Uno Degli Ultimi “Fuorilegge”… Scott McClatchy – Six Of One

scott mcclatchy six of one

Scott McClatchy – Six Of One – Lightning In A Bottle Records

Eccone un altro che dall’inizio dell’avventura di questo Blog colpevolmente non abbiamo mai censito. Stiamo parlando di Scott McClatchy, rocker di Philadelphia che inizialmente ha fatto per un certo periodo il band leader nel gruppo degli Stand, per poi trasferirsi a New York inventandosi una carriera come chitarrista, fatto che lo ha messo in contatto con alcuni musicisti della grande mela, come Scott Kempner (Del Lords), Dion e Willie Nile. Il suo esordio da solista avviene con il positivo Blue Moon Revisited , con uno stile che accomuna rock , folk e spruzzate di country, con John Fogerty e Bruce Springsteen nel cuore, seguito da Redemption (02) che è ancora meglio, un disco dal suono brillante tra acustico e elettrico, suonato in modo splendido da alcuni musicisti di rilievo tra i quali i citati Scott Kempner e Willie Nile (con una stratosferica versione di The Weight della Band). Con Burn This (06) il livello non scende di un centimetro dai due lavori precedenti, un suono come al solito specificamente roots, con le immancabili “street songs” e la preziosa cover che rimanda ancora a Springsteen, con una torrenziale No Surrender, per poi arrivare al seguente A Dark Rage (10) dove McClatchy si innamora dei gruppi irlandesi e mischia il suo rock con i suoni folk, album dove si trovano una poco nota Sally MacLelanne dello “sdentato” Shane MacGowan dei Pogues e una American Land del Boss in una versione da Temple Bar di Dublino.

A dieci anni di distanza dal precedente (ha avuto gravi motivi di salute, infatti gli è stato diagnosticato un cancro), ritorna a farsi sentire con questo nuovo Six Of One, composto da una dozzina di canzoni “democraticamente” suddivise in sei brani originali e in sei immancabili cover d’autore (Graham Parker, Stephen Stills, Steve Forbert, Robbie Robertson, Butch Walker e Ben Nichols dei Lucero), suonate al meglio con il contributo di ospiti quali Eric Ambel e Scott Kempner ( in pratica ha riunito i Del Lords), e Tommy Womack. Si capisce immediatamente il suono dall’iniziale Rock & Roll Romeo, un brano rock corale esuberante degno del miglior Southside Johnny, per poi andare a recuperare un piccolo classico di Tony Johnson Midnight In Memphis (segnalo una versione di Bette Midler nel film musicale The Rose), che viene riproposta al meglio con largo uso di fiati e cori del periodo, mentre la seguente Wedding Day Dance mischia folk e country in modo brillante (unica pecca nel ritornello assomiglia un po’ troppo a Blowin’ in The Wind di Dylan), e ancora andare a rispolverare dal secondo album di Graham Parker una Heat Treatment che viene riletta pari pari all’originale, dove, come allora, è impossibile non muovere il piedino.

Si riparte con una dolce Break Even, una nuova composizione voce e chitarra che dà la misura della bravura di McClatchy, seguita da una intrigante variante di Judy Blue Eyes di Crosby, Stills & Nash, che diventa Suite Laura Blue Eyes, rivoltata come un calzino e divisa in due parti, parte come folk acustico e termina come rock elettrico (geniale). Un omaggio anche per un grande autore come Ben Nichols dei Lucero, con una sontuosa versione di Smoke (la trovate su 1372 Overton Park (09), per poi arrivare ad una Ophelia, che non ha bisogno di presentazioni, uno dei più grandi successi della Band, molto simile all’originale e come sempre suonata con grande feeling dai musicisti, a supporto della voce di Scott. Ci si avvia alla fine del lavoro con il rock urbano di Prayers, con un violino che impazza nella parte finale https://www.youtube.com/watch?v=XJBX7x3jnws , a cui segue il suono “garage” di una sorprendente Summer Of ‘89 recuperata dall’album The Spade (11) del poco conosciuto Butch Walker, e il sano rock’n’roll alla Little Steven di una infuocata Roving Eye, e andare a chiudere con una bellissima Grand Central Station di Steve Forbert (recuperatela su Alive On Arrival (78)), una grande “ballad” eseguita con chitarra, armonica, e voce da Scott, che spazia su un tessuto melodico immediato.

Dopo vari ascolti, questo Six Of One può essere defnito il “Santo Graal” per gente che oltre a Bruce Springsteen ha sugli scaffali CD di Southside Johnny, Little Steven, Willie Nile (già citati), e aggiungerei anche Joe Grushecky, Scott Kempner, Nils Lofgren e altri, e per un “tipo” che in una ventina d’anni abbondanti di carriera ha sfornato solamente 5 dischi, non è certamente un demerito. Come è certo che i dischi di Scott McClatchy non cambieranno la vita di nessuno, ammesso che si riescano a recuperare, sarebbe riduttivo e ingeneroso non dargli la possibilità di almeno un ascolto, in quanto tutta la sua produzione, che spazia tra rock, folk, country, e irish-sound, ha un suono elettricoacustico decisamente ben impostato, che per chi scrive non ha niente da invidiare a tanti sopravvalutati “rockers”. Provare per credere!

Tino Montanari

Mentre Il Capo Non C’è Mi Faccio Un Bel Disco Dal Vivo. Nils Lofgren – Weathered

nils lofgren weathered

Nils Lofgren – Weathered Live – 2 CD Cattle Track

In questi tempi nei quali il suo datore di lavoro Bruce Springsteen è stato impegnato con altri progetti, e quindi la E Street Band era in stand-by, Nils Lofgren ha avuto molto più tempo per dedicarsi ai suoi progetti solisti, che peraltro avevano preso l’abbrivio già nel 2014 con la pubblicazione dell’ottimo box retrospettivo Face The Music. In attesa che il grande capo li chiami di nuovo all’opera (e si vociferava che il Boss si stesse disputando l’uso del loro studio di registrazione casalingo, dove la moglie Patti Scialfa sta completando il suo album, per non meglio specificati progetti, leggi nuove canzoni *NDB Tra pochi giorni una realtà con il nuovo album Letter To You), Nils Lofgren ha pubblicato nel 2019 il suo album solo Blue With Lou https://discoclub.myblog.it/2019/05/08/non-un-capolavoro-ma-un-disco-onesto-e-personale-nils-lofgren-blue-with-lou/ , comprendente anche alcuni brani rimasti inediti dalla sua passata collaborazione con Lou Reed.

Ovviamente, visto che non c’era ancora la pandemia, Nils ha pensato bene di portare in tour quell’album e anche molti brani del suo enorme repertorio (oltre trenta album tra studio e live, compresi i Grin) : e per fare questo ha scelto una formidabile band per accompagnarlo, rispolverando dal doppio dal vivo del 1977 Night After Night il fratello Tom Lofgren a tastiere e chitarra, e una sezione ritmica con Kevin McCormick al basso e Andy Newmark alla batteria, già utilizzata nel disco in studio, e molte altre volte in passato, come pure la vocalist aggiunta Cindy Mizelle. Sedici canzoni in tutto, eseguite con foga e classe: Lofgren non hai mai avuto una grande voce, per quanto subito riconoscibile, ma come chitarrista è uno dei migliori su piazza, come mette subito in chiaro la potente Daddy Dream dal disco Wonderland del 1993, la ritmica scandisce il tempo, la Mizelle “aiuta” e sostiene Nils con la sua voce ricca di soul, ma quando il leader inizia a mulinare la sua chitarra in una lunga serie di assoli nei nove minuti del brano, il pubblico presente, pure non molto numeroso pare di capire, non può non apprezzare, fratello Tom aggiunge l’organo e il brano fila liscio come l’olio.

Sempre dallo stesso album (dove apparivano Newmark e McCormick) arriva anche Across The Tracks, tirata e a tutto riff, benché più contenuta come durata, Rock Or Not è una delle canzoni nuove, sempre aggressiva e tirata, più immediata della versione in studio, che lascia poi spazio a Girl In Motion, uno dei brani migliori di Silver Lining del 1991, qui in versione monstre da oltre 14 minuti, con la band che dà il meglio di sé, inclusi Newmark e McCormick che apparivano di nuovo nel disco originale. dove Kevin era anche il co-produttore, con Lofgren che racconta un episodio dell’epoca relativo a Ringo Starr, presente nell’album, ma a quanto mi risulta non in questo pezzo, ma si sa che le nebbie del tempo confondono le idee, e la canzone rimane comunque eccellente, soprattutto in questa versione allungata con grande assolo di Nils. E sempre dallo stesso album molto buona anche una vibrante Walkin’ Nerve, cantata a due voci con la Mizelle, seguita da Too Many Miles, scritta in origine per Bonnie Bramlett, un sinuoso blues, sempre con notevole lavoro della solista, Too Blue To Play, dal nuovo album è una ballata acustica, con i fremiti soul di Big Tears Fall, in origine su Back It Up Live cantati dalla Mizelle.

Don’t Let Your Guard Down e la lunga e improvvisata Give, sono altre due delle collaborazioni con Reed, entrambe più vibranti ed incisive nelle versioni live. Tender Love era una ballata in duetto con la Bramlett, qui sostituita dalla Mizelle, forse un po’ troppo zuccherosa ma non disprezzabile, stesso discorso per Like Rain, vecchio brano anni ‘70, più incisivo, con la Mizelle che sovrasta Lofgren, ma nell’insieme non dispiace, gradevole anche No Mercy, una ballata rock più elettrica e con la chitarra che torna a brillare. Mind Your Own Business è una strana cover di un pezzo country di Hank Williams, cantata con i tre fratelli di Lofgren, non malvagia e con Nils che va di slide, ma non si capisce cosa c’entri con il resto, molto meglio la cover di Papa Was A Rolling Stone dei Temptations, con jam annessa, che poi confluisce nel gran finale di I Came To Dance, uno dei brani migliori in assoluto di Nils Lofgren, oltre dieci minuti di rock (and roll) a tutto tondo, con chitarra fumante e band in grande spolvero, che chiude un album dal vivo più che soddisfacente nell’insieme e che conferma la sua fama di performer.

Bruno Conti

Il Suono Degli Esordi Non C’è Più Ma La Signora Si Fa Ancora Apprezzare! – Joan Osborne – Trouble And Strife

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Joan Osborne – Trouble And Strife – Womanly Hip Records/Thirty Tigers

Sono passati ormai venticinque anni dal successo planetario di Relish e del singolo scala classifiche One Of Us, ma per fortuna Joan Osborne non ha perso entusiasmo e voglia di pubblicare nuove canzoni, nonostante l’anno travagliatissimo che stiamo vivendo. Dico per fortuna perché sarebbe un vero peccato non poter più ascoltare una voce come la sua, che, per timbrica, espressività e duttilità, ritengo tra le migliori in circolazione. Può permettersi di cantare qualunque cosa Joan, e anche se purtroppo sembra aver un po’ accantonato le sue origini di interprete rock blues, nel pop & soul che domina le sue ultime produzioni il livello non è mai sceso sotto il limite del buon gusto e del prodotto di classe. Dopo la buona parentesi del tributo al menestrello di Duluth, Songs Of Bob Dylan, pubblicato tre anni fa https://discoclub.myblog.it/2017/09/02/ci-mancava-giusto-un-altro-bel-tributo-joan-osborne-songs-of-bob-dylan/ , la Osborne è tornata a comporre ed incidere materiale originale nel suo studio di Brooklyn, riunendo per l’occasione un gruppo di musicisti affidabili e suoi collaboratori da parecchio tempo, i chitarristi Jack Petruzzelli, Nels Cline (Wilco) ed Andrew Carillo, il tastierista Keith Cotton, il bassista Richard Hammond e il batterista Aaron Comess (Spin Doctors).

Ne è scaturito un album dalle atmosfere piuttosto variegate, come il cursore che passa sulle frequenze di varie stazioni radio degli anni settanta, spaziando tra rock, country, blues, funk e persino un tocco di glam e disco. Il brano di apertura, Take It Any Way I Can Get It, potrebbe uscire da un qualunque lavoro della Tedeschi Trucks Band, caratterizzato com’è dal suono di chitarre smaccatamente southern e Joan lo interpreta da par suo supportata dalle quattro brillanti coriste, Catherine Russell, Ada Dyer, Martha Redbone e Audrey Martells. Le cadenze funky della successiva What’s That You Say, non tra le mie preferite a dire il vero, accompagnano la drammatica vicenda di Ana Maria Rea, messicana emigrata in Texas da bambina con la famiglia. E’ sua la voce che racconta in spagnolo sullo sfondo parte delle traversie che ha subito, concludendo con un significativo “no tengo miedo!” (non ho paura). Di abuso di potere si parla in Hands Off, un robusto blues rock che ricorda il Tom Petty di Mojo, in cui la voce della protagonista graffia come ai bei tempi degli esordi.

L’uso del sintetizzatore Prophet 6 da parte del tastierista Keith Cotton conferisce un gusto retro’ alla ritmica ballad Never Get Tired (Of Loving You), una accorata invocazione di stabilità in tempi così incerti, mentre per la title-track Trouble And Strife le chitarre tornano in primo piano con ottimi fraseggi all’interno di un robusto country-rock di matrice texana. Con la lenta e romantica Whole Wide World torniamo ai già citati seventies e in particolare allo stile dei gruppi di r&b che mietevano successi in quegli anni, come i Chi-Lites. In Meat & Potatoes invece, la Osborne sembra voler fare il verso a Prince, sua sicura fonte di ispirazione, ma il pezzo risulta piuttosto monotono e inconcludente. Molto meglio le sonorità luminose e piacevolmente psichedeliche di Boy Dontcha Know, che per strumentazione e struttura melodica rimanda a certe perle dei Big Star di Alex Chilton. Troviamo ancora del pop rock di pregevole fattura in That Was A Lie, che a dispetto della sua atmosfera solare nasconde un testo di aperta denuncia nei confronti della corruzione che Joan vede diffondersi nelle istituzioni americane. Il finale è affidato al gospel rock di Panama, il cui testo, ha dichiarato la sua autrice, è ancora una volta fortemente influenzato da Bob Dylan e dalla sua straordinaria capacità di proporre liriche al vetriolo all’interno di strutture musicali scarne e dirette come quelle del blues e del folk.

Con molti pregi e poche cadute di tono, questo Trouble And Strife può costituire una piacevolissima colonna sonora per questo difficile autunno e conferma Joan Osborne come una delle cantautrici più vitali ed interessanti del panorama americano oltreché interprete di gran classe.

Marco Frosi

 

Un Altro Grande Disco Di Una Delle Più Belle Voci Irlandesi! Mary Coughlan – Life Stories

mary coughlan life stories

Mary Coughlan – Life Stories – Hail Mary Records/Nova

L’ultimo disco di studio di Mary Coughlan, l’ottimo Scars On The Calendar, registrato in coppia con Erik Visser, era uscito nel 2015 https://discoclub.myblog.it/2016/03/29/due-grandi-voci-femminili-la-seconda-dallirlanda-la-billie-holiday-bianca-mary-coughlan-werik-visser-scars-on-the-calendar/ , ma nel 2018 la grande cantante irlandese ha pubblicato anche un CD dal vivo Live And Kicking, realizzato con la sua touring band nel maggio dell’anno precedente https://discoclub.myblog.it/2018/04/02/dopo-mary-black-unaltra-voce-irlandese-strepitosa-mary-coughlan-live-kicking/ . Per l’occasione torna a lavorare dopo molti anni con il produttore, nonché chitarrista e polistrumentista Pete Glenister: per chi non la conoscesse (spero in pochi, tra gli amanti delle buona musica), la Coughlan è una delle più popolari cantanti della Emerald Isle, benché non raggiunga forse la fama di Mary Black e Christy Moore, dalla vita travagliata e perigliosa, che vi ho raccontato in altre occasioni (e la sua, anche nella copertina dell’album, è una faccia che parla), costellata da tutte le disgrazie che possono capitare ad una donna, e anche qualcuna di più, ma che ha sempre saputo rialzarsi, e negli ultimi anni sembra avere trovato una serenità e una stabilità che le consentono di proporre la sua musica in modo più continuo.

Parte della critica irlandese ed inglese l’ha definita una sorte di controparte femminile di Tom Waits, forse più per il suo approccio intenso alle canzoni che per lo stile vocale vicino invece all’idea di una Billie Holiday bianca, per la sua vita drammatica, viscerale e spesso disperata. Il timbro vocale si è fatto ancora più “vissuto”, ma rimane sempre una delle cantanti più espressive in circolazione, sempre partecipe nel suo approccio: lo stile al solito miscela jazz non convenzionale, blues, canzone d’autore, un pizzico di swing, e predilige l’uso della ballata, elevata ad arte, come dimostra subito l’iniziale Family Life, un brano di Paul Buchanan dei Blue Nile, con il suo pianista Johnny Taylor che imposta un raffinato tema musicale, entrano gli archi sintetici, ma quasi umani, suonati da Glenister e poi entra la voce, molto vicina al microfono, che sembra sussurrare calda e suadente, ma interpreta mondi interi di sentimenti con una classe unica. Molto bella anche la successiva Two Breaking Into One, una canzone di tradimenti, dove Glenister suona tutti gli strumenti, con la voce che sale ad accarezzare l’ascoltatore in un valzer quasi stridente ed inconsueto di grande intensità e con dei bei crescendi strumentali, High Heel Boots, impreziosita da una piccola ma vivace sezione fiati, va alla grande di swing seguendo lo schioccare di dita, mentre i backing vocals di Holly Palmer sottolineano la vocalità potente e quasi divertita di Mary, e anche Forward Bound, con una ritmica tambureggiante, sempre interpretata dall’ottimo Glenister, è di nuovo allegra e brillante, con coretti old style di Frances Kapelle e Violet M. Williams.

Ma poi le cose si fanno di nuovo “serie” in una sublime Elbow Deep, una ballata notturna di Karrie O’Sullivan, dove il piano di Brian Connor e il contrabbasso di Dave Redmond, seguono le splendide divagazioni vocali di una ispirata Mary Coughlan, che cambia di nuovo registro nella elettrica ed elettrizzante I Dare You To Love Me, scritta da Pete Glenister che arrangia per la cantante irlandese un suono più moderno e contemporaneo, ma sempre ricco di fascino e di tocchi jazzy. In Do It Again la nostra amica di concede qualche gigioneria, ma con quella voce come si fa a dirle di no, e poi stiamo parlando di un pezzo di Gershwin; nella propria canzone Why Do All the Bad Guys Taste So Good rievoca i tempi in cui era più “cattiva” e birichina, sempre con le due ragazze delle armonie vocali che le danno man forte in un pezzo dal suono contemporaneo e pungente, poi si fa sconsolata e affranta in Safe And Sound, accompagnata solo dal piano di Taylor e dalle chitarre di Glenister, per una interpretazione intensa e profonda. Troviamo di seguito una splendida ed emozionante versione del brano No Jerico della folksinger Susan McKeown, dove Mary esplora le sue più recondite corde per regalarci una interpretazione da brividi, con un sontuoso arrangiamento di Glenister, a chiudere invece la leggera e disincantata Twelve Steps Forward and Ten Steps Back dove si respirano profumi delle canzoni anni ‘40, aggiornate alle sonorità più moderne, piacevole ma non essenziale.

Nel complesso un ennesimo disco che conferma lo status di grande interprete di Mary Coughlan.

Bruno Conti

Il Migliore Finora Tra I Cofanetti Di Halloween: Garantisce Il Conte Frankula! Frank Zappa – Halloween ‘81

frank zappa halloween 81

Frank Zappa – Halloween ’81 – Zappa/Universal 6CD Box Set

Terzo cofanetto in quattro anni che si occupa dei concerti che Frank Zappa era solito tenere il 31 ottobre ed il primo novembre di ogni anno (dopo quello del 1977 uscito nel 2017, con però la parte musicale disponibile solo su chiavetta USB, e quello dello scorso anno dedicato al 1973 https://discoclub.myblog.it/2019/10/31/cofanetti-autunno-inverno-5-tutto-il-necessario-per-una-festa-mostruosa-frank-zappa-halloween-73/ ), un’abitudine nata nei primi anni settanta e terminata a metà anni ottanta che aveva come costante la presenza del nostro e della sua band al Palladium Theatre di New York, con l’eccezione delle prime due edizioni al Capitol Theatre di Passaic e l’ultima del 1984 al Felt Forum, sempre a NY. Dopo le maschere di Zappa “normale” e di Frankenzappa, quest’anno tocca al Conte Frankula fare capolino dalla confezione di Halloween ‘81, che dal lato musicale presenta ben tre concerti (quasi) completi, i due show serali del 31/10 e quello dell’1/11, divisi in due CD ciascuno, per un totale di 86 pezzi (ma alcune tracce sono dialoghi) di cui ben 70 inediti: esiste anche una versione singola con gli highlights, con dentro per la “gioia” dei fans la Strictly Genteel suonata il primo novembre e non inclusa nel cofanetto.

Ma veniamo al contenuto del box, tre concerti superlativi che vedono Frank ed il suo gruppo in forma smagliante, e che rendono Halloween ’81 la più riuscita tra le tre ristampe deluxe uscite finora: ciò è dovuto un po’ alla scelta del repertorio, che rende i tre show più godibili di altri pur belli pubblicati di recente (compreso Zappa In New York e The Mothers 1970), con una maggiore presenza di brani cantati e di breve durata, ma gran merito va anche alla splendida band che accompagna il nostro, un mix tra elementi vecchi e nuovi e che vede alle chitarre Ray White e soprattutto un ancora sconosciuto Steve Vai, alle tastiere (e purtroppo anche ai synth, anche se non ne abusano) Tommy Mars e Robert Martin, la sezione ritmica di Scott Thunes al basso e Chad Wackerman alla batteria e Ed Mann alle percussioni. Possiamo quindi ascoltare con grande piacere la consueta miscela tra serietà (poca) e follia, genio e sregolatezza, grande musica e momenti demenziali, con la solita miscela tra rock, jazz, blues, pop, doo-wop ed improvvisazione come solo Zappa sapeva fare.

I primi due CD documentano il primo concerto del 31, alle 8 p.m., che inizia con una potente versione dello strumentale Chunga’s Revenge, in cui Frank dà subito un saggio della sua tecnica chitarristica, e poi mette in fila una serie di brani di alto livello musicale nonostante qualche titolo non proprio convenzionale come Alien Orifice e Broken Hearts Are For Assholes. Gli episodi salienti sono l’orecchiabile e corale The Meek Shall Inherit Nothing, il rap-rock Dumb All Over, il coinvolgente jump blues Suicide Chump, il binomio tra pop music e pazzia di Jumbo Go Away, gli strepitosi nove minuti tra rock ed improvvisazione di Drowning Witch ed i quasi dieci del funkettone City Of Tiny Lites. Non mancano alcuni classici zappiani, come la complessa Envelopes, quasi dissonante, l’irresistibile Flakes (con tanto di parodia di Bob Dylan), il rock’n’roll (almeno all’inizio, poi Frank si mette a cazzeggiare) di Tinsel Town Rebellion, la deliziosa Bobby Brown Goes Down, una canzone regolare e canonica (testo a parte), la relativamente famosa Dancin’ Fool ed un finale che vede l’inatteso omaggio alla Allman Brothers Band con una lucida e solida rilettura di Whipping Post.

I dischetti numero tre e quattro sono relativi al concerto della mezzanotte del 31 (quindi poco dopo la fine dell’altro), che all’epoca venne mandato in diretta televisiva dall’allora neonata MTV. Lo show, che in comune con quello prima ha soltanto Strictly Genteel, inizia con la melliflua Black Napkins e presenta un numero maggiore di classici come ad esempio la divertente Montana, una frenetica Easy Meat (forse qui troppi synth, ma un grande guitar solo), le brevi e dirette Doreen e Joe’s Garage e tre autentici tour de force con The Torture Never Stops, The Illinois Enema Bandit e King Kong che sommano solo loro mezz’ora complessiva. Altri highlights sono la rockeggiante Society Pages, la pimpante ed orecchiabile Charlie’s Enormous Mouth, il country dell’irresistibile Harder Than Your Husband, il quasi hard rock di Bamboozled By Love e Stevie’s Spanking (sentite la chitarra), la godibile Cocaine Decisions, dalla linea melodica quasi rigorosa, lo strepitoso blues di Nig Biz ed un’altra notevole rock jam con The Black Page # 2; finale “strano” con il noto traditional Auld Lang Syne, che normalmente si suona a Capodanno e non certo a Halloween.

Gli ultimi due CD sono infine dedicati allo show del primo novembre (che all’epoca non si sapeva, ma sarà l’ultimo in assoluto per Zappa al Palladium), una sorta di “best of” dei due concerti tenuti la sera prima con una setlist che comprende appunto diversi brani già ascoltati il 31. Le uniche novità sono messe all’inizio, e tra di esse ci sono almeno tre classici zappiani come l’iniziale Zoot Allures e le note I’m The Slime e Cosmik Debris. Non sto ad elencarvi di nuovo i pezzi restanti, ma è doveroso dire che forse ci troviamo di fronte allo spettacolo migliore dei tre, con versioni ancora più convincenti di Easy Meat, Stevie’s Spanking, Cocaine Decisions, The Torture Never Stops ed un’altra Whipping Post di alto livello.

Quest’anno forse a causa del Covid le feste di Halloween saranno bandite e quindi non potrete indossare maschera e mantello da Conte Frankula, ma nessuno vi impedirà di godere della parte musicale di questo Halloween ’81, sia che scegliate l’impegnativo box sestuplo che il più pratico (anche per le vostre tasche) singolo CD.

Marco Verdi

Oggi John Lennon Avrebbe Compiuto 80 Anni: 5 Canzoni + Una Per Ricordarlo, Ed Esce Anche Una “Nuova” Antologia Gimme Some Truth

john lennon gimme some truth

Oggi 9 ottobre John Lennon avrebbe compiuto 80 anni, e l’8 dicembre saranno 40 anni dalla sua morte avvenuta a New York nel 1980. Per ricordare l’evento della sua nascita la Capitol/Universal pubblica una ennesima antologia Gimme Some Truth: The Best Of, francamente inutile se non per i fan compulsivi o per chi non possiede nulla dell’artista di Liverpool nella propria discoteca. La raccolta esce in vari formati: 2CD/Blu-Ray, 2 CD e 1CD, il tutto con un remix hi-res stereo nei 2 CD e Dolby Atmos (questa mi mancava) nel Blu-Ray Audio che è l’unica novità del manufatto: 36 canzoni, anche se non c’è nulla dei Beatles, se non una versione live di Come Together.

E’ quasi pleonastico ricordare l’importanza che ha avuto Lennon nella storia del rock, soprattutto per la sua militanza nei Beatles, ma anche dopo “qualche” canzone bella l’ha scritta. Ne ho scelte cinque che trovate sotto inframmezzate all’interno della tracklist dell’antologia, più l’immortale Imagine che vedete qui sopra.

Tracklist
[CD1]
1. Instant Karma! (We All Shine On) (Ultimate Mix)
2. Cold Turkey (Ultimate Mix)

3. Working Class Hero (Ultimate Mix)
4. Isolation (Ultimate Mix)
5. Love (Ultimate Mix)
6. God (Ultimate Mix)
7. Power To The People (Ultimate Mix)
8. Imagine (Ultimate Mix)


9. Jealous Guy (Ultimate Mix)
10. Gimme Some Truth (Ultimate Mix)

11. Oh My Love (Ultimate Mix)
12. How Do You Sleep? (Ultimate Mix)
13. Oh Yoko! (Ultimate Mix)
14. Angela (Ultimate Mix)
15. Come Together (live) (Ultimate Mix)
16. Mind Games (Ultimate Mix)
17. Out The Blue (Ultimate Mix)
18. I Know (I Know) (Ultimate Mix)

[CD2]
1. Whatever Gets You Thru The Night (Ultimate Mix)
2. Bless You (Ultimate Mix)


3. #9 Dream (Ultimate Mix)
4. Steel And Glass (Ultimate Mix)
5. Stand By Me (Ultimate Mix)
6. Angel Baby (Ultimate Mix)
7. (Just Like) Starting Over (Ultimate Mix)
8. I’m Losing You (Ultimate Mix)
9. Beautiful Boy (Darling Boy) (Ultimate Mix)
10. Watching the Wheels (Ultimate Mix)
11. Woman (Ultimate Mix)
12. Dear Yoko (Ultimate Mix)
13. Every Man Has A Woman Who Loves Him (Ultimate Mix)

14. Nobody Told Me (Ultimate Mix)
15. I’m Stepping Out (Ultimate Mix)
16. Grow Old With Me (Ultimate Mix)
17. Happy Xmas (War Is Over) (Ultimate Mix)
18. Give Peace A Chance (Ultimate Mix)

[Blu-ray]
1. Dolby Atmos Mixes
2. HD Audio Mixes (24 bit / 96 kHz)
3. 5.1 Surround Sound Mixes

Bye Bye John.

Bruno Conti

Un Ennesimo Disco Di Rock Tosto Dello Smilzo! Too Slim And The Taildraggers – The Remedy

too slim and the taildraggers the remedy

Too Slim And The Taildraggers – The Remedy – Vizztone Label Group

Negli ultimi tempo, più o meno regolarmente ogni due anni, Tim Langford e soci ci regalano una nuova prova a nome Too Slim And The Taildraggers: il menu è sempre a base di blues rock robusto con elementi roots, proposto nella classica formula triangolare. Il leader, voce e chitarra, nonché autore dei brani, il bassista Zach Kasik, nel cui studio Wild Feather Recording di Nashville è stato registrato l’album, e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes, con la produzione del CD gestita collettivamente, sono i protagonisti. Stessa formazione del precedente High Desert Heat e anche stessa formula e stile https://discoclub.myblog.it/2018/06/30/il-calore-del-deserto-non-smorza-il-poderoso-rock-blues-chitarristico-di-langford-e-soci-too-slim-the-taildraggers-high-desert-heat/ : Last Last Chance è un boogie and roll, tra Chuck Berry e ZZ Top, con la voce roca e vissuta di Langford a guidare la band in un brano che ricorda anche gli Stones primi anni 70, rock tirato ma eseguito con classe e senza esagerazioni.

In She’s Got The Remedy il suono si indurisce, la voce viene filtrata ed il risultato forse non soddisfa del tutto, troppo carico, anche se l’assolo di wah-wah del buon Tim è veramente gagliardo, Devil’s Hostage è un bel rock-blues della scuola Billy Gibbons, anche a livello vocale, tempo cadenzato e chitarra tagliente, per un ottimo esempio di southern rock vecchia scuola, e l’assolo è veramente notevole, fluido e ruggente. Reckless, robusto groove alla Bo Diddley (più Mona che Who Do You Love), una armonica (Jason Ricci?) a doppiare la chitarra, in un drive che ricorda stranamente anche i primi Jethro Tull, Kasik alla voce, vira decisamente verso il blues, sempre con un eccellente lavoro di Langford che rilascia un altro assolo di quelli tosti https://www.youtube.com/watch?v=XlbQziHCUco ; Keep The Party Talkin’ cambia armonicista, qui Sheldon Ziro, e il riff, siamo dalle parti dei Canned Heat di On The Road Again, ma non la grinta e il tiro della band, che nella parte centrale accelera e lancia il nostro verso un altro assolo poderoso https://www.youtube.com/watch?v=KYRODR3bO0M .

Too Slim non scherza neppure quando si arma di bottleneck come nella cover di Sunnyland Train di Elmore James, dove va di slide alla grande, mentre in Sure Shot, con banjo d’ordinanza e atmosfere sospese ed inquietanti, si vira verso un sound decisamente più rootsy, con finale chitarristico di grande appeal https://www.youtube.com/watch?v=P4oLOMBwODE . Platinum Junkie, di nuovo cantata da Kasik, ha un ritmo decisamente funky, ancora con l’armonica in bella evidenza a duettare con la solista di Langford, sempre in agguato, mentre in Snake Eyes ancora con il banjo aggiunto alle operazioni, si torna al rock desertico del precedente album, con la solista che questa volta lavora di fino in continui rimandi, Think About That, con armonica sempre presente, è nuovamente orientata verso un blues elettrico dove la chitarra di Slim regna sovrana, e la conclusiva Half A World Away è l’unica concessione verso una ballata, diciamo più un mid-tempo consistente, che conferma la varietà di temi impiegati nell’albumda Too Slim And The Taildraggers, al momento una delle migliori band in ambito rock-blues. Gli amanti del genere sono avvisati.

Bruno Conti

Ma Lassù Avevano Bisogno Di Un Chitarrista? A 65 Anni Ci Ha Lasciato Eddie Van Halen.

eddie van halen

Anche se questo blog tratta solo saltuariamente di hard rock classico degli anni 70 (e spesso su indicazioni del sottoscritto), data l’importanza e la popolarità del personaggio Bruno mi ha invitato a scrivere un breve ricordo: è scomparso ieri a Santa Monica all’età di appena 65 anni Edward Lodewijk Van Halen, meglio conosciuto come Eddie Van Halen, dopo una purtroppo inutile battaglia contro un cancro alla gola. Di origini olandesi, Eddie emigrò con la famiglia a Pasadena, California, all’età di sette anni, ed iniziò presto ad appassionarsi alla musica rock insieme al fratello Alex dopo aver ascoltato fino alla noia Jimi Hendrix e Led Zeppelin; dotato di un talento innato, Eddie divenne presto un chitarrista prodigio e formò nel 1972 una band con Alex (che suonava la batteria) che solo due anni dopo ribattezzò Van Halen, riuscendo da subito a suonare in location leggendarie come il Whiskey A Go Go di Los Angeles, dove venne presto notato da emissari della Warner che fecero firmare al gruppo un contratto discografico.

La band (che era completata dal bassista Michael Anthony e soprattutto dal gigionesco cantante David Lee Roth, vero animale da palcoscenico) esordì quindi nel 1978 con l’omonimo Van Halen, un album di hard rock che coniugava tecnica, canzoni coinvolgenti ed appeal radiofonico un po’ come facevano nello stesso periodo in Inghilterra gli Whitesnake, ma soprattutto rivelava l’incredibile talento chitarristico di Eddie, un vero portento della sei corde che in pochi anni diventerà uno degli axemen più influenti della sua generazione (ed anche dei più copiati), e che univa una tecnica sopraffina ad una grande velocità di esecuzione: in particolare Eddie era un maestro nell’arte del “tapping”, che consisteva nel suonare le corde sul manico della chitarra con la mano destra (per lui che era destrorso), “pigiandole” come se fossero i tasti di un pianoforte, stile esemplificato nella celebre Eruption.

Il primo album entrò subito nella Top 20 ed un buon successo ebbe anche il primo singolo, una cover del classico dei Kinks You Really Got Me: una delle ragioni della loro popolarità risiedeva nel fatto che in quel periodo gran parte di un certo tipo di musica hard rock veniva dal Regno Unito, mentre in America oltre a Kiss e Aerosmith non c’era molto, ed i Van Halen diedero in un certo senso il la al cosiddetto movimento “hair metal” che spopolerà nella Los Angeles degli anni ottanta. I nostri ebbero quindi ancora più successo con gli album seguenti, Van Halen II, Women And Children First, Fair Warning e Diver Down, uno per anno dal 1979 al 1982, ma la popolarità mondiale arriverà due anni dopo con l’LP 1984 ed il singolo spacca-classifiche Jump, un brano che personalmente non ho mai amato in quanto infarcito di sintetizzatori e troppo “pop” per i miei gusti.

I nostri però erano ormai nell’olimpo delle band più famose, ed Eddie cominciava ad essere un chitarrista molto ambito (celebre la sua partecipazione a Thriller di Michael Jackson nel brano Beat It), ma con il successo cominciarono ad arrivare le prime frizioni che porteranno Roth ad abbandonare il gruppo e ad essere sostituito da Sammy Hagar (ex voce dei Montrose), che non aveva il carisma di David e risultava anche più sguaiato. Ma 5150 del 1986 sarà ancora più venduto di 1984, ed andranno più che bene anche i successivi tre lavori (fino a Balance del 1995), anche se il crescente movimento grunge, fatale a molte band anni 80, sposterà l’attenzione anche dai Van Halen. Un tentativo di reunion con Gary Cherone degli Extreme come cantante (Van Halen III, 1998) andrà benino ma non benissimo, ed i nostri rimarranno silenti fino al sorprendente ritorno con Roth al microfono nel 2012 con A Different Kind Of Truth, album in cui l’unico membro non facente parte della famiglia Van Halen era proprio David, dato che al basso Anthony aveva ceduto il posto al figlio di Eddie, Wolfgang https://www.youtube.com/watch?v=3WfQ-hV3WtA .

Proprio nel 2012 Eddie, che negli anni passati tra alcol e droghe non si era fatto mancare nulla, inizia ad avere problemi di diverticoli (ma aveva già debellato un cancro alla lingua nel 2000), e nel 2019 comincerà la sua battaglia purtroppo persa contro il tumore alla gola. Resta la testimonianza di un grandissimo della chitarra, fedele fino alla fine alla band da lui creata (non ha mai pubblicato nulla al di fuori dei Van Halen), e che ora allieterà le serate degli abitanti del Paradiso insieme a molti altri suoi colleghi.

Marco Verdi

Ancora “Quelle” Canzoni, Ma Non Ci Si Può Certo Lamentare! Roger Waters – Us + Them

roger waters us + them roger waters us + them booklet

Roger Waters – Us + Them – Columbia/Sony DVD – BluRay – 2CD

Di comune accordo con Bruno ho deciso di sorvolare sul nuovo album dal vivo dei Queen con Adam Lambert (una combinazione che può avere senso vedere di persona, più che altro per la storia personale di Brian May e Roger Taylor, ma che ascoltata su disco innesca un chiaro “effetto cover band”, nonostante il giovane Adam abbia comunque una gran voce), ma non potevo esimermi dal parlare di Us + Them, nuovo live di Roger Waters che, piaccia o no, è una delle figure di spicco e più carismatiche del panorama rock mondiale. Quarto disco dal vivo dell’ex leader dei Pink Floyd dopo i due The Wall (quello “collettivo” del 1990 a Berlino e quello più recente del 2015) ed il “greatest hits live” In The Flesh del 2000, Us + Them è in realtà la colonna sonora del film-concerto uscito nelle sale lo scorso anno (che non ho visto), nel quale le immagini registrate nel corso di quattro serate allo Ziggo Dome di Amsterdam (e pare anche in qualche imprecisata data inglese) durante il tour in supporto a Is This The Life We Really Want? vengono intervallate da interviste ed incontri con immigrati di varie etnie da parte dello stesso Waters, attento come sempre alle problematiche sociali.

A differenza di altre uscite, per esempio dei Rolling Stones, in cui sono disponibili i “bundle” CD/DVD o CD/BluRay, qui i due supporti video vengono venduti separatamente rispetto al doppio CD, e la cosa mi ha fatto optare per la sola parte audio dal momento che volevo evitare, come per esempio succedeva nel The Wall del 2015, di vedere un concerto interrotto più volte per sorbirmi le opinioni politiche di Waters che mi interessano il giusto (e che comunque non mancano neppure durante lo show): e poi, in ogni caso, avevo assistito nel 2018 alla prima delle due serate al Forum di Assago, quindi per questa volta ho preferito concentrarmi più sulla musica che sulle immagini. C’è da dire che il concerto è decisamente spettacolare dal punto di vista visivo, con i soliti giochi di luci, colori ed effetti speciali nonché le splendide immagini ad altissima definizione proiettate sul palco, ma non è che dal punto di vista musicale lo show sia inferiore, anzi: le canzoni che Waters ha reso celebri con i Floyd sono note a tutti, e qui non mancano di certo, ma quello che rende secondo me il doppio CD imperdibile è la qualità sonora incredibile, cosa non comune per un disco dal vivo, al punto che mi sorge qualche dubbio sul fatto che sia stato “aggiustato” in studio.

Non è neppure secondaria per la riuscita del lavoro la superband che accompagna il nostro (che tra parentesi è in buona forma vocale considerata l’età ed il fatto che non sia mai stato un grandissimo cantante), un gruppo guidato dal ben noto Jonathan Wilson alla chitarra e voce (sue le parti cantate originariamente di David Gilmour), gli altri due chitarristi Dave Kilminster e Gus Seyffert, i tastieristi Jon Carin (a lungo coi Floyd guidati proprio da Gilmour) e Bo Koster, il batterista Joey Waronker, il sassofonista Ian Ritchie ed il duo delle Lucius, ovvero Jess Wolfe e Holly Laessig, alle voci di supporto. Un live molto bello quindi (e non potrebbe essere altrimenti con certe canzoni) che, ripeto, ha un suono che raramente ho ascoltato in un album dal vivo. L’inizio è di esclusivo appannaggio di The Dark Side Of The Moon, con l’introduttivo battito cardiaco di Speak To Me seguito da Breathe, Time (con un duetto Wilson-Waters), la ripresa di Breathe e The Great Gig In The Sky (quest’ultima con le due Lucius protagoniste), una sequenza interrotta solo dalla sempre trascinante ed applauditissima One Of These Days, già sentita recentemente sul live di Nick Mason (ed il match si chiude in parità). Una splendida Welcome To The Machine, brano che ascolto sempre con grande piacere, precede un trittico di pezzi dall’ultimo studio album del nostro, e cioè la bellissima ed emozionante Déjà Vu, una ballatona che è puro Waters, la drammatica The Last Refugee e la tesa ed affilatissima Picture That.

Il primo CD si chiude con la sempre toccante Wish You Were Here, suonata da Dio e particolarmente suggestiva, e l’unico e forse un po’ scontato omaggio a The Wall con The Happiest Days Of Our Lives seguita dalla seconda e terza parte di Another Brick In The Wall. La seconda parte dello show è la più spettacolare dal punto di vista visivo, dal momento che la famosa Battersea Power Station raffigurata sulla copertina di Animals viene ricreata on stage (e presto raggiunta anche dal mitico maiale volante), ma anche la parte musicale non scherza con un uno-due tra Dogs e Pigs (Three Different Ones) davvero strepitoso, che rappresenta forse il punto più alto del concerto. Il finale è ancora riservato allo storico disco con in copertina il prisma ottico con Money, Us & Them, Brain Damage ed Eclipse suonate una dietro l’altra, mentre come aggiunta speciale sul doppio CD abbiamo due tracce esclusive registrate in studio, cioè una breve ripresa strumentale di The Last Refugee ed una cantata della sempre splendida Déjà Vu, ma con due versi inediti non presenti su Is This The Life We Really Want?

Interessante, ma forse avrei preferito l’inserimento di Mother e Comfortably Numb, spesso suonate come bis (la seconda è però presente come bonus nel DVD e BluRay, insieme a Smell The Roses). Considerando l’età di Roger Waters e soprattutto la sua “pigrizia”, questo Us + Them potrebbe anche essere la sua ultima testimonianza dal vivo: un motivo in più per non lasciarsela sfuggire.

Marco Verdi

Passa Il Tempo: Sono 40+1. Stray Cats – Rocked This Town: From LA To London

stray cats rocked this town

Stray Cats – Rocked This Town – From LA To London – Surfdog/Mascot

L’anno scorso con 40 avevano festeggiato appunto il loro quarantesimo anniversario, con la reunion della formazione originale e il primo disco in studio di materiale nuovo dopo 26 anni: Brian Setzer, Slim Jim Phantom e Lee Rocker, gli Stray Cats originali, ormai tutti e tre vicini alla soglia dei 60 anni (anzi nel caso di Setzer superata), con Gretsch, contrabbasso e kit da batterista R&R pronti alla bisogna, si sono lanciati in un tour mondiale, che addirittura era partito nel 2018, per riproporre i loro classici, accanto anche ad alcuni dei brani nuovi, prima che arrivasse il ciclone Covid-19 a fermare la musica dal vivo in giro per il mondo. Quindi con ben 22 canzoni compattate in un CD singolo, dove la durata media raramente supera i 4 minuti (ma qualcuna ce n’è, non sono mica i Ramones), questo Rocked This Town: From LA To London, ancora una volta celebra il loro rockabilly revival con tanta grinta e anche classe, visto che Setzer in questi anni è diventato anche un apprezzato musicista in grado di spaziare tra swing e blues, con ottimi risultati.

La maggior parte delle canzoni è originale (più o meno, visto che l’ispirazione viene comunque dai gloriosi anni del R&R e del rockabilly) e qualche immancabile cover, ma se lo scopo dichiarato è quello di divertire i loro ascoltatori, anche non in presenza, ma su un CD, direi che il risultato è raggiunto. La musica quindi si gode anche da remoto, nella propria casa o in giro con cuffiette il piedino è subito pronto per tenere il tempo: qualità sonora ottima, e partenza con uno dei brani nuovi Cat Fight (Over A Dog Like Me) che comunque illustra perfettamente lo spirito R&R degli Stray Cats, eccellente assolo di chitarra di Setzer incluso https://www.youtube.com/watch?v=czwn7d_gEro , senza soluzioni di continuità si parte con il greatest hits, prima una brillante Runaways Boy, che era sull’omonimo album di debutto del 1981, e suona fresca oggi come allora, anzi la voce di Brian e la sua perizia alla solista sono aumentate dopo lunghi anni on the road, Too Hip Gotta Go era su Rant’n’Rave, brano preso sempre a grande velocità, ma più raffinato e meditato, con la chitarra ancora in grande spolvero, di nuovo dal 1° album una scoppiettante cover di Double Talkin’ Baby di Gene Vincent con le mani del nostro che volano sul manico della chitarra.

A seguire un altro dei brani del disco dello scorso anno, Three Time’s A Charm, dove il risultato è a tutto rockabilly https://www.youtube.com/watch?v=s39szCgOjYY , poi accolto da un boato arriva uno dei loro cavalli di battaglia, la sempre bellissima e felpata (manco a dirlo) Stray Cat Strut. Senza ricordare tutti i brani, comunque eccellenti a prescindere, vorrei ricordare la pimpante e di grande tecnica strumentale Mean Pickin’ Mama, l’omaggio a due degli idoli della band Gene And Eddie, con immancabili citazioni ad libitum, e ancora una rara ballata da crooner come la deliziosa I Won’t Stand In Your Way, un paio di cover strumentali come la countyreggiante Cannonball Rag di Merle Travis, eseguita dal solo Setzer alla elettrica e il celeberrimo e vorticoso surf di Dick Dale Misirlou, sempre con la maestria di Brian in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=H7eFhKYO4P0 , come pure la divertente e sbarazzina (She’s) Sexy + 17, e anche l’altrettanto sexy Fishnet Stockings, un omaggio ad un altro dei grandi del rockabilly Dorsey Burnette con la sua My One Desire, presente solo nella versione in vinile.

E poi nel gran finale spettacolare, alcuni dei loro più grandi successi che mandano il visibilio il pubblico presente: quasi in sequenza ecco arrivare la potente Rock This Town, la recente e bluesata Rock It Off dove Setzer sembra un novello Thorogood, e naturalmente Built For Speed, fedele al suo titolo, per concludere con una colossale Rumble In Brighton, tra R&R e Clash. L’estate sarà anche finita, ma il divertimento ( si fa per dire) continua con questo ottimo Live che conferma che gli Stray Cats sono sempre un gran bel gruppo, anche 40, anzi quarantuno anni dopo i loro esordi.

Bruno Conti