Provenienza Dubbia, Ma Buona Qualità E Tanti Ospiti Per L’Album Della Figlia Di B.B. Shirley King – Blues For A King

shirley king blues for a king

Shirley King – Blues For A King – Cleopatra Blues

Presentato da alcuni come l’esordio discografico di Shirley King, l’album ha creato interesse perché stiamo parlando di colei che è stata definita “Daughter of the blues”, in qualità di figlia del grande B.B. King. In effetti la nostra amica non è più una giovinetta, quest’anno ad ottobre compirà 71 anni, e la sua carriera musicale consta solo di un paio di episodi tra fine anni ‘80 e negli anni ‘90 (quindi questo CD non è l’esordio), poi diverse comparsate sia come ospite di artisti più o meno celebri, che del babbo negli ultimi di carriera di quest’ultimo. Nata a West Memphis, Arkansas, lungo le rive del Mississippi, Shirley non è mai stata una stretta praticante del blues, in gioventù più orientata verso gospel, soul, perfino country & western, ma poi già dal 1969 aveva fatto la sua scelta di vita, diventando una ballerina, attività che ha svolto per una ventina di anni, dice lei anche con successo, e con buoni riscontri economici, senza dover essere vista per forza come la “figlia di B.B. King”. Vivendo a Chicago a lungo è venuta in contatto anche con la scena locale, ed ha avuto pure una relazione di 5 anni con Al Green (ma non era Reverendo?).

Poi dal 1989 ha cercato, come detto, la strada del blues, cantando soprattutto grandi classici, senza tralasciare ovviamente i brani del padre, presenti in quantità. Il successo diciamo che non l’ha mai sfiorata, un’onesta carriera ma nulla più: poi arrivano i nostri amici della Cleopatra che le propongono un contratto discografico, per un album che viene realizzato seguendo le metodologie della etichetta di Chicago. Ovvero, repertorio, ospiti e sistemi di registrazione li scelgono loro. Poi piazzano Shirley in studio con le cuffie, senza incontrare ospiti e musicisti, e spesso, come ha ricordato lei stessa in alcune interviste, senza neppure conoscere bene le canzoni che doveva interpretare. Ma alla fine, per una volta (o forse due), devo dire che all’ascolto questo Blues For A King funziona, si ascolta con piacere, ci sono alti e bassi ed evidenti disparate fonti del materiale: per esempio in Hoodoo Man Blues, un grande classico delle 12 battute, oltre a Joe Louis Walker alla solista, appare all’armonica colui che ha portato al successo il brano, quel Junior Wells che però è scomparso nel 1998, comunque la voce di Shirley King è ancora potente e vibrante e il suono vigoroso.

Altrove, come nell’iniziale All Of My Lovin’, un brano dal repertorio della Motown, sempre con Walker alla chitarra, la voce di Shirley pare più roca e vissuta, come ribadisce la successiva eccellente cover del brano dei Traffic Feelin’ Alright, con Duke Robillard alla solista, guizzante ed inventiva https://www.youtube.com/watch?v=DNaJhEwkKk0 . Chitarristi che si susseguono brano dopo brano, per esempio nel classico Chicago Blues I Did You Wrong troviamo Elvin Bishop, anche se il suono della base sembra quello di una registrazione di decine di anni fa, scherzi dell’immaginazione o ripescaggio da archivi datati? Per That’s All Right Mama, il classico di Arthur Crudup e di Elvis, si materializza Pat Travers, gagliardo nel suo assolo, però forse un po’ troppo sopra le righe; Can’t Find My Way Home, a conferma della scelta eclettica del repertorio e delle sonorità, è proprio il classico dei Blind Faith con Martin Barre dei Jethro Tull alla solista, versione decisamente rock, ma ben realizzata e con la King che si adatta al suono più “moderno”.

Johnny Porter è un vecchio brano minore dei Temptations, e prevede un duetto con un altro bluesman “attempato” come Arthur Adams, discepolo di babbo Riley, ma alla fine i due se la cavano egregiamente, anche se gli archi sintetici non quagliano molto con il resto. Feeling Good, con sezione fiati e archi aggiunti, è un brano che hanno cantato in tanti, da Nina Simone a Michael Bublé, la nostra amica ci mette impeto e passione, alla solista viene accreditato Robben Ford e lascia il suo segno, Give It All Up francamente non so da dove provenga, ma è un gioioso errebì molto piacevole, con Kirk Fletcher alla chitarra. Il traditional Gallows Pole con Harvey Mandel alla solista in modalità wah-wah, sembra quasi un brano psych-rock e rimandi ala versione dei Led Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=NTYWZOVEUXE , e in conclusione troviamo una buona cover del super classico di Etta James At Last, con archi a profusione e ci sta, la King la canta con grande trasporto e Steve Cropper ci mette il suo tocco discreto. Non un capolavoro ma tutto sommato un album onesto.

Bruno Conti

Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Anche Se Per Il CD Bisognerà Aspettare. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone

Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony Records Download

Lo scorso 10 luglio, pochi giorni fa, la bravissima folksinger Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) e per ora disponibile solo come download, anche se i pre-ordini per la versione in CD e vinile sono già aperti (mentre la data di pubblicazione è ancora incerta, si parla di fine settembre-inizio ottobre). Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (benché comunque Gillian è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti https://discoclub.myblog.it/2017/08/22/altre-buone-notizie-da-nashville-david-rawlings-poor-davids-almanack/ ).

Il dubbio che la Welch soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto: a parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti da Gillian, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita, e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura.

Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solista e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale, pur con l’uso parco della strumentazione, e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos, mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso.

Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD (anzi, download…almeno per ora) in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine).

Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo quanto inatteso, anche se per gustarmelo meglio attendo l’uscita del supporto fisico.

Marco Verdi

E, Come Al Solito, Il Vecchio Willie Non Sbaglia Un Colpo! Willie Nelson – First Rose Of Spring

willie nelson first rose of spring

Willie Nelson – First Rose Of Spring – Sony CD

A quasi un anno esatto da Ride Me Back Home https://discoclub.myblog.it/2019/07/07/forse-lunico-modo-per-fermarlo-e-sparargli-willie-nelson-ride-me-  torna il grande Willie Nelson, che nonostante l’età avanzata (ormai le primavere sono 87) non ha nessuna intenzione di ritirarsi e, anzi, continua a pubblicare dischi di qualità altissima: First Rose Of Spring è l’album di studio numero 70 per il musicista texano (senza contare i lavori in collaborazione con altri, i live e le colonne sonore: in tutto si arriva a 94), ed è manco a dirlo un disco splendido, superiore anche a Ride Me Back Home e di poco inferiore a Last Man Standing del 2018, che però era uno dei suoi migliori in assoluto. E’ vero che Willie fa parte di quegli artisti che non hanno mai veramente deluso, nemmeno negli anni ottanta quando la sua ispirazione era un po’ offuscata, o quando ha pubblicato album a sfondo reggae (Countryman) o strumentale (Night And Day, bello ma con una voce così come gli è venuto in mente di fare un disco non cantato?): da quando poi ha iniziato a collaborare col produttore Buddy Cannon lo standard qualitativo si è sempre mantenuto a livelli di assoluta eccellenza.

First Rose Of Spring è un disco tipico del nostro, con una serie di ballate di grande bellezza, suonate alla grande e cantate con la solita voce inimitabile nonostante gli anni: Cannon ha come di consueto messo a disposizione di Willie il solito manipolo di fuoriclasse (Bobby Terry alle chitarre, Kevin Grantt e Larry Paxton al basso, Mike Johnson alla steel, Chad Cromwell e Lonnie Wilson alla batteria e Catherine Marx alle tastiere, oltre naturalmente all’immancabile Mickey Raphael all’armonica), ma il resto è farina del sacco di Nelson, che ha interpretato alla sua maniera la solita serie di canzoni scelte con cura, scrivendone anche due nuove di zecca insieme allo stesso Cannon. L’album si apre con la title track, una languida country ballad scritta da Randy Houser e contraddistinta dalla grandissima voce di Willie in primo piano con dietro solo un paio di chitarre, l’armonica, una steel ed un organo appena accennati: la canzone è già bella di suo, ma il timbro vocale del leader e la sua interpretazione la rendono da pelle d’oca. Blue Star è il primo dei due pezzi nuovi, ed è un altro lento splendido dallo sviluppo rilassato e disteso, con un motivo di prim’ordine ed un suono caldo e coinvolgente, mentre I’ll Break Out Again Tonight (di Whitey Shafer ma resa popolare da Merle Haggard) è uno scintillante honky-tonk classico, un genere di canzone che Willie canta anche quando dorme ma riesce a farlo emozionando ogni volta.

Don’t Let The Old Man In è la dimostrazione che i grandi interpreti riescono a migliorare anche brani di autori non proprio di prima fascia, nello specifico Toby Keith: altro limpido slow di matrice western con leggera orchestrazione alle spalle ed un tocco di Messico come sempre quando Willie imbraccia la sua Trigger; Just Bummin’ Around è una saltellante e swingata country song d’altri tempi (ed infatti è stato un successo negli anni cinquanta per Jimmy Dean), eseguita con la solita classe sopraffina, ed è seguita dalla tenue e bellissima Our Song di Chris Stapleton, altro pezzo country dal pathos notevole con una parte vocale di brividi, e dalla formidabile We Are The Cowboys di Billy Joe Shaver, una western song sferzata dal vento che è tra le ballate più belle uscite negli ultimi mesi, e che si candida come uno dei brani centrali del CD. La toccante Stealing Home (ma che voce!), scritta dalla figlia di Cannon, Marla, e la mossa e trascinante I’m The Only Hell My Mama Ever Raised, brano uscito dalla penna di Wayne Kemp (songwriter che scrisse tra le altre la famosa One Piece At A Time per Johnny Cash), precedono le conclusive Love Just Laughed, altra notevole ballatona e seconda canzone originale del disco, e Yesterday When I Was Young, vecchio successo di Roy Clark (ma l’autore è Charles Aznavour) che mette la parola fine in maniera struggente ad un album magnifico.

Marco Verdi

Buono, Anche Se La “Nuova Svolta” Non Convince Del Tutto. Jayhawks – XOXO

jayhhawks XOXO

Jayhawks – XOXO – Sham/Thirty Tigers CD Deluxe

Prosegue il filotto di uscite dei Jayhawks diciamo Mark III: terzo album del post Marc Olson https://discoclub.myblog.it/2018/07/30/la-cura-ray-davies-ha-fatto-loro-molto-bene-the-jayhawks-back-roads-and-abandoned-motels/  e undicesimo disco di studio complessivo. Come annunciato, promesso e “minacciato”, Gary Louris per l’occasione di questo XOXO manda “Baci e abbracci” ai fans, e come ricorda lui stesso in alcune interviste, dove scherzando dice anche “XOXO è Elliott Smith, parte seconda!, visto che il compianto cantautore americano aveva pubblicato un CD intitolato XO. Non so molto dei dettagli del CD, visto che lo sto recensendo parecchio prima dell’uscita prevista intorno a metà luglio (e non ho fatto ritocchi al Post, in occasione dell’uscita avvenuta il 10 luglio), se non che oltre a Marc Perlman sono della partita anche Karen Grotberg e Tim O’Reagan che dovrebbero firmare l’album collettivamente con Louris, oltre ad essere anche spesso e volentieri le voci soliste del CD, in quanto lo stesso Gary in questo periodo è stato impegnato anche nella preparazione e stesura di un prossimo disco solo. Il nuovo album ha avuto una lunga fase di preparazione lo scorso anno, con Louris che andava e veniva dal North Carolina dove vive, per sessioni di scrittura e jam preparative, poi il disco è stato registrato a novembre del 2019 ai Pachyderm Studios di Cannon Falls e completato ai Flowers Studios sempre nel Minnesota.

Di solito il 90% del vecchio materiale era cantato dal nostro amico https://discoclub.myblog.it/2016/04/26/anche-senza-marc-olson-sempre-quasi-paging-mr-proust/  che questa volta lascia spazio ai suoi pard, devo dire con risultati, alterni, in quanto il nuovo CD è ondivago: se This Forgotten Town è puro e classico Jayhawks sound, con le loro inconfondibili armonie vocali corali e Louris e O’Reagan che si alternano come voce guida, pedal steel celestiali e grande assolo di chitarra, ben sostenuto dal piano e dall’organo dello Rotberg, la riffata Dogtown Days, scritta da O’Reagan alza subito la quota rock, contraddistinta da una spinta più power pop grazie alla solista riverberata di Louris, mentre Living On A Bubble, firmata dal solo Gary, ha il classico imprinting beatlesiano, con pianino saltellante della Grotberg e sonorità dei tardi Beatles, Abbey Road o giù di lì, con tutti i Jayhawks che la cantano.

Ruby conferma il talento di interprete ed autrice di Karen che sempre più si rivela pure ottima cantante, specie quando è alle prese con queste ballate struggenti, dove la sua voce viene anche filtrata a tratti. Homecoming ha sempre il tocco tipico della band, ma con un’aura di psichedelia gentile aggiunta e quel dono di saper incorporare il pop più raffinato nelle loro canzoni, con Louris, di nuovo autore unico, che aggiunge il solito assolo di chitarra, anche se forse il risultato finale è fin troppo lavorato.

Meglio la più immediata Society Pages, anche se finora si sente la mancanza della componente più rootsy della band, a favore di un sound che ricorda certe sonorità alla Jeff Lynne, qui rappresentate dall’autore O’Reagan. Le chitarre acustiche e il piano di Illuminate rimangono comunque ancora in queste coordinate sonore di pop molto ricercato, ribadite nelle complesse volute sonore della corale Bitter Pill. La Grotberg canta anche in Across My Field, calda ballata pianistica che potrebbe ricordare lo stile di Aimee Mann, un’altra che sa coniugare pop raffinato e canzone d’autore. Little Victories, con un giro di basso trascinante e una chitarra grintosa, ben sostenuta dall’organo, è ancora cantata coralmente da tutta la band, formula ripresa anche in Down To The Farm, più vicina ad un folk pastorale ed acustico, rappresentato dall’autore Marc Perlman. Looking Up Your Number solo voce, presumo O’Reagan, e chitarre acustiche arpeggiate, chiude la versione standard dell’album su una nota gentile.

Nelle tre bonus della versione Deluxe Jewel Of The Trimbelle è una ulteriore ballata pianistica cantata dalla Grotberg, con abbellimenti vocali e strumentali del resto della band, Then You Walked Away di Louris ricorda certo prog elegante anni ‘70, Caravan o primi Genesis, piacevole ed affascinante e Hypocryte’s Lament, dell’accoppiata Louris/Perlman, ma cantata a due voci dalla Grotberg, anche al piano e da Gary, che per l’occasione suona l’armonica, è un ulteriore gioiellino acustico dell’album, che in effetti però si discosta fin troppo dal suono della band, buono complessivamente, ma non entusiasma, mi aspettavo di più.

A breve, nei prossimi giorni, per rimembrare il passato, articolo retrospettivo in due parti sulla carriera discografica dei Jayhawks, anche con breve spazio sulle carriere soliste di Olson e Louris.

Bruno Conti

Nuovi E Splendidi Album Al Femminile: Parte 2. Sarah Siskind – Modern Appalachia

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Sarah Siskind – Modern Appalachia – Red Request/Concord CD

Sarah Siskind è una brava cantautrice e folksinger del North Carolina con una mezza dozzina di album pubblicati a partire dal 2002, e che negli anni ha ricevuto diversi apprezzamenti da colleghi anche illustri che hanno inciso le sue canzoni (Alison Krauss, Randy Travis, Wynonna Judd) o che, come nel caso dei Bon Iver, l’hanno voluta come supporting act nei loro concerti esibendosi anche in duetto con lei. Negli ultimi anni si erano perse un po’ le tracce della Siskind (nata Sarah Wingate), dato che il suo ultimo album In The Mountains risaliva al 2015: è quindi con piacere che ho accolto questo suo nuovo lavoro, intitolato Modern Appalachia, e già dal primo ascolto posso affermare di trovarmi davanti al suo lavoro più completo, maturo e riuscito. La scintilla che ha dato vita a questo album è scaturita quando quattro anni fa Sarah ha visto esibirsi in un locale dove facevano musica dal vivo un terzetto di jazz-rock-fusion formato da Mike Seal alla chitarra, Daniel Kimbro al basso e Jeff Sipe alla batteria, rimanendone talmente colpita da reclutarli per il suo prossimo album; a questo punto mancavano le canzoni, e Sarah si è presa tutto il tempo per scriverle, andando in studio coi tre musicisti solo quando si sentiva pronta, con l’aiuto del co-produttore e tecnico del suono Jason Lehning e registrando praticamente in presa diretta, con pochissime sovraincisioni.

Il risultato è un bellissimo album di folk cantautorale moderno con elementi jazz e rock legati al trio che accompagna la Siskind, la quale ha peraltro portato in dote una serie di canzoni di qualità superiore, eseguendole con grande classe ed una straordinaria intesa con la band: talvolta il suono ricorda le escursioni in territorio folk di Bill Frisell (che infatti appare in due brani in qualità di ospite), altre volte il modo di suonare di Seal può essere paragonato a quello di Neil Young, ma in definitiva il merito della riuscita del lavoro è tutto di Sarah che ha avuto il fiuto di scovare il gruppo giusto per le sue canzoni (ed il titolo del CD, Modern Appalachia, rende perfettamente l’idea). Il brano più lungo del disco, oltre sette minuti, è anche quello posto in apertura: Me And Now è un pezzo decisamente affascinante dall’atmosfera rarefatta, con la chitarra elettrica sullo sfondo e la sezione ritmica che accompagna con misura, e la voce di Sarah che si dipana sinuosa sciorinando un motivo che rivela l’influenza di Joni Mitchell, mentre la produzione ha similitudini con lo stile di Daniel Lanois. La title track è il primo dei due brani con Frisell, ed è molto più folk del precedente e per certi versi anche meglio: il ritmo è vivace ma soffuso, le chitarre ricamano che è un piacere e Sarah tira fuori un motivo diretto ed intenso (con Frisell che viene addirittura citato nel testo); Carolina vede il ritmo alzarsi ancora per un folk-rock dall’approccio nuovamente mitchelliano ed un coinvolgente background sonoro, con l’aggiunta di Justin Vernon (deus ex machina dei Bon Iver) che rilascia un ispirato assolo chitarristico e partecipa anche alle armonie vocali.

The One è una raffinata ballata dall’assunto molto piacevole ed eseguita in maniera rilassata ed elegante come al solito: devo dire che la Siskind ha davvero scelto bene i musicisti, che sembrano nati per accompagnare al meglio le sue canzoni. La lenta In The Mountains è il rifacimento della title track del suo penultimo lavoro ed è splendida, un sontuoso pezzo dallo script country-folk ma con la strumentazione elettrica, la solita notevole prestazione chitarristica ed un ritornello di sublime fattura. A Little Bit Troubled è finora il pezzo più rock e grintoso, ma Sarah si muove bene anche in questi territori grazie ad un senso della melodia non comune (e la band…che ve lo dico a fare?), Maybe There’s Love Between Us è più attendista ma è dotata di un lento e costante crescendo, Danny è puro folk-rock elettrificato, una canzone deliziosa e suonata al solito in modo perfetto (sentite la chitarra). Punk Rock Girl è cadenzata e diretta anche se molto più gentile di quello che potrebbe far pensare il titolo (ed il refrain è super), la delicata e rarefatta Porchlight vede ancora Frisell tessere squisiti fraseggi con la sua inimitabile chitarra, mentre Rest In The River, scandita da un drumming marziale, è decisamente folk nella struttura, come se uscisse da un album recente degli Steeleye Span; il CD si chiude con la struggente ballata I Won’t Stop, in cui Sarah è affiancata dalla cantautrice canadese Rose Cousins.

Sapevo che Sarah Siskind era brava, ma un disco bello come Modern Appalachia proprio non me lo aspettavo.

Marco Verdi

Nuovi E Splendidi Album Al Femminile: Parte 1. Margo Price – That’s How Rumors Get Started

margo price that's how rumors get started

Margo Price – That’s How Rumors Get Started – Loma Vista CD

Terzo lavoro da solista per Margo Price, cantautrice dell’Illinois ma di casa a Nashville, dopo i due album usciti per la Third Man Records di Jack White (Midwest Farmer’s Daughter del 2016 e All American Made del 2017), entrambi destinatari di ottimi riscontri di critica e vendite sia in USA che, sorprendentemente, in UK, dove sono andati entrambi al numero uno delle classifiche country. Prima del suo esordio di quattro anni fa Margo aveva già alle spalle una solida gavetta, frutto della sua militanza in ben tre gruppi differenti insieme al marito chitarrista e songwriter Jeremy Ivey (Secret Handshake, Buffalo Clover, Margo & The Pricetags): proprio nei Pricetags ha militato anche un giovane Sturgill Simpson, e la Price si deve essere ricordata di questa vecchia amicizia quando ha scelto il produttore per il suo nuovo album (il primo per l’etichetta Loma Vista). E la scelta si è rivelata vincente, in quanto Simpson ha portato aria fresca e nuovi stimoli, aiutando Margo ad ampliare i suoi orizzonti andando oltre il genere country: il risultato è che That’s How Rumors Get Started (che doveva uscire in origine a maggio ma è stato spostato a luglio a causa della pandemia) si rivela fin dal primo ascolto come il disco migliore e più completo della Price, un album di ballate dal suono arioso e limpido, con il country quasi assente in favore di uno stile tra il pop ed il rock californiano classico.

Simpson ha indubbiamente contribuito con il suo talento (e lasciando fortunatamente da parte le sonorità discutibili del suo ultimo album, il deludente Sound & Fury), ma la maggior parte del merito va ovviamente alla titolare del lavoro, che ha scritto una serie di canzoni davvero belle ed ispirate, brani che denotano una maturità da cantautrice adulta ed esperta. Dulcis in fundo, Sturgill ha messo a disposizione di Margo una band rock al 100%, con eccellenze come il chitarrista Matt Sweeney (che ha suonato un po’ con tutti, da Adele a Johnny Cash, passando per Iggy Pop), il noto bassista Pino Palladino, il batterista James Gadson (Aretha Franklin, Marvin Gaye), e soprattutto l’ex Heartbreaker Benmont Tench, il più grande pianista rock vivente assieme a Roy Bittan, il cui splendido pianoforte è il fiore all’occhiello di gran parte delle canzoni contenute nell’album. L’album inizia ottimamente con la title track, bellissima ballad pianistica che si sviluppa fluida e distesa, con la splendida voce di Margo a dominare un brano che denota a mio parere una netta influenza di Stevie Nicks nel songwriting. Niente country, ma piuttosto un elegante pop-rock che profuma di Golden State.

Con Letting Me Down il ritmo aumenta e ci troviamo di fronte ad uno scintillante pezzo tra country, pop e rock contraddistinto da un bel lavoro chitarristico, il solito magistrale piano di Tench e, last but not least, un ritornello vincente di ispirazione, indovinato, Fleetwood Mac; in Twinkle Twinkle le chitarre si induriscono ed anche la sezione ritmica picchia più forte, Benmont passa all’organo e Margo mostra di trovarsi a proprio agio anche alle prese con un brano rock grintoso pur se leggermente inferiore ai precedenti. Per contro, Stone Me è splendida, una ballata tersa e solare servita da un motivo di notevole spessore ed una struttura di fondo che ricorda non poco certe cose di Tom Petty (con Tench come superbo “trait d’union”): canzone che è stata giustamente scelta come primo singolo. Hey Child è una rock ballad lenta e profonda dalla strumentazione classica (Simpson ha davvero fatto un ottimo lavoro), melodia dal pathos crescente con tanto di coro gospel e prestazione vocale da brividi da parte della Price, mentre Heartless Mind è basata su un giro di tastiere elettroniche ed una strumentazione più moderna e pop, ma rimane un brano gradevole e per nulla fuori posto.

E’ chiaro che io Margo la preferisco quando è alle prese con un sound più classico, come nella bella What Happened To Our Love?, un intenso slow di stampo rock basato al solito sul triumvirato piano-chitarra-organo, o nella strepitosa Gone To Stay, sublime rock song dal passo coinvolgente ed ancora “californiana” (il disco è stato inciso a Los Angeles, cosa che può avere in parte influito), nonché dotata di una delle migliori linee melodiche del disco e con l’ennesimo lavoro egregio da parte di Benmont. L’elettrica e diretta Prisoner Of The Highway è la più country del lotto (ma in versione sempre molto energica), con l’uso del coro a dare ancora un accento gospel davvero azzeccato; il CD, 36 minuti spesi benissimo, si chiude con I’d Die For You, ottima ballata lenta che offre un contrasto tra la melodia delicata e toccante (e che voce) ed un uso nervoso della chitarra elettrica sullo sfondo.

Con That’s How Rumors Get Started Margo Price ha superato brillantemente la difficile prova del terzo disco, regalandoci senza dubbio il suo lavoro più completo ed ispirato: consigliatissimo.

Marco Verdi

Sempre Raffinata E Di Gran Classe! Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor

norah jones pick me up off the floor

Norah Jones – Pick Me Up Off The Floor – Blue Note/Virgin/EMI CD Deluxe

Sono passati ormai 18 anni dal clamoroso successo del disco di esordio Come Away With Me e Norah Jones con questo Pick Me Up Off The Floor arriva ora al suo ottavo album da solista (senza contare il mini Begin Again, di cui tra un attimo). L’artista newyorchese (ma come è noto il padre è Ravi Shankar), a marzo ha compiuto 41 anni (sempre dire l’età delle signore), e quindi questo album potrebbe essere quello della maturità raggiunta, visto che la consacrazione l’ha ormai conquistata da anni, anche se nella sua discografia, tra molti alti e poche “delusioni”, ha comunque intrapreso anche parecchi percorsi alternativi, deviazioni dal suo stile abituale che comunque denotano una certa irrequietezza artistica, e che l’hanno portata a diverse collaborazioni: il disco con Billy Joe Armstrong dei Green Day, la band country collaterale dei Little Willies, quella country alternative delle Puss’N’Boots che hanno pubblicato un secondo disco Sister, uscito a metà febbraio agli albori della pandemia, e quindi passato abbastanza sotto silenzio, oltre ad avere avuto decine, forse centinaia di partecipazioni a dischi altrui.

Stabilito che lo stile musicale di Norah non è facilmente etichettabile, si è parlato di jazz-folk-pop, che potrebbe essere corretto, io azzarderei anche un genere che era molto in uso negli anni ‘70, soft rock, oppure, forse ancora più calzante, cantautrice con piano, così la mettiamo proprio sul didascalico spinto. Si diceva di Begin Again, un mini CD con 7 brani, estrapolati da una serie di brani che la Jones aveva iniziato ad incidere dal 2016, subito dopo il termine del tour di Day Breaks https://discoclub.myblog.it/2017/11/14/per-la-serie-e-io-pago-norah-jones-day-breaks-deluxe-edition/ , in quello che doveva essere un periodo di pausa e riposo, aveva deciso periodicamente di entrare in studio di registrazione per incidere dei nuovi pezzi, da pubblicare solo in formato digitale, frutto anche di collaborazioni (con Mavis Staples, Rodrigo Amarante, Thomas Bartlett, Tarriona Tank Ball e altri) ed alla fine raccolte in Begin Again: nelle stesse sessions però Norah aveva inciso vari altri brani, ulteriori canzoni sotto forma di demo, di cui riascoltando sul telefonino i mix non definitivi mentre passeggiava col cane, si era accorta delle potenzialità e deciso di portarle a compimento in sette diversi studi di registrazione, per arrivare a questo Pick Me Up Off The Floor, che alla fine si rivela uno dei suoi dischi migliori, al solito molto eclettico nei risultati.

Prodotto dalla stessa Jones, a parte i due brani con Jeff Tweedy, nel disco suonano moltissimi musicisti, anche se una delle figure centrali può essere individuata nel bravissimo batterista Brian Blade, presente in sei brani su undici (del CD esiste anche una versione Deluxe con 13 canzoni, sempre singola e pure “costosa,” considerando solo le due tracce extra, però bella, come vedete sopra, ma sono i soliti misteri della discografia). L’album si apre con How I Weep, una sorta di poesia, la prima scritta dalla nostra amica per l’occasione, How I weep for the loss/And it creeps down my chin/For the heart and the hair/ For the skin and the air/That swirls itself around the bare/How I Weep”, meditabonda e malinconica, su uno sfondo di viola, violino ed archi, che accompagnano il piano, e sul quale piange per alcune perdite. In Flame Twin troviamo Pete Remm a chitarra elettrica, organo e synth, oltre a Blade e John Patitucci al basso, un brano bluesato e raffinato che ricorda certe colleghe anni ‘70 come Carole King e Laura Nyro, mentre Hurts To Be Alone vira su territori soul jazz, a tempo di valzer, con Norah anche a piano elettrico e organo, doppiato da Remm, Christopher Thomas che affianca Blade al contrabbasso elettrico, e le voci suadenti di Ruby Amanfu e Sam Ashworth, per un brano felpato e sinuoso.

Heartbroken, Day After replica la stessa formazione per una canzone dall’afflato notturno, al quale comunque la pedal steel di Dan Lead contrappone al cantato quasi birichino della Jones un piccolo tratto da ballata country, una delle canzoni migliori del CD, molto bella anche la più mossa e brillante Say No More, con l’aggiunta del sax tenore di Lee Michaels e la tromba di Dave Guy, che accentuano nuovamente lo spirito jazzy, evidenziato anche dall’ottimo lavoro del piano. This Life, registrata in trio con Blade e Jesse Murphy al contrabbasso elettrico, già presente nel brano precedente, mi ha ricordato a tratti certi brani inquietanti tipici di Rickie Lee Jones, mitigato dalle angeliche armonie vocali.

To Live è una canzone gospel-soul, tra New Orleans e Mavis Staples, con fiati sommessi e di nuovo eccellenti intrecci vocali, I’m Alive è uno dei due brani con la famiglia Tweedy, Spencer alla batteria, e Jeff all’elettrica e al basso, che pur rimanendo nell’ambito della musica della nostra amica, aggiunge quel tipico tocco melodico del leader dei Wilco, nelle sue ballate migliori. Where You Watching, con il testo dell’amica poetessa Emily Fiskio, è una nuovamente inquietante e misteriosa nenia attraversata dal violino incombente di Mazz Swift, dai florilegi del pianoforte e da un cantato quasi piano e dolente.

Stumble On My Way è una di quelle ballatone soffuse e malinconiche delle quali la musicista di Brooklyn è maestra , di nuovo con la weeping pedal steel di Lead ad impreziosirla. A chiudere la versione standard l’altro brano con e di Jeff Tweedy, Heaven Above, un duetto soffuso, quasi flebile con la Jones a piano e celesta e il musicista di Chicago alla chitarra acustica. Le bonus sono Street Strangers, un altro brano in linea con le atmosfere solenni e ricercate dell’album e la deliziosa Trying To Keep It Together, una strana scelta come singolo estratto dall’album, un pezzo solo voce e piano che illustra il lato più delicato e riposto del suo repertorio https://www.youtube.com/watch?v=IcjVoPRbKKY .

Bruno Conti

Ancora Prima Di Esordire, Sapeva Già Stare Sul Palco. Steve Goodman – Live ’69

steve goodman live '69

Steve Goodman – Live ’69 – Omnivore CD

Continua da parte della Omnivore la meritoria opera di recupero della figura di Steve Goodman, talentuoso quanto sfortunato cantautore di Chicago grande amico di John Prine, scomparso nel 1984 a causa di una subdola forma di leucemia contro la quale combatteva da anni: dopo le ristampe dell’anno scorso che riguardavano gli ultimi due lavori pubblicati in vita da Steve (Affordable Art ed il live Artistic Hair) ed i primi due postumi (Santa Ana Winds e Unfinished Businesshttps://discoclub.myblog.it/2019/09/18/un-piccolo-grande-cantautore-e-quattro-ristampe-per-ricordarlo-steve-goodman-artistic-hairaffordable-artsanta-ana-windsunfinished-business/ , l’etichetta indipendente di Los Angeles mette sul mercato un album dal vivo inedito che, come suggerisce il titolo Live ’69, prende in esame un concerto che Goodman tenne due anni prima del suo esordio discografico. Nel 1969 Rich Warren (autore delle liner notes di questo CD) era un giovane studente della University of Illinois a Champaign ma anche un appassionato di musica folk, ed ebbe quindi l’idea di creare e condurre un programma radiofonico da mandare in onda sulle frequenze universitarie, il cui titolo era Changes e lo scopo quello di presentare giovani talenti locali in esibizioni dal vivo, ispirandosi alla leggendaria trasmissione degli anni cinquanta The Midnight Special.

Una sera, durante lo show della folksinger Bonnie Koloc, Warren ascoltò una canzone intitolata Song For David che gli piacque molto, ed alla domanda su chi l’avesse scritta la Koloc face il nome di un ventunenne songwriter chiamato Steve Goodman che purtroppo stava soccombendo alla leucemia. Dopo la pausa estiva, una sera Warren si trovava in un locale di Chicago famoso per ospitare musica folk dal vivo, The Earl Of Old Town, e sul palco c’era un piccolo artista che ad un certo punto intonò proprio Song For David: quando poi Rich apprese che la persona davanti a lui era proprio Goodman (che stava sperimentando con successo una nuova cura per la sua malattia), lo scritturò immediatamente per il suo show radiofonico, impressionato dalla capacità di Steve di stare sul palco e di tenere in pugno il pubblico nonostante una figura non proprio imponente e carismatica. Live ’69 documenta proprio la partecipazione di Goodman allo spettacolo di Warren, un’esibizione tenutasi il 10 novembre presso il campus dell’Università dell’Illinois che vede Steve alla chitarra acustica accompagnato solo da Bob Hoban al basso, violino ed occasionalmente seconda voce.

Il concerto (inciso molto bene) ha la particolarità di presentare soltanto cover: evidentemente Steve non era ancora sicuro del suo materiale e preferiva affidarsi a canzoni che la gente conosceva bene, anche se qua e là ci sono delle scelte decisamente personali. Ma quello che colpisce all’ascolto è la capacità e la padronanza del palcoscenico che il nostro aveva già due anni prima del suo debutto ufficiale, sia quando suonava e cantava sia quando intratteneva il pubblico con l’umorismo e l’ironia che in futuro sarebbero diventati due dei suoi punti di forza. Lo show si apre con la nota You Can’t Judge A Book By Its Cover di Willie Dixon, che Steve spoglia delle originarie caratteristiche blues e fa diventare una pimpante folk song; subito dopo abbiamo la splendida Ballad Of Spiro Agnew di Tom Paxton, purtroppo solo accennata, ed i nove minuti di Bullfrog Blues, brano che verrà poi ripreso anche da Rory Gallagher. A seguire abbiamo un trio di folk songs, a partire dall’evocativa Fast Freight (in questo caso la versione famosa è quella del Kingston Trio), suonata con molta forza e decisione, e continuando con i traditional Byker Bill e John Barleycorn, entrambi eseguiti a cappella.

Steve affronta anche autori affermati come Bob Dylan (Country Pie, scelta insolita), Merle Haggard (la classica Mama Tried), e Lennon/McCartney con Eleanor Rigby che fa parte di un torrenziale medley di ben 19 minuti nel quale il nostro mescola anche i Jefferson Airplane di Somebody To Love, il brano tradizionale Where Are You Going e la nota I’m A Drifter di Travis Edmonson, intrattenendo il pubblico con apprezzati intermezzi quasi cabarettistici. Da citare anche una coinvolgente rilettura del classico country Truck Drivin’ Man, la scherzosa Wonderful World Of Sex di Mike Smith (che rimarrà nelle sue setlist anche in futuro) ed una esuberante The Auctioneer di LeRoy Van Dyke, che chiude la serata. Se siete dei neofiti per quanto riguarda Steve Goodman forse questo Live ’69 non è l’album da cui cominciare (mi rivolgerei piuttosto, se non siete tipi da antologie, ai suoi due primi lavori o alle quattro ristampe dello scorso anno), ma rimane comunque un’interessante testimonianza del talento in erba di un artista che ci ha lasciato troppo presto.

Marco Verdi

Il Ritorno Di Uno Dei Re Del Funky. Maceo Parker – Soul Food Cooking With The Maceo

maceo parker soul food

Maceo Parker – Soul Food Cooking With The Maceo – The Funk Garage – Mascot Label Group

Con questo disco di un signore, Maceo Parker, che definiremo non più di primo pelo (visto che ha 77 anni suonati, in tutti i sensi), la Mascot inaugura un nuovo marchio, The Funk Garage, che amplia lo spettro sonoro dell’etichetta olandese, che sempre più si sta rivelando una delle più vivaci nell’attuale panorama musicale mondiale. Diciamo che i chitarristi soprattutto, ma anche cantanti, gruppi, strumentisti vari, come pure tastieristi (Reese Wynans), batteristi (Stanton Moore), bassisti (Bootsy Collins), costituiscono l’ampio roster della Mascot, che ora ha messo sotto contratto pure un sassofonista, e che sassofonista! Uno dei re assoluti della funky music come Maceo Parker, che peraltro ha dei punti di contatto con gli ultimi nomi citati, proprio per lo stile praticato. Dopo otto anni dall’ultimo Soul Classics, che però era un disco dal vivo, Maceo è stato portato agli House of 1000Hz Studios di New Orleans, per un tuffo nel funky più sano e sanguigno, con l’aiuto dell’ingegnere del suono AndrewGoatGilchrist e del produttore Eli Wolf (Norah Jones, Madlib, Al Green), e con l’utilizzo di una pattuglia di musicisti, non solo locali, che definire strepitosi è fare loro un torto.

La batterista Nikki Glaspie, il bassista Tony Hall, il tastierista, chitarrista e cantante Ivan Neville (nonché figlio d’arte, il babbo è Aaron), noti anche come Dumpstaphunk, che costituiscono il nucleo, ai quali si aggiungono Derwin Perkins alla chitarra e una nutrita serie di fiatisti come Steve Sigmund, Ashlin Parker, Jason Mingledorff e Mark Mullins, che imperversano a tromba, trombone e sax, e anche la vocalist Erica Falls dà il suo contributo. Sembrano dettagli, ma se andate a scorrere i credits dei migliori dischi di funky, soul, jazz e r&b li trovate spesso citati, e poi ovviamente c’è lui, dal 1964 al 1975 fedele spalla di James Brown nei J.B.s, con cui farà ritorno negli anni 80’, in mezzo una lunga militanza con Parliament, Funkadelic, e tutti gli annessi e connessi di George Clinton e soci, a partire dal 1970 a oggi ha fatto in tempo a registrare 15 album solisti, questo Soul Food è il 16°, inadulterato e puro “fonky” in tutte le declinazioni, e anche per l’occasione non ha perso il gusto, la mano e la classe, con tutte le premesse ricordate. Un paio di manciate, giusto dieci pezzi, di brani, sia classici del passato che riprese dal proprio repertorio: Cross The Track che apre l’album è uno degli originali di Maceo, un pezzo molto funky 70’s cantato coralmente dalla band, con la ritmica che pompa di gusto e il sax di Parker che rilascia alcuni assoli agili e di stampo jazzy.

Anche Just Kissed My Baby, una cover di un brano dei Meters, con il basso rotondo di Hall a scandire il ritmo e i fiati all’unisono a ribadirlo, è un altro limpido esempio tra R&B e funky, con Neville, la Falls e il sax del leader che si alternano alla guida. Yes We Can Can di Allen Toussaint è un altro omaggio al Gumbo sound di New Orleans, errebì sound portatore sano di divertimento con i fiati sempre in grande spolvero e un bel arrangiamento vocale con continui interscambi, mentre Parker soffia con classe e forza nel suo sax, prima di autocelebrarsi nel brano M A C E O, altro pezzo ripescato dal passato che si trovava nel primo disco di Maceo & The All King’s Men Doing Their Own Thing, classico debutto del 1970, con il suono di questo strumentale che ricorda moltissimo appunto il groove di Funkadelic/Parliament, JB’s e soci, ma d’altronde lo ha inventato lui e in questo strumentale dove i vari solisti si alternano alla guida, ribadisce di non avere perso il tocco magico.

Hard Times è l’omaggio ad un altro dei grandi sassofonisti della storia della musica nera, quel David “Fathead” Newman a lungo con Ray Charles, in un altro strumentale dove la quota swing jazz è prevalente rispetto al classico R&B, ma il tutto con estrema souplesse e deliziosi interventi della band, che poi si cimenta con una roboante e debordante cover di Rock Steady di Aretha Franklin che richiama comunque moltissimo il suono del James Brown più arrapato. Compared To What è un altro grande brano funky/jazz celebre nelle versioni di Roberta Flack e Les McCann/Eddie Harris, qui in una rilettura scintillante con organo, chitarra e sax ad alternarsi con la voce solista, e eccellente e vibrante anche la rilettura di Right Place Wrong Time puro voodoo funk targato Dr. John, e non manca neppure un brano di un altro datore di lavoro di Maceo Parker, quel Prince autore di The Other Side Of The Pillow, molto sexy, vellutata e rilassata, direi dolcemente swingata, veramente deliziosa, mentre a chiudere questo album, che ci riconsegna un Maceo Parker in grande forma, troviamo un altro strumentale di gran classe come Grazing In The Grass di Hugh Masekela, dove ancora una volta tutta la band è impeccabile. Gran bel disco.

Bruno Conti

The Devil Went (Back) To Heaven: Ci Ha Lasciato Anche Charlie Daniels. Ed Un Augurio A Ringo Starr.

charlie daniels

In una fase di profonda crisi sociale (parlo degli USA), che però sta portando alcune persone su posizioni deliranti come il considerare razzista chiunque rivendichi le sue radici sudiste o far cambiare il nome a gruppi di seconda o terza fascia, vorrei celebrare la figura di Charlie Daniels, storico musicista scomparso ieri all’età di 83 per un ictus emorragico, un personaggio che in vita non aveva mai nascosto il suo orgoglio di “southern man”, né le sue tendenze conservatrici (posizioni che non escludono assolutamente il fatto di essere contro ogni tipo di razzismo, anche se molti soloni e buonisti un tanto al chilo pensano che ciò sia impossibile), e non aveva paura di usare la parola “Dixie” nelle sue canzoni.

Nato Charles Edward Daniels a Wilmington in North Carolina, il nostro è stato negli anni settanta con la sua Charlie Daniels Band uno dei massimi esponenti del movimento southern rock, anche se rispetto a gruppi come Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd la componente country era molto più marcata, grazie al fatto che Charlie era un provetto violinista che talvolta operava anche per conto terzi (per esempio era diventato nei seventies uno presenza quasi fissa negli album della Marshall Tucker Band).

Man mano che passavano gli anni la sua musica (sia da solo che con la CDB, ma non ci sono mai state grandi differenze nel suono in un caso rispetto all’altro) era diventata sempre più country, ma lo spirito graffiante del rock’n’roll non lo aveva mai abbandonato, e ciò si notava specialmente nelle potenti esibizioni dal vivo. Attivo dagli anni sessanta, Daniels comincia principalmente come sessionman a Nashville (inizialmente come bassista, solo in seguito si sposta alla chitarra e come ho già detto al violino), suonando anche con Bob Dylan (negli album Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e Leonard Cohen. Il suo esordio discografico omonimo avviene nel 1970, ma è con il quinto album Fire On The Mountain del 1974 che Charlie pubblica uno dei lavori cardine del southern rock di quel periodo, un lavoro splendido che contiene tre dei suoi brani più popolari: Caballo Diablo, Long Haired Country Boy e The South’s Gonna Do It.

Da lì in poi il suono diventa sempre più country (e le vendite iniziano ad aumentare), con dischi comunque di ottimo valore come Saddle Tramp, High Lonesome e soprattutto il pluripremiato Million Mile Reflections del 1979 che contiene la celebre The Devil Went Down To Georgia, unico singolo di Daniels a raggiungere il primo posto in classifica. Se gli album sono più country che rock, le esibizioni live pongono maggiormente l’accento su potenza ed elettricità, con il nostro che dà il via dalla metà dei seventies alle Volunteer Jam, una sorta di appuntamento annuale in cui i migliori gruppi del sud (e non solo) si trovano sullo stesso palco per lanciarsi appunto in jam infuocate, un rendez-vous che però negli anni verrà parecchio diradato. Negli anni ottanta Daniels continua a pubblicare album di buona qualità trovando anche ottimi riscontri di vendite (specialmente con Windows del 1982 e Simple Man del 1989), mentre dai novanta inizia a perdere qualche colpo con lavori che denotano un certo patriottismo da baci Perugina come lo stucchevole America, I Believe In You ma anche con buone cose come Renegade del 1991 (che contiene una bellissima versione country-rock di Layla di Eric Clapton) e By The Light Of The Moon, notevole e coinvolgente collezione di cowboy songs.

Nei duemila Charlie ribadisce la sua fede repubbicana (ma nei settanta aveva appoggiato la candidatura di Jimmy Carter) difendendo la politica estera di Geroge W. Bush e registrando addirittura un album dal vivo in Iraq davanti alle truppe americane; non mancano però le zampate, come il bel disco di duetti Deuces del 2007 e, negli ultimi anni, un eccellente tributo alle canzoni di Dylan (Off The Grid, 2014), bissato nel 2016 da un altro ottimo disco di canzoni western, questa volta dal suono più acustico (Night Hawk). Due anni fa è uscito il bellissimo tributo dal vivo a Charlie in occasione della pubblicazione della ventesima Volunteer Jam, un notevole doppio CD con ospiti del calibro di Blackberry Smoke, Lynyrd Skynyrd, Devon Allman con Duane Betts, Billy Gibbons oltre naturalmente al padrone di casa.

Riposa in pace, vecchio Charlie, ed insegna agli angeli come si suona il violino.

Marco Verdi

ringo starr 80

P.S: vorrei controbilanciare una brutta notizia con una lieta, facendo gli auguri a Ringo Starr per il suoi 80 anni, portati peraltro splendidamente. Non sto certo qui a spiegarvi di chi sto parlando (tutti sanno chi è ed in che gruppo ha militato), ma vorrei celebrarlo con due canzoni: la prima adattissima per via del titolo anche se non è lui a cantare (ma a suonare la batteria sì!), mentre la seconda è uno dei suoi classici assoluti e forse la mia preferita del suo repertorio solista, un brano il cui testo rivela che Ringo aveva capito fin da subito che il suo percorso artistico post-Beatles non sarebbe stata una passeggiata.