Qui Di “X-Pensive” Non Ci Sono Solo I Winos! Keith Richards & The X-Pensive Winos – Live At The Hollywood Palladium

keith richards live at the hollywood palladium

Keith Richards & The X-Pensive Winos – Live At The Hollywood Palladium, December 15, 1988 – Mindless/BMG CD – 2LP – CD/DVD/10” Vinyl Box Set

L’industria musicale lamenta una crisi che va avanti da anni specie per quanto riguarda i supporti “fisici”, ma bisogna dire che in molti casi i problemi le varie case discografiche se li vanno a cercare con politiche dei prezzi che definire discutibili è far loro un complimento. In particolare, mi sembra che sia un po’ sfuggita di mano la situazione inerente alle edizioni deluxe e super deluxe di album storici e meno storici del passato: io stesso sono spesso vittima di questo meccanismo, disposto ad investire piccole fortune nell’acquisto di pubblicazioni lussuose (e costose) per poter godere di musica inedita dei miei artisti preferiti, ma lo sono molto meno quando la differenza di prezzo riguarda solo la confezione e non il contenuto. Per esempio, ho speso volentieri quei cento euro in più per la recente versione esclusiva del box di Tom Petty Wildflowers And All The Rest, che includeva un CD in più rispetto all’edizione quadrupla (e che CD!), ma non ho mai voluto farmi fregare con le ristampe “super deluxe” dei Led Zeppelin, di Hotel California degli Eagles ed anche, l’anno scorso, del primo album solista di Keith Richards Talk Is Cheap, tutti casi in cui non c’era neppure un minuto di musica in più rispetto alle versioni in doppio CD.

keith richards live at the hollywood palladium box

Non ho citato Richards a caso, in quanto il leggendario chitarrista dei Rolling Stones è il protagonista del post di oggi, ed anche di un’iniziativa che definire ridicola è riduttivo: infatti è da poco uscita la ristampa del suo noto disco dal vivo Live At The Hollywood Palladium, registrato con i suoi X-Pensive Winos il 15 dicembre del 1988 ma pubblicato solo tre anni dopo (pare per fermare il proliferare di bootleg dell’evento), un lavoro eccellente che però viene rimesso in commercio con delle modalità assurde. Infatti, oltre alla riedizione del disco originale in singolo CD senza bonus tracks (ma rimasterizzato a dovere dal grande Greg Calbi e con una bella confezione in digipack con copertina dura, tipo libro rilegato) ed in doppio LP (sia in vinile nero che rosso), è stato pubblicato l’ormai immancabile cofanetto che, all’incredibile prezzo di circa 160-170 euro, presenta sia CD che doppio LP, e tre-canzoni-tre in più su un altro dischetto in vinile da 10 pollici, oltre al solito bel librone ed una sfilza di gadgets inutili. In effetti ci sarebbe anche il DVD del concerto, disponibile per la prima volta in assoluto, ma stiamo pur sempre parlando di circa 150 euro di differenza rispetto al CD normale, il tutto per avere la miseria di tre canzoni esclusive e neppure come bonus tracks del dischetto digitale, ma solo su un vinile a parte! Inutile dire che questa volta ho soprasseduto…

Dal punto di vista musicale Live At The Hollywood Palladium è un lavoro ottimo, che vede Richards cavarsela alla grande nell’insolita veste di frontman, spalleggiato da una band formidabile che poi è quella con cui aveva registrato Talk Is Cheap: Waddy Wachtel alla chitarra, Steve Jordan alla batteria, Ivan Neville alle tastiere, Charley Drayton al basso, Bobby Keys al sax e Sarah Dash ai cori. Un gruppo con le contropalle quindi, ed una performance eccellente favorita anche dal crescente affiatamento cementatosi on stage tra i vari membri: infatti quella serata ad Hollywood era la penultima di un breve tour che aveva toccato dodici città americane, una sorta di toccata e fuga dato che Keith avrebbe poi dovuto raggiungere in studio gli altri Stones per registrare Steel Wheels. Un’ora abbondante di grande rock’n’roll, sporco e ruvido, eseguito con maestria da un gruppo magnifico, e con Richards che, nonostante un timbro di voce neanche paragonabile a quello del suo compare Mick Jagger, tiene la scena con grande sicurezza ed indubbio carisma. Degli undici brani totali di Talk Is Cheap, Keith ed i suoi “Beoni Costosi” ne suonano ben nove, allungando talvolta il minutaggio originale e fornendo performance grintose e trascinanti, con il rock’n’roll di matrice stonesiana che la fa chiaramente da padrone in pezzi come la riffatissima Take It So Hard, la potente How I Wish, Struggle, I Could Have Stood You Up, molto Chuck Berry, e Whip It Up (che con il gran lavoro di Keys al sassofono sembra quasi una outtake di Sticky Fingers).

Non manca il Richards in modalità vizioso, sudato ed appiccicaticcio, che si manifesta nella funkeggiante Big Enough, decisamente meglio della sua controparte in studio, nel caldo errebi Make No Mistake, cantata in duetto con la Dash, nella cadenzata ed annerita Rockawhile e soprattutto nella splendida e strascicata Locked Away, la migliore ballata di Talk Is Cheap ed in generale un brano che sarebbe stato bene su qualsiasi album delle Pietre Rotolanti. A proposito di Stones, ovviamente Keith omaggia anche il gruppo che gli ha dato la fama, con le classiche Happy (in una torrida rilettura di sette minuti) e Connection (molto più sintetica ed essenziale), la splendida ed inattesa Time Is On My Side (scritta da Jerry Ragovoy sotto lo pseudonimo di Norman Meade ma resa popolare nei sixties proprio da Jagger e soci), affidata alla voce solista della Dash e proposta in uno scintillante adattamento blues, e l’allora recente cover di Too Rude del musicista giamaicano Half Pint, un solare reggae-rock che era uno dei due pezzi cantati da Richards su Dirty Work, qui in una versione dilatata a quasi otto minuti. I tre brani extra esclusivi del cofanetto sono You Don’t Move Me, altra rock’n’roll song proveniente da Talk Is Cheap, la stonesiana Little T&A (era su Tattoo You), e la cover di I Wanna Be Your Man dei Beatles, che nei primi anni 60 fu ceduta dai Fab Four ai cinque ragazzi londinesi.

Per concludere, una ristampa da non perdere solo se non possedete l’album originale (o se come me avete solo il vinile), ma questa volta vi conviene lasciar perdere il box ed accontentarvi della versione in singolo CD.

Marco Verdi

Ma Non Si Era Ritirato? Parte Tre: Parrebbe Proprio Di No! Eric Clapton’s Crossroads Guitar Festival 2019

eric clapton crossroads 2019

Eric Clapton’s Crossroads Guitar Festival 2019 – 3CD, 2DVD, 2BD

Il titolo del Post è ricorrente, visto che da quando il nostro amico Slowhand ha annunciato il suo ritiro dalle scene nel 2015 (almeno per le tournéè) poi pare che ci abbia rinunciato o quasi: una serie di concerti in Giappone, poi alla Royal Albert, un tour europeo nel 2019 e quello del 2020, rinviato per il Covid e posticipato al 2021, non che ci si lamenti, anzi, ne siamo ben felici. Nel frattempo sono usciti pure due dischi nuovi in studio, uno di brani natalizi https://discoclub.myblog.it/2018/10/21/ma-e-gia-natale-il-manolenta-natalizio-pero-non-convince-del-tutto-eric-clapton-happy-xmas/ , quindi pare che Eric Clapton abbia deciso che non sia ancora arrivato il momento di appendere la chitarra al chiodo: e naturalmente, con la ritrovata voglia di concerti, lo scorso anno ha organizzato la nuova edizione della manifestazione benefica Crossroads Guitar Festival, da anni dedita alla raccolta fondi per finanziare la sua fondazione che si occupa del centro per la riabilitazione dalle droghe, che si trova ad Antigua. Questa di cui stiamo per parlare è la sesta edizione (ma solo la quinta ad avere un resoconto discografico), in effetti quella del 1999 al Madison Square Garden non fu pubblicata su disco, mentre nel 2016 è uscito una sorta di riassunto delle precedenti edizioni https://discoclub.myblog.it/2016/08/27/eric-clapton-guests-crossroads-revisited-i-dvd-ecco-il-cofanetto-triplo-i-cd/).

eric clapton crossroads 2019 dvd

La location questa volta è il Texas (dove si tenne anche la edizione del 2004) all’American Airlines Center di Dallas, il 20 e 21 settembre del 2019: come al solito ci sono vari formati: 3 CD, 2 DVD oppure 2 Blu-Ray, sempre con gli stessi 42/43 pezzi, per comodità la recensione si occupa del triplo CD e vista la cospicua quantità di brani e ospiti cercherò di raccontare in breve le due giornate, di cui qui di seguito trovate comunque la tracklist completa.

Tracklist
1. Introduction
2. Native Stepson – Sonny Landreth
3. Wonderful Tonight – Eric Clapton & Andy Fairweather Low
4. Lay Down Sally – Eric Clapton & Andy Fairweather Low
5. Million Miles – Bonnie Raitt, Keb’ Mo’ & Alan Darby
6. Son’s Gonna Rise – Citizen Cope with Gary Clark Jr.
7. Lait / De Ushuaia A La Quiaca – Gustavo Santaolalla
8. I Wanna Be Your Dog – Doyle Bramhall II with Tedeschi Trucks, Band
9. That’s How Strong My Love Is – Doyle Bramhall II with Tedeschi Trucks Band
10. Lift Off – Tom Misch
11. Cognac – Buddy Guy & Jonny Lang
12. Everything Is Broken – Sheryl Crow & Bonnie Raitt
13. Every Day Is A Winding Road – Sheryl Crow with James Bay
14. Retrato – Daniel Santiago & Pedro Martins
15. B-Side – Kurt Rosenwinkel with Pedro Martins
16. Baby, Please Come Home – Jimmie Vaughan with Bonnie Raitt
17. How Long – The Marcus King Band
18. Goodbye Carolina – The Marcus King Band
19. While My Guitar Gently Weeps – Peter Frampton with Eric Clapton
20. Space For The Papa – Jeff Beck
21. Big Block – Jeff Beck
22. Caroline, No – Jeff Beck
23. Cut Em Loose – Robert Randolph
24. Hold Back The River – James Bay
25. When We Were On Fire – James Bay
26. Mas y Mas – Los Lobos
27. Am I Wrong? – Keb’ Mo’
28. Slow Dancing In A Burning Room – John Mayer
29. How Blue Can You Get? – Tedeschi Trucks Band
30. Shame – Tedeschi Trucks Band
31. Is Your Love Big Enough – Lianne La Havas
32. I Say A Little Prayer – Lianne La Havas
33. Feed The Babies – Gary Clark Jr.
34. I Got My Eyes On You (Locked & Loaded) – Gary Clark Jr.
35. Pearl Cadillac – Gary Clark Jr.
36. Tonight The Bottle Let Me Down – Vince Gill with Albert Lee & Jerry Douglas
37. Tulsa Time – Vince Gill with Albert Lee, Bradley Walker, Albert Lee & Jerry Douglas
38. Drifting Too Far From The Shore – Bradley Walker with Vince Gill, Albert Lee & Jerry Douglas
39. Badge – Eric Clapton
40. Layla – Eric Clapton with John Mayer & Doyle Bramhall II
Encore Finale:
41. Purple Rain – Eric Clapton & Ensemble
42. High Time We Went – Eric Clapton & Ensemble
End Credits:
43. Going Going Gone – Doyle Bramhall II with Tedeschi Trucks Band

CD1

Sonny Landreth è uno dei chitarristi ricorrenti in tutte le edizioni dal 2004 e spesso è stato quello che ha aperto i concerti: anche nel 2019 tocca a lui, almeno nella versione discografica, con Native Stepson da South of I-1 disco del 1995, dove il maestro della slide ci delizia subito con uno dei suoi vorticosi brani strumentali. A seguire tocca a Clapton fare la sua prima apparizione, accompagnato dal fido Andy Fairweather Low, alle prese con due classici come Wonderful Tonight, in una versione acustica ed intimista, e sempre in formato elettroacustico la deliziosa e mossa Lay Down Sally. La prima jam è quella tra Bonnie Raitt Keb’ Mo’ alle prese con Million Miles, un pezzo blues di Bonnie, dove i due, sempre in modalità elettroacustica, sono accompagnati da Alan Darby, un chitarrista inglese, spesso nella touring band di Eric. Seguono i Citizen Cope con Gary Clark Jr. che non mi fanno impazzire, a parte lui alla chitarra, e forse pure di Gustavo Santaolalla, un po’ fuori contesto, si poteva fare a meno. Il concerto si anima con il breve segmento dedicato a Doyle Bramhall II, che su disco non sempre mi convince, mentre dal vivo è tutta un’altra cosa, specie se ad accompagnarlo c’è la Tedeschi Trucks Band, prima in una tirata cover di I Wanna Be Your Dog degli Stooges,
poi in una splendida versione di That’s How Strong My Love is di Otis Redding con Mike Mattison alla seconda voce e Derek Trucks alla slide.

La band dei due coniugi, con l’aiuto di Doyle che rimane, poi ci regala una sontuosa versione di Going Going Gone di Bob Dylan cantata a due voci con Susan Tedeschi, brano che scorre sui titoli di coda della parte video. Di Tom Misch francamente ignoravo l’esistenza, ma la strumentale e ricercata Lift Off non mi è dispiaciuta, il ragazzo suona. E anche i due “ragazzi” che seguono se la cavano, Buddy Guy e Jonny Lang alle prese con una superba Cognac; poi tocca a Sheryl Crow che prima si accompagna a Bonnie Raitt per una gagliarda Everything Is Broken di Bob Dylan, e poi con il giovane James Bay che se la cava egregiamente in Every Day Is A Winding Road, un brano del suo disco omonimo del 1996. Pedro Martins, prima da solo e poi con Kurt Rosenwinkel, diciamo che non mi entusiasma, mentre l’accoppiata tra Jimmie Vaughan Bonnie Raitt, che cantano Baby, Please Come Home, con fiati pronti alla bisogna e le relative chitarre, direi che merita, e chiude il primo CD.

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Robert Cray è un altro degli habitué, e la sua I Shiver coniuga classe e fervore blues nel suo inconfondibile stile; poi tocca ad uno degli artisti emergenti del southern rock, Marcus King con la sua Band, ottimo vocalist di stampo soul, ma soprattutto chitarrista, visto che la manifestazione di Clapton è incentrata proprio su questo strumento, due brani How Long e la ballad Goodbye Carolina, entrambe con ottimi assoli di King. Eric fa una delle sue incursioni per dare una mano a Peter Frampton uno dei grandi del passato, nel classico While My Guitar Gently Weeps, dove nell’originale dei Beatles il celebre solo era proprio di Manolenta, che qui lo replica; a questo punto sale sul palco un altro dei fedelissimi del Festival, un sempre grande Jeff Beck che suona tre pezzi, al limite dell’impossibile, Space For The Papa, Big Block e Caroline No. Un altro dei cultori delle sonorità incredibili è il virtuoso della Pedal Steel Robert Randolph che in Cut Em Loose si lancia anche lui in un assolo formidabile; James Bay è un altro dei talenti emergenti invitati da Eric, lo conoscevo più come cantante mellifluo e leggermente alternativo, ma si rivela anche ottimo solista in Hold Back The River e When We Were On Fire, poi tocca ai Los Lobos proporre uno dei loro cavalli di battaglia, una trascinante Mas Y Mas.

Keb ‘ Mo’ solo voce e chitarra acustica in modalità bottleneck si conferma raffinato bluesman in Am I Wrong?, mentre John Mayer fa il romanticone in una Slow Dancing In A Burning Room, solo voce e chitarra elettrica, che non convince il sottoscritto, mentre il set della Tedeschi Trucks Band è uno dei momenti migliori del Festival (come in tutte le edizioni precedenti), prima una scintillante versione di How Blue Can You Get di B.B. King, dove Susan Tedeschi, oltre che cantante dalla voce superba, dimostra che anche lei (se mi perdonate il francesismo) come chitarrista non scherza un cazzo, poi arriva anche il consorte Derek Trucks che completa l’opera con un assolo da manuale, poi ribadito nella successiva travolgente Shame, uno dei brani migliori dell’ultimo disco Signs, qui in versione corale sontuosa, ca…spiterina se suonano, fine del secondo CD.

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Lianne La Havas la chitarra la usa solo, comunque con classe, per accompagnarsi nelle sue esibizioni in solitaria, prima in Is Your Love Big Enough e poi in una deliziosa cover di I Say A Little Prayer, dove si apprezza la voce sinuosa della musicista londinese; l’ultimo disco del 2019, anche se ha vinto quattro Grammy, di Gary Clark Jr,, ovvero This Land, al sottoscritto, con qualche eccezione, complessivamente come tipo di suono non era piaciuto molto, ma non posso negare che dal vivo sia un performer formidabile e Feed The Babies, I Got My Eyes on YouPearl Cadillac in dimensione live mi piacciono molto di più, anche se il suo falsetto alla lunga non è quello di Curtis Mayfield o Marvin Gaye, troppo Prince,  però con la chitarra compensa alla grande. A questo punto del concerto c’è l’intermezzo country con Vince Gill prima e Bradley Walker poi, accompagnati dal vecchio pard di Clapton Albert Lee, e da Jerry Douglas, tre brani eccellenti come Tonight The Bottle Let Me Down, l’omaggio al “Capo” di Tulsa Time e Drifting Too Far From The Shore.

Poi arriva il gran finale con Eric Clapton sul palco con due classici immancabili, prima una solida Badge con assoli attesissimi e ripetuti, poi con Doyle BramhallJohn Mayer nell’immancabile e sempre grandissima Layla, a seguire un non più inatteso (lo fa dal 2016) e corale omaggio a Prince con tutto il cocuzzaro sul palco per una intensa versione di Purple Rain, e a chiudere il tutto la solita versione superba e lunghissima di High Time We Went, un brano di Joe Cocker da sempre molto amato da Clapton che lascia libero sfogo a tutto il cast di estrarre il meglio da questa canzone, incluso il co-autore del pezzo Chris Stainton al piano, uno dei brani più coinvolgenti della storia del rock, che suggella per l’ennesima volta questa festa della chitarra.

Tanta roba, ma ne vale la pena.

Bruno Conti

Un Albergo “Restaurato” Per Il Cinquantenario. The Doors – Morrison Hotel

doors morrison hotel box

The Doors – Morrison Hotel – Rhino/Warner 2CD/LP Box Set

Proseguono le edizioni deluxe per i cinquantesimi anniversari degli album dei Doors, una serie di cofanetti cominciata nel 2017 con il loro omonimo debut album e che inizialmente si è rivelata deludente per la presenza di poche bonus tracks (Strange Days non ne conteneva alcuna, solo le versioni mono e stereo del disco), ma che però è andata via via migliorando: infatti il box dedicato a The Soft Parade uscito lo scorso anno è stato il più soddisfacente finora in termini di inediti (ben due CD extra, con il secondo di essi quasi totalmente occupato dalla take finalmente completa della mitica Rock Is Dead), cosa abbastanza bizzarra in quanto stiamo parlando dell’album meno amato e più criticato tra quelli pubblicati da Jim Morrison e soci. Ciò avvenne soprattutto a causa di alcuni discussi arrangiamenti al limite del pop che avevano creato più di una frizione tra il produttore Paul Rothchild ed il presidente della Elektra Jac Holzman (insieme al tecnico del suono Bruce Botnick), che non condividevano la veste sonora del disco e per la quale incolpavano lo stesso Rothchild dato che in quel periodo Morrison era più interessato a scrivere poesie che a dedicarsi al gruppo. Per Morrison Hotel (che era il nome di un vero albergo di Los Angeles ed intitolava la seconda facciata del disco, mentre il lato A si chiamava Hard Rock Cafè, altro locale di L.A. che non aveva nulla a che vedere con la nota catena di ristoranti nata a Londra nel 1971) i nostri decisero invece per un ritorno alle atmosfere dirette, tra rock e blues, di inizio carriera, e questo diede loro ragione in quanto l’album ottenne vendite migliori rispetto a The Soft Parade pur in assenza di un singolo trainante.

Tanto per cominciare gran parte della sua fortuna il disco lo ebbe grazie al brano d’apertura, la trascinante ed adrenalinica Roadhouse Blues, che in breve diventerà la canzone più popolare dei Doors insieme a Light My Fire ed in generale un classico della musica rock internazionale, nonostante non fosse neppure uscita su 45 giri (ma solo come lato B). Nel brano partecipano anche John Sebastian all’armonica (con lo pseudonimo G. Puglese) ed il grande chitarrista Lonnie Mack “relegato” però al basso, strumento suonato in tutti gli altri brani da Ray Neapolitan, dato che com’è noto i nostri non avevano un bassista all’interno del gruppo. Il pezzo scelto all’epoca come singolo fu la diretta e rocknrollistica You Make Me Real, che risaliva ai famosi concerti del 1966 al London Fog ma non era mai stata incisa in studio fino a quel momento. Ma non è l’unico ripescaggio dell’album (a dimostrazione di una certa scarsità di materiale), in quanto troviamo anche Waiting For The Sun, registrata dai Doors per il loro terzo album dallo stesso titolo ma poi lasciata fuori, ed addirittura una outtake dal primo disco, Indian Summer: entrambe le canzoni sono ipnotiche e dense di misticismo, e si distaccano abbastanza dal resto dell’album.

Che Morrison Hotel sia infatti uno degli LP più immediati del quartetto lo dimostrano la robusta Peace Frog, con Ray Manzarek che lavora di fino al suo Vox Continental (brano che confluisce nella tenue Blue Sunday, una ballatona con Jim che si atteggia a crooner), la saltellante Ship Of Fools, ancora con Ray protagonista, la pimpante e gradevole Land Ho!, che vede invece la chitarra di Robby Krieger in gran spolvero, il bluesaccio cadenzato da taverna The Spy, la spedita Queen Of The Highway, puro stile Doors, per finire con il vibrante rock-blues Maggie M’Gill, cantato da Morrison con voce arrochita e con la band che segue come un treno guidata in maniera sicura dal drumming di John Densmore. Il cofanetto ripropone nel primo CD il disco originale rimasterizzato (ma non remixato) dallo stesso Botnick, un booklet formato LP di 16 pagine con le note del noto critico David Fricke, il solito inutile LP che serve solo a far salire il prezzo, ed infine un secondo CD con sessions inedite, interessante anche se per l’80% gira intorno a sole due canzoni.

La prima parte infatti è inerente a Queen Of The Highway, con più di dieci takes, alcune solo strumentali, nelle quali i nostri improvvisano alla grande e Jim gigioneggia da par suo (e c’è anche un breve accenno all’inedita I Will Never Be Untrue): il brano originale non durava neanche tre minuti, ma qui i Doors si divertono a rivoltarlo come un calzino (molto belle le takes 12 e 14, quasi un jazz- blues strumentale con Manzarek strepitoso al piano). Più aderenti alla versione conosciuta sono le nove tracce dedicate a Roadhouse Blues, qui proposte come un interessante work in progress: nel mezzo abbiamo due sanguigne e potenti riletture, mai sentite, delle classiche Money (That’s What I Want) di Barett Strong e Rock Me Baby, noto standard blues reso popolare da Muddy Waters e B.B. King. Chiusura con due versioni alternate di Peace Frog, la prima delle quali mixata con Blue Sunday come sul disco originale. Quindi una bella ristampa che getta nuova luce su un disco piacevole e riuscito ma che forse perde il confronto con i capolavori assoluti usciti nello stesso periodo, anche se i Doors si rifaranno nel 1971 con L.A. Woman, canto del cigno di Morrison e loro album migliore dopo l’esordio.

Marco Verdi

Sempre Power Rock-Blues, Forse Più “Sperimentale”. JD Simo – JD SIMO

jd simo jd simo

JD SIMO – JD Simo – Crows Feet Records

Non so se gli lasciano ancora utilizzare la Gibson Les Paul di Duane Allman che aveva suonato nel suo primo album, il bellissimo Let Love Show The Way uscito a nome SIMO nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/01/29/ritmi-sudisti-blues-vecchie-chitarre-simo-let-love-show-the-way/  (ma non credo, visto che nelle interviste recenti parla con entusiasmo delle chitarre Silvertone che suona ultimamente), ma sicuramente il tocco da virtuoso gli è rimasto in questo secondo omonimo album solista, dopo l’eccellente Off At 11 dello scorso album. Virtuosismo che avevo potuto apprezzare dal vivo nel concerto milanese quando apriva per i Blackberry Smoke. Benché il disco porti semplicemente il suo nome si tratta comunque di un ulteriore album del suo power trio, dove il batterista è rimasto il fedele Adam Abrashoff (che firma con lui anche quattro canzoni), mentre la bassista è la nuova Andraleia Buch.

Questa volta il nativo di Chicago, ma residente a Nashville, ha realizzato un album più “compatto”, niente brani ricchi di lunghe improvvisazioni rock, ma dieci pezzi tutti piuttosto brevi, solo un paio superano i 5 minuti, anche se gli elementi tipici della musica di JD Simo ci sono tutti: influenze blues, molto funky e soul, meno derive jazzy rispetto al precedente CD e più sperimentazione sonora. Dall’apertura affidata al funky-psych di The Movement, cantata in leggero falsetto, con l’ottimo groove del basso e le sonorità lavorate della solista di JD, che poi rilascia un assolo tra il Jeff Beck era Yardbirds e i Funkadelic, acidissimo e cattivo, si passa a Love, un’altra funky tune con forti elementi rock, voce filtrata e chitarra impazzita in modalità wah-wah, con altro assolo breve ma devastante. A proposito di funky-soul Out Of Sight è proprio quella di James Brown, sempre lavoratissima, con un sound futurista e furiosi interventi della chitarra di Simo https://www.youtube.com/watch?v=HLJFalOq25g ; Higher Plane, il brano più lungo, è anche quello più “sperimentale”, un rock-blues molto duro con la chitarra di JD alla ricerca di suoni furibondi, grazie anche all’utilizzo di slide ed effetti vari, ci porta verso l’iperspazio e le 12 battute psichedeliche del futuro.

One Of Those Days, con un falsetto suadente ispirato da Marvin Gaye e Curtis Mayfield, è una soul ballad impreziosita da un assolo tutto giocato su vibrato e il pedale octaver che usava Hendrix ai tempi. Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic, più uno scioglilingua che un titolo, era uno dei lunghi brani di Isaac Hayes sul suo secondo album Hot Buttered Soul, qui in una versione abbreviata e incattivita di tre minuti, sempre molto “effettata” con fuzz bass e chitarra in overdrive https://www.youtube.com/watch?v=sUXv35R00bA ; Take That è un omaggio alla band di Robbie Williams, scherzo, si tratta di un breve strumentale rockabilly preso a velocità spaventosa, dove si apprezza tutto il virtuosismo incredibile alla chitarra del nostro amico https://www.youtube.com/watch?v=yirqh3KID3c . Soul Of A Man è una cover del brano di Blind Willie Johnson, dove forse si esagera con il “modernismo”, ma magari Jimi Hendrix avrebbe apprezzato, e anche la lunga e distorta Help è un ulteriore esempio degli esperimenti sonori tentati in questo album da JD Simo, che ci congeda nel finale con la cover di Anna Lee di Earl Hooker, forse il blues più “tradizionale” del disco, anche se l’effetto doppia slide sui due canali dello stereo è comunque particolare e inconsueto.

Disco non facile, ma interessante per chi vuole a sua volta sperimentare.

Bruno Conti

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volume 1: Ouvrez Le Chien

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David Bowie – Ouvrez Le Chien – Rhino/Warner CD – 2LP

La serie di cofanetti dedicati alle varie ere della carriera di David Bowie è ferma a Loving The Alien del 2018 (che prendeva in esame gli anni 80), ma è stato confermato da poco che nel 2021 verrà stampato il prossimo volume, che riguarderà la decade seguente. Nel frattempo chi gestisce gli archivi del compianto musicista inglese se ne è inventata un’altra, cioè un cofanetto a puntate, come se fosse un’enciclopedia, che si occuperà di concerti inediti che il Duca Bianco tenne nella seconda metà degli anni 90. Brilliant Live Adventures 1995-1999 è il titolo del box, che raccoglierà sei CD (o 12 LP) di altrettanti concerti che verranno pubblicati in tiratura limitata e con cadenza mensile, tre prima di fine anno e tre nei primi mesi del 2021, ed in vendita esclusivamente sul sito di Bowie https://www.musicglue.com/david-bowie/  (*NDB Sembra già esaurito) o nello store online della Rhino. Un’operazione diversa dal solito ma comunque apprezzabile specie per i fans di Bowie, se non fosse per un fastidioso particolare: se pensate che il cofanetto vuoto che servirà a contenere CD o LP vi verrà spedito con l’ultima uscita (o magari con la prima se sottoscriverete “l’abbonamento” alla serie completa, opzione comunque non contemplata) è meglio che vi ricrediate, in quanto se volete il box lo dovete pagare poco meno di venti dollari (neppure poco, ed in più sui siti di cui sopra è esaurito praticamente dal primo giorno, anche se dovrebbero stamparne degli altri).

Un’iniziativa antipatica che però non rovina la bontà dell’operazione, che getta finalmente luce su una fase della carriera di Bowie finora non documentata da alcun live ufficiale. La prima uscita, di cui mi occupo oggi, si intitola Ouvrez Le Chien, ed è la testimonianza di un concerto a Dallas nell’ottobre del 1995, già pubblicato lo scorso luglio ma solo in streaming, registrato durante il tour promozionale dell’album Outside (anzi, 1.Outside, dato che nell’idea originale avrebbe dovuto essere il primo episodio di una trilogia che poi non si è concretizzata), un lavoro complesso e tra i più sperimentali del nostro, un concept ambientato in un futuro distopico in cui l’omicidio è diventato una forma d’arte, con protagonista il fittizio detective Nathan Adler: il disco, che vedeva David alle prese con sonorità art-rock quando non trip-hop e techno (e rinverdiva la sua collaborazione con Brian Eno, ferma a Lodger del 1979), ebbe un ottimo successo di critica ed anche di pubblico, nonostante parecchi fans del Bowie più classico rimasero spiazzati davanti a certi arrangiamenti. Il tour che ne seguì ottenne però qualche critica negativa, sia per la brevità di alcuni spettacoli (infatti il CD del quale mi accingo a parlare, che dura 67 minuti, è il concerto completo, anche se in realtà mancano cinque pezzi suonati all’inizio insieme ai Nine Inch Nails), ma soprattutto per l’apparente rifiuto del leader di suonare le sue canzoni più famose, dando viceversa grande spazio al nuovo album e andando a ripescare brani più oscuri dai dischi del passato.

Se per un fan accorso all’epoca a vedere uno dei concerti questo poteva costituire un problema (a me è successo con Lou Reed, purtroppo l’unica volta che sono riuscito a vederlo, nel 2006 al Teatro Ventaglio Nazionale di Milano: solo 12 canzoni in tutto, di cui 11 non proprio “conosciutissime” – a parte Street Hassle, che però dal vivo ve la raccomando – ed una Sweet Jane suonata come unico bis ma in maniera decisamente scazzata), per l’ascoltatore odierno avere a che fare con un live di Bowie diverso dai soliti può addirittura rappresentare uno stimolo in più. Bowie sul palco non è mai stato un trascinatore come Springsteen o i Rolling Stones, ma era comunque un grande professionista che raramente deludeva il pubblico con performance sottotono, ed aveva la prerogativa di circondarsi sempre di musicisti formidabili: nello specifico in Ouvrez Le Chien abbiamo Reeves Gabriels e Carlos Alomar alle chitarre, Gail Ann Dorsey al basso, Zachary Alford alla batteria, Peter Schwartz e Mike Garson alle tastiere e George Simms alle backing vocals insieme alla Dorsey, Gabriels ed Alomar, mentre David si cimenta qua e là al sassofono. Il CD si apre in maniera potente con la frenetica Look Back In Anger (da Lodger), un brano molto rock con la band che picchia duro e Bowie che canta con grinta; dalla cosiddetta “trilogia berlinese” arrivano anche, più avanti nel concerto, Breaking Glass (da Low), pop-rock urbano che riesce a coinvolgere a dovere per merito dell’ottima prestazione del gruppo, e da Heroes la poco nota Joe The Lion, quasi un rock’n’roll ma alla maniera del nostro, quindi non canonico ma in ogni caso piuttosto trascinante.

Da Outside abbiamo ben sei pezzi, a partire dall’inquietante primo singolo The Hearts Filthy Lesson, un mix tra rock e suoni tecnologici algidi che trasmette un senso di angoscia e alienazione, ma che dal vivo risulta più solida e meno artefatta che in studio, fino a diventare quasi piacevole nonostante le sonorità oblique. The Voyeur Of Utter Destruction (As Beauty) ha una ritmica pressante ed una chitarra decisamente rock sullo sfondo, con le tastiere che danno il tocco di modernità e Gabriels che piazza un assolo torcibudella; I Have Not Been To Oxford Town è più fluida e sembra quasi un errebi tecnologico dal ritmo sostenuto e con un ritornello corale abbastanza immediato, mentre Outside è una rock ballad cupa, oscura e con un marcato ricorso all’elettronica, ma che l’interpretazione rilassata di Bowie riesce a rendere fruibile grazie anche ad una performance vocale degna di nota. Gli ultimi due pezzi tratti dall’album del 1995 sono We Prick You, troppo sintetica e piuttosto bruttina, e I’m Deranged, sorta di funk-rock futuristico di non facile assimilazione e con un finale quasi psichedelico, ma suonato benissimo. Da Hunky Dory, forse il suo album più famoso e più bello insieme a Ziggy Stardust, David esegue con grande vigore la non popolarissima Andy Warhol, un brano funkeggiante ed annerito (ma su quel disco c’era di meglio).

Poi finalmente abbiamo un pezzo più conosciuto anche se non è propriamente una hit, vale a dire la title track dell’album The Man Who Sold The World, ballata tipica dei primi anni del nostro che qui assume una veste sonora decisamente più moderna, con in evidenza ancora la chitarra lancinante di Gabriels. Finale con la cover danzereccia di Nite Flights dei Walker Brothers, tratta da Black Tie White Noise e, da Scary Monsters, la tersa e deliziosa Teenage Wildlife, ottima e coinvolgente rock song chitarristica. Tra le due, l’unico vero brano da greatest hits del concerto, ma è una hit planetaria: si tratta infatti di Under Pressure, famossissimo funky-pop originariamente scritto ed inciso da David insieme ai Queen, qui con la Dorsey a fare le veci di Freddie Mercury. Il prossimo live di questo cofanetto “a rate” riguarderà un’altra serata del tour di Outside, ma scelta nell’ambito delle date europee.

Marco Verdi

Nell’Impossibilità Di Avere Gli Originali, Questi Sono Un Ottimo Surrogato! The Weight Band – Live Is A Carnival

weight band life is a carnival

The Weight Band – Live Is A Carnival – ContinentalRecord Services CD

The Band, uno dei gruppi più leggendari della storia del rock, fa parte di quegli acts per così dire “irriformabili”: Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm non sono più tra noi ormai da diversi anni, Robbie Roberston non ne ha mai voluto sapere di riprendere in mano il vecchio moniker e Garth Hudson, vero leader silenzioso del gruppo e musicista dalla preparazione stellare, è sempre stato nell’ombra e non ha certo voglia di diventare un band leader a 83 anni. Il testimone del glorioso gruppo canadese (anche se Helm era americano) da qualche anno è stato preso in mano con una certa legittimità da Jim Weider, chitarrista di Woodstock che negli anni novanta era entrato a far parte della reunion della Band ad opera di Helm, Danko e Hudson prendendo il posto di Robertson (non dal punto di vista compositivo però) negli ottimi Jericho e Jubilation e nel meno riuscito High On The Hog. In seguito Weider si era unito alla Levon Helm Band fino alla scomparsa del leader avvenuta nel 2012, ed in anni recenti si è ripresentato insieme ad alcuni musicisti che avevano suonato sugli album citati poc’anzi per formare The Weight Band, che vuole apparire come un omaggio al mitico quintetto di Music From Big Pink sin dal nome che cita appunto il loro brano più popolare.

Anche The Weight Band sono in cinque: oltre a Weider abbiamo Brian Mitchell (tastiere, fisarmonica e voce, anch’egli ex membro della Levon Helm Band), Matt Zeiner (pure lui tastiere e voce), Albert Rogers (basso e voce) e Michael Bram (batteria). Come vedete anche la loro conformazione rimanda alla Band, con un chitarrista, due tastieristi e la sezione ritmica, ma sbagliate se pensate ad un gruppo solamente derivativo o peggio ancora ad una cover band: i nostri hanno tutti un pedigree musicale notevole e sanno comporre brani più che validi, cosa tra l’altro riscontrabile sul loro unico album di studio pubblicato finora, il riuscito World Gone Mad del 2018. Ora i nostri pubblicano un lavoro ancora più stimolante, un album dal vivo che fin dal titolo, Live Is A Carnival, è un chiaro tributo alla Band: Weider e soci dimostrano con questo CD di essere un gruppo coi controfiocchi e dal suono molto caldo e ricco di feeling, e di possedere una certa personalità, ma nasconderei la verità se non affermassi che la parte più interessante del concerto è costituita dalle loro versioni dei classici dell’ex gruppo guidato da Robertson, la cui resa non è ovviamente superiore agli originali ma neppure così distante. Registrato alla Brooklyn Bowl di New York il 26 gennaio del 2019, Live Is A Carnival ci fa dunque tornare per circa settanta minuti ad assaporare le atmosfere di un tempo, e se chiudiamo gli occhi quasi non ci accorgiamo che a suonare non sono “quelli là” (voci a parte): un gran bel dischetto quindi, con una setlist che si commenta da sola ed un profluvio di momenti strumentali in cui chitarra, organo e pianoforte si prendono il centro della scena con una serie di assoli sopraffini.

Ci sono quattro pezzi originali scritti da Weider, a partire dalla pimpante World Gone Mad, un folk-roots elettrificato e godibile tra antico e moderno, cantato a più voci, per poi proseguire con Heat Of The Moment, una rock song vigorosa ma non particolarmente originale, l’elettrica e cadenzata Bid Legged Sadie, con la chitarra sugli scudi, e la roccata e convincente Common Man, un rock-blues scritto assieme a Helm che è anche la migliore delle quattro. Nel concerto trovano spazio anche tre cover “esterne” alla Band, due delle quali sono comunque legate allo storico gruppo: si tratta dell’opening track Don’t Do It (di Marvin Gaye e pubblicata da Robertson e compagni sul live Rock Of Ages), qui in una strepitosa e funkeggiante versione ricca di groove e trascinante al punto giusto, ed una superba Atlantic City di Bruce Springsteen (era uno dei brani cardine di Jericho), con il mandolino di Weider e la fisa di Mitchell a guidare le danze; la terza cover è una bella e coinvolgente rilettura in puro stile southern-errebi del classico Deal di Jerry Garcia, sempre un bel sentire.

Dulcis in fundo, ecco i brani targati The Band: dopo la relativamente meno nota To Kingdom Come, un pezzo decisamente sanguigno dal sapore sudista, abbiamo una serie di capolavori suonati con grande classe ed immenso rispetto per gli originali, con titoli come Stage Fright, Rag Mama Rag, Ophelia, la straordinaria The Night They Drove Old Dixie Down ed il gran finale con una Life Is A Carnival di otto minuti e mezzo e l’immancabile The Weight di altri sette minuti. Forse l’unica mancanza di rilievo è almeno un brano di Bob Dylan, ma alla fine Live Is A Carnival si rivela un disco dal vivo riuscito e coinvolgente, che ha il merito non indifferente di farci rivivere seppur in minima parte la fantastica epopea di The Band.

Marco Verdi

Uno, Anzi Due, Degli Ultimi Grandi Concerti Della Sua Carriera. Jimi Hendrix – Live In Maui

jimi hendrix live maui front

Jimi Hendrix Experience – Live In Maui – 2CD/Blu-Ray Experience Hendrix/Sony Legacy

*NDB Quando ho scritto questa recensione ho lavorato su una anteprima, quindi non avevo ancora tutte le informazione precise, ma visto che mi pare sia venuta bene, ho preferito lasciarla così. Buona lettura.

Nell’estate del 1970 Michael Jeffery, il manager che aveva sostituito Chas Chandler alla guida della carriera di Jimi Hendrix (con risultati peraltro disastrosi, si dice facendo sparire quantità prodigiose di denaro, per farle confluire sui propri conti correnti, e forse, ma non è mai stato provato, coinvolto anche nella morte di Hendrix, l’argomento è stato dibattuto in vari libri e mai risolto, anche perché Jeffery morì anche lui in un disastro aereo in Francia nel 1973, ma in questa recensione non c’è lo spazio per parlarne, solo per inquadrarlo nel contesto), aveva seri problemi di liquidità e quindi contatta la Reprise Records del gruppo Warner, con l’idea di un film “giovanile”, offrendo come contropartita la colonna sonora di quel film, con musica di Jimi Hendrix. Poi si vedrà come Rainbow Bridge il disco, uscito postumo dopo la morte di Jimi nel 1971, avrebbe contenuto materiale raffazzonato, preso da registrazioni di studio del 1968/69 e ‘70, con un solo brano dal vivo, ma registrato a Berkeley nel maggio del 1970.

jimi hendrix live maui box

Mentre il film, anche questo uscito postumo nei cinema sempre nel 1971, doveva essere incentrato sulla vicenda di un surfer che girava per Maui, una delle isole Hawaii, poi sostituito da una modella Pat Hartley, sempre in vagabondaggio per l’isola alla ricerca di personaggi della controcultura dei tempi, alcuni che affermavano di venire da Venere ed a un certo punto sbucano a Olinda, una zona vulcanica ex zona di pascolo, dove è radunata una piccola folla per assistere ad un concerto gratuito, di quello che è l’unico vero extraterrestre, tale Jimi Hendrix, accompagnato dai suoi nuovi Experience, ovvero Billy Cox al basso e Mitch Mitchell alla batteria, in quella che sarà la sua penultima esibizione in terra americana (alla quale le Hawaii appartengono), nell’ambito del Cry Of Love Tour. Nel film poi vennero utilizzati solo 17 minuti dei due set completi ciascuno di 50 minuti eseguiti per l’occasione. Nel nuovo Live In Maui, troviamo il nuovo documentario Music, Money, Madness . . . Jimi Hendrix In Maui, estrapolato dal girato del regista originale Chuck Wein (solo in Blu-Ray, peccato niente DVD) e con la regia di John McDermott, che contiene anche i due concerti completi, presenti poi nella parte audio nei due CD: visto che sto scrivendo molto prima dell’uscita prevista per il 20 novembre, non so dirvi del contenuto video, se non per alcuni spezzoni in rete che testimoniamo comunque dell’eccellente qualità delle immagini restaurate, con l’aggiunta di molti commenti aggiunti da parte di Billy Cox e del produttore storico Eddie Kramer, che ha poi rimasterizzato e rimixato i nastri originali con risultati prodigiosi.

E di questo, che sto ascoltando ora, vi posso parlare: a dispetto di quanto a posteriori hanno affermato alcuni, anche a causa di uscite postume non impeccabili di quel genio di Alan Douglas, Jimi Hendrix a quei tempi suonava ancora alla grande, e in attesa di mettere su nastro quanto stava concependo, eseguiva anche molto materiale in anteprima. Chuck Wein, dopo una breve esibizione degli Hare Krishna, annuncia la Jimi Hendrix Experience, la sequenza non è esattamente la stessa dei CD e del Blu-Ray in uscita, seguo quella che ho io e si parte con una strepitosa Voodoo Child (Slight Return) con il mancino di Seattle che Cry baby inserito comincia ad imperversare con il pedale del wah-wah, in uno dei suoi capolavori assoluti , Villanova Junction, gia eseguita a Woodstock, è una jam blues di durate variabili, qui sono circa sei minuti di pura improvvisazione strumentale dove Hendrix estrae dalla sua chitarra le consuete, per lui, sonorità impossibili e inventate all’impronta, anche su scale modali orientaleggianti, Straight Ahead, uno dei brani di Cry Of Love, è un pezzo rock tipico del suo canone sonoro, mentre Stone Free recuperata dal lato B del primo singolo Hey Joe, (che viene appunto citata brevemente nel finale della canzone) contiene riff e ritornello che sono l’epitome del pensiero musicale futuribile di Jimi, con un assolo acido e devastante, anche in questa versione sempre superbo, brano che chiude il concerto.

Spanish Castle Magic, in origine sul Axis: Bold As Love, con quel suo incipit classico, che era in pratica il finale di una qualsiasi canzone di altri musicisti, per tutti ma non per Hendrix, che stava capovolgendo i canoni abituali delle canzoni rock, sempre con un lavoro formidabile della solista, che poi parte per la stratosfera delle 12 battute in una versione stranamente concisa ma sempre formidabile di Red House, seguita nel mio streaming da Purple Haze, sempre con baci al cielo, e uno dei riff circolari e ripetuti più celebri della storia del rock, versione robusta e turbolenta con citazione dello Star Spangled Banner, poi arriva Message To Love, che in effetti chiude il primo CD ed è uno dei brani tipici dei Band Of Gypsys, un messaggio d’amore funky all’Universo, Lover Man uscirà postuma parecchi anni dopo, uno dei vorticosi brani tipici del suo repertorio, veloce e scalpitante con la band che lo segue precisa mentre scava dal suo wah-wah altri torrenti di note, Jam Back To The House, come da titolo, è una improvvisazione, e in quanto tale, diversa da quella eseguita al Festival di Woodstock, con la chitarra free form e anche batteria e basso liberi di vagare tra le note.

In From The Storm sarà su Cry Of Love e questa a Maui è una delle prime apparizioni nel tour del 1970, brano veemente e tirato, che poi sarà eseguito anche all’Isola di Wight, eccellente versione. Hey Baby (New Rising Sun) è l’unico pezzo che viene suonato in entrambi i concerti, altra canzone nuova, che nella versione di studio apparirà nel disco Rainbow Bridge, forse un pezzo minore, ma comunque affascinante e Hendrix ci stava lavorando ancora sopra, tanto che nella seconda esibizione, strumentale, e più convincente, appare insieme a Midnight Lightning. Bellissime versioni pure di Hear My Train A-Coming, ancora il blues spaziale “according to Jimi”, con accelerazione finale potentissima, Freedom, anche quella inedita nell’estate 1970, e l’immancabile rito di Foxey Lady e la scarica di energia di una selvaggia Fire. In coda al mio ascolto, ma posizionate altrove nella sequenza ufficiale troviamo anche altri due “nuovi” brani, almeno per l’epoca: Ezy Rider, altro brano veemente e con ampio uso di wah-wah, e Dolly Dagger, incisa in studio nell’estate e pubblicata sempre su Rainbow Bridge, forse non tra i migliori di Hendrix, con qualche riciclo di sé stesso, ma “Hey, era pur sempre Jimi Hendrix”. Beati quelli c’erano e noi che lo possiamo ascoltare 50 anni dopo.

Esce domani.

Bruno Conti

Un’Altra Perla Sbucata Dalle Nebbie Del Passato. The Steve Miller Blues Band – Live From The Fillmore West 1968

The Steve Miller Blues Band - Live From The Fillmore West 1968

The Steve Miller Blues Band – Live From The Fillmore West 1968 – Retroworld/Floating World Records

In questo ultimo periodo mi è capitato più volte di occuparmi di Steve Miller, incluso un lungo articolo retrospettivo pubblicato sul finire del 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/12/07/steve-miller-band-tra-blues-rock-e-psichedelia-parte-i/ , ma quando dalle nebbie del passato miracolosamente appare qualche “nuova” testimonianza del periodo fine anni ‘60, tra blues e psichedelia, è quasi doveroso portarlo alla vostra attenzione. Come è il caso di questo Live From The Fillmore West 1968, un broadcast radiofonico della emittente KFA Radio, relativo a tre serate speciali del 26/27/28 Dicembre appunto del ‘68, dove il gruppo si esibì insieme a Sly And The Family Stone e ai Pogo (che da lì a breve sarebbero diventati i Poco di Richie Furay). Due o tre precisazioni: il disco è attribuito alla Steve Miller Blues Band, ma, come evidenzia la locandina dell’evento, erano già la Steve Miller Band, avendo pubblicato due album con quel nome durante l’anno, nelle note viene ricordato che Boz Scaggs non era presente, in quanto se ne era andato a Settembre ‘68, ma come mi pare di desumere da altro materiale degli archivi di Bill Graham https://www.wolfgangs.com/music/steve-miller-band/audio/20053982-6771.html?tid=4884717 , sembrerebbe ancora presente nella line-up della Band, almeno nella data del 29, quindi non una di queste, ma dubito che 3 date no e poi una sì, e comunque mi sembra proprio la sua voce, oltre che una canzone scritta da lui, l’iniziale Stepping Stone.

E infine, rispetto anche ad altri CD che riportano date dal vivo dell’epoca, soprattutto del ‘67, la qualità sonora non è perfetta ma è più che soddisfacente. E la chicca della serata è la presenza di Paul Butterfield all’armonica in alcune tracce: con loro ci sono Lonnie Turner al basso, Tim Davis alla batteria e Jim Peterman alle tastiere: a prescindere dalla formazione, il concerto è favoloso, appunto l’iniziale Stepping Stone è testimonianza della furia chitarristica di uno Steve Miller infoiato con il pedale wah-wah costantemente inserito per un brano di una potenza devastante, dove il nostro emula le evoluzioni di Hendrix in salsa psych-blues. Mercury Blues è un brano che Miller e soci avevano già eseguito al Monterey Pop Festival, e inciso nella colonna sonora di Revolution, canzone che poi sarebbe entrata a far parte del repertorio dei Kaleidoscope di David Lindley, anche in questo caso wah-wah a manetta con Steve che impazza per gli oltre sette minuti del brano, con la band che lo segue come un sol uomo.

In Blues With A Feeling il nostro amico invita Paul Butterfield sul palco per una sanguigna ripresa di questo classico del blues, uno slow di Little Walter dove Miller distilla dalla sua chitarra una serie di assoli degni di Magic Sam o Buddy Guy, ottimamente spalleggiato da un ispirato Butterfield, che poi rimane anche per la jam improvvisata di Butterfield Blues, con botta e risposta tra i due, e si sente anche un’altra chitarra, quindi probabilmente Scaggs era presente, ma io non c’ero quindi… Paul rimane sul palco anche per le sublimi volute psichedeliche di una sontuosa, lunga ed improvvisata Song For Our Ancestors, e anche Roll With It, un lato B dell’epoca ha profumi acidi e psych, come pure una lunga cover di un brano degli Isley Brothers (altri pionieri del rock e del soul miscelati tra loro, come Sly Stone che divideva il palco con Miller in quella serata) quasi dieci minuti di blues-rock tirato e di grande potenza, con Steve sempre impegnatissimo alla solista, con Peterman di supporto all’organo, oltre alla seconda chitarra, e qualche deriva funky aggiunta come sovrappiù alle operazioni, con il gruppo in un continuo crescendo irresistibile.

Steve Miller Band Vintage Concert Poster from Fillmore West, Dec 26, 1968 at Wolfgang's

Drivin’ Wheel è una cover di Roosevelt Sykes che Miller suona dal vivo ancora oggi , un altro blues che parte lento e poi diventa un brano di grande intensità, anche con forti connotazioni rock, e ancora un electric blues Chicago style come Bad Little Woman, per concludere in gloria una splendida esibizione, sempre con uno Steve Miller molto ispirato alla chitarra. Una piacevole sorpresa. *NDB Documenti sonori di quel concerto in rete non ce ne sono, vi dovete comprare il CD, quindi ne ho messi un paio sempre del 1968, ma vi assicuro che la qualità del suono di questo Live From The Fillmore West benché lungi dall’essere perfetta è nettamente superiore, e raramente mi è capitato di sentire la Steve Miller Band suonare così bene dal vivo.

Bruno Conti

Gli Anni Migliori Di Un Grandissimo Songwriter. John Prine – Crooked Piece Of Time

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John Prine – Crooked Piece Of Time: The Atlantic And Asylum Albums – Rhino/Warner 7CD Box Set

Una delle perdite più gravi di questo maledetto 2020 è stata certamente quella di John Prine, grandissimo singer-songwriter che al suo esordio era stato indicato come uno dei tanti “nuovi Dylan”, ma che in poco tempo riuscì ad affermarsi come uno dei più lucidi e talentuosi artisti in circolazione arrivando quasi al livello del grande Bob (che tra parentesi è sempre stato un suo sincero ammiratore). Oggi non sono qui per commemorare la figura di Prine (a tal proposito vi rimando al mio post di aprile https://discoclub.myblog.it/2020/04/08/uno-dei-piu-grandi-cantautori-di-tutti-i-tempi-a-73-anni-ci-ha-lasciato-anche-john-prine-ed-un-ricordo-di-hal-willner/ ), ma per parlare nel dettaglio del cofanetto da poco uscito Crooked Piece Of Time, un pratico box in formato “clamshell” che include i primi sette album del cantautore di Chicago, quattro pubblicati in origine dalla Atlantic e tre dalla Asylum, che vanno a formare il suo periodo sicuramente migliore e più fertile. I sette dischetti sono stati opportunamente rimasterizzati e sono presentati in pratiche confezioni simil-LP, con all’interno tutti i testi (tranne che nell’album Pink Cadillac) e con accluso un libretto che comprende le tracklist disco per disco (ma non i musicisti) ed un bel saggio dell’ormai onnipresente David Fricke, oltre ad un bellissimo ritratto di John in copertina realizzato appositamente per questo box dal pittore Joshua Petker.

Ma veniamo nel dettaglio al contenuto musicale del cofanetto (che ha anche un prezzo interessante, circa 40 euro).

John Prine (1971). Messo sotto contratto dalla Atlantic, che lo ha notato come opening act dei concerti di Kris Kristofferson, Prine entra in studio con il famoso produttore Arif Mardin (che sarà presente anche nei due album seguenti) e con musicisti del giro di Elvis (Reggie Young, Bobby Emmons, Bobby Wood e Gene Chrisman), oltre all’amico e collega Steve Goodman. John Prine è uno dei debutti più fulminanti della storia della nostra musica, il classico album da cinque stelle che a posteriori sembra più un greatest hits che un disco nuovo. Un vero capolavoro, con canzoni formidabili come Illegal Smile, Hello In There (il brano più bello di sempre sulle persone anziane), Sam Stone (pezzo del quale Roger Waters, grande fan di John, ha ripreso la melodia pari pari per la sua The Post War Dream, che apriva The Final Cut dei Pink Floyd), Paradise, Far From Me, Angel From Montgomery e Donald And Lydia: una sequenza impressionante, canzoni che molti autori non scrivono in una carriera intera.

Ma nel disco ci sono altri brani strepitosi come l’irresistibile country song Spanish Pipedream, l’elettrica Pretty Good (questa sì dylaniana), la divertente Your Flag Decal Won’t Get You Into Heaven Anymore, la prima di una lunga serie di canzoni dal testo esilarante, la vivace e swingata Flashback Blues.

Diamonds In The Rough (1972). Album diverso nelle sonorità rispetto al precedente, in quanto John si presenta con un ristretto gruppo di musicisti (tra i quali figura anche David Bromberg) e mette a punto un album influenzato dalla musica folk, country e bluegrass delle origini, nel suono più che nelle canzoni che sono tutte sue tranne la title track che è della Carter Family.

Anche qui i pezzi da novanta non mancano, come il puro country della limpida Everybody, la classica Souvenirs, una delle sue ballate più note, il scintillante folk tune The Late John Garfield Blues, le graffianti bluegrass songs The Frying Pan e Yes I Guess They Oughta Name A Drink After You, la deliziosa Billy The Bum, solo voce, chitarra e dobro ma un mare di feeling e l’intensa The Great Compromise, con John in completa solitudine.

Sweet Revenge (1973). Prine torna a sonorità più elettriche con un altro splendido disco, il migliore della decade dopo l’inarrivabile esordio, con sessionmen di Nashville non famosissimi ma che cuciono intorno alla voce del nostro un accompagnamento perfetto. L’album parte alla grande con il rock-soul-gospel della title track e poi mette in fila una serie di canzoni di primissima qualità: Please Don’t Bury Me e Grandpa Was A Carpenter sono due country-rock irresistibili, Dear Abby, acustica e dal vivo (a New York) fa morire dal ridere, Christmas In Prison è una delle sue migliori ballate di sempre.

Ma poi c’è l’ariosa Blue Umbrella che è una country song semplicemente sublime, il rock’n’roll di Onomatopeia, il delizioso valzerone The Accident, la pura e cristallina Mexican Home, per concludere con una trascinante cover del classico di Merle Travis Nine Pound Hammer.

Common Sense (1975). Registrato tra Memphis e Los Angeles con la produzione del grande Steve Cropper, questo album non contiene superclassici ma è sempre stato uno dei miei preferiti grazie ad una qualità compositiva media decisamente alta e ad un suono più rock del solito, merito anche degli interventi dello stesso Cropper, del bassista suo compagno negli MG’s Donald “Duck” Dunn, di Rick Vito alle chitarre, di una sezione fiati e con il contributo alle backing vocals da parte di Jackson Browne, Glenn Frey, J.D. Souther e Bonnie Raitt.

Gli highlights sono il rockin’ country con fiati dal sapore sudista Middleman, la squisita e solare ballata che intitola il disco, dal mood californiano (non per nulla partecipano Browne, Frey e Souther), l’honky-tonk Come Back To Us Barbara Lewis Hare Krishna Beauregard, dallo strepitoso ritornello con la Raitt alla seconda voce, le vibranti rock ballads Wedding Day In Funeralville e My Own Best Friend, quest’ultima con un godurioso intreccio di chitarre elettriche e slide, la caraibica e scoppiettante Forbidden Jimmy, l’errebi rockeggiante della notevole Saddle In The Rain e la stupenda ballata He Was In Heaven Before He Died, degna di stare sul primo album del nostro. Finale a tutto rock’n’roll con una travolgente cover di You Never Can Tell, classico di Chuck Berry.

Bruised Orange (1978). Prine, scontento di come la Atlantic gestisce la sua figura, si accasa alla Asylum per tre dischi (e le cose non andranno meglio), tentando senza successo di fare un disco con la produzione di Cowboy Jack Clement. Un po’ sfiduciato dall’esperienza John torna a Chicago e chiede aiuto all’amico Steve Goodman, che gli produce questo Bruised Orange che si rivela un altro grande lavoro, solo di poco inferiore a Sweet Revenge.

Si inizia alla grande con lo strepitoso country-rock cadenzato di Fish And Whistle ed il livello si mantiene alto anche alla distanza. There She Goes è un western swing decisamente gustoso, If You Don’t Want My Love, scritta insieme a Phil Spector, una languida ballata che svela il lato romantico di John, mentre le splendide That’s The Way The World Goes ‘Round, Bruised Orange e Sabu Visits The Twin Cities Alone sono giustamente entrate a far parte dei suoi classici. Infine, un cenno al brano che intitola questo cofanetto, che sembra Dylan con alle spalle The Band, ed alla deliziosa folk song The Hobo Song, con un maestoso coro che comprende ancora Browne ed anche Ramblin’ Jack Elliott.

Pink Cadillac (1979). Prine torna a Memphis e si fa produrre dai figli del mitico Sam Phillips, Jerry e Knox (ma due pezzi vedono alla consolle proprio il vecchio Sam): il problema però è che John questa volta non ha abbastanza materiale valido (ed anche quello che porta non è al livello solito), con il risultato che su dieci brani totali la metà sono cover.

Tra i pezzi originali segnalo la potente Chinatown, con chitarre e piano in evidenza, il rockabilly Automobile, l’elettrica e sanguigna Saigon e la ballata dal sapore soul Down By The Side Of The Road, forse il brano migliore del disco. Tra le cover spiccano i classici rock’n’roll Baby Let’s Play House e Ubangi Stomp e l’honky-tonk song di Floyd Tillman Cold War (This Cold War With You).

Storm Windows (1980). Ultimo album di John per una major prima di fondare la Oh Boy Records, Storm Windows è un altro disco splendido, registrato ai mitici Muscle Shoals Sound Studios di Sheffield, Alabama, sotto la produzione di Barry Beckett.

La ballata pianistica che intitola l’album è un mezzo capolavoro, ma poi abbiamo le due rock’n’roll songs Shop Talk e Just Wanna Be With You, una più coinvolgente dell’altra, la fulgida Living In The Future, brano rock tipico di Prine (quindi bello), la tersa ed incantevole country ballad It’s Happening To You, la cristallina Sleepy Eyed Boy, splendida anche questa, e la gentile One Red Rose.

Se non conoscete John Prine (ne dubito, se siete su questo blog) o più semplicemente non possedete tutti i suoi album, Crooked Piece Of Time è un cofanetto da non perdere.

Marco Verdi

Un’Altra “Scoperta” Dell’Infaticabile Mike Zito! Kat Riggins – Cry Out

kat riggins cry out

Kat Riggins – Cry Out – Gulf Coast Records

Anche in questo caso garantisce Mike Zito, che la produce e pubblica il disco per la propria etichetta: non è il primo album di Kat Riggins, ne ha già pubblicati almeno altri tre, più un EP e uno solo in streaming, ma la cantante nera (lo so che in tempi di politically correct qualcuno storce il naso, ma non è una offesa razzista, semplice constatazione che nella nostra musica si usa normalmente) si conferma una delle voci più interessanti delle nuove generazioni, benché la cantante della Florida abbia ormai compiuto 40 anni nel 2020, peraltro in ambito blues, soul e gospel, quelli che lei frequenta, direi quasi una giovinetta. Lo stile l’ho appena svelato, ma la Riggins ha quella che si suole definire “una voce della Madonna”, con inflessioni che rimandano a Koko Taylor, Etta James e Tina Turner, non esattamente le prime che passano per strada, ma in questo nuovo album prodotto da Zito, che ama le robuste sonorità rock, ci sono analogie pure con Dana Fuchs, Beth Hart e altre paladine del blues rock’n’soul moderno.

Prendiamo l’iniziale Son Of A Gun, ritmica rock gagliarda, riff di chitarra come piovesse, e la voce di devastante potenza della Riggins, Cry Out è un grande Texas blues, con Johnny Sansone all’armonica, brano che ricorda molto l’approccio della citata Koko Taylor, chitarra in primo piano, un organo vintage e la voce profonda e risonante sbattuta in faccia di Kat, che si trova a proprio agio anche nel funky fiatistico e sincopato di una brillante Meet Your Maker, voce che sale e scende, un tocco di raucedine che la rende sensuale, e grande controllo pure nel rock-blues tirato e cattivo di Catching Up, chiaramente farina del sacco di Zito che in questo tipo di brani ci sguazza e lascia andare la sua chitarra con libidine in un vibrante assolo, e anche l’heavy blues di Truth trasuda grinta e personalità, soprattutto quando si “incazza”, va beh diciamo si inquieta, e alza la voce. Dopo l’interludio a cappella di Hand In The Hand, non manca neppure il deep soul venato di gospel della splendida ballata Heavy dove si toccano profondità quasi alla Mavis Staples, fortificato dal ricercato lavoro alla slide di Zito e con un coro di voci di bambini ad aumentare nel finale il pathos del brano.

Nella di nuovo riffatissima Wicked Tongue arriva anche Albert Castiglia a dare una mano con la sua tagliente chitarra, che aumenta ulteriormente il tasso rock del pezzo con un assolo da sballo, mentre la band picchia di brutto e il testo cita anche la “maestra” Koko Taylor. Tornano i fiati e l’organo per la vibrante Can You See Me Now, sempre con chitarre fiammeggianti, che poi scatenano un pandemonio, come direbbe il buon Dan Peterson, nel robusto heavy blues della tirata Burn It All Down con il batterista Brian Zeilie che scandisce il tempo in modo granitico, ben spalleggiato dal bassista Doug Byrkit e dall’organo di Lewis Stephens spesso protagonista nell’album (in pratica la band di Mike), mentre Zito imperversa una volta di più. Molto bella anche la spumeggiante e con un groove quasi da revue alla Ike & Tina Turner On It’s Way, fiati in spolvero e un dinamico assolo di sax nella parte centrale, ma è un attimo e siamo al classico incrocio del blues, in un altro ottimo esempio di 12 battute con lo shuffle No Sale, dove ancora una volta non si prendono prigionieri e Mike Zito estrae il suo bottleneck per un’altra sfuriata delle sue e anche Sansone all’armonica si fa sentire, mentre la voce mi ha ricordato la Beth Hart più infoiata.

In chiusura un altro “lentone” intenso e ad alta intensità rock come The Storm, dove sembra che l’ottima Kat Riggins sia accompagnata dai Led Zeppelin per una scampagnata nei territori cari a Janis Joplin. Ottimo ed abbondante, assolutamente consigliato se amate le emozioni forti e la conferma che Zito raramente ne sbaglia una.

Bruno Conti