues, che ogni tanto faceva capolino nei lavori del nostro, qui è assente, ma si notano tuttalpiù somiglianze con lo stile di altri grandi della chitarra acustica come John Fahey e Leo Kottke. L’album inizia con la straordinaria title track, ben diciotto minuti che da soli valgono il prezzo, con la scintillante chitarra di Bert subito doppiata dal violino di Jenkins ed una melodia di chiara matrice folk e di grande impatto emotivo: al terzo minuto però il ritmo ed il motivo cambiano, entra il basso e la canzone assume un sapore quasi etnico-orientale. Il brano continua con continui cambi di tempo e melodia (ad un certo punto il flauto rimpiazza il violino), quasi fossimo davanti ad un lungo medley all’insegna della creatività più sfrenata.

Per contro, Lapwing dura poco più di un minuto e mezzo, e vede la presenza esclusiva di Jansch, che si esibisce al piano con una buona tecnica, ma con Bittern abbiamo altri otto minuti di grande musica, una folk tune tutta giocata sulle continue improvvisazioni del nostro che sovraincide anche una chitarra elettrica, e con Thompson che si prende la scena al quinto minuto con un assolo di basso molto free jazz. La mossa Kingfisher è una sorta di bossa nova alla quale il violino aggiunge l’elemento folk, mentre Osprey (unico pezzo non scritto da Bert ma da Jenkins) è un brano vivace e scattante in cui il leader fa i numeri alla sei corde ma il violino si prende ancora buona parte del merito della riuscita; chiude l’album originale la cristallina Kittiwake, degna dei primi album del nostro e con un motivo centrale decisamente bucolico. Questa edizione speciale offre tre bonus tracks, tre versioni inedite dal vivo di brani di Avocet registrate in Italia, al Cinema Corso di Mestre, nel 1977, e quindi in anteprima rispetto all’uscita ufficiale del disco: un’ottima resa di Bittern (ancora elettroacustica, ma non viene specificato chi c’è alla seconda chitarra), una lucida Kingfisher, con lo splendido violino penso dello stesso Jenkins a tessere la melodia, ed il finale con una Avocet accorciata a “solo” dieci minuti ma sempre splendida.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 2020 5. Rory Gallagher – Check Shirt Wizard Live In ’77: Dai Magici Archivi Della Famiglia Il 6 Marzo Arriva Un Altro Bel Doppio CD.

rory gallagher checking shirt wizard live in 1977

Rory Gallagher – Check Shirt Wizard: Live In ’77 – 2 CD – 3 LP Chess/UMC – 06-03-2020

Il giorno 6 marzo p.v. arriva un altro interessante piccolo box, oltre a quello già annunciato dei Cream (ma attenzione lo stesso giorno uscirà anche un box Deluxe di 4 CD dei Simple Minds, dedicato a Street Fighting Years, il loro ultimo grande album), ovvero questo Check Shirt Wizard: Live In ’77, che segue di circa un anno lo splendido  https://discoclub.myblog.it/2019/08/24/troppo-bello-per-non-parlarne-diffusamente-il-classico-cofanetto-da-5-stellette-rory-gallagher-blues/, triplo album pubblicato a fine maggio del 2019. Ancora una volta la Universal, che è titolare del catalogo di Rory Gallagher (perché di lui parliamo), farà uscire, sull’etichetta storica del blues, la Chess, un doppio CD di materiale dal vivo inedito, estratto dagli sterminati archivi gestiti dalla famiglia, nello specifico il fratello Donal e il nipote Daniel. Qualcuno si è lamentato perché non sono stati pubblicati gli interi concerti tenuti a inizio 1977, tra gennaio e febbraio a Londra, Brighton, Sheffield e Newcastle, nel tour che promuoveva l’album Calling Card.

Per una volta, pur essendo un grandissimo fan del musicista irlandese, dissento: mi sembra che sia stato fatto un lavoro intelligente, in pratica “costruendo” un concerto virtuale completo di 20 brani, estrapolando le migliori versioni delle canzoni eseguite nelle quattro serate, evitando di riproporre più volte diverse esecuzioni degli stessi pezzi (anche se dalle set list che ho letto dei concerti completi, ne mancano alcuni, per cui non mi sento di escludere un secondo capitolo). Quindi la scelta è stata effettuata tra quanto venne registrato all’epoca in modo professionale, utilizzando gli studi mobili degli Stones e dei Jethro Tull, con qualità sonora perfetta, in più il materiale è stato masterizzato agli Abbey Road Studios. E non guasta neppure che il doppio CD costerà come un singolo. Comunque ecco la lista completa delle canzoni e le locations in cui sono state eseguite.

Tracklist
[CD1]
1. Do You Read Me (Live From The Brighton Dome, 21st January 1977)
2. Moonchild (Live From The Brighton Dome, 21st January 1977)
3. Bought And Sold (Live From Sheffield City Hall, 17th February 1977)
4. Calling Card (Live At The Hammersmith Odeon, 18th January 1977)
5. Secret Agent (Live From Sheffield City Hall, 17th February 1977)
6. Tattood Lady (Live From The Brighton Dome, 21st January 1977)
7. A Million Miles Away (Live At The Hammersmith Odeon, 18th January 1977)
8. I Take What I Want (Live From Sheffield City Hall, 17th February 1977)
9. Walk On Hot Coals (Live At The Hammersmith Odeon, 18th January 1977)

[CD2]
1. Out On The Western Plain (Live From Sheffield City Hall, 17th February 1977)
2. Barley & Grape Rag (Live From Sheffield City Hall, 17th February 1977)
3. Pistol Slapper Blues (Live From Sheffield City Hall, 17th February 1977)
4. Too Much Alcohol (Live At The Hammersmith Odeon, 18th January 1977)
5. Going To My Hometown (Live At The Hammersmith Odeon, 18th January 1977)
6. Edged In Blue (Live At Newcastle City Hall, 18th February 1977)
7. Jack-Knife Beat (Live At The Hammersmith Odeon, 18th January 1977)
8. Souped-Up Ford (Live From The Brighton Dome, 21st January 1977)
9. Bullfrog Blues (Live From The Brighton Dome, 21st January 1977)
10. Used To Be (Live At Newcastle City Hall, 18th February 1977)
11. Country Mile (Live At Newcastle City Hall, 18th February 1977)

Dischi dal vivo di  Rory Gallagher ne esistono una infinità, anche del 1977, anno del Rockpalast e del festival di Montreux, ma questa è una ulteriore gradita aggiunta. Sopra potete ascoltare un piccolo anticipo del disco di cui parleremo diffusamente dopo l’uscita.

Bruno Conti

Cinque Arzilli “Vecchietti” Che (Fortunatamente) Non Vogliono Mollare! Fairport Convention – Shuffle And Go

fairport convention shuffle and go

Fairport Convention – Shuffle And Go – Matty Groves CD

*NDM: recensione in anteprima assoluta di un album che uscirà alla fine di Febbraio nel circuito normale, ma già disponibile se lo ordinate direttamente sul sito della band)

Tornano i Fairport Convention a tre anni dall’ottimo 50:50@50, che celebrava appunto il loro mezzo secolo di carriera https://discoclub.myblog.it/2017/01/30/il-mezzo-secolo-di-una-band-leggendaria-fairport-convention-505050/ , e a due dallo splendido live What We Did On Our Saturday https://discoclub.myblog.it/2018/07/15/i-migliori-dischi-dellanno-2-fairport-convention-what-we-did-on-our-saturday/  , con il nuovissimo Shuffle And Go, album di studio numero ventinove e quinto di fila ad uscire nel mese di Gennaio (probabile strategia volta a non venir “risucchiati” nel marasma di pubblicazioni natalizie). Del leggendario gruppo che esordì nel 1967 da anni, come saprete, è rimasto solo Simon Nicol, che fu il responsabile principale della reunion avvenuta nel 1985 dopo la separazione del 1979, insieme all’altro membro di lungo corso Dave Pegg.

simon nicol

L’attuale formazione dei Fairport è anche la più longeva di sempre, con il violinista, mandolinista e cantante Chris Leslie (nel gruppo dal 1996), l’altro fiddler Ric Sanders (dal 1985) e dal batterista ex Jethro Tull e Cat Stevens band Gerry Conway (in sella dal 1998), ed è ormai affiatatissima grazie anche ai lunghi tour intrapresi ogni anno. Dall’inizio della loro “seconda carriera” i nostri hanno pubblicato una lunga serie di dischi estremamente piacevoli e ben fatti, alcuni più riusciti di altri, senza scendere mai sotto il livello di guardia (come fecero invece nei tre album finali degli anni settanta prima dello scioglimento) ma anche senza pubblicare capolavori: d’altronde, pur essendo Leslie un valido songwriter e Nicol un ottimo mestierante, non è esattamente facile sopperire all’assenza di gente del calibro di Richard Thompson, Sandy Denny, Ashley Hutchings e Dave Swarbrick. Shuffle And Go è però un lavoro molto bello, che già dal primo ascolto riesce a piacere ed a coinvolgere in più di un brano, e che mi sento di mettere tra i lavori più riusciti tra quelli pubblicati dal 1985 ad oggi, al pari di Red & Gold, Jewel In The Crown, Who Knows Where The Time Goes?, XXXV, Over The Next Hill ed il già citato 50:50@50. Nei tredici pezzi presenti all’interno del disco troviamo la consueta miscela di folk elettrificato, rock e ballate, ma con una scelta di canzoni di ottima qualità suonate in maniera ispirata e coinvolgente, cosa affatto scontata in un gruppo i cui membri hanno tra i 64 ed i 73 anni d’età.

dave pegg

Nicol e Leslie si dividono equamente le parti cantate, cinque canzoni a testa, ma mentre Simon si rivolge a songwriters esterni Chris affronta esclusivamente materiale scritto da sé stesso, a partire dall’iniziale Don’t Reveal My Name, una folk ballad moderna ma con radici nel passato, un background elettrico ed una melodia evocativa ed intrigante, addirittura con elementi blues al suo interno. Gli altri brani che vedono protagonista il lungocrinito Chris sono la bellissima Good Time For A Fiddle And Bow/The Christmas Eve Reel, una folk song immediata ed orecchiabile nella miglior tradizione dei nostri con i due violini di Leslie e Sanders a dominare la scena, la trascinante title track, tra folk, rock’n’roll ed un pizzico di cajun, la mossa e diretta The Year Of Fifty-Nine, ancora con un motivo di prima qualità (e Chris ha davvero una bella voce), e la malinconica Moondust And Solitude, che racconta la leggendaria missione Apollo 11 dal punto di vista di Michael Collins, ovvero l’unico dei tre dell’equipaggio a non aver camminato sul suolo lunare. Dal canto suo, Nicol esordisce con Cider Rain, limpido folk-rock elettroacustico di James Wood con bellissimi intrecci tra chitarre, mandolino ed arpa celtica, a cui fanno seguito due brani scritti da Rob Beattie, la squisita ballata A Thousand Bars, dal motivo toccante e con un refrain corale splendido (e sempre con il violino di Sanders ben dentro alla canzone) e la delicata ed intensa Moses Waits, altro slow particolarmente adatto alla voce profonda del nostro, che termina con un accenno di musica africana.

chris leslie

Simon si congeda con The Byfield Steeplechase, gioioso folk-rock dal sapore decisamente tradizionale (ma scritto dall’amico PJ Wright), e con una breve ma scintillante ripresa di Jolly Springtime di James Taylor (tratta dall’ultimo album di studio del cantautore di Boston, Before This World), in cui Nicol divide le lead vocals con Leslie e Pegg. Proprio Dave è il protagonista in prima persona, voce compresa, di Linseed Memories, un orecchiabile e delizioso pezzo (ancora scritto da Wood) di stampo hawaiano in cui tutti i membri del gruppo tranne Conway suonano l’ukulele. Dulcis in fundo, non c’è disco dei Fairport che non abbia all’interno dei brani strumentali, e qui ne troviamo due, entrambi scritti da Sanders: la ritmata e travolgente Steampunkery, una giga più rock che folk che fa muovere testa e piedino (con ottime prestazioni di Ric e Chris rispettivamente al violino e mandolino) e la languida e nostalgica Precious Time. E’ sempre bello iniziare l’anno con un disco nuovo dei Fairport Convention, e Shuffle And Go si può tranquillamente mettere tra i loro lavori più riusciti almeno per quanto riguarda gli ultimi 35 anni.

Marco Verdi

*NDB Essendo molto in anticipo sull’uscita ufficiale dell’album non ci sono ancora filmati musicali in rete, per cui vi dovete accontentare di alcune foto dei componenti della band prese dal loro sito. Eventualmente se e quando verranno caricati dei filmati integrerò questo Post. Quindi per ora fidatevi di quanto scritto, è tutto vero.