Proseguono Le Buone Tradizioni Di Famiglia! The Allman Betts Band – Bless Your Heart

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The Allman Betts Band – Bless Your Heart – BMG CD

Uno dei migliori album di debutto del 2019 era stato indubbiamente Down To The River della Allman Betts Band https://discoclub.myblog.it/2019/07/16/questi-cognomi-mi-dicono-qualcosa-the-allman-betts-band-down-to-the-river/ , gruppo di southern rock diretto discendente fin dal nome della mitica Allman Brothers Band, e formato da Devon Allman (figlio di Gregg) e Duane Betts (rampollo di Dickey Betts), nonché con la presenza di Berry Duane Oakley che è a sua volta figlio dello sfortunato bassista degli Allman Berry Oakley e che non ha mai conosciuto il padre, morto nel famoso incidente motociclistico quando il piccolo Berry Jr. era ancora nel grembo materno. A poco più di un anno di distanza la ABB pubblica il suo secondo lavoro intitolandolo Bless Your Heart, e proseguendo il suo cammino volto a tenere alto il vessillo del gruppo dei loro padri e del southern rock in generale.

Se Down To The River colpiva per il suono potente e per la bellezza delle canzoni, questo nuovo lavoro è ancora meglio: intanto ha una durata “importante” tipica dei classici album di questo genere (71 minuti), ma quello che più importa è che vede i nostri in ottima forma sia come compositori che come musicisti, con un suono forte, vigoroso e decisamente sanguigno, sempre più rivolto verso il rock ed un po’ meno verso il blues, con le voci e le chitarre dei due leader in grande evidenza ben coadiuvate dalla spettacolare slide di Johnny Stachela (uno dei protagonisti del sound del gruppo), e completate dal basso di Oakley, dalla doppia batteria di R. Scott Bryan e John Lum e dalle tastiere di John Ginty, anch’egli molto bravo. Prodotto ancora da Matt Ross-Spang, Bless Your Heart fa dunque compiere un altro passo avanti alla ABB, dando l’impressione a chi ascolta di trovarsi di fronte al lavoro di una band ancora più coesa ed affiatata: a conferma di questo, l’album è stato inciso in presa diretta e sovraincidendo solo qualche parte vocale, per di più in un luogo magico come i Muscle Shoals Sound Studios.

L’iniziale Pale Horse Rider è una suggestiva rock ballad che parte con una melodia evocativa per sola voce e chitarra (canta Devon, che nel corso del CD si alterna con Duane alle lead vocals), ma poi entra la band in maniera decisamente potente, forse anche troppo: la canzone è comunque più che buona ed i due leader fanno cantare le chitarre che è un piacere, con la sezione ritmica che pompa di brutto. Anche Carolina Song ha un intro bello tosto, ma l’uso dell’organo e la slide le danno un sapore maggiormente sudista, così come la melodia corale che è più figlia dei Lynyrd Skynyrd che della ABB “originale”. Ancora slide in evidenza doppiata dal sax di Art Edmaiston nella ritmata e sanguigna King Crawler, dal train sonoro irresistibile, puro rock’n’roll del sud che fa muovere piedi, testa e quant’altro; Ashes Of My Lovers è il brano che non ti aspetti, un’evocativa western song cinematografica alla Ennio Morricone, con un cammeo vocale della brava Shannon McNally che le dona quel quid in più: notevole. Ed eccoci al centerpiece del disco: Savannah’s Dream è un favoloso strumentale di ben dodici minuti in cui le soliste di Devon e Duane si sfidano a duello con assoli anche di Stachela alla slide e Ginty al piano, il tutto in un tripudio di suoni caldi e creativi tra rock, jazz, blues e psichedelia: il brano più simile in assoluto agli “altri” Allman.

Anche la ruspante Airboats & Cocaine è molto bella, rock song trascinante con le chitarre in gran spolvero (ma qui il vero protagonista è Stachela); la robusta Southern Rain ha un motivo orecchiabile, una struttura soul-rock di tutto rispetto ed una ritmica insinuante, mentre Rivers Run è un country-rock terso e limpido, una signora canzone che Betts ha scritto sullo stile di certe cose di papà Dickey come Blue Sky o Seven Turns. Ottima anche Magnolia Road (il disco cresce man mano che prosegue), una vigorosa ma fruibile canzone di puro southern, splendida nei suoi interplay tra chitarre, slide e pianoforte e con in più un refrain di quelli vincenti. Should We Ever Part è forse già sentita per quanto riguarda lo script ma è suonata anche questa in modo spettacolare, e precede gli otto minuti della ballatona The Doctor’ Daughter (sottotitolo: Ambarabacicicocò…no scherzo), che stranamente ha qualcosa dei Pink Floyd classici dei seventies, oltre ad un bellissimo assolo acustico finale di Duane. Il CD si chiude con la scintillante Much Obliged, altro country-rock cadenzato ed accattivante, e con la pianistica Congratulations, rock ballad ricca di umori soul, che chiude benissimo un album da consigliare a chiunque ami il southern rock di qualità, e che conferma che la Allman Betts Band ha tutto il diritto di ereditare l’acronimo dal leggendario gruppo dei genitori. E, come prossima mossa, non mi dispiacerebbe un bel disco dal vivo.

Marco Verdi

An Englishman In New York Da Cui E’ Lecito Aspettarsi Di Più. James Maddock – No Time To Cry

james maddock no time to cry

James Maddock – No Time To Cry – Appaloosa Records/IRD

James Maddock, come molti di voi già sapranno, è nato nei sobborghi della città inglese di Leicester ma dall’inizio del duemila risiede a New York dove ha realizzato le prime esperienze musicali con la band dei Wood, prima di iniziare una brillante carriera da solista aperta dallo splendido album del 2009 Sunrise On Avenue C. Nel corso degli anni si è costruito una solida fama in tutto il circuito dei locali newyorkesi grazie a innumerevoli esibizioni live coadiuvato da ottimi musicisti, tra cui l’ex chitarrista dei Counting Crows David Immergluck e l’apprezzatissimo tastierista Brian Mitchell, già noto per i suoi trascorsi accanto a Dylan, Levon Helm, B.B.King e molti altri. Nella Big Apple Maddock ha avuto modo di conoscere e fare amicizia con parecchi illustri colleghi, come Mike Scott, con cui ha scritto alcune pregevoli canzoni, Garland Jeffreys e Willie Nile, al cui recente e bellissimo tribute album ha partecipato con una eccellente versione della ballad She’s Got My Heart https://discoclub.myblog.it/2020/09/10/anche-willie-nile-ha-il-suo-pregevole-e-meritato-tribute-album-various-artists-willie-nile-uncovered/ .

Frequenti le sue incursioni live anche nel nostro paese, avendo pubblicato gli ultimi album per l’etichetta brianzola Appaloosa che prosegue l’encomiabile consuetudine di inserire nel libretto dei CD le traduzioni in italiano dei testi. Personalmente ero presente alle sue eccellenti performances all’interno del Buscadero Day degli ultimi due anni e pure a quella molto intima ed insolita a Milano, organizzata dalla Feltrinelli di Viale Pasubio per la serie aperitivi in musica. Doveva esserci un’altra data al FolkClub di Torino, lo scorso 17 aprile, ma tutto è saltato causa lockdown e l’unico modo per rivedere suonare il buon James è stato attraverso le molteplici dirette facebook, tutte di ottimo impatto tra l’altro, in cui si è esibito in solitaria dal soggiorno di casa. Per fortuna il Covid non gli ha impedito di registrare nuova musica e di pubblicare da poco un nuovo album intitolato No Time To Cry, la cui foto di copertina lo ritrae non a caso ad occhi bassi al centro di una avenue newyorkese semideserta. Rispetto al precedente lavoro del 2018 If It Ain’t Fixed, Don’t Break It, non tra i più riusciti a mio parere, si nota subito l’assenza di quelle cadenze rock’n’roll un po’ vintage che lo caratterizzavano in gran parte, per privilegiare invece la formula della rock ballad di cui il nostro protagonista è abilissimo interprete.

Certo, calcolando che su nove episodi, due sono cover e altri due sono stati scritti a quattro mani, non pare che egli stia vivendo un periodo creativamente molto prolifico. Proprio a una cover è riservato il compito di aprire il disco e, aggiungo, nel migliore dei modi, vista la qualità del brano. Williamsburg Bridge viene dalla penna di una giovane e interessante cantautrice, Cariad Harmon, e subito, dalle prime note dell’accordion di Brian Mitchell, si entra in una soffusa e magica atmosfera in cui la voce roca e suadente di Maddock calza a pennello, quando poi entrano anche il violino di Heather Hardy e il mandolino di Immergluck il tessuto sonoro si fa perfetto (esiste anche un bel video per voce, chitarra e armonica, ripreso lo scorso gennaio al Bohemia Cafè di NYC). Il livello si mantiene altissimo anche nella successiva The A Train Takes You Home, che nella lunga introduzione strumentale cita, secondo me volutamente, Mandolin Wind di Rod Stewart e nei suoi cambi di ritmo ci ripresenta il Maddock più ispirato per i suoi richiami a Van Morrison o allo Springsteen dei primi dischi. Proseguiamo con la bella e romantica Waiting On My Girl, inframmezzata da un bel solo di pedal steel guitar di Immergluck, mentre nel finale Mitchell mette in mostra tutte le sue doti di raffinato pianista.

Se l’album fosse stato tutto su questi livelli si potrebbe parlare di eccellenza, ma purtroppo così non è, a causa di sonorità a tratti un po’ troppo cariche e zuccherose che riguardano alcuni successivi episodi. I’ve Driven These Roads è stata scritta insieme a Joy Askew (una musicista che vanta un lungo passato di collaborazioni con artisti del calibro di Laurie Anderson, Joe Jackson e Peter Gabriel), ideatrice di una lunga introduzione vocale in stile Burt Bacharach secondo me un po’ pesante e avulsa dal resto di questa malinconica canzone. L’atmosfera si fa più sanguigna nella seguente The High Chose You, composta insieme al co-produttore e chitarrista Scott Rednor, dal testo ironico sulle conseguenze per chi fa uso abituale di droghe, ma dal ritornello non entusiasmante scandito da un banale hand claps. Il piano di Brian Mitchell e il violino della Hardy ci riportano a sonorità più consone nella bella rivisitazione di quella appassionata e romantica serenata che è New York Skyline di Garland Jeffreys.

La title track fa anch’essa parte delle cose migliori, una ballad di gran classe che richiama un’altra delle buone fonti d’ispirazione di James, il mai abbastanza considerato Ian Hunter, Notevoli nel finale i ricami di chitarra elettrica da parte dello stesso Maddock, è prevedibile che diventi uno degli highlights dei suoi prossimi concerti. Ancora profusione di sentimenti nella lenta Open Up To You, che sarà senz’altro un’efficace dichiarazione d’amore per l’attuale compagna, ma onestamente non mi fa impazzire. Meglio la conclusiva ninnananna Top Of The Stairs, che, malgrado i suoi coretti pop decisamente demodè si fa apprezzare per la bella linea melodica sottolineata dal violino. In definitiva, definirei questo No Time To Cry un album di qualità altalenante, un episodio transitorio, visto anche il periodo in cui è stato realizzato, che nulla toglie alle grandi doti di autore ed interprete che sicuramente James Maddock continuerà a dimostrare in futuro. Lo attendiamo, spero prestissimo, ancora protagonista sui nostri palchi per grandi serate di emozioni dal vivo.

Marco Frosi

Torna Il “Profeta” Con Un Altro Bel Disco. Chuck Prophet – The Land That Time Forgot

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Chuck Prophet – The Land That Time Forgot – Yep Roc CD

Bobby Fuller Died For Your Sins, uscito nel 2017, aveva ricevuto ovunque ottime critiche ed era stato giudicato come uno dei lavori più riusciti della corposa discografia di Chuck Prophet, singer-songwriter e chitarrista californiano noto per essere stato dal 1985 al 1992 l’alter ego di Dan Stuart nei magnifici Green On Red, semplicemente una delle migliori rock band di quel periodo (oggi colpevolmente dimenticati dalle case discografiche, cosa ancora più incredibile dato che ultimamente vengono ristampati anche album sconosciuti di oscure band psichedeliche degli anni 60 e 70). Prophet non ha mai assaporato il successo come solista, né ha mai inciso per una major, ma ha sempre fatto la musica che ha voluto nei tempi scelti da lui, e pur con alti e bassi fisiologici di una discografia che conta circa una quindicina di album in trent’anni https://discoclub.myblog.it/2012/03/01/l-altra-meta-del-cielo-chuck-prophet-temple-beautiful1/ , non ha mai veramente deluso arrivando in qualche episodio ad entusiasmare (come nel caso di Balinese Dancer, uno dei più bei dischi di rock “indipendente” del 1992).

Ora Chuck torna tra noi con un lavoro nuovo di zecca intitolato The Land That Time Forgot, un album davvero riuscito che conferma il suo ottimo stato di forma, dodici canzoni in cui il biondo musicista non cerca contaminazioni di sorta o suoni alla moda, ma ci regala circa tre quarti d’ora di sano e classico rock’n’roll chitarristico senza fronzoli, ben bilanciato tra ballate e pezzi più mossi e con un songwriting decisamente ispirato frutto della collaborazione a livello di testi con il poeta e scrittore Kurt Lipschutz. Prodotto dallo stesso Prophet insieme a Kenny Siegal e Matt Winegar e masterizzato dal leggendario Greg Calbi, The Land That Time Forgot può contare sul contributo di una lunga serie di sessionmen che danno al disco un suono ricco ed articolato, tra i quali segnalerei Dave Sherman al piano, organo e tastiere varie, Rob Stein alla steel guitar, Jesse Murphy al basso, Vicente Rodriguez alla batteria, James DePrato alla seconda chitarra e slide e Dave Ryle al sassofono. Il CD parte molto bene con la brillante Best Shirt On, una solare rock song chitarristica dal ritmo sostenuto, jingle-jangle byrdsiano e tracce di Tom Petty (anche per il timbro vocale di Chuck, simile a quello del compianto rocker), oltre ad un motivo davvero godibile ed immediato.

Un intreccio di chitarre introduce la lenta High As Johnny Thunders, ballatona fluida e distesa in cui il nostro parla e canta con disinvoltura e con un bell’intermezzo strumentale nel quale la sei corde del leader duetta col sax; la nervosa Marathon ha un intro potente degno degli Stones, ritmica pressante e Chuck che viene doppiato dalla voce femminile di Stephanie Finch, per un brano all’insegna del rock’n’roll in cui grinta e bravura vanno di pari passo. Nella languida Paying My Respects To The Train compare una steel in lontananza, ed il pezzo è uno slow crepuscolare guidato dal solito bel gioco di chitarre e con la complicità di un piano elettrico: canzone evocativa che mette in evidenza il songwriting maturo del nostro. Willie And Nilli è ancora un lento, ma di qualità ancora superiore: un pezzo intenso, struggente ed eseguito superbamente, dotato di una melodia che colpisce dritta al cuore; Fast Kid è invece una rock song ficcante e diretta, estremamente gradevole e con una slide malandrina, mentre Love Doesn’t Come From A Barrel Of A Gun è un midtempo elettroacustico decisamente ruspante e di nuovo con le chitarre che doppiano benissimo l’orecchiabile motivo.

Nixonland è uno degli highlights del disco, una ballata di grande spessore e potenza che inizia in maniera suggestiva con la chitarra acustica affiancata dal pianoforte, subito raggiunti dall’elettrica suonata in modalità “twang” e dalla sezione ritmica, mentre Prophet sciorina una melodia molto incisiva: ottima anche la coda strumentale. La delicata Meet Me At The Roundabout è una folk song acustica e cristallina, un momento di pace prima della gustosa Womankind, piacevole canzone guidata da chitarra e piano con echi di Jersey Sound springsteeniano e perfino un tocco di doo-wop alla Dion & The Belmonts. Chiusura con lo slow Waving Goodbye, che l’uso della steel rende vagamente country, e con Get Off The Stage, altra rock ballad pettyana dal notevole impatto emotivo.

Credo di non dire una bestialità se affermo che Chuck Prophet è uno dei musicisti più sottovalutati del panorama americano, ma lui come al solito va dritto per la sua strada e con The Land That Time Forgot ci consegna un altro prezioso tassello di una discografia di tutto rispetto.

Marco Verdi

Richard & Linda Thompson – La Coppia Regina Del Folk-Rock Britannico: Box Hard Luck Stories Parte II

richard & linda thompson hard luck stories front

Seconda Parte.

Chapter 4. Pour Down Like Silver.

Richard e Linda Thompson ormai sempre più presi dalla loro conversione religiosa, tanto da apparire abbigliati in copertina con copricapi che rendono evidente questa svolta di vita, i due però incontrano anche delle difficoltà a continuare a fare musica: il Mullah di Richard vorrebbe imporgli di non fare più musica, o comunque di abbandonare la chitarra elettrica, ma dall’altro lato Richard non vorrebbe impedire a Linda di cantare “hai una voce bellissima e devi continuare a cantare” e quindi nell’estate del 1975 entrano nei soliti studi di Londra, di nuovo con John Wood, per registrare il nuovo album, che era l’ultimo per rispettare il contratto con la Island.

Nel frattempo Sheikh Abdul Q’adir li esorta a fare musica fintanto che si tratti di un omaggio a Dio, e un ispirato Richard scrive alcune delle sue più belle canzoni di sempre (a fianco di decine di altre) tra le quali Dimming of the Day, Beat the Retreat e Night Comes In, parlano tutte del tema della divinità e Thompson le riveste di alcune musiche superbe. E non è che le altre scherzino: Streets Of Paradise cantata con forza da Richard con i ricami vocali della moglie, gli arabeschi della fisa di Kirkpatrick e un robusto groove della ritmica affidata ai vecchi amici Dave Pegg e Dave Mattacks, è un piccolo gioiello, come pure la sublime For Shame Of Doing Wrong, cantata in modo divino da Linda, in una delle sue migliori interpretazioni di sempre, di nuovo a rivaleggiare con quelle di Sandy Denny.

Notevole anche The Poor Boy Is Taken Away, altra ballata stupenda (ho quasi esaurito gli aggettivi) cantata con voce cristallina da Linda, ma sono le tre canzoni citate i punti salienti dell’album: Night Comes In nei suoi oltre otto minuti sfiora quasi la perfezione con Richard che ci regala un grande interpretazione vocale e una parte strumentale finale di grande fascino, Beat The Retreat con una dolente interpretazione di Richard è un altro brano indimenticabile e la conclusiva Dimming Of The Day per molti è forse la più bella canzone mai scritta da Thompson, cantata in modo eccezionale da Linda, mentre Richard si riserva una coda strumentale, Dargai dove rilascia tutto il suo virtuosismo alla chitarra acustica.

Nelle sei bonus tracks ci sono le inedite Wanted Men, un bel pezzo rock cantato da Richard, l’altrettanto bella Last Chance cantata da Linda, un intimo demo di Dimming The Day e tre brani dal vivo da un concerto all’Oxford Polytechnic del 27 novembre del 1975, la breve ma intricata Things You Gave Me, la scatenata It’ll Be Me di Jack Clement a tempo di rock’n’roll con assolo fumante del nostro che poi ci regala una colossale versione di oltre 13 minuti di Calvary Cross: questi brani non sono inediti, erano giù usciti in In Concert, November 1975, pubblicato dalla Island in CD nel 2007, tuttora in produzione, ma questo non inficia il giudizio su questa versione di Pour Down Like Silver, altro capolavoro.

Chapter 5. The Madness Of Love Live 1975 & 1977. Questo è l’altro CD completamente inedito, tutto dal vivo, con materiale tratto da due soli concerti: il primo riguarda il set acustico del concerto del 25 aprile 1975 alla Queen Elizabeth Hall, per promuovere l’album dell’epoca Hokey Pokey, sei brani in tutto, con Richard alla chitarra acustica e i due che si dividono la parti vocali, si apre con lo strumentale Dargai, poi in sequenza una intensa Never Again, cantata da Linda, una rara cover della splendida Dark End Of The Street, sempre Linda ma alcune parti cantate all’unisono, Beat The Retreat è affidata a Richard, come pure The Sun Never Shines On The Poor, poi un’altra sorpresa, la divertente If I Were a Woman And You Were A Man.

Il secondo concerto arriva da un broadcast per Capital Radio e venne registrato il 1° maggio del 1977 al Theatre Royal di Londra e segue una lunga pausa del duo, con Linda che nel frattempo aveva avuto il secondo figlio Teddy nel 1976 (il primo con Richard), e giravano con uno “strano” gruppo definito Muslim Band e che fu abbastanza denigrato dalla stampa per il loro Islamic-Folk-Jazz: la formazione prevedeva Abdul Latif Whiteman alle tastiere, Haj Amin Evans al basso Abdul-Jabar (non quello dei Lakers) Pickstock alle percussioni e Preston Hayman alla batteria.

Cinque brani in tutto che dimostrano che repertorio e band non erano poi così male, anzi, anche io non le avevo mai sentite, forse su un bootleg e concordo con l’estensore delle note: The Madness Of Love rimasta inedita (a parte una versione di Graham Parker in un tributo a Thompson), come in parte le altre eseguite nella serata e previste per un album mai completato, non sono mai piaciute a Richard, comunque il pubblico presente apprezza, il nostro amico è in ottima forma vocale, doppiato dalla voce di Linda e la chitarra viaggia che è un piacere, ben sostenuta dalla band, a seguire una lunga versione, oltre 12 minuti, di The Night Comes In, con il liquido piano elettrico di Whiteman a seguire le acrobatiche divagazioni della solista, mentre Linda al solito canta in modo stupendo, ottima anche la corale a due voci A Bird In Gods Garden con un testo adattato da un poema di Rumi, un autore islamico, verrà incisa in seguito con French, Frith & Kaiser, e l’accompagnamento funky-jazz-rock nella lunga coda jam strumentale è eccellente.

Molto bella anche The King Of Love, sempre cantata all’unisono e con lavoro della chitarra di Thompson all’altezza della sua fama, chiude Layla, che non è quella di Clapton, ma il soggetto è sempre la stessa principessa persiana, con la band che imbastisce un classico groove “thompsoniano” (si può dire?), per permettere a Richard, che la canta con Linda, di indulgere di nuovo nelle sue superbe improvvisazioni all’elettrica, poi uscirà proprio su First Light. Una ottima scoperta!

Chapter 6: First Light. Dopo due anni passati nella comune Sufi a Norfolk, la coppia decide di tornare a Londra, e con sorpresa Richard scopre che Linda non aveva “abbandonato” il loro appartamento di Hampstead dove la coppia torna a vivere, e poco alla volta riprende a frequentare i vecchi amici, Joe Boyd in testa, che prima convince Thompson a suonare nel CD di esordio di Julie Covington, reduce dal successo travolgente del musical di Andrew Lloyd Webber Evita, dove rivestiva la parte principale, poi alcune collaborazioni con il giro Albion Band e altre cose, ma purtroppo di questo non c’è traccia, neppure nelle bonus, forse il prossimo cofanetto. Comunque assestata la situazione bisogna andare alla ricerca di un nuovo contratto discografico, che visti i “successi” a livello commerciale dei precedenti non si rivela una cosa facile, comunque alla fine si fa avanti la Chrysalis ed iniziano i preparativi per il nuovo album: ad accompagnare la coppia sarà un terzetto di formidabili musicisti americani, Andy Newmark alla batteria, Willie Weeks al basso e Neil Larsen alle tastiere, che nelle parole di Joe Boyd erano rimasti impressionati dalla abilità del nostro ed avevano espresso il desiderio di suonare con lui.

Nell’album suonano anche i vecchi amici John Kirkpatrick e Dave Mattacks, oltre ad una pletora di voci di supporto: dieci canzoni sono pronte alla bisogna, otto nuove e due traditional arrangiati da Thompson. Il disco, pur non ai livelli dei precedenti, si lascia ascoltare comunque con piacere, specie in questa nuova edizione rimasterizzata per la prima volta appositamente per l’edizione in box e ci sono pure 6 demo acustici inediti, solo voce e chitarra, tre, anzi quattro, cantati da Linda (inclusa la title track che è l’unica già pubblicata in precedenza) e due da Richard. Per il resto, nel disco originale, che anche il sottoscritto riascolta per la prima volta da almeno una quindicina di anni, ci sono brani di buona struttura, come l’iniziale avvolgente Restless Highway, il suono è sì più vicino al mainstream, anche se la produzione di John Wood, sempre a fianco di Richard, questa volta agli Olympic Studios, cerca di contenere certe concessioni ad un sound più americano, come nella ballata mistica quasi celtic soul Sweet Surrender, cantata da Linda, in altre canzoni, come nella sciapa Don’t Let A Thief Steal Into Your Heart si vira verso un funkettino leggero che neppure la chitarra del nostro riesce a redimere più di tanto, e anche l’arrangiamento con gli archi non giova.

Il traditional strumentale The Choice Wife è decisamente meglio grazie al virtuosismo di Richard, brano che poi converge nella intensa Died For Love, cantata questa volta splendidamente da Linda, con un coro di vari ospiti (Maddy Prior, Trevor Lucas, Iain Matthews, Jiulie Covington tra i tanti) che gli conferiscono un fervore tra gospel e folk, grazie anche all’accordion di Kirkpatrick e al whistle di Dolores Keane, già allora nei De Dannan. Anche la fascinosa Strange Affair, firmata con Martin Simpson e June Tabor, mantiene questa aura folk che rimanda ai dischi solisti di Sandy Denny che Linda ricorda sempre moltissimo. Layla, che nella versione già ascoltata dal vivo o in quella acustica, aveva un suo perché, qui, cantata da Richard, ha un suono rock abbastanza dozzinale, meglio Pavanne, un’altra potenziale bella interpretazione di Linda, che, credo per la prima volta, la firma insieme a Richard, però in parte manca del fuoco di altre canzoni simili, forse troppo turgida per quanto non mi dispiaccia.

House Of Cards utilizza il mega coro usato in precedenza, ma di nuovo l’arrangiamento con gli archi è troppo carico e sommerge la melodia della canzone, e anche la la title track, cantata ancora da Linda, viene sommersa a tratti da questi arrangiamenti fuori posto e troppo pomposi, insomma luci e ombre in questo album, che neppure il successivo Sunnyvista riesce del tutto a dissipare.

Chapter 7. Sunnyvista Neppure il Dottor Richard e l’infermiera Linda ritratti in copertina, forse pressati dalla casa discografica che richiede un album di successo a livello commerciale, riescono a cavare il classico coniglio dal cilindro, e nonostante il ritorno di vecchi amici inglesi come Timi Donald e Dave Mattacks alla batteria e Dave Pegg e Pat Donaldson al basso (all’epoca anche fidanzato con Kate McGarrigle, che appare con la sorella Anna nel disco, e segna l’inizio di una lunga amicizia con i Thompsons), oltre a tastieristi assortiti come Pete Wingfield e John “Rabbit” Bundrick, l’album ha un suono a tratti troppo “contemporaneo” e rock, tra l’altro messo ancora in maggior evidenza dal nuovo mastering impiegato nel box, per cui si sente splendidamente, ma le canzoni rimangono influenzate dall’atteggiamento, come ha detto il nostro amico a posteriori rispetto ai suoi dischi di fine anni ‘70, “ troppo flaccido ed indifferente”, forse fin troppo auto flagellatore, ma si capisce il senso di quanto detto.

Alcune canzoni mi piacciono parecchio, come You’re Going To Need Somebody, con l’interplay tra Thompson e la fisa di Kirkpatrick, e le armonie di Linda più le sorelle McGarrigle che sostengono Richard alle prese con un assolo dei suoi, oppure il country-rock di Lonely Hearts, con un suono che ricorda quello della sua amica Linda Ronstadt, e anche la splendida ballata Traces Of My Love, cantata con impeto e passione da Linda, aiutata dalle armonie celestiali della McGarrigles. Per non dire di Sisters altra sontuosa interpretazione degna delle migliori di Linda, con Richard superbo alla chitarra, e le McGarrigles solenni di cui sentiamo sempre più la mancanza; però ci sono anche canzoni funky come Justice In the Streets, con il ritornello che fa Allah, Allah, va bene che non avevano gradito del tutto ma…

Neppure l’iniziale Civilization brilla per inventiva, tipico Richard, ma eseguito male, Borrowed Times è pericolosamente vicino all’AOR, Saturday Rolling Around, una via di mezzo tra country, cajun e una giga, con Kirkpatrick in evidenza alla fisa e Richard alla chitarra è peraltro piacevolissima, accoppiata replicata nella title-track, tra tango e musica mitteleuropea alla Brecht, stile melò molto apprezzato da Linda a e anche il classic rock di Why Do You Turn Your Back? nell’insieme non dispiace. Insomma, visto a posteriori l’album non mi sembra poi così brutto.

Le bonus tracks prevedono Georgie On A Spree, lato B del singolo Civilization, nuova versione di un brano già apparso su Hokey Pokey, 3 demo di canzoni inedite non utilizzate nell’album, Lucky In Life, la delicata Speechless Child, sul tema dell’autismo e Traces Of My Love, entrambe cantate da Linda, poi ci sono tre canzoni, registrate con Gerry Rafferty nel 1980, che si era offerto di finanziarli e che anticipano il nuovo album, e dovevano anche servire per trovare un nuovo contratto discografico visto che anche la Chrysalis a questo punto li ha scaricati: tre versioni fin troppo lavorate di For Shame Of Doing Wrong, The Wrong Heartbeat e Back Street Slide, tanto che Richard litiga con Rafferty per i suoi metodi di lavoro e torna dopo anni a lavorare con il vecchio amico Joe Boyd, che li mette sotto contratto con la sua Hannibal, e insieme realizzano il canto del cigno della coppia, un capolavoro assoluto, il classico disco da 5 stellette.

Chapter 8. Shoot Out The Lights. Nel 1980, però si profila il “disastro” nella loro vita personale: Linda era incinta e quindi le registrazioni erano state rinviate perché erano insorti dei problemi di respirazione (poi negli anni a seguire peggiorati in una disfonia che le impedirà a lungo di cantare dal vivo), con Joe Boyd che aveva convinto Richard a fare un breve tour acustico negli States, organizzato da Nancy Covey. I due sviluppano una relazione intima con conseguente tradimento, e Linda decide di lasciare il marito: ma ci sono degli impegni da mantenere, il nuovo album da registrare e il successivo tour per promuoverlo. Il tutto verrà fatto, in una situazione ovviamente infernale, con tensione alle stelle, anche per gli altri musicisti. A dispetto di tutto, come ricordato prima, il disco Shoot Out The Lights è veramente stupendo, con una serie di canzoni superbe, realizzate con una band veramente motivata da Boyd, che produce come forse non gli capitava dai tempi dei Fairport Convention. Ed in effetti i musicisti sono quelli: Dave Mattacks batteria, Dave Pegg basso, Simon Nicol chitarra ritmica, più alcuni ospiti come i Watersons e Clive Gregson, oltre ad una piccola sezione fiati.

Il resto lo fanno le canzoni: la galoppante e profetica Don’t Renege On Our Love doveva essere cantata da Linda, che però per i problemi legati alla gravidanza, non riusciva a raggiungere la giusta tonalità, grande assolo di chitarra di Richard che suona anche la fisa in questo brano. Ma in Walking On A Wire Linda regala una delle performance vocali più belle della sua carriera, anche ispirata dal testo che recita nell’incipit “ I hand you my ball and chain/you hand me the same old refrain”, e la melodia si eleva sublime e il lirico assolo di Richard è magnifico. A Man In Need è uno dei suoi tipici brani rock corali, con i controcanti perfetti di Linda e degli ospiti e un altro assolo tagliente e conciso, in Just The Motion Linda convoglia nella sua voce un tale rimpianto che è quasi doloroso ascoltarla, ma non si può non ammirare il risultato finale di questa meravigliosa ballata.

Shoot Out The Lights ricorda i tempi felici a NY nel 1978, quando insieme scoprivano la nascente scena musicale della Grande Mela con Talking Heads e Television, con Byrne e Verlaine entrambi grandi ammiratori di Thompson, che per l’occasione compone una delle sue canzoni più intense e ricche di pathos, con una serie di assoli acidissimi e fenomenali, mentre la scandita Back Street Slide prevede ancora una solida prestazione corale della band e la vocalità all’unisono superba dei due.

Did She Jump or Was She Pushed?, una rara collaborazione tra i due come autori, è un’altra delle canzoni a più alto tasso emozionale, riflessiva ed amarissima, comunque splendida ancora una volta, e la conclusiva Wall Of Death, cantata a due voci, è la summa di quasi dieci di musica e di vita insieme, un commiato triste ma orgoglioso.

Il disco esce a marzo 1982 e poi i due si imbarcano in un tour americano periglioso ma che in alcune serate, in mezzo a mille tensioni, rinverdisce la vecchia magia tra i due, come testimoniamo i brani apparsi nel secondo CD della edizione Deluxe dell’album, pubblicata dalla Rhino nel 2010 e qui non utilizzati, anche se nelle bonus ci sono due brani da quei concerti, una riflessiva e soffusa Pavanne cantata in solitaria da Linda ed una esuberante High School Confidential che illustra l’amore di entrambi per il vecchio R&R, con assoli spaziali di Richard. Le altre bonus sono la B-side Living In Luxury, la reggata ma non disprezzabile The Wrong Heartbeat, sempre dalle sessions per l’album e migliore di quella nelle bonus di Sunnyvista, proveniente dai brani registrati con Gerry Rafferty, di cui ritroviamo altre due canzoni, l’adorabile I’m A Dreamer, un brano di Sandy Denny e un’altra versione rifulgente di Walking On A Wire, registrata prima del “disastro”, serena ed avvolgente.

E qui ci sta, imperdibile.

Bruno Conti

Richard & Linda Thompson – La Coppia Regina Del Folk-Rock Britannico: Box Hard Luck Stories Parte I

richard & linda thompson hard luck stories

Box 8 CD Hard Luck Stories 1972-1982 – UMC Universal Music

Era stato annunciato in uscita per questa primavera, prima che scoppiasse la buriana del coronavirus, ma ora eccolo in uscita oggi 11 settembre (data forse non molto fausta per gli scaramantici), questo cofanetto Hard Luck Stories 1972-1982 raccoglie i 6 album ufficiali della discografia di Richard & Linda Thompson, rimasterizzati ad arte per l’occasione, con il fattivo aiuto della coppia rappacificata che ha anche compilato i contenuti di questa collezione. 8 CD, tra i quali First Light e Sunnyvista, con nuovi masters ritrovati di recente. 113 canzoni, di cui 31 inedite e moltissime rarità: per la serie anche l’occhio vuole la sua parte il tutto è raccolto in un bellissimo manufatto, con un libro rilegato di 72 pagine di eccellente fattura, ricco di foto, tra gli altri, di Keith Morris, Gered Mankowitz e Pennie Smith, ma anche dalla collezione personale di Richard & Linda, che hanno altresì rilasciato molti ricordi di quegli anni trascorsi insieme, e ci sono pure due ottimi nuovi saggi scritti dai giornalisti Patrick Humphries e Mick Houghton. Una produzione artistica sontuosa che illustra i 10 anni in cui hanno lavorato insieme attraverso un lavoro complessivo tra i più ricchi prodotti dalla scena musicale inglese di quel periodo, e non solo in ambito folk. L’opera omnia è stata divisa in 8 capitoli, come i CD, e una Coda finale, solo come scritto nel libro, che illustra quanto successo dal 1983 a oggi.

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Partiamo quindi dall’inizio. Chapter 1 Sometimes It Happens. E dal loro primo incontro ravvicinato, anche come lo ricordano i due nel libro. Siamo nel 1969, e nei Sound Techniques Studios di Londra i Fairport Convention con Richard sono impegnati a registrare Liege And Lief insieme a Joe Boyd, il loro capolavoro assoluto che inventa il folk-rock, ma anche l’ultimo registrato con la formazione migliore, quella dove milita ancora Sandy Denny, che da lì a poco se ne andrà. In uno studio vicino, Linda (nata Peters, anzi Pettifer) è impegnata a registrare dei jingles che illustrano le virtù di Yogurt e farine a grana sottile. La bellissima Linda (nel libro ci sono delle foto che le rendono pienamente giustizia), 22 anni, quindi due meno di Richard, già con una figlia (Mai)Muna, conosceva la gang dei Fairport per via della sua amicizia con Sandy e Joe Boyd (con quest’ultimo pare anche qualcosa di più) e quindi alla fine della giornata si ritrovano tutti in un ristorante di Chelsea, dove caso vuole che i due si trovino seduti a fianco: nelle parole di entrambi pare che non si fossero piaciuti a prima vista, Linda non apprezzava molto le storie di Richard, vegetariano convinto, che parlava di continuo di cosa succede agli animali appena prima di essere macellati, lasciando inorridita la ragazza che lo trovò “interessante come un posacenere mezzo vuoto”, facedo intuire al nostro amico che “non lo trovava una persona molto interessante”, come ricorda argutamente Thompson “non troppo indicativo di quello che sarebbe successo”.

I due comunque frequentavano, a parte l’occasione specifica, lo stesso ambiente folk di piccoli locali e musicisti faticosamente impegnati a ritagliarsi uno spazio per sopravvivere. Tutti gli altri aneddoti e storie di vita li troverete poi nel box, e quindi veniamo ai contenuti del primo CD Sometimes It Happens: tra la fine del 1971 e l’inizio del 1972 i due, ormai una coppia, partecipano alle registrazioni del disco collettivo, nato come un divertissement del movimento folk-rock inglese e attribuito a The Bunch – Rock On, una raccolta di classici del R&R rivisitati con verve e grande piacere. Si parte con una alternate take di Sweet Little Rock’n’Roller, cantata da Richard Thompson impegnato anche alla solista, e con Sandy Denny e Linda non ancora sposata Thompson alle armonie vocali. Linda canta con brio The Locomotion di Carole King (al successo con Little Eva), dove si apprezza già la sua bellissima voce, mentre Richard è alle prese anche con My Girl In the Month Of May di Dion, con Linda e Sandy di nuovo alle armonie in stile Mamas And Papas: le due insieme cantano anche una versione splendida di When I Will Be Loved degli Everly Brothers, qui presente in inedita versione demo con Richard e Trevor Lucas alle acustiche, un brano che anticipa le future collaborazioni di Emmylou Harris e Linda Ronstadt. Bellissima.

Poi ci sono tre brani dal primo album solo di Richard Henry The Human Fly, all’epoca un flop clamoroso, tanto che Thompson ricorda “con orgoglio” che le versione americana fu l’album meno venduto nella storia della Warner Bros, poi rivalutato dalla critica inglese che all’epoca lo massacrò tanto che Linda ricorda che il marito all’epoca ne uscì distrutto. Dalle sessions appare l’inedito Amazon Queen, senza Linda, che invece appare alle armonie vocali con l’amica Sandy, nelle altre due bellissime canzoni Shaky Nancy e The Angels Took My Racehorse Away. Sempre nel corso del 1972, su istigazione di Linda che invitò Rchard in studio, i due registrarono 3 brani insieme, due destinati ad un album Vanishing Trick del poeta Brian Patten, che uscirà solo nel 1976 e uno con Martin Carthy: solo la voce splendida di Linda e una chitarra acustica, Richard nelle prime due e Martin nella terza, in Embroidered Butterflies c’è anche John Taylor al piano elettrico, le altre due sono After Frost e Sometimes It Happens, tutte rigorosamente inedite su CD, come tutto il contenuto del primo CD del box (a voler essere pignoli i brani di Patten sono in usciti in Giappone).

Restless Boy e The World Is A Wonderful Place sono due canzoni scritte da Richard per un musical che era stato proposto a Linda e doveva essere basato sulla storia del Figliol Prodigo: un peccato non averle mai sentite, ma si rimedia in questo Box, Linda voce, Richard chitarra e basso, più la brava Lindsay Cooper degli Henry Cow all’oboe. Per completare il primo CD due pezzi dal vivo: Shady Lies è un brano di impronta country scritto per Iain Matthews e preso da un raro concerto al London University College del 25 ottobre 1972, nel quale la coppia Thompson (che si sposerà 5 giorni dopo) si unisce alla Albion Country Band, l’altro un traditional Napoleon’s Dream solo voci a cappella, da un concerto a Leeds nel gennaio del 1973, dal primo tour della band.

Chapter 2. I Want To See The Bright Lights Tonight. A maggio del 1973, in tre giorni ai Sound Techniques di Londra, con la produzione congiunta di Richard e dell’ingegnere del suono John Wood, viene realizzato il primo capolavoro assoluto della coppia, dieci brani scritti da Rchard, ed un album che a causa della crisi petrolifera in atto all’epoca vedrà la luce solo il 30 aprile del 1974: in quel periodo nel 1973 Richard aveva iniziato a manifestare interesse nel movimento Sufi, entrando poi in una comune con la moglie, che lo seguiva suo malgrado, come dirà più avanti. Il disco è comunque splendido: si parte con una sequenza da sogno sulla prima facciata con When I Get To The Border, The Calvary Cross, Withered And Died, I Want To See The Bright Lights Tonight e Down Where The Drunkards Roll, c’è gente che non ha realizzato così tante canzoni meravigliose in un’intera carriera.

Richard, che nei Fairport Convention era adibito solo alle armonie, già in Henry The Human Fly aveva trovato una propria voce e in questo album canta nei primi due brani, già tipici del suo stile unico ed inimitabile, spesso in duo con Linda, ma anche da solo come in The Calvary Cross, dove rilascia anche un acidissimo assolo che nei concerti dal vivo si dilaterà in un vero tour de force, mentre Linda, ormai quasi una pari di Sandy Denny ,canta divinamente le altre, anche i brani della seconda facciata, dove brillano Has He Got A Friend For Me, il puro folk di The Little Beggar Girl, lasciando all’ispirato consorte la sublime The End Of The Rainbow e We Sing Hallelujah, con Linda ancora magnifica in The Great Valerio.

Nelle bonus tracks spiccano l’inedita Mother And Son, cantata ancora da Linda con Richard al piano e all’hammered dulcimer, il demo acustico intenso e intimo di Down Where The Drunkards Roll con Simon Nicol al dulcimer, la versione alternativa full band di The End Of The Rainbow con Linda voce solista alternata con Richard, più bella dell’originale, il demo di A Heart Needs A Home che uscirà nel successivo Hokey Pokey e una versione acustica dal vivo al Rainbow di Londra nel 1975 di The Great Valerio, molto buia e pessimista, ma alla fine il pubblico è in delirio.

Questa volta critiche entusiaste della stampa inglese e poi internazionale, che negli anni a venire lo ha inserito spesso e volentieri tra i classici assoluti: come viene ricordato nel libro, anche questo album, come tutti quelli di Thompson fino al 1985, non turberà minimamente le classiche di vendita.

Chapter 3. Hokey Pokey. Tra settembre ed ottobre del 1974, sempre agli stessi studios, e con la co-produzione dell’amico Simon Nicol, viene registrato Hokey Pokey il secondo disco per la Island, altro grande album, tra i musicisti, come nel precedente, spiccano la sezione ritmica di Pat Donaldson e Timi Donald, John Kirkpatrick accordion e concertina, Simon Nicol dulcimer, tutte le canzoni sempre di Richard, a parte l’ultima scritta da Mike Waterson. Le luci sono meno brillanti, la visione più pessimistica, le canzoni forse meno memorabili, se il disco precedente è da 5 stellette, questo “solo” da 4. Hokey Pokey (The Ice Cream Song) è una mossa e danzante traccia cantata da Linda con il controcanto di Richard, che prosegue ad inanellare assoli alla chitarra, confermando il suo status di chitarrista superbo, già riconosciuto con i Fairport Convention, e che poi si cementerà vieppiù negli anni a venire, al violino Aly Bain.

I’ll Regret It All In The Morning è una delle tipiche malinconiche e amare ballate che provengono dal suo canone musicale, cantata dallo stesso Richard, sempre più sicuro anche nella parte vocale, mentre Smiffy’s Glass Eyes si rifà al classico suono dei Fairport più folk(rock), l’orientaleggiante Egypt Room esplora la passione verso la musica orientale (esplicitata anche nella conversione all’Islam meno radicale) mantenendo però la sua abilità nel maneggiare con grande classe l’uso delle melodie e dei temi del rock, e a seguire una delle sue più struggenti canzoni d’amore come Never Again, dedicata alla mai dimenticata fidanzata scomparsa nell’incidente che si portò via anche il batterista Martin Lamble, cantata con rara partecipazione da Linda che tocca le corde dell’ascoltatore con una interpretazione sofferta e sublime.

Georgie On A Spree, più lieve e leggera illustra il lato più ludico ed ironico della musica di Richard che mescola tocchi music-hall e country in questa leggiadra canzone cantata sempre da Linda; Old Man Inside A Man per certi versi è una confessione, quasi una resa, di Richard rispetto al proprio carattere ed all’approccio alla vita, ne risulta un’altra ottima canzone, ribadita anche nella pessimista The Sun Never Shines On The Poor, un valzerone con qualche rimando beatlesiano, che poi lascia spazio al pezzo più bello del disco, la romantica A Heart Needs A Home, superba ballata pianistica affidata a Linda, che rivaleggia con le più belle canzoni di Sandy Denny. Mole In The Hole, consigliata dall’amico Martin Carthy, viene dal repertorio di una delle dinastie classiche del folk inglese, i Watersons, una sorta di brillante e gioiosa simil giga elettrica, cantata sempre da Linda. Solo due bonus inedite in questo CD: Hokey Pokey acustica dal vivo nel 1975 per una trasmissione radiofonica, qualità sonora da rivedere, e una alternate take di A Heart Needs A Home che anche in questo caso forse supera l’originale.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Anche Willie Nile Ha Il Suo Pregevole E Meritato Tribute Album! Various Artists – Willie Nile Uncovered

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Various Artists – Willie Nile Uncovered – 2 CD Paradiddle Records

Un album tributo, per di più di ottimo livello come quello che vado a descrivervi, Willie Nile se lo meritava davvero! Il sottotitolo di Willie Nile Uncovered, Celebrating 40 Years Of Music, rende bene l’idea, ma sarebbe stato opportuno aggiungere l’aggettivo Great, perché di grande musica (rock, folk, cantautorale, definitela come più vi piace) il songwriter nato a Buffalo settantadue anni fa ne ha prodotta veramente tanta. Se poi consideriamo le sue immense doti di performer, l’innata capacità di salire su un palco e trascinare qualunque tipo di audience verso l’entusiasmo più puro con la forza e il lirismo delle sue canzoni, diventa scontato ritenere che Willie sia diventato a ragione un punto di riferimento importante per le ultime generazioni di musicisti rock e folk. Per realizzare questo sentito omaggio, l’equipe dell’etichetta indipendente Paradiddle ha assemblato un cast di tutto rispetto, interpellando sia personaggi assai noti, nonchè amici e coetanei di Willie, sia gruppi e solisti emergenti, tutti o quasi con la comune caratteristica di aver svolto gran parte o tutta la propria carriera in quel particolarissimo microcosmo rappresentato da New York City e i suoi dintorni.

Alla Grande Mela Nile ha dedicato parecchie delle sue migliori canzoni, anche nel recente New York At Night https://discoclub.myblog.it/2020/05/20/dopo-40-anni-di-grandi-canzoni-unaltra-splendida-new-york-city-serenade-willie-nile-new-york-at-night/ , e ovviamente alcune le ritroviamo riproposte nel tributo, strutturato in due CD, per un totale di ventisei brani (25 in realtà perché uno si ripete con due diverse versioni). Per mia comodità, suddivido i partecipanti in due gruppi, le vecchie glorie, con nomi illustri nell’ambito del rock e del folk, e gli sconosciuti ai più, tra cui troviamo già tante belle sorprese, al punto da stimolare la ricerca, anche se non facile, di loro precedenti produzioni. Sul primo dischetto si mettono in bella mostra cinque band emergenti dotate di buon sound ed idee, a cominciare dai Leland Sundries, quintetto di Brooklyn, che rivisitano The Day I Saw Bo Diddley In Washington Square inserendo degli incisi ritmici tipici del protagonista del titolo (pensate a Mona o Not Fade Away) ottenendo un effetto notevole. Oppure i Quarter Horse di Long Island che rifanno When Levon Sings (dedicata al compianto Levon Helm) con un adeguato sound elettroacustico e il mandolino in primo piano a condurre la danza. Gli XL Kings ripescano dal mitico disco d’esordio di Willie That’s The Reason, con una discreta atmosfera sixties, ma meglio fanno gli Iridesense con History 101, mostrando grinta e personalità da vendere, guidati dalla brava vocalist Tara Eberle.

Chiude la cinquina una vecchia conoscenza dei locali di Long Island, il chitarrista Russ Seeger, che coi suoi Four Amigos ci regala una vivida versione della bellissima On Some Rainy Day. Tra i solisti troviamo una buona rappresentanza femminile, a cominciare dalla brillante Emily Duff, che, come una novella Michelle Shocked, ripropone Hell Yeah facendone una sorta di gospel acustico, con tamburello e bottleneck. Caroline Doctorow possiede una voce fresca come l’acqua di un ruscello di montagna e rifà con adeguata intensità la malinconica Lonesome Dark Eyed Beauty. Jen Chapin, figlia del famoso songwriter Harry Chapin, vanta buoni precedenti in ambito folk e jazz e qui ci offre una sentita cover per chitarra e voce di una ballad certo non tra le più note del vasto catalogo di Nile, The Crossing (era su American Ride). Annie Mark, cantautrice roots-rock, introduce col banjo la scoppiettante Everybody Needs a Hammer dandone una versione discreta che non sfiora però la trascinante forza dell’originale. Tra i maschietti, invece, si mettono in luce il giovane Pete Mancini (quattro album alle spalle) con una tonica ed efficace Asking Annie Out, Allen Santoriello che trasforma House Of A Thousand Guitar in una divertente honky tonk ballad e il veterano Gene Casey (definito the premier barroom troubadour of Eastern Long Island) che non sfigura riproponendo in stile Johnny Cash quel piccolo capolavoro che è American Ride.

Se grazie ai piccoli calibri l’operazione può già dirsi riuscita, dopo i nomi che ora comincio ad elencarvi vi convincerete che questo Willie Nile Uncovered vale assolutamente la spesa., non indifferente. Richard Barone, già leader della new wave band The Bongos, noto anche come produttore e regista teatrale, si confronta con l’inno Street Of New York e ne realizza una versione piacevole irrobustita da chitarre e batteria, arricchita pure da un godibile video. Niente a che vedere però con il pathos dell’originale, per sola voce, piano e armonica. Alcuni dei vecchi amici di Willie, conosciuti all’inizio della carriera, negli anni in cui frequentava il Greenwich Village esibendosi nei più noti locali, hanno voluto omaggiare il suo talento compositivo, primo fra tutti John Gorka, che mette tutta la sua immensa classe nella limpida rivisitazione di I Don’t Do Crazy Anymore. Lucy Kaplansky, di cui vi invito a riscoprire l’intera discografia, fa scorrere più di un brivido con una versione per solo piano, voce e archi della liricissima When The Last Light Go Out On Broadway, mentre il valentissimo Richard Shindell reinterpreta da par suo la commovente On The Road To Calvary dedicata dal suo autore alla tragica e prematura fine di Jeff Buckley.

Un secondo trittico cantautorale di notevole spessore vede protagonisti Rod Picott, Slaid Cleaves e Dan Bern: il primo scandisce con voce calda e partecipe le parole di Looking For Someone, su un arrangiamento ridotto all’osso, il secondo si avvale di una bella lap steel guitar per aggiungere un ulteriore tocco romantico alla dolce Sideways Beautiful e il terzo dà un po’ di fuoco alle polveri con la bella cavalcata elettrica Life On Bleeker Street, rumorosa e nostalgica rivisitazione della vita trascorsa nel Village. Detto che il bravo Nils Lofgren si cimenta in una vibrante (ma un tantino troppo ampollosa) versione di All God’s Children, il cui testo a parer mio andrebbe insegnato nelle scuole, vado ad introdurvi l’ultimo trittico di interpreti che a parer mio fanno arrivare al top questa già ottima raccolta. Elliott Murphy, solo per il fatto che da tanti anni ormai risiede a Parigi, non poteva che scegliere Les Champs Elysees di cui converte la furia quasi punk in pacato humor, reinventandola come una ballad acustica con tanto di azzeccatissimo trio d’archi sullo sfondo e il solito prezioso intervento chitarristico di Olivier Durand. Chapeau, monsieur Murphy!

Vagabond Moon è il primo grande rock anthem di Willie Nile sempre presente nei suoi concerti come lo è Born To Run in quelli del Boss. Rallentarla fino a farla diventare una gospel song, come fa qui il redivivo Kenny White (cantautore newyorkese di culto), potrà sembrare a molti un sacrilegio, ma funziona, eccome se funziona! L’uso delle voci e del piano è splendido, pregevoli gli interventi di hammond, mandolino e chitarra elettrica, una cover davvero da applausi.

Come merita applausi pure James Maddock, (di cui da poco è uscito il nuovo brillante CD No Time To Cry, a breve la recensione sul Blog) che trasforma in oro tutto ciò che tocca, compresa la deliziosa She’s Got My Heart, che interpreta con il consueto timbro roco spezzacuori e un arrangiamento perfetto. Ho tenuto per ultimo non a caso il leone inglese Graham Parker che si impadronisce del live anthem One Guitar come fosse una cosa sua, cavalcando il pezzo con l’energia di un ventenne, un vero esempio di illuminata longevità artistica. Cosa che manca totolmente al simpatico bassista della band di Willie Johnny Pisano, a cui è stata data l’occasione di registrare una sua versione reggae della suddetta One Guitar, più inutile che dannosa. Né questa né la scialba When One Stands interpretata da tale Henroy Vassell, che cerca, senza riuscirci, di fare il verso a Garland Jeffreys, possono inficiare il giudizio più che positivo su questo doveroso tributo a uno dei più grandi autori di rock stories dei nostri tempi. God bless Willie Nile!

Marco Frosi

Già Le Canzoni Sono “Belline”, Ma Lei E’ Bravissima! Emma Swift – Blonde On The Tracks

emma swift blonde on the tracks

Emma Swift – Blonde On The Tracks – Tiny Ghost CD

Se non avete mai sentito nominare Emma Swift non dovete preoccuparvi, in quanto stiamo parlando di una singer-songwriter australiana (ma che da anni vive a Nashville) che è discograficamente ferma all’EP d’esordio omonimo del 2014, al quale hanno fatto seguito solo un paio di singoli incisi con la collaborazione del noto musicista britannico Robyn Hitchcock, che tra parentesi è legato ad Emma anche dal lato sentimentale, visto che vivono insieme a Nashville (e bravo Robyn: oltre al fatto che è molto più giovane, la Swift è pure carina). Dopo ben sei anni Emma si fa dunque viva con il suo primo vero album, e come il titolo Blonde On The Tracks può far intuire si tratta di un disco composto interamente da canzoni di Bob Dylan, grande passione sia di Emma che di Robyn (il quale aveva dedicato al Vate un intero live uscito nel 2002, Robyn Sings), un lavoro al quale la bionda cantautrice aveva iniziato a pensare nel 2017 ma che si è decisa a mettere a punto solo qualche mese fa “approfittando” del lockdown.

Io sono uno che appena sento odore di Dylan rizzo le antenne, ma una volta ultimato l’ascolto di questo album non posso che esprimere la mia positiva sorpresa: Blonde On The Tracks è infatti un disco davvero molto bello, con otto canzoni una più bella dell’altra (e fin qui niente di nuovo), ma quello che più mi stupisce è la bravura di Emma (che, ripeto, non conoscevo) nell’interpretarle, grazie ad una bella voce limpida, espressiva ma anche seducente e ad un background strumentale molto classico basato sulle chitarre (lo stesso Hitchcock e Pat Sansone, membro dei Wilco e produttore dell’album), steel guitar (Thayer Serrano), piano ed organo (ancora Sansone) e la sezione ritmica di Jon Estes al basso e Jon Radford alla batteria. La bravura di Emma è stata anche quella di non aver stravolto le canzoni proposte, ma nello stesso tempo aver dato un tocco personale pur rispettando le melodie originali, con il risultato finale di aver realizzato un disco che mi sento di consigliare senza remore ad ogni fan del grande Bob (copertina a parte, che sembra realizzata da un bambino dell’asilo alle prese con un programma di Photoshop taroccato).

L’inizio del CD con Queen Jane Approximately (molti dei brani scelti sono rivolti al sesso femminile, ma Emma non si fa molti problemi e le ripropone con il testo identico) è splendido, ed anche in maniera decisa: l’arrangiamento è byrdsiano al 100%, con quel suono di chitarra 12 corde che sembra appartenere proprio a Roger McGuinn, e la Swift mostra di avere una voce davvero bellissima. La canzone è già grande di suo, ma questa interpretazione è pressoché perfetta. Emma con questo album vince anche un immaginario premio per essere stata la prima a proporre un pezzo tratto dall’ultimo capolavoro dylaniano Rough And Rowdy Ways: I Contain Multitudes è il brano che apre quel disco straordinario, ed Emma ne rispetta l’atmosfera intima performandolo per sola voce e chitarra acustica, con gli altri strumenti che entrano con discrezione solo nei due bridge. Eppure la canzone emerge alla grande, e buona parte del merito va alla prestazione vocale da brividi.

Si torna nei sixties con One Of Us Must Know (da Blonde On Blonde, del quale, molti non lo sanno, era il primo singolo), che inizia ancora con la voce circondata dal minimo indispensabile, con una steel che miagola sullo sfondo ed un pianoforte che segue con sicurezza la melodia, fino allo splendido ritornello full band. Visto il titolo del CD non poteva mancare almeno un brano da Blood On The Tracks (in realtà ce ne sono due), e Simple Twist Of Fate è uno dei tanti capolavori di quel disco: Emma la rilegge in maniera classica, voce, due chitarre e poco altro, con la bellezza della canzone che fa il resto. Dicevo dei brani rivolti alle donne: Sad Eyed Lady Of The Lowlands è uno dei casi più leggendari in tal senso in quanto Dylan l’aveva dedicata alla moglie Sara, e la versione della Swift rispetta la durata fiume di quasi dodici minuti dell’originale ma non annoia, grazie al suo arrangiamento da sontuosa ballata folk-rock cantata al solito in maniera sopraffina.

Un’altra canzone “al maschile” è The Man In Me, un pezzo quasi pop per gli standard di Dylan (era su New Morning), e la rilettura è decisamente piacevole ed orecchiabile, merito anche di una veste sonora molto anni settanta con chitarre, piano ed organo sugli scudi. Chiudono l’album Going Going Gone, altra versione splendida e toccante di un pezzo non molto noto di Bob, ma che in questa rilettura fluida brilla particolarmente rivelandosi come una delle più riuscite, e lo stesso vale per You’re A Big Girl Now, per la verità abbastanza simile all’originale nell’arrangiamento (e quindi molto valida anche questa). Blonde On The Tracks non è quindi “solo” un album di cover dylaniane, ma un disco bellissimo in cui finalmente scopriamo il talento di Emma Swift come cantante ed interprete, nella speranza di poter finalmente apprezzare al più presto anche il suo lato cantautorale.

Marco Verdi

Questa Volta Un Diverso Modo Di Vedere Il Blues, Ma Sempre Affascinante! Fabrizio Poggi – For You

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Fabrizio Poggi – For You — Appaloosa Records/Ird

Lo avevamo lasciato tre anni fa, con l’album registrato in coppia con Guy Davis Sonny & Brownie’s last train, poi entrato nella cinquina della categoria Best Traditional Blues Album ai Grammy Awards del 2018, vinto dai Rolling Stones https://discoclub.myblog.it/2017/11/28/se-amate-il-blues-quasi-una-coppia-di-fatto-guy-davis-fabrizio-poggi-sonny-brownies-last-train/ . Quello era il capitolo 22 della lunga carriera di Fabrizio Poggi, contrassegnata soprattutto dal Blues: spesso e volentieri con i suoi Chicken Mambo, ma anche con innumerevoli collaborazioni con i musicisti più disparati, la più recente, prima del disco con Davis era stata quella con le Texas Blues Voices, ma in passato anche tuffi nella canzone popolare con i Turututela, con Francesco Garolfi nel semididattico The Breath Of Soul, storie e leggende relative all’armonica a bocca, un album come Il Soffio Della Libertò: il blues e i diritti civili, in questi tempi tornato quanto mai di attualità.

Insomma una produzione sterminata in quasi 30 anni di attività discografica; i suoi dischi sono stati molto apprezzati in giro per il mondo, e soprattutto negli States, dove ha raccolto vari riconoscimenti nelle manifestazioni dedicate al blues. Per l’occasione Fabrizio Poggi tenta una strada musicale leggermente diversa dal solito: mantenendo la stella polare sulle 12 battute, il musicista di Voghera inserisce, insieme all’ingegnere del suono, arrangiatore e bassista Stefano Spina, che produce l’album, un approccio dove confluiscono anche elementi e sfumature jazz e rock, per altro presenti, magari in misura minore anche in passato, oltre agli immancabili tocchi gospel soul. Insomma forse un disco meno immediato e carnale, ma più raffinato e ricercato anche nei suoni, diverso ma sempre riconducibile al suo stile. Dieci brani, tra cui la title track For You di Eric Bibb, nei quali la strumentazione prevede l’uso del contrabbasso, suonato dal musicista jazz pavese Tito Mangialajo, una piccola sezione fiati con Tullio Ricci al sax e Luca Calabrese al sax, Stefano Intelisano al piano in For You, e Pee Wee Durante all’organo, Enrico Polverari alle chitarre, e in un paio di brani Arsene Duevi, voce, oltre ad un consistente coro gospel.

Il disco è stato concepito e realizzato prima dell’arrivo della pandemia, ed esce curiosamente (o no) a pochi giorni dal 1° luglio, data del 62° compleanno di Fabrizio, senza dimenticare i temi sociali ed umanitari da sempre cari a Poggi, che nelle note del libretto ci dice che “Questo è un disco “per”: per te, per noi, per tutti. Perché uniti ce la faremo” Si diceva dieci canzoni, tra originali, tradizionali arrangiati e altro: dall’iniziale Keep On Walkin, una ballata notturna e jazzy, scandita dal contrabbasso, con il sax che interagisce con l’armonica, una elettrica minacciosa sullo sfondo, suonata da Giampiero Spina, mentre Poggi declama in modo quasi piano il testo carico di significati gospel, con If These Wings che confluisce nel precedente senza soluzione di continuità e la stessa strumentazione, con la tromba al posto del sax. La breve Chariot, cita il classico gospel Swing Low Sweet Chariot, solo voce, armonica e contrabbasso, mentre Don’t Get Worried è un blues classico elettrico e tirato, con la chitarra solista veemente e quasi acida che si fa sentire, e anche il lento minaccioso I’m Goin’ There si riallaccia agli stilemi abituali del blues, quello più rigoroso, magari con richiami arcani, con l’immancabile crescendo e il call and response tra voce, armonica e chitarra.

For You è una bellissima e deliziosa ballata pianistica con sezione archi e armonica, cantata con il “coeur in man” come si dice in Lombardia, che anche in questo caso confluisce nella successiva My Name Is Earth, un fluente gospel dove si inseriscono via via, coro maestoso, sezione ritmica, chitarra, armonica, organo, in un crescendo di grande fascino. Just Love è il classico blues che ti aspetteresti da Fabrizio, magari con una strumentazione più ricca, ma tipica del suo repertorio, Sweet Jesus, con quello che sembra un ukulele, è un altro gospel, caldo, sereno ed avvolgente, con i piccoli soffi dell’armonica a tipicizzarlo, lasciando la chiusura a It’s Not Too Late, altra gospel song che parte arcana su un coro a bocca chiusa e la voce di Arsene , poi introduce, armonica, organo, sezione ritmica, archi e un approccio corale e solenne. Diverso dal solito ma un ennesimo bel disco di Fabrizio Poggi.

Bruno Conti

 

 

Dal Cuore Dell’Irlanda Una Toccante Serata A Scopo Benefico. Mick Flannery – Alive Cork Opera House 2019

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Mick Flannery – Alive Cork Opera House 2019 – Rosaleen Records – CD – LP

Sono passati quindici anni da quando Mick Flannery ha pubblicato il suo album di debutto il bellissimo (ma passato quasi inosservato) Evening Train (05), comunque era già chiaro fin da allora che il nativo di Blarney, nei suoi testi e nelle sue melodie era influenzato dai Van Morrison, Leonard Cohen, Tom Waits (tutti grandi di quel periodo passato ma da non dimenticare), con una voce “burberamente” affascinante che completava il suo stile di “songwriter”. Dall’uscita del suo ultimo disco omonimo dello scorso anno https://discoclub.myblog.it/2019/07/11/dalla-contea-di-cork-torna-lultimo-storyteller-mick-flannery-mick-flannery/ , il buon Mick con la sua band, ha eseguito oltre 100 concerti tra Irlanda, Regno Unito, Stati Uniti e Canada, e questo CD che andiamo a recensire è un lavoro completamente indipendente con 17 tracce live registrate lo scorso anno, nel mitico Opera House Theatre di Cork, con la meritevole iniziativa di Flannery di devolvere i proventi delle vendite del disco a tutti i componenti della sua band (compresa anche la troupe), che improvvisamente, causa “Covid-19”, si sono ritrovati senza lavoro nei mesi seguenti. Poteta acquistarlo qui https://mickflannery.bandcamp.com/album/alive-cork-opera-house-2019

Così la sera del 26 Settembre 2019, Flannery voce, chitarra e pianoforte si porta sul palco la sua fidata band composta da Alan Comerford alla chitarra elettrica, Mike O’Connell al basso, Phil Christie alle tastiere, Christian Best alla batteria, Matthew Berrill al sassofono e clarinetto, Karen O’Doherty al violino, e come vocalist sua zia Yvonne Daly, sotto la supervisione dell’ingegnere del suono e produttore John Fitzgerald. Il concerto si apre con uno dei brani più toccanti di Flannery, Wasteland tratta dall’album omonimo dello scorso anno, con un suono rock più potente e che termina con un assolo di chitarra, cosa che si ripete nella “morrisionana” There Must Be More con tanto di sassofono in sottofondo, per poi recuperare dall’album di debutto una sempre commovente Take It On The Chin, a cui segue Get What You Give, riletta con un ricco tessuto sonoro. Con One Of The Good Ones si scopre la parte più rock di Mick, per poi tornare subito alle atmosfere più calde e ovattate di una sofferta I’ll Be Out Here valorizzata dal sassofono di Berrill e dalla soave voce di zia Yvonne, e dopo una presentazione parlata va a recuperare dall’album Red To Blue, un valzer romantico come Boston, solo pianoforte e voce, mentre How High viene presentata con il coinvolgimento di tutta la band.

Dopo una breve conversazione con il pubblico, Flannery recupera da Evening Train un altro dei suoi brani più noti e amati dal pubblico, la sempre commovente In The Gutter, per poi divertire i presenti con il testo spiritoso di una divertente e inedita Christy Skull Hits, ritornare nei suoi panni abituali con l’ariosa melodia di Come Find Me, e meritoriamente portare alla luce da un EP poco conosciuto come Mickmas (18), una potente Star To Star cantata e suonata al meglio con in evidenza il sassofono del bravo Berrill nella parte conclusiva. Dopo la presentazione dei componenti della band, la parte finale del concerto vede Flannery saccheggiare un album importante come Red To Blue con l’omonima title track, con una sezione ritmica più potente, proseguire nel segno del rock con No Way To Live, commuovere il pubblico in sala con le note lamentose del sassofono di una Small Fire dall’intrigante finale “psichedelico”, e andare a chiudere un concerto splendido con I Own You, dove si manifesta ancora una volta la parte meno conosciuta e più “rock” del cantautore Irlandese.

Per il sottoscritto uno dei pericoli degli album dal vivo è mettere fianco a fianco le canzoni dell’ultimo album in studio, con quelle registrate magari quindici anni prima, ma in questo caso specifico il pericolo non sussiste, in quanto c’è sempre stata qualità in tutti i suoi album nel corso degli anni, compreso questo Alive, At Cork Opera House, ulteriore esempio dell’immenso talento di Mick Flannery come cantautore, che lo fa aggiungere a quella lunga lista di piccoli e grandi tesori nascosti nel panorama della musica Irlandese.

Tino Montanari

Proseguono Le Ristampe Deluxe “Random” Degli Stones Con Uno Dei Loro Dischi Più Sottovalutati. The Rolling Stones – Goats Head Soup

rolling stones goat's head soup box

The Rolling Stones – Goats Head Soup – Rollig Stone Records/Polydor/Universal CD – LP – 2CD Deluxe – 2 LP – 4LP – Super Deluxe 3CD/BluRay Box Set

Le ristampe in versione deluxe degli album che i Rolling Stones hanno pubblicato per la loro etichetta personale (quindi dal 1971 in poi) non hanno mai seguito un criterio cronologico, e neppure si sono basate su anniversari speciali: si è partiti nel 2010 con Exile On Main Street, seguito un anno dopo da Some Girls, entrambi in versione doppia, mentre nel 2015 è uscito il primo cofanetto, inerente a Sticky Fingers. Ora è la volta della riedizione, già annunciata da qualche mese, di Goats Head Soup, album del 1973 che negli anni è stato più volte indicato come disco minore nell’ambito della discografia delle Pietre. Io non sono d’accordo, in quanto stiamo parlando di un ottimo album di rock’n’roll nella più pura tradizione dei nostri, che all’epoca aveva avuto la sfortuna di uscire dopo quattro dischi da cinque stelle pubblicati uno di fila all’altro (caso più unico che raro nella storia della musica), cioè Beggars Banquet, Let It Bleed ed appunto Sticky Fingers ed Exile On Main Street. Ed io ci metterei pure Get Yer Ya Ya’s Out, che nel 1970 aveva inaugurato la stagione dei grandi album dal vivo dei seventies.

Non dimentichiamo che in questo periodo i nostri erano in stato di grazia ed avevano tra le loro fila Mick Taylor, cioè il miglior chitarrista che abbiano mai avuto; in più, in Goats Head Soup Mick Jagger e soci erano coadiuvati da ben tre pianisti della Madonna (Nicky Hopkins, Billy Preston e Ian Stewart), oltre che dai fiati di Bobby Keys, Jim Horn e Chuck Finley, il tutto sotto la produzione attenta di Jimmy Miller. La ristampa odierna esce in ben sei configurazioni diverse, ma mi soffermerei sulle più interessanti: quella in doppio CD (o doppio LP), ed il solito cofanetto Super Deluxe con libro accluso che contiene tre CD ed un BluRay poco interessante in quanto presenta l’album originale in due differenti configurazioni audio ed i video di tre canzoni (ed esiste anche la controparte del box in quadruplo LP). Goats Head Soup (inciso originariamente tra Giamaica, Los Angeles e Londra ed oggi remixato ex novo da Giles Martin, figlio del grande George) è il disco di Angie, una delle ballate più famose dei cinque, molto popolare anche dalle nostre parti, che stranamente ha sempre incontrato l’ostracismo dei critici più integralisti (a me è sempre piaciuta assai).

Gli altri due pezzi più noti, ancora oggi ripresi saltuariamente dal vivo, sono il rock-blues appicicaticcio Dancing With Mr. D. e l’adrenalinico funk-rock Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker); ma poi c’è 100 Years Ago che è una splendida rock ballad dal caldo suono di stampo sudista, lo slow Coming Down Again (in cui Jagger duetta con Keith Richards), che ha poco da invidiare ad Angie, il puro rock’n’roll di Silver Train con la slide tagliente di Taylor, il cadenzato e godereccio blues pianistico Hide Your Love, l’intensa Winter, una ballatona elettrica sullo stile di Sway, la corale e vagamente psichedelica Can You Hear The Music e la diretta ed irresistibile Star Star, che risente dell’influenza di Chuck Berry.

Il secondo CD accluso in questa riedizione, a differenza di quelli aggiunti alle ristampe di Exile On Main Street e Some Girls che contenevano in pratica un intero disco inedito, presenta solo tre brani mai sentiti prima ma per il resto troviamo sette pezzi che, pur gradevoli, si possono definire riempitivi di lusso. Il dischetto si apre con Scarlet, che degli Stones vede presenti solo Jagger e Richards in quanto il terzo chitarrista e nientemeno che Jimmy Page e la sezione ritmica di Bill Wyman e Charlie Watts è sostituita dall’ex Traffic e Blind Faith Rick Grech e dal batterista Bruce Rowland, che all’epoca era appena entrato nei Fairport Convention: Scarlet è un brano funkeggiante, vibrante e robusto e dal buon refrain corale, che è anche dotato di un ottimo approccio chitarristico (e ci mancherebbe). All The Rage e Criss Cross sono due sanguigni e coinvolgenti rock’n’roll come solo i nostri sanno fare (più countreggiante il primo, più “sporco” ed annerito il secondo), ed è strano che i cinque non li abbiano mai ripresi in seguito. Il resto del CD inizia con un interessante demo per voce e piano (suonato da Hopkins) di 100 Years Ago e prosegue con le versioni strumentali, che in realtà sono delle backing tracks, di Dancing With Mr. D., in cui possiamo apprezzare maggiormente il gran lavoro di Taylor alla slide, e di Heartbreaker.

Chiudono il dischetto quattro mix alternativi (tre dei quali preparati dal grande Glyn Johns nel 1973 ma mai utilizzati) di Hide Your Love, Dancing With Mr. D., Doo Doo Doo Doo Doo e Silver Train, che non aggiungono granché alle versioni conosciute. Ed eccoci al terzo CD, che è esclusivo per il box e che quindi per averlo dovete spendere circa cento euro in più: si tratta del famoso concerto dell’ottobre 1973 a Bruxelles già pubblicato in passato solo come download dai nostri col titolo Brussels Affair, e finora disponibile su CD solo in una rara edizione giapponese (che personalmente possiedo, e quindi stavolta mi sono risparmiato il salasso accontendandomi della versione doppia). Io ho sempre avuto grande rispetto dei soldi altrui (ancora di più in questo momento complicato), ma se dovessi fare un discorso puramente musicale vi direi senza remore di accaparrarvi il cofanetto, dal momento che in quegli anni gli Stones avevano forse raggiunto il loro picco assoluto per quanto riguarda le performance dal vivo (Ladies And Gentlemen docet), e questo Brussels Affair conferma la tendenza affermandosi come uno dei migliori live album di sempre dei nostri.

Un concerto esplosivo ed adrenalinico nel quale la furia rocknrollistica del quintetto viene fuori alla grandissima, e che con la scusa della ristampa di Goats Head Soup mi sono andato a risentire più che volentieri. Già l’uno-due iniziale di Brown Sugar e Gimme Shelter è micidiale, ma poi arriva una travolgente Happy (perfino Richards canta bene) ed una delle migliori Tumbling Dice mai sentite. E’ la volta di quattro estratti da Goats (Star Star, Dancing With Mr. D., Doo Doo Doo Doo Doo ed Angie), che stanno benissimo anche in mezzo a classici senza tempo: Angie, poi, è forse meglio di quella in studio. Una splendida You Can’t Always Get What You Want precede una monumentale Midnight Rider, che già allora era un tour de force irresistibile ed un magnifico showcase per la tecnica chitarristica di Taylor. Dopo una Honky Tonk Women coinvolgente al massimo il finale è di quelli che lasciano senza fiato, una sequenza al fulmicotone formata da All Down The Line, Rip This Joint, Jumpin’ Jack Flash e Street Fighting Man: non c’è Satisfaction ma non importa, il concerto rimane da cinque stelle, ed è un valido incentivo per “svenarsi” un pochino ed accaparrarsi il cofanetto.

Marco Verdi