Questo Disco Lo Conferma: Ormai Il “Nuovo” Soul Arriva Anche Dall’Australia! Teskey Brothers – Live At The Forum

teseky brothers live at the forum

Teskey Brothers – Live At The Forum – Half Mile Records/Decca/Universal

In questi difficili tempi che stiamo vivendo ogni disco che viene ad alleviare e a ristorare il nostro umore è bene accetto, se poi arriva da una formazione come i Teskey Brothers, alfieri australiani di quella nuova onda di soul music genuina che sta percorrendo le strade parallele di certo rock (e blues) classico, lo è ancora di più. Il quartetto down under ha esordito nel 2017 in Australia con Half Mile Harvest, poi arrivato l’anno successivo nel resto del mondo in una versione ampliata https://discoclub.myblog.it/tag/teskey-brothers/  ed hanno confermato quanto di buono avevano lasciato trapelare, con il successivo Run Home Slow, pubblicato ad agosto del 2019. Si trattava di dischi che avrebbero potuto essere usciti nell’epoca d’oro della Stax, ma anche negli anni successivi del soul bianco targato Muscle Shoals, e ancora con echi della musica sudista di uno come Eddie Hinton che esteriormente era bianco, ma dentro ribolliva di musica nera (senza citare, ma lo sto facendo, gente come Frankie Miller, Joe Cocker, Van The Man, tutti personaggi cresciuti a pane, Nutella, Otis Redding, Solomon Burke, aggiungete voi nomi a piacere).

Da qualche anno sembra comunque che ci sia una rinascita di questo filone, e penso a Anderson East, Nathaniel Rateliff, Black Pumas, ma sono solo alcuni, la punta dell’iceberg. Questo disco esce (?) a sorpresa in piena era coronavirus: dovrebbe essere in circolazione a metà maggio in vinile e download e al 29 maggio in CD, ma visto che l’ho parecchio tempo prima non garantisco (ma ora confermo), visto che gli album vengono annunciati e poi rinviati a getto continuo. Noi facciamo conto che tutto vada bene, notizie non ne servono molte altre: l’album si intitola Live At The Forum, quello di Melbourne, Australia, siamo nell’estate 2019, e avrebbe dovuto essere replicato nel Stay Home Slow Virtual Tour, per presentare in streaming l’album, che però non vi so dire come sia andato, perché nel momento in cui scrivo dovrebbe essere ancora in corso. Sul palco ci sono certamente i due fratelli Teskey, Josh voce sublime e chitarra e Sam, lead guitar e voce, con gli amici Brendon Love al basso e Liam Gough alla batteria, poi nei filmati che circolano in rete si vedono anche un tastierista e un musicista alla pedal steel guitar, più sei backing vocalist e una sezione fiati, per completare il loro caratteristico sound con corpose manciate di gospel, abbondante blues e pizzichi di country, e tanta sweet soul music.

La dimensione concertistica è ovviamente ideale e i quattordici brani sono tutti da godere: Josh Teskey, come Hinton, è un discepolo diretto di Otis Redding, voce accorata e declamatoria nella iniziale ed intensa Let Me Let You Down che ci trasporta nel profondo Sud (ovunque voi lo vogliate, anche dell’Australia), con organo e chitarra e fiati, a celebrare il rito del soul. Carry You, il secondo brano di Run Home Slow, è un’altra deep soul ballad che sembra uscire da un vecchio vinile Stax, con la voce di Josh roca, viscerale, quasi fervente, con il pubblico che si agita sullo sfondo, i fiati e le voci all’unisono e la chitarra di Sam che lavora di fino; Crying Shame era il brano che apriva il primo album Half Mile Harvest, subito riconosciuta dai presenti, è un’altra iniezione di emozione allo stato puro, emozionale e vivida nel suo sincero dipanarsi, con il primo vero assolo di chitarra di Sam, mentre Say You’ll Do dalla Deluxe edition del primo disco, è uno slow blues di grande potenza, quasi febbrile, con il call and response con gli altri vocalists e un altro assolo di fratello Sam ricco di feeling e tecnica. So Caught Up, dall’allora nuovo album è un brano più leggero e sbarazzino, sempre delizioso per la sua innocente aria vintage, I Get Up torna allo stile declamatorio, quasi gospel, di gran parte delle canzoni, con un’altra prestazione vocale da manuale di Josh, ben spalleggiato dal fratello Sam, che è comunque elemento focale del sound della band con il suo lavoro anche in sordina.

Rain è Otis Redding allo stato puro, sospesa e al tempo stesso veemente, poi a sorpresa arriva la cover di Jealous Guy di John Lennon, ispirata dalla versione soul presente nel live di Donny Hathaway, splendida. San Francisco segnala una prima variazione sul tema sonoro dell’album, una canzone che rimanda al suono della Band, con piano, organo e la pedal steel che le conferiscono una ambientazione di genere Americana; Honeymoon, di nuovo dal 1° album, è il momento della jam, oltre dieci minuti di grande intensità, ancora un blues lento di grande impatto, costruito nella prima parte sulla voce di Josh, che poi lascia spazio alla chitarra del fratello che imbastisce una lunga improvvisazione, soprattutto nella parte centrale e finale, quando il ritmo accelera in modo inesorabile e poi rallenta di nuovo, mentre il gruppo si lascia andare in piena libertà. Anche Paint My Heart, con Sam e Josh che duettano a chitarra ed armonica è un grande blues fiatistico, quasi nove minuti che rimandano al migliore Joe Cocker, quello della soul revue di Mad Dogs And Englishmen, con citazione di With A Little Help From My Friends nell’incipit e nell’assolo finale di chitarra. Ormai i nostri sono entrati in modalità improvvisativa ed ecco arrivare una versione di nove minuti di Louisa, uno dei rari brani mossi del loro repertorio, con un riff alla Baby Please Don’t Go, il train time dell’armonica e un’altra esplosione di energia e gioia allo stato puro, con assolo di batteria di Liam Cough, che è l’autore del pezzo.

Ci si avvia alla conclusione con i bis, Pain And Misery, la canzone che li ha fatti conoscere, che fin dal titolo ricorda la loro fonte di ispirazione primaria, Mr. Pitiful Otis Redding e Hold Me, altra struggente ballata di impianto gospel, che prevede tutti gli ingredienti del genere, battito di mani, singalong corale e grande partecipazione collettiva, una vera meraviglia. Con questo disco dal vivo i Teskey Brothers si confermano una certezza assoluta nell’ambito della musica di qualità.

Bruno Conti

Un “Big Man” In Più Per Il Capitano Jerry! Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 13: September 16th, 1989

jerry garcia garcialive 13

Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 13: September 16th, 1989 – ATO 2CD

Con tutte le uscite d’archivio dei Grateful Dead (solitamente due all’anno, una in primavera ed una in autunno, ed in più ci sono anche i Dave’s Picks) diventa difficile seguire anche l’analoga operazione denominata Garcia Live, riguardante appunto i tour da solista del leader Jerry Garcia ed anch’essa rinnovata più o meno con cadenza semestrale (senza considerare che ogni tanto vengono pubblicati live album del grande chitarrista anche al di fuori della serie, come per esempio Electric On The Eel). Lo scorso dicembre per esempio avevo soprasseduto, un po’ perché le mie finanze erano già provate dalle spese natalizie, ma soprattutto perché il dodicesimo volume della serie riguardava per l’ennesima volta un concerto di Jerry con il tastierista Merl Saunders, un binomio a mio giudizio già ampiamente documentato in passato, dal famoso Live At Keystone in poi.

A soli quattro mesi da quel triplo CD ecco però arrivare l’episodio numero tredici, e qui è stato molto più difficile resistere: innanzitutto stiamo parlando di un concerto del 1989 (per la precisione il 16 settembre al Poplar Creek Music Theatre di Hoffman Estates, un sobborgo di Chicago), cioè il primo anno di quello che per me è il miglior triennio di sempre della Jerry Garcia Band in termini di performance, e poi perché come ospite speciale in aggiunta ai soliti noti di quel periodo (oltre a Garcia, Melvin Seals alle tastiere, John Kahn al basso, David Kemper alla batteria e le backing vocalists Jaclyn LaBranch e Gloria Jones) abbiamo un sassofonista “abbastanza” conosciuto: Clarence Clemons, in quel periodo non troppo impegnato come d’altronde tutti i membri della E Street Band, che Bruce Springsteen aveva sciolto all’indomani del tour di Tunnel Of Love. Ma la presenza del “Big Man” non è la classica ospitata in cui il nostro si limita a soffiare nel suo strumento in un paio di pezzi, in quanto Jerry aveva chiesto a Clemons di entrare a far parte del suo gruppo per cinque concerti interi del tour. Ed il binomio funziona alla meraviglia, in quanto Clarence non è per nulla un corpo estraneo alla JGB ma anzi è integrato alla perfezione al suo interno, ed i suoi interventi portano un tocco di “Jersey Sound” in canzoni che in origine stavano da tutt’altra parte. Se aggiungiamo che lo stato di forma del resto del gruppo è a livelli eccellenti (soprattutto Seals, strepitoso all’organo), che Jerry canta per tutto lo show quasi senza sbavature (mentre la sua performance chitarristica è stellare come sempre) e che il suono del doppio CD lascia a bocca aperta, mi sento di affermare che questo Volume 13 è uno degli episodi migliori di tutta la serie.

Il concerto, 14 pezzi in tutto, inizia con gli unici due brani a firma Garcia-Hunter, una solidissima Cats Under The Stars, con Jerry che mostra da subito il suo stato di forma eccellente (e Clarence che dona alla canzone un tocco soul), e They Love Each Other, una bella ballata che è anche un classico negli show dei Dead, leggermente spruzzata di reggae, con un ottimo refrain ed una notevole performance strumentale collettiva (e Seals che fa i numeri all’organo). Negli spettacoli solisti di Garcia non mancano mai dei pezzi di Bob Dylan, ed in quella serata Jerry ne suona tre: due lunghe e rilassate versioni di I Shall Be Released e Knockin’ On Heaven’s Door (splendida la prima, con organo e sax che portano idealmente il sound ben al di sotto della Mason-Dixon Line), ed il finale con una pimpante Tangled Up In Blue, dove forse l’unica cosa superflua è il coro femminile. C’è anche un match tra Beatles e Rolling Stones (che si chiude in parità), con una solida e riuscita interpretazione di Dear Prudence, ancora ricca di umori sudisti estranei all’originale dei Fab Four (ed il suono è davvero uno spettacolo), mentre le Pietre Rotolanti sono omaggiate con una grintosa e coinvolgente Let’s Spend The Night Together, dall’arrangiamento funkeggiante ed i cori che danno un tono gospel.

I nostri poi pagano il giusto tributo al rock’n’roll (una strepitosa Let It Rock di Chuck Berry, nove minuti che Clemons tinge ancora di umori soul), all’R&B (una saltellante How Sweet It Is di Marvin Gaye, qui più che mai godibile e riuscita) ed al blues (una sinuosa ed elegante resa di Someday Baby di Lightnin’ Hopkins, davvero eccelsa, ed una ripresa quasi rigorosa di Think di Jimmy McCracklin, con un gran lavoro da parte di Seals e Jerry che si cala alla perfezione nei panni del bluesman con una prova chitarristica sontuosa). Infine, non mancano tre omaggi alla canzone d’autore, con una scintillante Waiting For A Miracle di Bruce Cockburn, tra le più belle versioni mai suonate da Garcia di questo brano, e le altrettanto imperdibili Evangeline dei Los Lobos (rilettura irresistibile e trascinante) e The Night They Drove Old Dixie Down, superclassico di The Band cantato piuttosto bene da Jerry e non massacrato come altre volte, a conferma che la serata di fine estate del 1989 è tra quelle in cui tutto funziona a meraviglia. In definitiva Garcia Live Volume 13 è un live da accaparrarsi senza troppe esitazioni, nonostante l’infinito ed inarrestabile fiume di pubblicazioni inerenti ai Grateful Dead e dintorni.

Marco Verdi

Dopo 40 Anni Di Grandi Canzoni, Un’Altra Splendida “New York City Serenade”. Willie Nile – New York At Night

willie nile new york at night

Willie Nile – New York At Night – River House Records

Quando lo scorso ottobre Willie Nile iniziò a registrare le nuove canzoni negli Hobo Sound Studios di Weehawken, New Jersey, non poteva certo aspettarsi, come nessuno di noi, tutto quello che sarebbe accaduto nei primi mesi di questo travagliatissimo 2020: la pandemia che è dilagata in tutto il mondo, avvicinando in modo drammatico Milano, Bergamo e Brescia alla sua New York, tragici epicentri di un male nascosto e spietato che ha stravolto le nostre esistenze. Alla luce di tutto ciò, acquista ancora più valore l’ennesimo affresco traboccante di musica e vita che il rocker di Buffalo ha saputo dedicare alla sua città di adozione, presentandocelo come il seguito ideale dell’eccellente Streets Of New York, pubblicato quattordici anni fa. Prodotto insieme all’esperto amico Stewart Lerman, che ricordiamo in cabina di regia anche con Elvis Costello, Patti Smith e Neko Case, New York At Night è l’ennesima prova dello straordinario talento di Willie Nile nella doppia veste di compositore e performer.

Ad accompagnarlo nell’alternanza di lirismo e adrenalina che pervade questa dozzina di nuovi brani, troviamo un ristretto numero di fidati musicisti che spesso lo hanno supportato anche dal vivo: Il bassista Johnny Pisano, il batterista Jon Weber e i chitarristi Matt Hogan e Jimi K. Bones, a cui vanno aggiunti alcuni ospiti illustri come il blasonato polistrumentista Steuart Smith, che molti ricorderanno nelle più recenti esibizioni live degli Eagles o nei dischi di Rosanne Cash e di Rodney Crowell, il sopraffino tastierista Brian Mitchell, già collaboratore di B.B. King, Levon Helm e Bob Dylan, e, tra i vocalist, il fedele amico Frankie Lee e lo stimato collega James Maddock. Permettetemi di citare anche la copertina dell’album, l’ennesima superba istantanea in bianco e nero scattata dalla compagna di Willie, Cristina Arrigoni, (di cui consiglio caldamente il magnifico libro fotografico The Sound Of Hands, edizioni Wall Of Sound) che ritrae il nostro songwriter con le spalle appoggiate a una colonna di una stazione metropolitana mentre un treno gli sfreccia accanto.

Per saltare idealmente su quel treno, non dobbiamo fare altro che far partire New York Is Rockin’, la traccia di apertura del nuovo lavoro. Sembra di fare un salto indietro di quarant’anni, quando un giovane Willie Nile si presentava al mondo del rock con una sublime serenata elettrica dedicata alla sua luna vagabonda. L’energia e il sound sono gli stessi di allora, tra chitarre sferraglianti e ritmica incalzante, fino ad un ritornello che già ci fa immaginare (quando si potrà) sotto un palco a cantare a squarciagola a braccia alzate. Questa è la meravigliosa spontaneità comunicativa di un piccolo grande rocker capace con quattro semplici accordi di arrivare all’essenza gioiosa del rock ‘n’ roll, come pochi altri sanno fare. Il riff assassino di The Backstreet Slide non dà tregua, trascinandoci nei bassifondi poco illuminati della Grande Mela, con la voce del protagonista che si fa più roca e scura, mentre alle sue spalle le sei corde impazzano con gran lavoro di bottleneck, in omaggio al Willie DeVille di Cadillac Walk. Una tastiera soffusa ci introduce alla prima delle ballads, Doors Of Paradise, che parte lenta ma poi prende ritmo su una piacevole linea melodica, con tanto di coretto in chiave afro-gospel sullo sfondo. Gradevole sì, ma non proprio memorabile.

Decisamente meglio Lost And Lonely World, che lancia subito il suo ripetitivo refrain, tipico dei brani di Willie che diventano inni cantati in coro da tutto il suo pubblico durante i concerti. Tra sventagliate di chitarra e grande pathos nel testo diventerà sicuramente uno degli highlights del prossimo tour, che avrebbe già dovuto partire questa primavera con date in Spagna ed Italia, ma che per i ben noti problemi verrà posticipato all’autunno, se non al prossimo anno. Anche The Fool Who Drank The Ocean, scritta insieme a Frankie Lee, avrà di sicuro una bella resa dal vivo col suo incedere duro ed incalzante, le chitarre che si inseguono a briglia sciolta mentre il testo sembra alludere alla classe dirigente americana, facendo uso di una satira pungente. A Little Bit Of Love, come spiega il suo autore, è nata in seguito agli emozionanti incontri che Willie ebbe lo scorso anno con suo padre, giunto alla veneranda età di centodue anni e definito un grande storyteller. Composta al pianoforte nel corso di una notte, fa emergere tutta la sua carica emotiva reggendosi su una melodia limpida e subito assimilabile. Il suo lento crescendo diventa via via irresistibile e ne fa uno dei migliori brani di questa raccolta, sulla scia di altre grandi ballate del passato come Love Is A Train, Renegades o Back Home.

Non so quale sia la vostra idea della perfetta rock ‘n’ roll song, la mia si avvicina parecchio a quanto si ascolta nella title track New York At Night: chitarre infuocate, ritmica a palla, melodia vincente, parole urlate in modo semplice e diretto, da cantare in coro come una selvaggia catarsi. Chi altri è in grado di pubblicare oggi pezzi di questa potenza e immediatezza? Forse gli Stones o Springsteen, se ne avesse ancora voglia, lascio a voi l’ardua sentenza, perché si cambia completamente registro con la successiva The Last Time We Made Love, una preziosa ballad pianistica sulla falsariga di altri gioielli sparsi da sempre all’interno della sua discografia. E una volta di più Willie ci mette a tappeto, con un’interpretazione vocale da brividi e con le note struggenti del suo piano a cui viene sovrapposta a metà e in coda una chitarra elettrica dal suono abrasivo, quasi a sottolineare la malinconica fugacità di un amore che non può tornare. Ci torniamo noi indietro, fino alla seconda metà degli anni settanta, grazie alle atmosfere acide e allucinate di Surrender The Moon, che pare un tributo ai Television per i suoni taglienti delle chitarre mentre Nile canta in modo declamatorio facendo il verso a Patti Smith.

Questo brano risale a tredici anni fa e nacque da un’idea del fratello minore di Willie, John Noonan (Robert Anthony Noonan è il vero nome del nostro protagonista, per chi ancora non lo sapesse) poi venuto a mancare l’anno successivo. Willie si dice sicuro che il fratello sarebbe contento e orgoglioso di questa versione, e noi lo siamo con lui. Under This Roof ci fa fare un ulteriore salto nel passato, quando la sua casa e i locali che frequentava erano nel Greenwich Village e uno stuolo di romantici bohémiens, armati di chitarra acustica, facevano a gara per farsi ascoltare e trovare fortuna in luoghi poi mitizzati come il Cornelia Street Cafè o il Kenny’s Castaways. Under This Roof è un luminoso ricordo di quegli anni e dei sogni e delle illusioni che nascevano e svanivano sotto quel tetto nell’arco di una sola notte. Dopo questa delicata ed intima parentesi, ripartono i fuochi d’artificio con un altro potenziale singolo, la ruvida Downtown Girl, ennesimo esempio di rock immediato ed efficace, proposto con l’impeto di una garage band. Ma il gran finale è riservato a un brano che Willie registrò nel 2003 con la sua band di allora, The Worry Dolls. Incredibile che un pezzo di questo livello abbia dovuto aspettare 17 anni per essere pubblicato, si intitola Run Free ed è un’esortazione a spezzare ogni tipo di catena e puntare in alto inseguendo i propri sogni. Musicalmente si rivela una trascinante cavalcata elettrica con il piano in bella evidenza e una slide imperiosa che ricama sullo sfondo. A metà strada, acquisisce i colori del gospel grazie all’intervento di un coro di voci femminili che ne accrescono ulteriormente l’impeto e la solennità. Una degna conclusione per un album costruito con ottime canzoni che non mancheranno di avere la loro consacrazione definitiva dal vivo.

Per passione, energia e talento Willie Nile si conferma un punto di riferimento per le nuove generazioni di cantautori rock e, per noi appassionati ascoltatori, un compagno di viaggio insostituibile.

Marco Frosi

Un “Gioiello” Di Concerto! Ruthie Foster Big Band – Live At The Paramount

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Ruthie Foster Big Band – Live At The Paramount – Blue Corn Music CD

Sebbene sia in circolazione dal lontano 1997, allora con un esordio autogestito Full Circle, questa signora (abituale cliente del blog) https://discoclub.myblog.it/2014/09/18/promesse-mantenute-sempre-piu-brava-ruthie-foster-promise-of-brand-new-day/ , dopo il notevole Live At Antone’s (11), è solo alla seconda performance discografica dal vivo, che conferma il carisma di questa brava cantante afro-americana, che nel vecchio Texas è considerata una autentica “star”. Live At The Paramount è stato registrato nello storico ultracentenario teatro di Austin, dove il 26 Gennaio dello scorso anno la Foster si è portata sul palco una Big Band, formata da una nutrita sezione fiati da 10 elementi e da 3 coriste, diretta da John Miller, con in più con l’apporto dei suoi abituali musicisti di riferimento alle chitarre, tastiere, batteria e basso, e con le belle orchestrazioni e la produzione del noto John Beasley (Miles Davis e Steely Dan fra i tanti).

La serata si apre con l’introduzione fatta dalla giovane figlia di Ruthie, che poi apre con il gospel Brand New Day (lo trovate su Promise Of A Brand New Day (14) cantata in coppia con Me’shell Ndegeoncello), in una versione inizialmente a “cappella” che poi si apre alla sezione fiati e al coro, seguita dal classico Memphis Soul di una Might Not Be Right (sempre dal medesimo album), scritta assieme alla leggenda Stax William Bell, per poi sorprendere il pubblico in sala reinventando la famosa Ring Of Fire del grande Johnny Cash (da Let It Burn (12), in un fuoco lento che sfiora il blues e che ricorda anche le calde atmosfere “smooth” della nigeriana Sade o di Roberta Flack.

Dopo applausi convinti dalla platea si riparte con l’energica Stone Love (era il brano iniziale di The Truth According To Ruthie Foster(08), che inizia con un piano “jazz”, poi entra la sezione fiati e la canzone si trasforma in un burrascoso suono Motown, segue l’omaggio a Delaney & Bonnie Bramlett con una The Ghetto, sempre dal saccheggiato Promise Of A Brand New Day, una lenta ballata solo chitarra e voce (e che voce) che ammalia il pubblico in sala, per poi continuare il viaggio rispolverando da un album poco considerato come Stages (04), il tradizionale Death Came A Knockin’ (Travelin’ Shoes) con un canto leggermente “gospel” dove il tratto distintivo sono le coriste in sottofondo, mentre il mid-tempo di Singin’ The Blues (indovinate dove lo trovate), si evidenzia ancora una volta il bel canto di Ruthie.

Arrivati a questo punto del concerto, è giusto riconoscere che la presenza della “Big Band” non ha allontanato la Foster dai brani di classico stampo blues/jazz, e la dimostrazione viene da una Runaway Soul che culmina con un superbo duetto tra Ruthie e il sassofonista Joey Calaruso, seguita da una bella Woke Up This Morning, che inizia in modo sommesso, poi la band entra nella canzone con cambiamenti di tono e ritmo, per un arrangiamento da gospel “moderno”, mentre Joy Comes Back (17) dall’ultimo album in studio, in questa versione “Big Easy” ci fa respirare l’aria antica delle strade di New Orleans. La coda finale del concerto riserva dei classici senza tempo, a partire da una Phenomenal Woman, uscita dai solchi di The Phenomenal Ruthie Foster (06), una struggente ballata modellata sulla poesia di Maya Angelou e con questa interpretazione di Ruthie certamente lo spirito della mitica Aretha aleggia in sala, riservando infine le ultime due tracce a due “covers” intriganti come una raffinata rivisitazione di Fly Me To The Moon, dove sembra di sentire una “Sinatra” in gonnella, e andare a chiudere un concerto magnifico con Mack The Knife, canzone simbolo del dramma teatrale L’Opera Da Tre Soldi di Brecht e Weill (da cercare assolutamente la versione di Ella Fitzgerald), dove la Big Band che accompagna la Foster in questo concerto, evoca nell’ascoltatore una musicalità che rimanda all’arrangiatore, direttore d’orchestra e compositore Nelson Riddle (tra i suoi numerosi clienti troviamo Frank Sinatra, Ella Fitzgerald e Nat King Cole). Sipario, ovazione e applausi rivolti a tutti i componenti saliti sul palco del Paramount Theater.

Da anni Ruthie Foster è ormai un nome consolidato nel panorama musicale, un’artista che da tempo questo blog (il sottoscritto e l’amico Bruno in particolare) segue con affetto e attenzione, proponendosi con un suo “songwriting” specifico che pesca dalla tradizione afro-americana, coniugando le tradizioni gospel e blues con influssi rhythm and blues, alzando di volta in volta sempre la famosa asticella. Ebbene stavolta Ruthie “Cecelia” Foster ci ha voluto sorprendere e spiazzare incidendo questo sublime Live At The Paramount, facendosi accompagnare da una seducente Big Band (non tutti sono a conoscenza del fatto che Ruthie ha iniziato come cantante di una grande band sulla nave della Marina Pride), dimostrando che ormai è degna di entrare nell’Olimpo delle grandi.

NDT: E’ superfluo aggiungere che, per chi scrive, sin d’ora si candida a miglior Live dell’anno!

Tino Montanari

Un Ulteriore Fantastico Omaggio Al Blues Al Femminile! Rory Block – Prove It On Me Power Women Of The Blues Vol.2

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Rory Block – Prove It On Me Power Women Of The Blues Vol.2 – Stony Plain Records

Prosegue inesausto ed infaticabile il lavoro di “archivista” del Blues di Rory Block. Con questa serie di album dedicati alle leggende delle 12 battute: la avevamo lasciata nel 2018 alle prese con A Woman’s Soul, il tributo a Bessie Smith https://discoclub.myblog.it/2018/08/12/dopo-il-tributo-ai-padri-fondatori-del-blues-ora-tocca-alle-eroine-del-genere-rory-block-a-womans-soul-a-tribute-to-bessie-smith/ , questa volta con Prove It On Me, sottotitolo Power Women Of The Blues Vol.2 affronta il repertorio di alcune eroine delle origini di questa musica, di cui alcune, lo ammetto, neppure io, che cerco di seguire con continuità il genere, avevo mai sentito nominare, o solo di sfuggita. Personaggi come Arizona Dranes, Elvie Thomas, Merline Johnson, Madlyn Davis, Helem Humes, Rosetta Howard, Lottie Kimbrough e le “celebri” Gertrude “Ma” Rainey e Memphis Minnie, che comunque una musicista come la Block, che è anche diventata una sorta di filologa del genere, ha saputo riscoprire e valorizzare con il suo approccio rigoroso ma comunque variegato, grazie anche al fatto che la stessa Rory, in questo disco, come nei precedenti, suona anche guitar banjo, batteria e percussioni, oltre alla “canonica” chitarra acustica, il tutto al servizio della sua bella voce, sempre in grado di emozionare.

Come mi è capitato di dire, recensendo altri album di questa serie, i dischi sono tutto meno che “pallosi”, rigorosamente acustici è vero, ma con degli arrangiamenti spesso complessi e raffinati, come conferma subito una mossa e brillante He May Be Your Man  (con un divertente che vedete qui sopra), dove la voce di Rory mi ha ricordato addirittura il timbro della compianta Phoebe Snow, secondo me una delle vocalist più straordinarie della musica americana, e anche a livello strumentale non si scherza, con acustiche sferzate anche in modalità slide, percussioni e batteria presenti e vivaci in questa cover di Helen Humes, che ai più potrebbe risultare sconosciuta, ma era la cantante delle orchestre di Harry James e Count Basie. It’s Red Hot di Madlyn Davis viene dai primi anni ‘20, sempre con la Block al botteneck, battito di mani e alla batteria, ed è un pezzo blues che mostra già, in questa versione, i prodromi della futura svolta elettrica delle 12 battute, con Rory che utilizza anche il multitracking per moltiplicare la sua voce, mentre per If You’re A Viper di Rosetta Howard, attiva negli anni ‘30 e ‘40, la nostra amica utilizza un approccio vocale più sexy e quasi da gattona, con retrogusti jazzy e raffinati, con un accenno di scat, senza dimenticare la sua prodigiosa tecnica alla slide acustica.

La title track Prove It On Me viene dal repertorio di Ma Rainey, una delle grandi sacerdotesse del primo blues, già attiva dagli anni ‘10 del secolo scorso, un pezzo solenne e ieratico, quasi danzante e di nuovo con lo scat di Rory, eccellente anche alla batteria, ad impreziosirlo; I Shall Wear A Crown è un traditional che faceva parte del repertorio di Arizona Dranes, con accenti gospel, sempre con la moltiplicazione delle voci della Block, che all’inizio del brano impiega una vocina quasi al limite del falsetto, segue Eagles l’unico brano originale che porta proprio la firma di Rory Block, qui alle prese con uno splendido brano folk-blues, quasi da cantautrice, una melodia intensa interpretata con grande trasporto vocale. Wayward Girl Blues è un pezzo di Lottie Kimbrough, una cantante la cui carriera si svolse solo negli ultimi anni ‘20, ma a giudicare dalla canzone avrebbe meritato maggiore fortuna, brano che gode una volta di più di una interpretazione sontuosa di Rory, che a tratti mi ha ricordato Joan Armatrading, prima di rilasciare un grande solo al bottleneck.

Di In My Girlish Days, la canzone di Memphis Minnie, ricordo una versione fantastica della appena citata Phoebe Snow, dove la voce della cantante newyorchese quasi galleggiava sulle note del brano, ma anche nella rilettura di Rory, sempre magnifica alla slide, si gode della vocalità superba di questa signora di 70 anni ancora in possesso di un timbro impeccabile. Un po’ di ragtime non poteva mancare, ed ecco per la bisogna Milk Man Blues, un pezzo di Merline Johnson, che inevitabilmente gioca sui doppi sensi tipici nella musica blues, sempre interpretato splendidamente dalla Block che per il congedo si affida ad una Motherless Child, rivista dal songbook di Elvie Thomas, e che rimane uno dei brani tradizionali più celebri della grande tradizione popolare della musica americana, con Rory che utilizza un timbro vocale più basso ed impegnativo da cui esce ancora una volta alla grande con una prestazione vocale superba che conferma, ancora una volta, l’elevato valore della serie, una “lezione” non noiosa sulle 12 battute, consigliata caldamente a tutti gli amanti del genere.

Bruno Conti

Tre Album Da Riscoprire E Rivalutare. The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968

everly brothers down in the Bottom

The Everly Brothers – Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968 – RPM/Cherry Red 3CD

Nel 1966 la popolarità degli Everly Brothers era in deciso calo, specie se rapportata ai fasti di fine anni cinquanta/primi sessanta, in cui i fratelli Don e Phil Everly erano stati giustamente indicati come uno degli acts più influenti della loro epoca (per dirne una, senza di loro forse Paul Simon avrebbe intapreso lo stesso la carriera di cantautore, ma probabilmente senza Art Garfunkel): infatti i due non portavano un singolo nella Top 40 da ben tre anni, e addirittura da cinque se si passava agli LP. Il loro ultimo disco, Two Yanks In England, era praticamente un album degli Hollies (che erano autori di gran parte delle canzoni e comparivano anche come backing band) cantato dagli Everly, e non ebbe successo come i precedenti: i nostri pensarono quindi di operare qualche piccolo cambiamento nel loro suono, ed i tre dischi interessati da tale rinnovamento (The Hit Sound Of The Everly Brothers, The Everly Brothers Sing e Roots) sono riuniti in questo triplo CD in digipak targato Cherry Red ed intitolato Down In The Bottom: The Country Rock Sessions 1966-1968, tutti quanti con una buona dose di bonus tracks in parte inedite.

In effetti il sottotitolo di questa ristampa è leggermente inesatto, in quanto solo Roots si può definire propriamente country-rock: diciamo che i due lavori precedenti, che pur presentano qualche sonorità countreggiante anche se mescolata alle consuete pop songs del duo e perfino a qualche accenno di psichdelia, sono da considerare come una graduale transizione verso Roots, che uscendo nel 1968 tenterà di inserirsi nel filone country-rock allora in voga e che aveva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta.

The Sound Of (1967, ma le sessions risalgono al ’66, da qui dunque il titolo dell’antologia) è formato da cover di brani più o meno noti, con la produzione di Dick Glasser e l’ausilio di diversi membri della famosa Wrecking Crew, tra cui Larry Knechtel, Hal Blaine, Terry Slater e Glen Campbell, già noto quest’ultimo come artista in proprio. L’album non vendette molto, ma vide i nostri proporre arrangiamenti raffinati e con le solite splendide armonie vocali di classici del rock’n’roll (Blueberry Hill, riletta in veste countreggiante, Oh, Boy! e Good Golly, Miss Molly), del country (I’m Movin’ On, Sea Of Heartbreak, che sembra scritta su misura per loro, e (I’d Be A) Legend In My Time), due brani associati a Ray Charles (Let’s Go Get Stoned e Sticks And Stones), un po’ di “British Invasion” (Trains And Boats And Plains, di Burt Bacharach ma portata al successo da Billy J. Kramer & The Dakotas, e The House Of The Rising Sun, incisa tenendo presente l’arrangiamento degli Animals ed indicando addirittura Alan Price come autore del pezzo). Poi ci sono brani scritti da autori esterni apposta per Don & Phil, come la beatlesiana Devil’s Child e la melodiosa She Never Smiles Anymore, opera di un giovane ed ancora sconosciuto Jimmy Webb. Tra le cinque bonus tracks del primo CD spiccano Even If I Hold It In My Hand, unico pezzo a firma Don Everly, un’altra canzone scritta da Webb (When Eddie Comes Home) ed il demo di Bowling Green, che sarà il brano di punta del disco successivo.

Proprio Bowling Green, uno splendido e scintillante folk-rock, apre il secondo dischetto nonché l’album Sing (1967), prodotto ancora da Glasser e con più o meno gli stessi musicisti del precedente (ma con in più il grande James Burton, all’epoca chitarrista di Elvis), ed un approccio più spostato verso il pop psichedelico, termine da prendere comunque con le molle in quanto stiamo pur sempre parlando degli Everly. Quasi metà dei pezzi sono scritti dal bassista Slater, i migliori dei quali sono la già citata Bowling Green, A Voice Within, il cui sound è influenzato dalle band britanniche, e le psichedeliche all’acqua di rose Talking To The Flowers e Mary Jane; ci sono poi un paio di originali di Don (l’orecchiabile I Don’t Want To Love You, scritta insieme a Phil, e l’eterea ballata It’s All Over, già incisa in passato dai due), un pezzo roccato e coinvolgente (Deliver Me, di Danny Moore) ed il rifacimento di Somebody Help Me, grande successo dello Spencer David Group di Steve Winwood,  pubblicata l’anno prima su Two Yanks In England. C’è anche la scelta bizzarra di includere una versione del superclassico dei Procol Harum A Whiter Shade Of Pale (non adattissima ai nostri), mentre è invece ottima Mercy, Mercy, Mercy, scritta dal non ancora leader dei Weather Report Joe Zawinul per il Cannonball Adderley Quintet. Le bonus tracks qui sono ben nove, tra cui sei sono brani usciti solo su singolo: da non perdere la bella rilettura della classica Love Of The Common People e la squisita Nothing But The Best di Rick Kemp.

E veniamo a Roots (1968), il migliore dei tre album presi in esame e quello che rappresenta la vera svolta nel suono dei fratelli, un disco che è anche una delle prime produzioni di un giovane Lenny Waronker, che nei seventies diventerà uno dei nomi più richiesti in cabina di regia, e che vede ancora i membri della Wrecking Crew con l’aggiunta delle tastiere di Van Dyke Parks. L’album vede dunque Don & Phil perfettamente calati nei panni di novelli cantanti country-rock, con cristalline versioni di classici come Mama Tried e Sing Me Back Home (le due canzoni più celebri di Merle Haggard), Less Of Me di Glen Campbell, T For Texas di Jimmie Rodgers e You Done Me Wrong di George Jones; un paio di pezzi sono scritti da Ron Elliott, leader dei Beau Brummels e collaboratore del disco (le folkeggianti Ventura Boulevard e Turn Around), mentre l’unico brano originale dei due fratelli, I Wonder If I Care As Much, è quasi psichedelico e non imperdibile (c’è anche una canzone, Living Too Close To The Ground, scritta dall’attrice Venetia Stevenson, all’epoca moglie di Don). Completano il quadro una pimpante rilettura del traditional Shady Grove in puro stile bluegrass ed un inedito del giovane Randy Newman, Illinois, brano già con l’impronta futura del pianista e cantante di Los Angeles. Sette le tracce bonus tratte dalle sessions, la maggior parte delle quali sono canzoni originali di Phil & Don (Omaha è la migliore), completata da due preziose cover di Mr. Soul (Neil Young) e In The Good Old Days (Dolly Parton) e da una bluesata e grintosa Down In The Bottom di Willie Dixon.

Con Roots, nonostante il perdurante insuccesso del disco, gli Everly Brothers sembravano lanciati verso una nuova carriera all’insegna del country-rock, e nessuno all’epoca poteva immaginare che come duo (quandi escluse le peraltro poche fatiche soliste) avrebbero pubblicato soltanto più cinque album durante il resto della carriera, due negli anni settanta e tre negli ottanta: un motivo in più per riscoprire le registrazioni incluse in questo triplo CD.

Marco Verdi

Dopo L’Ultimo Saluto, Il Commiato Definitivo: E’ Morto Phil May, Leader Dei Pretty Things.

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Un paio di giorni fa è scomparso all’età di 75 anni Phil May, leader, cantante e paroliere principale dei Pretty Things, band inglese che ha avuto il suo momento migliore negli anni sessanta senza però mai trovare il vero successo. Mi ero occupato di loro recentemente in quanto negli ultimi mesi dello scorso anno i PT (i cui unici due membri originali ancora all’interno del gruppo erano lo stesso May ed il chitarrista Dick Taylor) avevano pubblicato The Final Bow, splendido cofanetto che documentava il loro ultimo concerto tenutosi a Londra nel dicembre del 2018, con ospiti eccellenti del calibro di David Gilmour e Van Morrison. Dopo il loro ritiro dalle scene non pensavo di dover tornare così presto a parlare del gruppo, soprattutto a causa di un fatto così triste: tra l’altro, per essere uno che negli anni sessanta sbandierava più o meno ai quattro venti la sua bisessualità ed il fatto di avere l’abitudine di “aprirsi” la mente mediante l’uso di droghe (oltre alla convinzione di essere la rockstar con i capelli più lunghi in assoluto!), May ha avuto una morte molto poco “rock”, cioè a causa di complicazioni a seguito di un’operazione al bacino per una rovinosa caduta dalla bicicletta. Voglio quindi ricordare May “riciclando” la prima parte della mia recensione originale di The Final Bow: se volete rileggere il post completo questo è il link https://discoclub.myblog.it/2020/02/18/cofanetti-autunno-inverno-18-lultimo-ruggito-di-una-piccola-grande-band-the-pretty-things-the-final-bow/. 

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*NDB Le foto del Post sono tratte dal suo sito. All’inizio, come era nel suo periodo di massimo splendore, questa sopra, forse un po’ impietosa rispetto ad altre rockstars molto “leccate”, come era oggi, anche se aveva comunque, come ricordato, 75 anni.

Ci sono gruppi che hanno attraversato la cosiddetta “golden age of rock’n’roll” da comprimari, conquistandosi al massimo una nota a pié di pagina nelle enciclopedie ed assaporando un successo inversamente proporzionale alla loro bravura: quelle che oggi vengono definite band di culto, per intenderci. Uno dei nomi oggi più dimenticati in tal senso è quello dei Pretty Things, gruppo inglese originario del Kent attivo dalla metà degli anni sessanta inizialmente con una miscela di rock ed errebi equiparabile ai primi Moody Blues, agli Animals, agli Stones, ma anche ai Them, e che poi inserì nel suo suono elementi psichedelici senza tuttavia dimenticare l’amore originario per il blues (il loro nome è ispirato ad una canzone di Bo Diddley, loro grande idolo); i nostri non ebbero mai un grande successo neppure nei sixties, con l’esordio del 1965 unico album ad entrare nella Top Ten (leggermente meglio, ma non troppo, con i singoli), e con il loro capolavoro S.F. Sorrows del 1968 (considerata la prima opera rock di sempre, in anticipo di un anno su Tommy degli Who) che non entrò neanche nella Top 100!

Ma i PT, scioltisi all’inizio degli anni ottanta e riformatisi alla fine del vecchio millennio, hanno sempre continuato imperterriti a fare la loro musica, ed il 13 Dicembre del 2018 hanno deciso di dare l’addio alle scene in grande stile, con un magnifico concerto tenutosi al Teatro 02 Indigo di Londra, serata documentata in uno splendido cofanetto intitolato The Final Bow che in due CD, altrettanti DVD ed un vinile da dieci pollici (esiste anche una versione in doppio LP, ma con il concerto incompleto) ci offre una eccellente panoramica sul meglio della loro storia. Gli unici due membri originari sono il cantante Phil May ed il chitarrista Dick Taylor (coadiuvati dai più giovani Frank Holland, chitarra, George Woosey, basso e Jack Greenwood, batteria), i quali nonostante l’età e l’apparente fragilità fisica sul palco sono ancora in grado di dire la loro alla grande. The Final Bow è quindi un grande live album, in cui i Pretty Things si autocelebrano con stile ma anche tanta grinta, suonando con una foga degna di un gruppo di ragazzini, ed in più con diverse sorprese ad effetto durante tutto lo show. Tanto rock’n’roll, ma anche parecchio blues e qualche sconfinamento nella psichedelia, specie nel momento dello show dedicato a S.F. Sorrows.

*NDB Bis Questo sotto è stato il loro singolo di più grande successo, al 10° posto delle classifiche inglesi nel 1964.

Nel frattempo è uscita anche la notizia (sul Guardian) che i Pretty Things avevano sorprendentemente completato un album con nuove canzoni, il primo da The Sweet Pretty Things (Are In Bed Now, Of Course) (titolo che riprende la prima frase del testo di Tombstone Blues di Bob Dylan) uscito nel 2015, e che la pubblicazione è prevista entro fine 2020: sarà il modo migliore per celebrare la figura di Phil May.

Marco Verdi

I Dischi Dal Vivo Le Piacciono Molto, E Li Fa Decisamente Bene. Ana Popovic – Live For LIVE

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Ana Popovic – Live For LIVE – ArtisteXclusive CD – CD+DVD

Ana Popovic è una chitarrista serba non più giovanissima (l’età delle signore non si dice mai, ma è del 1976), con una carriera iniziata, su istigazione del babbo, grande appassionato di musica, fin dai primi anni ‘90 e poi a livello discografico con un CD della “nota” band Hush, che darà anche il titolo al suo primo album solista del 2000. La nostra amica appartiene stilisticamente diciamo alla categoria rock-funky-blues, ma ha dalla sua anche una notevole carica sexy, evidenziata dalle copertine dei suoi dischi dove appare spesso con mise piuttosto succinte, cosa replicata anche nei concerti dal vivo, dove minigonne, hot pants e stivaletti con tacchi vertiginosi sono all’ordine del giorno https://discoclub.myblog.it/2010/10/18/mica-male-la-ragazza-ana-popovic-band-an-evening-at-trasimen/ .

Anche questo nuovo Live For LIVE è, come la lascia chiaramente intuire il titolo, un disco dal vivo il terzo della sua discografia: ma la “giovanotta”, per darle i suoi meriti, è pure parecchio brava, eccellente tecnica chitarristica, con una propensione all’uso del wah-wah, nonostante il tacco 12, voce calda e potente e anche una buona capacità di autrice. Vogliamo dire che lo stile citato è derivativo come hanno evidenziato alcuni, ma se “derivi” bene, come lei, non c’è nulla di male a farlo: il concerto è stato registrato a Parigi nel corso del tour del 2019 e Ana, accompagnata da una band di 6 elementi, tastiere, basso, batteria e fiati, rivisita il suo repertorio, con una prevalenza degli ultimi album. Completino “sobrio come si evince dal video, con pantaloncino e mantellina da super eroina, ma la musica è subito eccellente, con Intro/Ana’s Shuffle, un brano dall’incipit jazzato, con organo e fiati sincopati quasi mutuati dalle vecchie soul revue, poi entra la chitarra potente e dal suono fluido e fluente, un paio di minuti e il pedale del wah-wah viene subito innestato a manetta, pur se in un ambito raffinato.

La Popovic estrae dalla sua Stratocaster una marea di note, poi passa alla funky Can You Stand The Heat, dall’omonimo album del 2013, cantata con voce sicura e gagliarda, mentre la chitarra rimane in modalità wah-wah e parte anche un assolo di basso slappato accompagnato da piano elettrico e organo, a seguire, ancora dallo stesso disco l’ottima Object Of Obsession, sempre sorretta dalle continue folate della solista. Love You Tonight dal triplo Trilogy del 2016 è una R&B torbido e carnale, sostenuto dal solito florilegio dei fiati, mentre Train che nella versione di studio del triplo era un duetto con Bonamassa, qui ci permette di gustare l’approccio vocale da balladeer soul della Popovic, quasi alla Beth Hart, Ana che non si esime comunque dal rilasciare un altro assolo di notevole tecnica e feeling. Long Road Down è un’altra sferzata di puro funky groove, con wah-wah utilizzato in ambito ritmico, spazio ad assoli di organo e basso, e poi un altro robusto assolo di chitarra, prima di un tuffo nel New Orleans sound di New Coat Of Point, dove i fiati e il piano elettrico hanno il loro spazio solista prima di lasciare di nuovo il proscenio alla chitarra di Ana. Ancora dal triplo arriva una lunga versione notturna e raffinata di Johnnie Ray, una blues ballad affascinante dove la Popovic lavora di fino prima del grande crescendo finale, Can’t You See What Are You Doing To Me è una gagliarda versione di un brano di Albert King del periodo Stax, con un altro assolo da sballo della bionda chitarrista serba.

Poi è di nuovo funky time con una ribollente Fencewalk dal repertorio dei Mandrill, ancora pescata da Trilogy, con un altro assolo magistrale, e sempre dal disco Morning del triplo ancora un funky-soul dai risvolti Funkadelic/Isley Brothers come If Tomorrow Was Today. Brand New Man dall’ultimo disco del 2018 è un ottimo shuffle dal suono classico, e sempre da quel CD la title-track che è di nuovo in modalità funky con uso wah-wah, che rimane in funzione per Lasting Kind Of Love, un duetto con Keb’ Mo’ nella versione di studio, seguito da Mo’ Better Love, un’altra raffinata canzone di impianto jazz-soul cantata a voce spiegata dalla Popovic, sempre impeccabile anche alla chitarra.

Siamo al gran finale, con i brani più lunghi, prima una sontuosa How’d You Learn To Shake It Like That di Snooky Pryor dove Ana va di slide alla grandissima https://www.youtube.com/watch?v=YYlQwyy_LTQ , poi il medley di quasi 13 minuti, che parte ancora super funky con Show Me How Strong You Are?, con spazio per tutto i musicisti con assoli di basso, batteria e organo, e poi con Going Down e Crosstown Traffic, altro momento Hendrixiano con profluvi di Wah-Wah come piovesse, prima della chiusa con lo strumentale Tribe, ancora denso di sfrenato virtuosismo jam in libertà.

Bruno Conti

Un Ottimo Modo Per Festeggiare Dieci Anni On The Road. US Rails – Mile By Mile

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US Rails – Mile By Mile – Blue Rose CD

Quando nel 2010 uscì US Rails, album di debutto dell’omonimo gruppo, non avrei pensato che dopo dieci anni sarei stato qui a parlarvi di un nuovo lavoro del quartetto di Philadelphia. Sì, perché quel disco, tra l’altro ottimo esempio di pura american music, sembrava più un lavoro estemporaneo che l’inizio di una nuova avventura, in quanto i componenti della band erano tutti musicisti in proprio ed ognuno titolare di una carriera a sé stante.

Gli US Rails parevano quindi una sorta di divertissement, un supergruppo di outsiders dato che il più famoso dei cinque (si fa per dire) era il chitarrista Tom Gillam, coadiuvato Scott Bricklin alle chitarre e basso, Ben Arnold alle tastiere e Matt Muir alla batteria (Joseph Parsons, il quinto elemento, ha lasciato la band nel corso degli anni): i nostri furono però talmente soddisfatti dalla loro collaborazione e dal tour successivo che decisero di continuare, e disco dopo disco siamo appunto qui a parlare ancora di loro ad una decade di distanza da quando tutto iniziò.

Mile By Mile è il sesto album del quartetto e, forse per l’occasione di festeggare i dieci anni insieme, è senza dubbio il migliore dopo appunto l’esordio del 2010, un lavoro che riconferma i nostri come portavoce di un sound americano al 100%, una miscela coinvolgente di rock, soul, country e musica del sud (nonostante provengano come ho detto da Philadelphia suonano davvero come una southern band). Mile By Mile vede quindi i nostri in gran forma sia dal punto di vista strumentale che vocale (le armonie sono sempre state un loro punto di forza, e poi sono tutti validi cantanti), ma soprattutto per quanto riguarda la scrittura delle canzoni, tra le migliori della loro decennale carriera, situazione favorita anche dal fatto che ci troviamo di fronte a quattro diversi songwriters che si completano a vicenda. Il CD si apre benissimo con Take You Home, una rock song coinvolgente fin dalle prime note, con un riff di chitarra molto stonesiano ed un refrain diretto ed orecchiabile che ricorda un po’ certe cose di Tom Petty, canzone subito doppiata dall’altrettanto riuscita title track, introdotta dalla bella slide di Gillam e con un mood da rock band sudista (e sudata), nonché un ritornello corale decisamente accattivante.

Il ritmo non accenna a sopirsi neanche in Trash Truck, altro rock’n’roll trascinante con le chitarre in tiro ed un delizioso scambio strumentale tra pianoforte e slide: saranno anche di Philadelphia, ma sembrano in tutto e per tutto una band della Georgia o Alabama. Water In The Well è una ballata fangosa ed annerita con elementi blues che inizialmente rimanda a Tony Joe White, ma poi nel refrain il brano si apre facendo filtrare un altro motivo piacevole (e non manca uno splendido ed ispirato assolo chitarristico); What You Mean To Me ci riporta in territori puramente rock per una ballata limpida e cadenzata che allunga la serie di brani che coniugano spessore e fruibilità (qui c’è il piano in evidenza), mentre Hard Headed Woman è un delizioso e saltellante pezzo dal sapore country-rock che ricorda i Jayhawks d’annata e, sto diventando monotono, un ritornello di quelli che si appiccicano alle orecchie. Easy On My Soul è una fluida e lenta ballata di stampo classico, molto anni settanta, ed ancora elementi southern, Tombstones &Tumbleweeds è invece puro rock’n’roll, tra i più coinvolgenti del disco e con un riff che ricorda vagamente quello di Satisfaction, mentre See The Dream è l’ennesima godibile rock ballad dalla melodia che prende subito. Il CD si chiude con l’irresistibile Fooling Around, un rockin’ country ruspante e godereccio, e con il mid tempo pianistico Slow Dance, dallo squisito sapore soul.

Dieci anni festeggiati dunque nel migliore dei modi per gli US Rails, un gruppo per il quale il detto “l’unione fa la forza” è una solida realtà.

Marco Verdi

Il Titolo Dice Tutto, E Il Contenuto Lo Conferma Alla Grande! Eileen Rose – Muscle Shoals

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Eileen Rose – Muscle Shoals Continental Song City/Eileen Rose CD/Download

Quando in una foto di copertina appare una immagine del vecchio edificio al 3614 Jackson Highway, che è l’indirizzo dello studio di registrazione a Sheffield, Alabama, dove si trova(va)no i vecchi Muscle Shoals, ora all’interno di una sorta di museo, ma tuttora funzionanti nel caso qualcuno voglia utilizzarli, ti si scalda subito il cuore, ancor di più se il disco si intitola Muscle Shoals. Se poi a pubblicarlo è una artista come Eileen Rose, non più giovanissima, ma ancora sulla breccia alla grande, il sorriso che ti si stampa sul viso si accentua: ammetto che avevo un po’ perso di vista Eileen Rose Giadone (italo-irlandese di origine, quindi “una dei nostri”), nativa dei sobborghi di Boston, ma da un po’ di anni trasferita a Nashville, Tennesse, dal “lato giusto” della città, quello dove brulica l’alternative country, la roots music, l’Americana, come volete chiamarla, ci siamo intesi. Se non mi sono perso qualcosa l’ultimo album Be Many Gone era uscito ad inizio 2014, ma la Rose aveva continuato a fare musica dal vivo accompagnata dagli Holy Wreck, altri quattro baldi “giovanotti” che la accompagnano pure nel nuovo CD (che esiste, non è solo download): The Legendary Rich Gilbert, così si autodefinisce, a chitarra, pedal steel e tastiere (in pista nella scena alternativa da inizio anni ‘80), Chris MacLachlan al basso e Steve Latanation alla batteria, con l’aiuto di Joshua Hedley al violino e Norma Giadone (parente?), alle armonie vocali.

Eileen ha una lunga storia alle spalle, iniziata quando si trasferì nel lontano 1991 nel Regno Unito a Londra, poi dopo una lunga gavetta, in una band alternative i Fledgling, autori di un solo omonimo album nel 1995, con una delle più brutte copertine mai viste, e poi all’esordio come solista nel 2000 con Shine Like It Does, dove era accompagnata dagli Alabama 3, disco che ebbe ottime critiche, e un altro nel 2002 sempre in UK, poi altri cinque dischi dopo il suo ritorno negli States avvenuto nel 2003, più alcune avventure collaterali. Facciamo un fast forward e arriviamo ai giorni nostri: la Rose decide di fare una puntatina in Alabama, dove negli studios citati prima si respira quella aria magica. Ne risulta un CD diviso in Side A e Side B (ebbene sì, ma non è un doppio) dove attraverso “9 New Songs “ e “8 Old Favorites”, ovvero vecchie canzoni registrate ex novo, delizia i nostri padiglioni auricolari. In possesso ancora oggi di una voce potente, vissuta e grintosa Eileen Rose apre le danze con She’s Gone che profuma, forse solo per questo brano, quasi inevitabilmente, di country got soul, tra Van Morrison e una Lucinda Williams più vivace, con la chitarra e l’organo di Gilbert a regalare pennellate di ottima musica, poi ribadite nelle folate rock di una He’s So Red, con chitarre ruggenti e ritmi mossi.

Atmosfere che poi si quietano nella inconsueta ma affascinante cover di Matte Kudasai, un pezzo dei King Crimson dell’era Adrian Belew (ebbene sì), trasformata in una squisita ballata che viaggia sulle ali di una sognante pedal steel, quasi alla Albatross di Peter Green, mentre la brillante ed euforica Get Up rimanda al Tom Petty più “campagnolo”, con Gilbert che imperversa alla grande con la solista https://www.youtube.com/watch?v=JYeUuwJOp1c , e Am I Really So Bad, tenera ed avvolgente, attinge dalla musica dell’anima tanto praticata in quegli studios. On Shady Hill tra country e rockabilly sprizza voglia di vivere e muovere i piedi, A Little Too Loud rimane sulla stessa collina ma invita i Creedence e i Blasters per un bel party https://www.youtube.com/watch?v=phbXeAPjnwA , Hush Shhh è quasi onomatopeica e in punta di piedi, silenziosa, ma con passione, parla la pedal steel. Il traditional The Auld Triangle, cantata a cappella in totale austerità per ricordare le radici irlandesi di Eileen Rose. La Side B dei vecchi brani rifatti per il ripasso, ma come nuovi, parte con la lunga e bellissima Shining dal primo album del 2000, qui devo dire molto Lucinda Williams, sempre meno “pigra”, ma parimenti chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=g9ZgUsv5xdU , ottima anche la rootsy e sudista Walk The Jetty.

Good Man anche per gli sbuffi iniziali dell’armonica sembra un Neil Young d’annata virato al femminile, con weeping pedal steel, l’altalenante nei ritmi Trying To Lose You ha un che del Dylan anni ‘60 con un assolo ringhioso di Gilbert, la malinconica Stagger Home cantata con voce cavernosa, come se Marianne Faithfull avesse deciso di darsi al country in un pezzo scritto da Maria McKee, la divertente Queen Of The Fake Smile, quasi come dei Traveling Wilburys di nuovo al femminile, Old Time Reckoning, con Joshua Hedley al violino e un gran lavoro di Latanation alla batteria mi ha ricordato ancora la McKee, magari dell’era Lone Justice https://www.youtube.com/watch?v=GPAXDQ921XQ , con cui Eileen Rose condivide un timbro vocale ancora squillante benché maturo, e per concludere il jingle-jangle amaro della splendida Sad Ride Home https://www.youtube.com/watch?v=9tVzgeaCxvM .

Che dire, tutto molto bello, neanche un brano inutile: un nome da (ri)scoprire, esce, a seconda dei paesi, tra il 15 e il 22 maggio.

Bruno Conti