Non Avrei Mai Pensato Che Un Giorno Lo Avrei Recensito! Neil Young – Homegrown

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Neil Young – Homegrown – Reprise/Warner CD

A volte il destino è strano: finalmente ti decidi a far uscire ufficialmente un disco che hai nei cassetti da 45 anni e che è forse il principale desiderio nascosto (ma neanche troppo) dei tuoi fans, e con tutte le date a disposizione vai a scegliere quella in cui Bob Dylan pubblica il suo primo album di canzoni nuove in otto anni, ed uno dei suoi migliori delle ultime due decadi. Ma, facezie a parte, un po’ ancora non ci credo che sono qui a parlarvi di Homegrown, album registrato da Neil Young tra il 1974 ed il 1975 che in origine doveva rappresentare una sorta di seguito di Harvest, ma che poi è stato lasciato da parte diventando uno dei maggiori oggetti del desiderio da parte degli estimatori del musicista canadese (nonché il più celebre dei suoi LP “unreleased”, un elenco che comprende titoli come Chrome Dreams, Island In The Sea, Oceanside/Countryside, la prima versione di Old Ways e Toast, mentre Hitchhiker come sapete è stato pubblicato nel 2017).

La storia è abbastanza nota: Homegrown, un disco elettroacustico tra rock, country e folk realizzato tenendo presenti le sonorità di Harvest, era bello che pronto per uscire (c’era anche la copertina, che poi è la stessa dell’edizione odierna), ma un Neil Young ancora scosso per la perdita degli amici Danny Whitten e Bruce Berry ebbe il colpo di grazia a causa del naufragare della sua relazione con l’attrice Carry Snodgress, con cui aveva una relazione dal 1971 dalla quale era nato il piccolo Zeke (affetto tra l’altro da paralisi cerebrale): la cosa fece cadere il nostro in una profonda depressione che lo convinse a cancellare l’uscita di Homegrown a favore del cupo Tonight’s The Night. Negli anni seguenti Neil ha poi pubblicato alcuni pezzi pensati per quel disco, alcuni potenziati, altri completamente rifatti, altri ancora lasciati così com’erano, ma di Homegrown più nessuna traccia nonostante la notizia di una pubblicazione imminente, poi puntualmente smentita, verrà data più volte nelle decadi a venire. Ora però è la volta buona (anche se un altro ritardo di due mesi c’è stato, ma stavolta per il coronavirus), e Homegrown è finalmente una realtà, ed esattamente con la tracklist pensata all’epoca: sono stati quindi lasciati nei cassetti diversi altri titoli, alcuni noti in quanto già presenti nella discografia younghiana (Pardon My Heart, Deep Forbidden Lake, The Old Homestead), altri più oscuri nonostante Neil negli anni li abbia occasionalmente suonati dal vivo (Love/Art Blues, Homefires, Mediterranean, Frozen Man, Daughters, Barefoot Floors).

Risentito oggi Homegrown non ha perso nulla delle sue qualità: è infatti un disco bello, intenso e tipico del Neil Young mid-seventies, con momenti di profonda malinconia alternati a potenti svisate elettriche. Non è forse il capolavoro che la leggenda narrava, in quanto sia Harvest che Zuma e forse anche On The Beach e Tonight’s The Night sono superiori, ma teniamo presente che lo standard qualitativo del Bisonte in quegli anni era incredibilmente alto. Tra i sessionmen presenti nelle varie canzoni ci sono vecchie conoscenze (Ben Keith alla steel, Tim Drummond al basso e Karl T. Himmel alla batteria) ma anche alcuni ospiti di vaglia, come il pianista Stan Szelest e soprattutto i “The Band Boys” Robbie Robertson e Levon Helm e la voce di Emmylou Harris. Tre dei dodici pezzi totali sono pubblicati nelle versioni già note (le splendide Love Is A Rose e Star Of Bethlehem, presenti sull’antologia Decade, e la discreta Little Wing che nel 1980 aprirà l’album Hawks And Doves), mentre due brani che in seguito verranno reincisi qui sono nella prima stesura: l’energica e roccata title track, bella versione con Keith alla slide e forse migliore di quella rifatta coi Crazy Horse per American Stars’n’Bars, e White Line (che Neil pubblicherà addirittura nel 1991 su Ragged Glory sempre con il Cavallo Pazzo), ottima anche in questa resa a due chitarre con Young e Robertson come soli musicisti presenti. I brani “nuovi” iniziano con Separate Ways (che comunque il nostro ha suonato diverse volte dal vivo), una notevole ballata country-rock elettroacustica caratterizzata dalla bella steel di Keith e dal tipico drumming di Helm: la parte vocale, anche se non particolarmente rifinita, è incisiva grazie anche alla solida melodia.

Try è una delicata country ballad (acustica, ma full band) sullo stile di Harvest, con pochi ma calibrati strumenti ed un bellissimo ritornello reso ancora più prezioso dalla steel e dall’intervento vocale della Harris; la malinconica Mexico vede Neil da solo al piano per un breve e tenue brano dalla musicalità quasi fragile, a differenza di Florida che non è una canzone ma una conversazione di Young con Keith e sottofondo di…bicchieri di vino (!): l’avrei lasciata volentieri in un cassetto. Bella la gentile ed intensa Kansas, solo voce, chitarra ed armonica, mentre We Don’t Smoke It No More è un blues cadenzato e pianistico con aggiunta di slide, un pezzo strepitoso e coinvolgente nonostante Neil non sia propriamente un bluesman: singolare poi che la voce entri solo dopo quasi due minuti e mezzo. L’ultimo dei brani inediti è anche uno dei migliori: Vacancy è infatti una notevole rock song elettrica e potente dal motivo diretto, un pezzo che è la quintessenza di Young e che non capisco come possa essere rimasto da parte fino ad oggi. Homegrown non sarà dunque quel masterpiece di cui si è a lungo favoleggiato, ma è di sicuro un disco che tende dal buono all’ottimo e che rappresenta alla perfezione il Neil Young della metà degli anni settanta.

E comunque dopo aver aspettato 45 anni il minimo che si possa fare è non farselo sfuggire.

Marco Verdi

Nel Caso Qualcuno Avesse Ancora Dei Dubbi, Siamo Su Un Altro Pianeta! Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

bob dylan rough and rowdy ways

Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways – Columbia/Sony 2CD

Nonostante egli stesso avesse smentito ogni riferimento all’ultima opera di Shakespeare, stavo cominciando davvero a convincermi che Tempest, uscito nel 2012, potesse davvero essere il canto del cigno per quanto riguardava il Bob Dylan autore di canzoni, e che i tre album di cover di brani del “great american songbook” (ma con particolare attenzione a pezzi interpretati in passato da Frank Sinatra) fossero una gradita appendice. Poi, in pieno lockdown, lo scorso mese di aprile come un fulmine a ciel sereno Bob ha reso disponibile Murder Most Foul, una ballata epica di 17 minuti dalla misteriosa provenienza, seguita dopo poche settimane dalla più “stringata” I Contain Multitudes: i fans di tutto il mondo avevano cominciato a fantasticare su un possibile nuovo album di originali da parte del grande songwriter, cosa poi confermata con la rivelazione di un terzo brano, False Prophet, in contemporanea all’annuncio appunto di un long playing nuovo di zecca intitolato Rough And Rowdy Ways, mantenendo comunque il mistero sui titoli delle altre canzoni fino a poco più di una settimana fa. Nell’attesa, girando un po’ in rete, fans e critici erano poi dubbiosi sul fatto che Bob fosse ancora in grado (o avesse voglia) di scrivere grandi canzoni alla veneranda età di 79 anni, soprattutto con il popò di songbook che si ritrovava alle spalle.

bob dylan rough and rowdy ways 2 cd

Nell’ultima settimana si sono moltiplicate le recensioni in anteprima degli addetti ai lavori (cioè quando finalmente la Sony si è degnata di fornire loro il CD in anteprima), e lodi e peana si sono sprecati. Io però sono come San Tommaso (anche perché Dylan è entrato in quella ristretta fascia di artisti dei quali sembra sia vietato parlare male), e dopo un ascolto attento è meditato mi sono chiesto come avessi potuto dubitare anche solo per un attimo della capacità del nostro di confezionare un altro disco alla sua altezza. Sì, perché Rough And Rowdy Ways è l’ennesimo grande album di una carriera unica ed inimitabile, un lavoro profondamente diverso da Tempest, più riflessivo, pacato, a volte quasi sussurrato. Un disco di ballate (e qualche blues, come vedremo), in cui Dylan torna a livelli eccezionali per quanto riguarda i testi, mentre per ciò che concerne la veste sonora Bob si limita spesso all’essenziale, quasi come se volesse porre ancora di più l’accento sulle canzoni e su ciò che esse dicono: peccato che, come al solito, nella confezione del CD manchino i testi, in quanto a mio parere averli davanti è una parte fondamentale dell’esperienza. Non è un disco facile comunque, ma sono convinto al 100% che già dopo due o tre ascolti crescerà in maniera esponenziale fino a diventare difficile rinunciarvi.

L’album è doppio, con un primo CD contenente nove pezzi per un totale di 53 minuti (da un minimo di quattro ad un massimo di nove), mentre il secondo dischetto è interamente riservato a Murder Most Foul. Il produttore non è indicato (ma è sicuramente Jack Frost, ovvero Bob stesso), ed il gruppo è formato come era prevedibile dall’attuale live band del cantautore di Duluth: quindi Dylan, Charlie Sexton e Bob Britt alle chitarre (e Bob stranamente non al piano), Tony Garnier al basso, Donnie Herron alla steel, violino e fisarmonica e Matt Chamberlain alla batteria; ci sono anche alcuni ospiti, ma sono semplicemente elencati con il nome senza riferimenti a cosa suonano e dove, cosa piuttosto fastidiosa a mio parere: ad ogni modo troviamo Fiona Apple (e questa è una sorpresa) insieme al suo abituale collaboratore Blake Mills, l’ex Heartbreaker Benmont Tench, l’altro tastierista Alan Pasqua (un grande ritorno, era con Bob nel gruppo di Street-Legal e susseguente tour che ha portato al live At Budokan) e l’almeno per me sconosciuto Tommy Rhodes. I Contain Multitudes non è il brano che uno si aspetta come apertura di un disco, dato che è una ballata molto lenta e discorsiva, con la voce di Bob quasi carezzevole su un accompagnamento che potrei definire appena accennato (chitarra acustica, steel, contrabbasso e poco altro): brano comunque ricco di fascino con Dylan che sillaba le parole in maniera chiara e comprensibile.

Non può esistere un disco di Bob Dylan senza almeno un blues, e False Prophet è un notevole esempio in tal senso: cadenzato e diretto, con il nostro che canta con grinta e le chitarre che commentano con un bel riff insistito ed un paio di misurati assoli. My Own Version Of You è un pezzo dall’andatura insinuante tra country e jazz, con la batteria spazzolata e la band che segue il leader con passo felpato, mentre Dylan parla e canta come solo lui sa fare. I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You è una deliziosa ballad d’altri tempi che vede Bob cantare in maniera toccante ed il gruppo che fornisce un raffinato background da slow degli anni sessanta (e c’è anche un coro a bocca chiusa, sarà la Apple con Mills?); Black Rider è un racconto western di grande fascino con un arrangiamento scarno al massimo, solo un paio di chitarre e la voce al centro, mentre Goodbye Jimmy Reed è un vigoroso omaggio al grande bluesman citato nel titolo, ed è un jump blues coinvolgente ed elettrico che immagino non mancherà nelle future scalette dal vivo, con Bob che ritorna anche a soffiare nell’armonica dopo non so quanto tempo (almeno su disco): se non fosse per la voce, sembrerebbe una outtake di Bringing It All Back Home.

Mother Of Muses è ancora lenta ed appena sfiorata dagli strumenti, ma Dylan canta in modo abbastanza rigoroso con una voce quasi fragile suscitando un moto di commozione a chi ascolta (cioè il sottoscritto). Ed ecco i due brani più lunghi del primo CD: Crossing The Rubicon è il terzo ed ultimo blues, un brano di sette minuti dalla sezione ritmica attendista e le chitarrine che fraseggiano in punta di dita, ma ogni tanto il suono si fa più massiccio per poi tornare alla “quiete apparente” iniziale, mentre Key West (Philosopher Pirate) è il capolavoro del primo dischetto, una magnifica ballata dedicata con parole affettuose alla famosa località nel sud della Florida, un brano per voce, fisarmonica, chitarra e ritmica in punta di piedi, oltre ad un suggestivo coro (e qui Fiona c’è sicuro). Nove minuti di pura poesia, struggente ed intensa come solo Dylan sa scrivere. Il secondo CD, come ho già detto, è ad esclusivo appannaggio di Murder Most Foul, un brano che è già nella storia, con un testo incredibile in cui Bob, partendo dall’omicidio di Kennedy, ripercorre più di cinquanta anni di politica, cronaca, cinema e musica: che piaccia o no, un altro masterpiece.

D’altronde, chi a parte Bob Dylan a quasi 80 anni è capace di chiudere un disco già ottimo di suo con due capolavori uno di fila all’altro?

The answer, my friend…

Marco Verdi

Un Bel Disco Dalle Radici Incontaminate. Michael Doucet – Lacher Prise

michael doucet lacher prise

Michael Doucet – Lacher Prise – Compass Records – CD – LP – Download

Mi sono accorto che dalla nascita di questo Blog, colpevolmente, non avevamo mai parlato di Michael Doucet, e del suo gruppo di riferimento, ovvero i Beausoleil, dei quali è stato il fondatore. Questo signore originario di Scott, piccolo centro non molto distante da Lafayette, città simbolo del territorio “cajun”, è indubbiamente tra i più importanti violinisti attualmente sulle scene della musica della Louisiana, con un suono peculiare che ha un legame territoriale specifico con la cultura della popolazione francofona della regione. Depositario (a partire dal lontano 1976) di una ventina di lavori con il suo gruppo (i citati Beausoleil, con i fratelli Kenneth e Sterling Richard), e altrettanti da solista ( senza contare le varie collaborazioni con altri artisti), il “prof” Doucet dopo una pausa di riflessione torna con questo nuovo lavoro Làcher Prise (uscito da qualche tempo, ma passato sotto silenzio in questi tempi di virus), registrato nei noti Dockside Studios di Maurice nella “natia” Louisiana, accompagnato da validi musicisti di “area” tra i quali i bravi Chad Viator e Sarah Quintana, chitarre elettriche ed acustiche, Chris French al basso, Jimmy Kolacek alla batteria e percussioni, e “turnisti” di valore come David Balakrishnan e Alex Hargreaves al violino, Jim Hoke a sax e pedal steel, Chad Huval alla fisarmonica, il bravo tastierista Reese Wynans (Joe Bonamassa e il grande Stevie Ray Vaughan), con il notevole contributo alle armonie vocali di Sarah Dugas (The Duhks), Andrina Turenne e della stessa Sarah Quintana, affidando la co-produzione a Gary West e Chad Viator.

Una decina di brani cantati anche in lingua francofona, tipica della Louisiana, dai suoni e stili innovativi, che spaziano dalla moderna musica di New Orleans, agli immancabili ritmi “cajun”, fino ad arrivare a sorprendenti temi “caraibici”, e udite, udite, anche un intrigante sound “gitano”. Il disco parte con le deliziose atmosfere cajun di Water, Water, con in prima linea la fisarmonica, il violino e una base ritmica incalzante, seguita da una cover di Boozoo Chavis (musicista pioniere del genere “zydeco-cajun”), Lula Lula Don’t You Go To Bingo in una versione alla Bo Diddley dove il violino di Mr. Doucet è davvero inspirato, per poi passare alle sfumature cadenzate di una dolce Dites Moi Pas (cantata in francese) in coppia con la brava Sarah Quintana, ed arrivare ad uno dei punti più alti del lavoro, una lenta e tambureggiante Walking On A Mardi Gras Day, il tutto giocato su violino e fisarmonica, con un cantato adulto e maturo. Si riparte con la solenne Abandonne, un traditional di pura liricità, dove inizialmente il violino disegna trame arabesche, e poi nella parte finale spicca ancora la splendida voce di Sarah.

Si (ri)scoprono pure le atmosfere cool di un valzer gitano come Bad Woman, per poi portarci su una pista da ballo con il “cajun” allegro di Marie Catin (dove è proprio impossibile non muovere il piedino), con un delizioso violino in primo piano, seguita da un’altra cover, He’s Got All The Whiskey di Bobby Charles, uno splendido brano con cadenze blues, ideale per una serata romantica. Ci si avvia alla fine con il tradizionale Chere Emelie, dove Michael Doucet in questa occasione suona il mandolino su un sottofondo di percussioni, segue il bellissimo brano strumentale Cajun Gypsy, impreziosito da una sezione d’archi composta da David Balakrishan e Alex Hargreaves al violino, Benjamin Von Gutzeit alla viola e Malcolm Parson al violoncello, dove ancora una volta il livello superiore del violino del “professore” fa la differenza, concludendo il CD con una versione estesa, più ruspante e spettacolare di Lula Lula Don’t You Go To Bingo.

Michael Doucet è stato ed è tuttora indubbiamente tra i più importanti violinisti “cajun” sulle scene della Louisiana, e con i suoi Beausoleil, il bravissimo C.J. Chenier e Zachary Richard (per la parte più rock), ha riportato in auge il “zydeco-cajun” tradizionale rielaborandolo giusto quel poco per essere presentato anche ad un “nuovo” pubblico internazionale, non quindi solo locale come avveniva nel passato. Se mai dovesse esistere un Nobel per la divulgazione della musica, state sicuri che sarebbe certamente assegnato a Michael “prof of fiddle” Doucet, come il più autentico artigiano e ambasciatore della tradizione sonora della vecchia e paludosa Louisiana. Cajun-zydeco forever!

*NDT: Se volete approfondire ulteriormente il genere, recuperate il bellissimo Live In Montreal di Zachary Richard.

Tino Montanari

Un Altro “Giovanotto” Pubblica Uno Dei Suoi Migliori Album Di Sempre! Dion – Blues With Friends

dion blues with friends

Dion – Blues With Friends – Keeping The Blues Alive CD

Dion DiMucci, conosciuto semplicemente come Dion, fra un mese compierà 81 anni, di cui più di sessanta di carriera musicale: a dirlo uno non ci crede, in quanto il cantante originario del Bronx non dimostra assolutamente le sue primavere e soprattutto non le dimostra la sua voce, che è ancora incredibilmente limpida e giovanile. Dagli esordi negli anni cinquanta a capo dei Belmonts in poi, Dion ha sempre proposto un’ottima miscela di rock’n’roll, doo-wop, pop (il suo famoso album del 1975 Born To Be With You è stata una delle ultime produzioni di Phil Spector) e gospel, fino al ritorno al rock nel 1989 con lo splendido Yo Frankie. Nel nuovo millennio il nostro si è decisamente avvicinato al blues, con una trilogia di album di buona fattura pubblicati tra il 2006 ed il 2011 “interrotti” nel 2016 dal più variegato New York Is My Home https://discoclub.myblog.it/2016/02/18/vecchie-glorie-alla-riscossa-dion-new-york-is-my-homejack-scott-way-to-survive/ . Quest’anno Dion ha deciso di tornare di nuovo al blues, ma questa volta ha alzato il tiro a livelli inimmaginabili, confezionando un disco davvero magnifico, con una serie di ospiti da capogiro ed una produzione nettamente migliore rispetto agli ultimi lavori.

Blues With Friends è quindi una sorta di capolavoro della terza età per Dion, un album strepitoso in cui il nostro si cimenta ancora con la musica del diavolo (ma non solo, c’è anche qualche brano non blues) e lo fa con un parterre de roi incredibile, una serie di musicisti che non appaiono tutti i giorni su un disco solo, e che vedremo tra poco canzone dopo canzone. Ma il protagonista del disco è senza dubbio Dion, con la sua voce ancora splendida e la sua attitudine da bluesman sempre più sicura: se devo essere sincero, quando nel 2006 era uscito Bronx In Blue avevo storto un po’ il naso dato che non ritenevo Dion adatto al blues (ma il disco si era rivelato ben fatto), però negli anni il rocker newyorkese mi ha smentito acquistando sempre più credibilità come bluesman. E non è tutto: in Blues With Friends non ci sono cover di classici del blues, ma tutti i brani sono usciti dalla penna del nostro, alcuni nuovi, altri rifatti, altri ancora tirati fuori da un cassetto (e per il 98% scritti insieme a tale Mike Aquilina). Pare che lo stimolo iniziale per il progetto lo abbia dato Joe Bonamassa (ed infatti il CD esce per la Keeping The Blues Alive Records, etichetta di sua proprietà), ma gli altri grandi della chitarra non hanno tardato a rispondere presente, a parte qualche inevitabile assenza (dov’è Clapton?): e attenzione, questo non è un disco di duetti vocali (ce ne sono solo due su 14 brani totali), ma un album di chitarre al 100%.

La house band, se così si può dire, è formata dallo stesso Dion alla chitarra ritmica e da Wayne Hood (che produce anche il lavoro con Mr. DiMucci, una produzione solida ed asciutta) alla seconda chitarra, basso, tastiere e batteria; dulcis in fundo, Dion stesso accompagna nel libretto ogni canzone con interessanti aneddoti, e la prefazione è stata scritta nientemeno che da Bob Dylan, che ha gratificato il nostro con parole molto sentite e toccanti. L’iniziale Blues Comin’ On vede proprio Bonamassa protagonista, un boogie poderoso dal suono limpido e forte e dominato dalla voce scintillante del leader, con “JoBo” che arrota da par suo piazzando un paio di assoli torcibudella: miglior avvio non poteva esserci. Kickin’ Child era già stata incisa da Dion nei sixties con la produzione di Tom Wilson (era anche il titolo del suo “lost album” uscito nel 2017), ma qui viene rifatta con uno stile rock-blues pimpante ed allegro che ricorda un po’ B.B. King, accompagnato dalla chitarra “swamp” di Joe Menza (un commerciante in chitarre vintage che si cimenta anche con lo strumento); la sei corde piena di swing di Brian Setzer contribuisce fin dalle prime note alla riuscita della bella Uptown Number 7, altro coinvolgente boogie dal ritmo vigoroso con Dion che gorgheggia con la solita naturalezza ed il biondo Brian che lo segue senza perdere un colpo.

Il tintocrinito Jeff Beck è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi (sicuramente da Top Ten, per qualcuno anche da Top Five) e qui è alle prese con Can’t Start Over Again che è uno slow più country che blues e forse un tantino sdolcinato (e poi quel synth che scimmiotta la sezione d’archi…), ma Jeff accarezza comunque il brano con classe e misura, mentre con My Baby Loves To Boogie torniamo in territori più consoni con un pezzo tutto ritmo e feeling, un jump blues classico nel quale le chitarre soliste sono di Dion e Hood in quanto l’ospite, John Hammond, per l’occasione suona (bene) l’armonica. Forse I Got Nothin’ potrebbe essere considerato un blues abbastanza canonico, ma se poi ci piazzi il grande Joe Louis Walker alla solista e soprattutto Van Morrison alla voce (in duetto con Dion), ti ritrovi con uno dei pezzi migliori del CD, da ascoltare in religioso silenzio; i fratelli Jimmy e Jerry Vivino, rispettivamente alla chitarra e sax, donano spessore, calore ed un tocco di raffinato jazz a Stumbling Blues, mentre Billy Gibbons non ha mezze misure dato che la chitarra se la mangia a colazione, e con la solidissima e cadenzata Bam Bang Boom porta un po’ di Texas nel Bronx. Se Gibbons è un macigno, Sonny Landreth è un fine tessitore di melodie con la sua splendida slide, ma sa dare potenza quando è necessario come accade con I Got The Cure (dove spuntano anche i fiati), fornendo una prestazione strepitosa, ricca di classe e grondante feeling, per uno degli highlights del CD.

Con Song For Sam Cooke (Here In America) Dion mette un attimo da parte il blues per un toccante omaggio al grande soul singer citato nel titolo (i due si conoscevano bene), una splendida ed evocativa ballata di stampo folk impreziosita dal violino di Carl Schmid e soprattutto dalla voce di Paul Simon, che fornisce il secondo duetto del disco. La giovane promessa del blues Samantha Fish si destreggia con brio ed energia nella saltellante e godibile What If I Told You (performance eccellente), e non sono da meno ancora John Hammond (slide) e la brava Rory Block (chitarra, basso e controcanto) nel notevole country-blues elettroacustico Told You Once In August, un pezzo degno di Mississippi John Hurt. Finale all’insegna della E Street Band prima con la roboante e coinvolgente Way Down (I Won’t Cry No More), dove la chitarra solista è di Little Steven che tira fuori un assolo molto sanguigno, e poi con il Boss e signora, quindi Bruce Springsteen (chitarra solista, ma non voce) e Patti Scialfa (armonie vocali) che accompagnano Dion nella bellissima e ricca di pathos (ma non blues) Hymn To Him, remake di un brano già inciso dal nostro nel 1987 e finale perfetto per un disco favoloso.

Credo che dal prossimo album Dion dovrà rivolgersi ad un genere musicale diverso, dato che per quanto riguarda le dodici battute a mio parere ha raggiunto l’apice con questo imperdibile Blues With Friends: disco blues dell’anno?

Marco Verdi

Una “Nuova” Band Strepitosa, Tra Le Migliori Attualmente In Circolazione. The Proven Ones – You Ain’t Done

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The Proven Ones – You Ain’t Done – Gulf Coast Records

Come appare ormai chiaro, Mike Zito appartiene alla categoria di coloro che una ne pensano e cento ne fanno: anche se per ora nel 2020 a causa della situazione generale ha dovuto trattenersi parecchio. Rispetto allo scorso anno dove tra produzioni, album a nome proprio (il Tributo a Chuck Berry) e partecipazioni varie, era apparso in una decina di dischi, per ora questo album dei Proven Ones è “solo” il secondo disco in cui appare come produttore, dopo il recente ottimo album Live di Albert Castiglia https://discoclub.myblog.it/2020/05/09/un-album-dal-vivo-veramente-selvaggio-albert-castiglia-wild-and-free/ , tra l’altro entrambi pubblicati dalla etichetta personale di Zito, la Gulf Coast Records, che comincia ad avere un consistente roster di artisti (ops, dimenticavo anche questo https://discoclub.myblog.it/2020/05/03/un-irruento-fulmine-di-guerra-della-chitarra-anche-troppo-tyler-morris-living-in-the-shadows/ ). Diciamo che se non possiamo definire quello dei Proven Ones un supergruppo si tratta comunque di una band dove militano alcuni “veterani” del Blues e del Rock di comprovata qualità: la voce solista e l’armonica sono affidate a Brian Templeton, leader in passato degli ottimi Radio Kings, e che ha diviso i palchi anche con Clapton e Muddy Waters, alle tastiere Anthony Geraci, spesso e volentieri nei credits di album di Ronnie Earl, Robillard, Sugar Ray e decine di altri, alla chitarra solista Kid Ramos, anche lui con innumerevoli collaborazioni, tra cui Mannish Boys, Fabulous Thunderbirds, Roomful Blues e con una manciata di album a nome proprio.

A completare la formazione la sezione ritmica Jimi Bott alla batteria e Willie J. Campbell al basso, entrambi spesso in azione con Mannish Boys, Thunderbirds e altri di quelli citati: ed in oltre la metà dei brani anche una piccola sezione fiati, pezzi tutti firmati a rotazione dai vari componenti e con la (co)produzione di Zito, insieme al batterista Bott. Il suono è gagliardo e tirato, come dimostra subito alla grande Get Love, dove, dopo una breve intro psych, la voce potente di Templeton si incrocia con la chitarra tirata e fumante di Kid Ramos, piano e organo di Geraci, la sezione fiati a sottolineare un blues-rock palpitante dove anche la ritmica non scherza. Gone To Stay è un’altra potente stilettata sempre di stampo rock, bella riffata e con tutta la band che tira di brutto, soprattutto Templeton veramente in grande spolvero e un Kid Ramos al meglio delle sue possibilità. La title track è addirittura stonesiana nella sua andatura, con Bott e Ramos (alla slide) che “citano” rispettivamente Watts e Richards con libidine, sembrano pure i migliori Fabulous Thunderbirds o la J. Geils Band, mentre fiati e organo imperversano sempre e ci sono pure delle voci femminili di supporto; anche Already Gone va di rock a tutto riff, il titolo ricorda il brano degli Eagles, e anche i coretti iniziali, ma lo stile è più alla Lynyrd Skynyrd, con Geraci impeccabile al piano.

Whom My Soul Loves è una bellissima deep soul ballad, con fiati e piano in evidenza, cantata a due voci dall’ospite Ruthie Foster e da Brian Templeton, un piccolo gioiellino con eccellenti assoli di organo, sax e della slide di Kid Ramos, e anche Milinda è una ottima ballata country oriented quasi alla Allman Brothers, di nuovo con Ramos eccellente alla lap steel e in Nothing Left To Give, firmata da Geraci, ci sono addirittura elementi di latin rock santaneggianti, sempre con la solista del Kid che interagisce in maniera brillante con l’organo e con i fiati, il buon Anthony scrive anche la successiva She’ll Never Know ,un’altra ballata blues dove si apprezza la calda vocalità di Templeton, veramente un signor cantante e Kid Ramos rilascia un ennesimo assolo ricco di feeling, prima di cantare l’ondeggiante I Ain’t Good For Nothin’, che ricorda un poco Holy Cow di Allen Toussaint, anche per il tocco bluesy dell’armonica di Templeton e quello jazzato di fiati, piano e chitarra bottleneck accarezzata in citazioni di New Orleans sound. Fallen torna al rock ruvido tra J. Geils e Stones, sempre grintosa, ma non priva di passaggi raffinati e in chiusura Favorite Dress è un ennesimo ottimo esempio del Rock And Roll fiatistico e vibrante della band, che si presenta come delle migliori band classiche americane attualmente in circolazione.

Assolutamente consigliato.

Bruno Conti

Torna Il Rocker Del Mississippi Con Uno Dei Dischi Più Divertenti Dell’Anno. Webb Wilder – Night Without Love

webb wilder night without love

Webb Wilder – Night Without Love – Landslide CD

L’ultima volta che mi sono occupato di Webb Wilder (che a dirla tutta era anche la prima) è stato quando due anni fa ho recensito il divertentissimo Powerful Stuff, che non era un album nuovo ma una collezione di outtakes registrate tra il 1985 ed il 1993 https://discoclub.myblog.it/2018/06/08/unora-di-divertimento-assicurato-webb-wilder-the-beatnecks-powerful-stuff/ . Oggi però Wilder torna davvero tra noi a cinque anni di distanza dal suo ultimo lavoro (Mississippi Moderne) con questo Night Without Love, che fin dal primo ascolto si afferma come uno dei dischi più godibili ed “entertaining” (termine inglese intraducibile – intrattenevole? – ma che rende benissimo l’idea) del 2020. Se non avete mai sentito nominare Wilder non preoccupatevi, in quanto è uno dei tanti “signor nessuno” del mondo della musica mondiale: esordiente nel 1986 con l’album It Came From Nashville, Webb ha sempre tirato dritto infischiandosene del fatto che i suoi lavori non vendevano una cippa, proponendo la sua miscela spesso irresistibile di rock’n’roll, country, boogie e power pop al fulmicotone, che lo faceva sembrare una via di mezzo tra Commander Cody ed i Blasters.

Night Without Love dovrebbe essere il decimo album di Wilder, e posso affermare senza tema di smentita che è uno dei suoi migliori di sempre, undici canzoni divise tra cover e brani originali che ci fanno ritrovare un rocker che ha sempre fatto musica “just for fun”, riuscendoci peraltro perfettamente. Il disco (la cui copertina è disegnata da James Flournoy Holmes, l’uomo dietro alle copertine di Eat A Peach degli Allman, Fire On The Mountain della Charlie Daniels Band e In The Right Place di Dr. John) vede Webb accompagnato dal suo abituale collaboratore George Bradfute, che suona qualsiasi tipo di strumento oltre a produrre il lavoro, ma anche da Rick Schell alla batteria, Bob Williams alla steel ed il noto chitarrista Richard Bennett in un brano. Trentasette minuti di musica, non un secondo da buttare. Si parte alla grande con Tell Me What’s Wrong, trascinante rock’n’roll dalla ritmica potente cantato dal nostro con una voce alla Johnny Cash, per proseguire sullo stesso livello con la title track (scritta da R.S. Field, produttore dei primi album del nostro), energica ballata sfiorata dal country con un mood anni sessanta e tanta grinta, e con il rockin’ country a tutto ritmo e chitarre Hit The Nail On The Head, vigorosa cover di un pezzo dei quasi dimenticati Amazing Rhythm Aces.

Holdin’ On To Myself, scritta da Chip Taylor, è uno scintillante honky-tonk dominato dalla steel, ma il capolavoro del disco secondo me arriva con il brano seguente: per il sottoscritto Be Still era già nella sua versione originale uno dei migliori brani dei Los Lobos (lo trovate su The Neighborhood, 1990), ma questa rilettura di Webb è strepitosa, in quanto fa ancora di più uscire la splendida melodia non cancellando le radici messicane ma aggiungendo una patina malinconica da vero balladeer. In poche parole, una goduria. A questo punto abbiamo cinque canzoni consecutive scritte da Wilder da solo o in compagnia: la deliziosa e coinvolgente rock song “californiana” Illusion Of You, con uno stile che ricorda parecchio gli Heartbreakers di Tom Petty, la splendida Buried Our Love, country-rock bello come se ne sentono pochi, la squisita Sweetheart Deal, ballata guidata dall’organo con un sapore blue-eyed soul e scritta nientemeno che con Dan Penn, la contagiosa Ache And Flake, tra rock’n’roll e power pop con un refrain vincente, e la fluida folk-rock ballad The Big Deal. Chiusura con una travolgente rilettura del classico jump blues di Tommy Tucker (ma inciso tra gli altri anche da Elvis e Chuck Berry) Hi Heel Sneakers, nobilitata da un farfisa dal suono decisamente vintage ed un approccio che ricorda quello dei già citati Blasters.

Se dovessi fare una scommessa, forse Night Without Love non entrerà nella Top Ten dei migliori album del 2020, ma sono quasi certo che sarà uno dei CD che ascolterò di più.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: L’Aria Di Casa Fa Sempre Bene! Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena 1981

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Brendan Byrne Arena 1981 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Mi rendo conto che non è facile avere a che fare ogni mese con un album dal vivo di Bruce Springsteen e dover trovare nuovi aggettivi per descriverlo, dato che stiamo parlando del miglior performer di musica rock sulla faccia della terra e poi perché chi cura i suoi archivi live cerca sempre di scegliere per il meglio. A fianco quindi di concerti universalmente riconosciuti storici come Roxy 1975 oppure Agora Ballroom e Passaic 1978 spesso vediamo spuntare serate magari non così famose ma ugualmente spettacolari: è il caso per esempio della penultima uscita, Gothenburg 2012, show al quale nella recensione avevo attribuito un ipotetico punteggio di cinque stelle. Ebbene, a conferma che tutto è relativo, se al concerto in terra svedese di otto anni fa ho dato il massimo, per la performance di cui mi accingo a scrivere di stelle dovrei darne sei o sette.

Stiamo parlando infatti di una serata della tournée di The River del 1981 (il 9 luglio) alla Brendan Byrne Arena di East Rutherford in New Jersey, quindi il miglior tour di sempre del Boss (*NDB Confermo, io ero presente alla data all’Hallenstadion di Zurigo dell’11 aprile) assieme a quello del 1978, in una location “casalinga” nella quale il nostro è sempre stato portato a dare qualcosa di più. Il concerto, poco meno di tre ore, è quanto di più vicino ci sia alla perfezione, con il nostro e la sua E Street Band che riescono a mantenere la performance su livelli di assoluta eccellenza dalla prima all’ultima canzone ed una scaletta decisamente spostata sul lato rock’n’roll, anche se quando è il turno delle ballate i brividi e la pelle d’oca si sprecano. Già l’inizio, con una delle migliori Thunder Road mai sentite, è commovente (ci si può commuovere fin dalla prima canzone? In un concerto di Springsteen sì), ma poi abbiamo un uno-due al fulmicotone con Prove It All Night (grande assolo di chitarra) e The Ties That Bind, seguite dalla sempre splendida Darkness On The Edge Of Town. Dopo una versione quasi a cappella di Follow That Dream di Elvis ed una struggente Independence Day con tanto di dedica da parte di Bruce a suo padre, abbiamo due scintillanti Two Hearts e The Promised Land seguite da una folkeggiante e lenta ripresa dell’inno americano non ufficiale This Land Is Your Land, preceduto da un’invettiva del nostro verso un idiota del pubblico che ha fatto scoppiare un petardo (“Se lo individuate, buttatelo fuori a calci”) e dal capolavoro The River.

Dopo una maestosa Trapped di Jimmy Cliff ecco il momento più rock’n’roll della serata, con una sequenza da lasciare senza fiato che vede una dopo l’altra Out In The Street, Badlands, You Can Look (But You Better Not Touch), Cadillac Ranch e Sherry Darling. Dopo il consueto singalong di Hungry Heart Bruce dà il colpo di grazia al pubblico, invitando sul palco Gary U.S. Bonds e cantando con lui la travolgente Jole Blon e lasciandogli il microfono per una scoppiettante This Little Girl (brano scritto dal Boss). Ancora due toccanti ballate (l’inedita Johnny Bye-Bye e Racing In The Street) subito doppiate da due esplosive riletture di Ramrod e Rosalita; i bis, oltre ad una immancabile Born To Run, ci regalano due favolose versioni di Jersey Girl di Tom Waits (che il nostro non manca mai di eseguire quando si esibisce nel suo stato di nascita) e di Jungleland, che vede la solita prestazione strepitosa di Roy Bittan. Il finale, con un eccezionale Detroit Medley di un quarto d’ora, riesce a stendere i pochi spettatori ancora in piedi.

Altro concerto imperdibile quindi (cominciano ad essere tanti): il prossimo episodio dovrebbe farci tirare un po’ il fiato, in quanto vedrà Bruce sul palco come protagonista solitario in una serata svedese del 2005.

Marco Verdi

Per La Gioia Degli Appassionati Della Chitarra, Se Riescono A Trovarlo. David Grissom – Trio Live 2020

david grissom trio live 2020

David Grissom – Trio Live 2020 – Wide Lode Signed CD/Download

Credo che il termine di “gregario di lusso” sia perfetto per David Grissom: nato a Louisville, Kentucky, ma dagli anni ‘80 texano di adozione, dove a Austin ha tuttora la sua base, il nostro amico è un chitarrista superbo che ha costruito la sua reputazione soprattutto per il fatto di avere militato nelle band di Joe Ely prima e da fine ‘80, inizio anni ‘90 con John Mellencamp, con il quale ha registrato i dischi da Big Daddy a Human Wheels, nel quale la sua prestazione è stata fantastica. Ma nel corso degli anni, in centinaia di collaborazioni, ha suonato con chiunque: James McMurtry, Lou Ann Barton (prima di Ely), Darden Smith, John Mayall, Robben Ford, Allman Brothers Band, Buddy Guy, le Dixie Chicks, potremmo andare avanti per ore e troveremmo molti dei nostri musicisti preferiti ai quali Grissom ha prestato la sua chitarra.

Negli anni ‘90 ha anche tentato la strada del suo gruppo personale, gli Storyville, insieme al cantante Malford Milligan e la sezione ritmica di SRV, Shannon e Layton. autori di due album che sulla carta promettevano moltissimo, ma si sono rivelati “solo” buoni; ne ha fatti anche quattro come solista negli anni 2000, forse nessuno all’altezza della sua fama, pubblicati dalla etichetta personale Wide Lode, con un misto di materiale in studio e dal vivo, e spesso con forte presenza di brani strumentali, visto che tra i suoi pregi pare non ci sia anche quello di essere un buon cantante. Anche questo Trio Live 2020, registrato in tre serate del martedì al Saxon Pub di Austin, prima della partenza della pandemia, è un disco strumentale (con l’eccezione di due pezzi), registrato con i collaboratori abituali Bryan Austin alla batteria, e Chris Maresh e Glenn Fukunaga che si alternano al basso.

Come forse molti sanno David gira anche il mondo come dimostratore del modello personale DGT delle chitarre PRS (Paul Reed Smith), che ci permettono di ascoltare uno dei virtuosi assoluti dello strumento anche a livello di timbri e tonalità: nel CD, che però è venduto solo direttamente solo sul suo sito, in versione autografata, non costa poco ed è comunque di difficile reperibilità, visto che non viene spedito fuori dagli States https://davidgrissom.com/ , oppure lo trovate in download, Grissom ci regala otto brani, quasi tutti abbastanza lunghi con la presenza di tre cover. Si parte con il timbro cristallino e “lavorato” di Lucy G dove David ricorda il sound di Robben Ford, un blues-rock cadenzato, raffinato e complesso da power trio, dove le evoluzioni della solista sono veramente mirabili e l’interscambio tra i tre musicisti è perfetto; Crosscut Saw, un brano di PD blues ma legato al repertorio di Albert King, contiene quasi 10 minuti di pura libidine, è una delle due tracce cantate, ma è giusto un intramuscolo adeguato, prima di partire per una improvvisazione spaziale dove i timbri e le soluzioni sonore virano anche verso il jazz con un assolo in crescendo di difficoltà abissale. Way José, più serrato e compatto, ha qualche rimando ad uno SRV (in fondo siamo in Texas) più cerebrale e sofisticato e qualche tocco hendrixiano.

Don’t Lose Your Cool, di Albert Collins, il primo dei brani con Fukunaga, è uno shuffle quasi classico, veloce e veemente, sempre con la chitarra dappertutto (diremmo all over the place) e assoli in cui rischi di dover recuperare la mascella che, mentre sei impegnato ad ammirare il lavoro del nostro, se ne è caduta sul pavimento. Never Came Easy To Me, è una sorta di blues ballad, dove la parte cantata è sempre un optional prima di un’altra jam, frutto di grande tecnica e gusto, In The Open è un breve e grintoso brano rock che trascina il pubblico, quasi “normale” nel suo dipanarsi felino, quasi, mentre Sqwawk, di nuovo con Fukunaga (ma non so chi è più bravo tra lui e Maresh) ha un incipit boogie quasi alla ZZ Top, e poi Grissom lavora ancora di tremolo con sequenze complesse, prima di partire di nuovo per l’iperspazio della chitarra. A chiudere l’ultima cover, Boots Likes To Boogie, un brano di Freddie King, un altro che se la cavava discretamente con la 6 corde, il pezzo più trascinante di questo breve set dove il “Maestro” David Grissom ancora una volta fa la gioia degli appassionati della chitarra, ai quali è comunque soprattutto consigliato questo Trio Live 2020.

Bruno Conti

Un Bel Box Per Celebrare La Premiata Ditta “Iggy & Ziggy”. Iggy Pop – The Bowie Years

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Iggy Pop – The Bowie Years – Virgin/Universal 7CD Box Set

Nel 1974 Iggy Pop era ad un bivio: sciolti definitivamente gli Stooges (cult band proto-punk definita “tra le più rumorose del pianeta”) ed immerso fino al collo nell’uso di droghe, il rocker del Michigan sembrava un musicista finito, solo, ed incerto su cosa fare della propria vita. L’aiuto venne dall’amico David Bowie (che aveva già collaborato con lui remixando l’ultimo album degli Stooges Raw Power), ospitandolo in quella che in quegli anni era la sua città, Berlino, ed esortandolo a piantarla con gli stravizi ed a riprendere in mano la sua carriera musicale; i due così incomincarono a scrivere canzoni insieme, brani che saranno l’ossatura dei primi due dischi da solista di Iggy, The Idiot e Lust For Life, usciti entrambi nel 1977. Ma Bowie non si limitò a collaborare con l’Iguana alla stesura dei brani, ma accettò di produrli contribuendo anche a suonare tastiere, chitarre e sax e reclutando musicisti che facevano parte del suo giro, come il chitarrista Carlos Alomar e la sezione ritmica formata dai fratelli Tony e Hunt Sales (che in futuro formeranno con lui i Tin Machine). Avere Bowie alla consolle era poi una garanzia, in quanto il Duca Bianco aveva da poco rilanciato la carriera dei Mott The Hoople, producendo il loro comeback album All The Young Dudes e scrivendo la celebre title track, ed era stato responsabile anche del capolavoro di Lou Reed Transformer.

Ed il risultato finale non smentì la fama di David (che in quel periodo era una delle rockstar più in voga al mondo), in quanto sia The Idiot che soprattutto Lust For Life sono ancora oggi considerati i due migliori album di un Iggy Pop tirato nuovamente a lucido: nonostante ciò il successo fu deludente, ed a poco servì la tournée promozionale che vedeva Bowie addirittura all’interno della band (ma Pop – nato James Newell Osterberg – è sempre stato un rocker di nicchia, dato che l’unico vero successo lo avrà negli anni ottanta con l’album Blah Blah Blah ed il singolo Real Wild Child, entrambi guarda caso prodotti ancora da Bowie). I due album in questione costituiscono l’ossatura del cofanetto di cui mi accingo a scrivere, un box di sette CD chiamato appunto The Bowie Years (titolo che non mi fa impazzire in quanto secondo me sminuisce la figura di Pop, ma forse un The Berlin Years avrebbe avuto minor appeal commerciale), che oltre a The Idiot e Lust For Life ripropone anche il live uscito all’epoca T.V. Eye, un dischetto di rarità ed outtakes (che vere outtakes non sono, come vedremo), e ben tre diversi concerti dal vivo sempre del 1977, ovviamente inediti. (NDM: per chi non volesse sostenere la spesa del box, i due album originali sono usciti anche in versione doppia deluxe: The Idiot con accluso uno dei tre live “nuovi” – a Cleveland, presso l’Agora Ballroom di “springsteeniana” fama – e Lust For Life con T.V. Eye sul secondo CD).Ma ecco una disamina dei contenuti del cofanetto.

CD 1: The Idiot. Questo album risente parecchio dell’influenza di Bowie (e di Berlino), in quanto vede un Iggy meno feroce di quando era a capo degli Stooges e più sperimentale, con brani di stampo rock che però presentano anche elementi di musica elettronica di ispirazione “kraut”. Il disco si apre con il funk-rock molto bowiano di Sister Midnight, e prosegue prima con la cadenzata ed intrigante Nightclubbing (con grande lavoro di Alomar alla chitarra) e poi con la coinvolgente Funtime, che vede Iggy cantare “alla Lou Reed” e Bowie gigioneggiare da par suo durante tutto il brano. Detto dell’insolita Tiny Girls, soffusa, lenta e raffinata (e con un lungo assolo di David al sax), The Idiot è anche l’album in cui compare la versione originale della famosa China Girl, con la quale proprio Bowie avrà successo negli anni ottanta in una versione pop-rock-dance, anche se per me il brano migliore del disco è l’ipnotica ed avvolgente rock ballad chitarristica Dum Dum Boys.

CD 2: Lust For Life. Uscito a soli cinque mesi da The Idiot, questo lavoro è decisamente più diretto e rock’n’roll, con meno sperimentazioni e più chitarre. Intanto contiene la splendida The Passenger, grande rock’n’roll song che ad oggi è il pezzo più noto di Iggy (anche se su singolo uscì solo come lato B), dotata di uno dei riff più trascinanti di sempre, ma anche la title track è un gran pezzo, con una lunga e coinvolgente introduzione a tutto ritmo ed Iggy che fa uscire il suo particolare carisma (e la potente e diretta Sixteen non è certo da meno). Ottime anche Some Weird Sin, che aumenta la quota rock’n’roll del disco con un brano di grande appeal chitarristico, e l’orecchiabile Success, che stranamente mi ricorda qualcosa di molto vicino al Jersey Sound. Infine, troviamo ancora due canzoni che Bowie riproporrà negli eighties, cioè la deliziosa ballad Tonight (Ziggy la canterà in duetto con Tina Turner) e l’incalzante Neighbourhood Treat.

CD 3: T.V. Eye – 1977 Live. Album dal vivo uscito nel 1978 di soli 36 minuti, che vede un Iggy in gran forma a capo di un gruppo comprendente Bowie alle tastiere ed il futuro Heartbreaker Scott Thurston alla chitarra ritmica (la solista è di Stacey Heydon). Otto canzoni registrate a Cleveland, Kansas City e Chicago, con versioni decisamente più crude e rock di brani tratti dai due album del ’77 (due a testa: Funtime e Nightclubbing da The Idiot e la title track e Sixteen da Lust For Life) e quattro versioni assolutamente incendiarie di brani degli Stooges, le tonitruanti T.V. Eye, I Got A Right ed il classico I Wanna Be Your Dog, mentre la lenta ed ipnotica Dirt è al limite della psichedelia. CD 4: Edits & Outtakes. Il CD più deludente del box: solo dieci pezzi (ma l’ultimo è una recente intervista ad Iggy) ma nessun vero inedito, bensì una manciata di versioni “edit” uscite su singolo e quattro missaggi alternati di Dum Dum Boys, Baby, China Girl e Tiny Girls, praticamente identici agli originali.

CD 5-6-7: Live In 1977. Tre dischetti registrati rispettivamente al Rainbow Theatre di Londra, all’Agora di Cleveland (ma con tracce diverse da quelle apparse su T.V. Eye) ed ai Mantra Studios di Chicago. Tre ottime testimonianze della forma di Iggy dal vivo con altrettante performance abbastanza simili tra loro: l’unica magagna (ma non da poco) è la qualità amatoriale della registrazione del concerto di Londra, con un suono “fangoso” da bootleg appena discreto, mentre il live a Cleveland è inciso benissimo e quello a Chicago è una via di mezzo tra i due ma decisamente più accettabile del primo. Il repertorio è basato per la maggior parte su brani del periodo Stooges che sui due album del 1977 (anche perché all’epoca di questi tre concerti Lust For Life non era ancora uscito, e sono presenti in anteprima solo Tonight e Turn Blue), con versioni ancora più infuocate e punkeggianti che in T.V. Eye ed highlights del calibro di Raw Power, 1969, Gimme Danger, I Need Somebody, Search And Destroy e la già citata I Wanna Be Your Dog.

The Bowie Years è quindi un cofanetto che non può mancare nella collezione dei fans di Iggy Pop (e dello stesso Bowie), mentre per gli altri saranno sufficienti le riedizioni doppie di The Idiot e Lust For Life.

Marco Verdi

Non Solo Una Faccia Tra La Folla: Questo E’ Un Grande Disco! Ben Bostick – Among The Faceless Crowd

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Ben Bostick – Among The Faceless Crowd – Simply Fantastic Music

Ben Bostick non è soltanto uno dei classici cantautori che popolano il sottobosco della musica a stelle e strisce, è un vero talento: country, folk, Americana, roots? Decidete voi, forse nella sua musica c’è un po’ di tutto questo. Nativo della South Carolina, dopo essere passato dalla California, ora vive ad Atlanta, Georgia, dove lavora e fa musica. Per il momento si arrangia con eventi One Man Band, visto che suona, bene, un po’ di tutto ed è anche la modalità con cui ha inciso in parte questo Among The Faceless Crowd, che ha ricevuto eccellenti riscontri critici, con paragoni allo Springsteen di Nebraska, anche a livello concettuale, ma che tra le sue influenze cita, oltre a Bruce, Johnny Cash, Otis Redding e il chitarrista australiano Tommy Emanuel, dato che è anche un ottimo picker. In effetti nel disco appaiono anche Luke Miller alle tastiere, il bassista Cory Tramontelli e il suo chitarrista abituale, Kyle LaLone alla elettrica nella bellissima The Last Coast, un brano quasi epico, una splendida ballata corale, con un sound dove organo, chitarre arpeggiate e sezione ritmica fanno da apripista all’assolo di LaLone, questo a smentire parzialmente il suono crudo e spoglio di Nebraska, a favore di una musicalità più compiuta, dove la voce di Bostick si eleva maestosa.

Se devo azzardare un paragone personale il tipo di voce di Ben, più che il Boss, mi ricorda moltissimo quella di Eric Andersen, epoca Blue River e seguenti: prendiamo l’iniziale Absolutely Emily, che se vogliamo mantenere il paragone con Springsteen sembra un pezzo di Tunnel Of Love o comunque uno di quelli più intimi e dolci, cantato però con la voce di Andersen, più gentile e carezzevole, sostenuto sempre dall’organo, l’acustica arpeggiata e un supporto ritmico contenuto, il tutto che permette di gustare l’elegante finezza della melodia innato in Bostick. Che non è al primo album, questo è il terzo (oltre ad un mini uscito nel 2016). Le sue canzoni hanno un legame con il sociale, la vita quotidiana non facile del lavoratore comune, negletto e triste, nella quasi desolata Wasting Gas, che timbro vocale a parte, insisto, mi ricorda moltissimo il buon Eric, ci rimanda anche al citato Cash e a Bruce, con l’intervento di un glockenspiel, dell’organo e di una elettrica discreta ma efficace, che poi sfocia in un assolo di armonica quasi commovente, grande musica, date retta.

La scandita, disperata e cruda Working For A Living è la più springsteeniana del lotto… “Something ’bout this math just don’t add up/I’m working for a living, and it’s turning me cold”Sir, don’t make me look like a loser in my baby’s eyes”, su un tappeto sonoro vibrante, con basso, percussioni, organo ed armonica a scandire quella che sembra una sentenza senza appello, e anche I Just Can’t Seem To Get Ahead, con il suo accompagnamento folksy nobilitato da un organo gospel, non sembra voler regalare consolazioni o infondere fiducia nel futuro, perché anche questa è l’America dei nostri tempi, già nell’era pre-covid e oggi ancor di più.

Anche The Thief, di nuovo con glockenspiel ed organo in evidenza, è un grande brano, approccio Johnny Cash via Eric Andersen, con una melodia superba e un testo splendido “I’m a Christian, and I don’t believe it’s right for someone to steal But I’m a man with a family to provide for, that’s the deal…”, molto bella anche Central Valley che racconta della California lontani dalle luci abbaglianti di LA, attraverso solo la voce partecipe ed una acustica arpeggiata. Too Dark To Tell si spinge ancora più a fondo nell’abisso, con accenti alla Woody Guthrie dell’epoca della Grande Depressione, sempre con il picking della acustica danzante di Bostick che tratteggia un acquerello folk di rara efficacia, Untroubled Mind ha un sottofondo religioso con le sue citazioni di Abramo e un accompagnamento meno scarno ed austero, anzi a tratti avvolgente e rigoglioso, nonostante l’argomento, risultando una ennesima canzone sopra la media in un album che ci consegna un grande Cantautore con la C maiuscola. E anche la conclusiva If I Were In A Novel non è per nulla consolatoria, scandita da lunghe note del piano, dall’organo e dal solito glockenspiel, con finale solo voce a cappella che scandisce il verdetto finale di un grande album Not a soul would notice/And none would shed a tear…No witness to the void”.

L’unica nota dolente, al solito, è la scarsa reperibilità del disco, che si può acquistare solo sul sito personale dell’artista (dove si può ascoltarlo) oppure su https://benbostick.bandcamp.com/album/among-the-faceless-crowd , peccato che le spese di spedizione dagli Usa siano comunque proibitive per noi europei: però vale la pena di cercarlò

Bruno Conti