Torna Lo Springsteen Della Domenica: Una Full Immersion Nella Leggenda! Bruce Springsteen & The E Street Band – London 11/24/1975

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Bruce Springsteen & The E Street Band – London 11/24/1975 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Il fatto che Bruce Springsteen sia uno dei migliori performer dal vivo nella storia della nostra musica è un fatto che si dà ormai per acquisito, ma c’era un tempo in cui il rocker del New Jersey era ancora un artista emergente che cercava di affermarsi con tanta fatica e tanto sudore. Se il tour del 1978 è giustamente diventato leggendario, stiamo comunque parlando di un musicista che era già famoso (almeno nel suo paese d’origine), e sono quindi gli show del 1975 quelli che hanno contribuito più di tutti a creare tale leggenda. In quell’anno Bruce era impegnato in una lunga ed estenuante tournée americana a supporto del suo terzo album Born To Run, ed aveva da poco avuto l’onore della famosa doppia copertina su Time e Newsweek, ma in novembre aveva fatto una breve puntatina in Europa per quattro concerti, due all’Hammersmith Odeon di Londra, uno a Stoccolma e l’altro ad Amsterdam, show che rimarranno gli unici in tutta la decade nel Vecchio Continente (infatti tornerà solo nel 1981).

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Lo show londinese del 18 novembre era già uscito nel 2005 come DVD (ed in seguito anche in doppio CD) all’interno del box set del trentennale di Born To Run, ma la seconda serata di sei giorni dopo era ancora inedita, almeno fino ad oggi,  visto che è stata scelta come nuova pubblicazione nell’ambito della benemerita serie di concerti live del Boss. E non si sarebbe potuto fare scelta migliore, in quanto London 11/24/1975 ci riporta letteralmente indietro con la macchina del tempo in un periodo in cui Bruce e la sua E Street Band avevano veramente i proverbiali occhi della tigre ed erano già un gruppo formidabile di musicisti, “il futuro del rock’n’roll” come aveva dichiarato nel ’74 il critico musicale e futuro produttore proprio del Boss Jon Landau. Non solo, ma questo secondo spettacolo londinese, oltre ad essere molto più lungo del primo (22 canzoni contro 16), è sempre stato ritenuto migliore sia dai fans che dallo stesso Springsteen, che il 18 novembre aveva a suo dire fornito una performance non del tutto soddisfacente innervosito dalla presenza delle telecamere. A me il doppio CD che documentava la prima serata era comunque piaciuto molto, ma questo del 24/11 è una vera bomba, con un Boss che regala ai presenti una performance fenomenale ben coadiuvato da un gruppo che era già una macchina da guerra, con la ciliegina di una setlist pazzesca specie nella parte finale.

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Un cocktail irresistibile di rock’n’roll, rhythm’n’blues e lunghe e fluide ballate pianistiche, con i nostri che rivisitano il meglio dei primi tre album di Bruce ed aggiungono una serie di cover da paura. Dopo un inizio con due pezzi dal nuovo disco (Thunder Road per sola voce, armonica, piano di Roy Bittan e glockenspiel di Danny Federici ed una Tenth Avenue Freeze-Out potente e concisa), il nostro guarda al suo passato prossimo con la soulful Spirit In The Night ed una drammatica e struggente Lost In The Flood https://www.youtube.com/watch?v=8DvTeI7-kLM , per poi tornare ai tempi recenti con l’uno-due formato da She’s The One e Born To Run (che non aveva ancora preso posto tra i bis). Dopo una sorprendente versione di undici minuti della hit dei Manfred Mann Pretty Flamingo https://www.youtube.com/watch?v=2OMF9B-UnLc  (che comunque ai tempi, a sua volta, con la Earth Band aveva inciso alcune eccellenti cover di Springsteen, contribuendo a spargere il verbo)), ecco un altro tuffo negli esordi con una breve ma sentita Growin’ Up ed una It’s Hard To Be A Saint In The City più vibrante che mai. A seguire, uno dei magic moments della serata, che vede i nostri (con Bittan su tutti) proporre due spettacolari riletture degli inni pianistici Backstreets e Jungleland, separati dai tre minuti scarsi della coinvolgente Sha-La-La delle Shirelles https://www.youtube.com/watch?v=8vWOaFPRXAo .

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Dopo le prevedibili ma sempre gradite Rosalita e 4th Of July, Asbury Park (Sandy) ecco il momento in cui lo show da grandissimo diventa leggendario: si parte con un raro omaggio ad Elvis con Wear My Ring Around Your Neck (suonata del Boss solo 14 volte in carriera), a cui fanno seguito i dieci fantastici minuti del Detroit Medley ed i nove di una commovente For You con Bruce da solo al pianoforte. Ma questo è solo l’antipasto, in quanto subito dopo arriva la classica When You Walk In The Room dei Searchers https://www.youtube.com/watch?v=qqJfsa1_wZg , una sontuosa Quarter To Three di Gary U.S. Bonds, i quasi undici minuti della sempre travolgente Twist And Shout ed un doppio tributo finale a Chuck Berry (ed al rock’n’roll) con Carol https://www.youtube.com/watch?v=dD7meTrv7YY  e Little Queenie. Un concerto che anche a distanza di 46 anni è in grado di mettere k.o. una mandria di tori, ed in più avrete la piacevole sensazione di rivivere in prima persona la nascita di un mito del palcoscenico. Alla prossima uscita, che riguarderà uno show newyorkese molto più recente (2009), ma con una notevole sorpresa in scaletta.

Marco Verdi

Non Un Capolavoro Assoluto Come I Primi Due Album, Ma Come Ristampa La Migliore Delle Tre Uscite Finora. The Band – Stage Fright 50th Anniversary

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The Band – Stage Fright 50th Anniversary – Capitol/Universal 2CD Deluxe – 2CD/BluRay/LP/45rpm Super Deluxe Box Set

Se l’edizione per il cinquantesimo anniversario di Music From Big Pink, mitico esordio discografico di The Band, era stata una mezza truffa, quella del loro secondo disco omonimo (conosciuto anche come The Brown Album) era decisamente più appetibile dal momento che presentava l’intera esibizione del gruppo canadese al leggendario Festival di Woodstock del 1969,  inedita per tutti ma non per il sottoscritto ed altre 1968 persone nel mondo che si erano accaparrate il megabox dedicato all’evento rock più famoso di sempre  https://discoclub.myblog.it/tag/richard-manuel/. Ora è la volta del terzo disco di Robbie Robertson e compagni, ovvero Stage Fright del 1970, e la ristampa (rimandata di qualche mese a causa del Covid) è quella finora che offre più chicche, dal momento che oltre al disco originale e ad un paio di takes alternate offre una session rarissima e molto particolare sul primo CD ed uno splendido concerto inedito sul secondo (come nei primi due casi, il box è praticamente inutile nonché molto costoso, visto che il doppio CD presenta comunque i contenuti musicali al completo).

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Ma andiamo con ordine: si sa che nel mondo del rock non è mai facile dare seguito ad un album che viene unanimemente considerato un capolavoro, figuriamoci quando i capolavori sono due di fila. Questo è quello che successe nel 1970 con la Band, che aveva all’attivo due album che ancora oggi sono guardati come pietre miliari della storia del rock (Music From Big Pink e The Band, appunto), due lavori che si contrapponevano decisamente alla psichedelia ed alle filosofie hippy tanto in voga introducendo un suono completamente nuovo che mescolava rock, blues, country, folk, jazz, errebi, soul e dixieland in un modo totalmente inedito, introducendo in un certo senso quello che oggi viene definito Americana Sound, il tutto con testi che parlavano di semplici storie di tutti i giorni quando non di eventi della Guerra di Secessione, ed i cinque si presentavano con un look da signori di campagna del 1900 molto distante da quello della Summer Of Love. In quel 1970 Robertson, da sempre il principale quando non unico autore del gruppo, era giustamente visto come uno dei massimi songwriters in circolazione al pari di Van Morrison, John Fogerty e Paul Simon (che infatti proprio quell’anno daranno alle stampe i capolavori Moondance, Cosmo’s Factory e Bridge Over Troubled Water) e superiore anche a Bob Dylan e Brian Wilson che in quel momento non stavano vivendo la loro stagione migliore.

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Stage Fright però non nacque sotto una buona stella: inizialmente i nostri pensavano infatti di registrarlo dal vivo alla Woodstock Playhouse di fronte ad un pubblico, ma le autorità locali non diedero il permesso in quanto ancora scosse dall’invasione di hippies del ’69, e così Robertson e soci dovettero far buon viso a cattivo gioco riuscendo almeno a strappare il permesso di usare la medesima location per le sessions. L’album fu anche il primo in cui i nostri si autoprodussero (quindi niente John Simon come nei primi due dischi), facendo però mixare le varie canzoni prima ad un giovane Todd Rundgren e poi, forse per insicurezza sul risultato, al già più esperto Glyn Johns: il problema è che non si saprà mai quale mix finirà sul disco, anche se la versione più attendibile parla di un insieme di entrambi! Come se non bastasse, sia Levon Helm che Rick Danko e Richard Manuel (le tre voci soliste del gruppo) in quel periodo avevano cominciato a far uso di droghe pesanti, con il risultato di non essere sempre in palla durante le sessions (spesso si addormentavano, con tanto di materassi e cuscini portati in loco) e di contribuire molto poco in sede di songwriting, con un solo pezzo co-firmato da Helm insieme a Robbie e due da Manuel (che saranno addirittura gli ultimi della carriera del cantante e pianista).

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Toccò quindi a Robertson e Garth Hudson, entrambi refrattari alle droghe, tenere la barra dritta per condurre il disco in porto, ed il risultato fu un altro grande album che aveva il solo difetto di arrivare dopo due vere opere d’arte come i primi lavori del gruppo, con un’altra serie di canzoni splendide che confermavano la vena apparentemente inesauribile di Robbie (e vedremo tra poco che invece si stava esaurendo) ed il fatto che, nonostante le prime crepe, i cinque erano ancora eccellenti musicisti. Il suono di Stage Fright è più orientato al rock dei suoi due predecessori e presenta meno stili diversi, ma è comunque sempre un bel sentire, con almeno tre classici assoluti: la rockeggiante The W.S. Walcott Medicine Show, colorata dai sax tenore e baritono di Hudson e John Simon (nel suo unico intervento in tutto il disco) e con Helm e Danko a duettare https://www.youtube.com/watch?v=NlBzt_vyehQ , la diretta e trascinante The Shape I’m In, con Garth strepitoso all’organo https://www.youtube.com/watch?v=Z9ghyKPtb50 , e la luccicante rock ballad che intitola l’album  https://www.youtube.com/watch?v=f1DI5Ht7K7E. Ma le canzoni splendide non finiscono certo qui, in quanto abbiamo ancora la countreggiante Daniel And The Sacred Harp, fenomenale, la pacata e fluida The Rumor, dalla veste sonora raffinata, lo scoppiettante singolo Time To Kill, che uno come Tom Petty deve aver ascoltato fino alla nausea, la soulful e calda Just Another Whistle Stop, con bell’assolo chitarristico di Robbie, e le toccanti All La Glory (scritta da Robertson per la figlia appena nata) e Sleeping, inframezzate dal rock’n’roll dal sapore di Louisiana Strawberry Wine.

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La versione estesa presenta un nuovo mix di Bob Clearmountain, una nuova copertina e la sequenza delle canzoni cambiata da Robbie secondo l’idea originale; nel primo CD come bonus troviamo due missaggi diversi di Strawberry Wine e Sleeping, dall’impianto più acustico, e soprattutto una rara session sempre del 1970 chiamata The Calgary Hotel Room Recordings, registrata appunto nella camera di un albergo della località canadese durante una tappa del Festival Express  https://www.youtube.com/watch?v=7-XmvrZRKGc (il famoso “treno rock” che attraversò il Canada con concerti decisi all’ultimo momento a seconda delle fermate – una specie di antenato della Rolling Thunder Revue di Bob Dylan – al quale parteciparono oltre alla Band i Grateful Dead, Janis Joplin, Buddy Guy, Delaney & Bonnie ed i Flying Burrito Brothershttps://discoclub.myblog.it/2012/08/30/ieri-e-oggi-festival-express-big-easy-express-41-anni-dopo-t/ , sette improvvisazioni acustiche con la presenza dei soli Robertson, Danko e Manuel (e Robbie partecipa anche come cantante) con una qualità di registrazione più che accettabile vista l’informalità del luogo: i brani suonati sono due versioni di Get Up Jake, uno veloce ed una più lenta, The W.S. Walcott Medicine Show https://www.youtube.com/watch?v=tTKo0TyMnPk , un’improvvisazione intitolata Calgary Blues https://www.youtube.com/watch?v=jTeGFyUfF3s  e le cover di Rockin’ Pneumonia And The Boogie Woogie Flu di Huey “Piano” Smith, Before You Accuse Me di Bo Diddley e Mojo Hannah di Tami Lynn https://www.youtube.com/watch?v=QiPrNM8laOo .

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Ma il vero fiore all’occhiello di questa ristampa è il concerto inedito sul secondo dischetto, registrato alla Royal Albert Hall di Londra nel giugno del 1971, venti canzoni per quasi 80 minuti di musica che rappresentano un tipico show completo dei nostri in quell’epoca (è bizzarro come una volta, quando i musicisti erano più giovani e nel pieno delle loro forze, i concerti durassero molto meno di oggi). Lo spettacolo in questione è considerato dai fans di Robertson e compagni uno dei loro migliori di sempre, e dopo averlo ascoltato non posso che confermare: il quintetto infatti ci regala formidabili esecuzioni del meglio del proprio repertorio, riletto in maniera concisa (non erano un gruppo da jam session) ma con grande forza e feeling, e con le ben note e strepitose armonie vocali in gran spolvero. Stage Fright è rappresentato per metà, con versioni assolutamente coinvolgenti dei pezzi più adatti alla dimensione live: la title track https://www.youtube.com/watch?v=B-O-MLif5oY , The Shape I’m In https://www.youtube.com/watch?v=t8caX3tBkEM , The W.S. Walcott Medicine Show, Time To Kill e Strawberry Wine.

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Non mancano ovviamente i classici immortali dei nostri (The Weight https://www.youtube.com/watch?v=7yilhWNEPeo , Up On Cripple Creek, King Harvest (Has Surely Come), la dylaniana I Shall Be Released – sentite come canta Manuel https://www.youtube.com/watch?v=BbYOjtzTffo  – Across The Great Divide e The Night They Drove Old Dixie Down https://www.youtube.com/watch?v=pO06Ow1kmZU ), ma neppure alcune bellissime “deep cuts” come Rockin’ Chair, Look Out Cleveland, We Can Talk e The Unfaithful Servant https://www.youtube.com/watch?v=XQfESdJZ0iE . Detto di un paio di sanguigne cover tipiche delle loro setlist (Loving You Is Sweeter Than Ever dei Four Tops e Don’t Do It di Marvin Gaye), la serata termina in crescendo con il famoso assolo di tastiere di Hudson intitolato The Genetic Method che confluisce nella potente Chest Fever, e con il gioioso cajun-rock di Rag Mama Rag https://www.youtube.com/watch?v=dC7n_0A_eAE . Da Stage Fright in poi l’ispirazione di Robertson calerà improvvisamente, e dopo il parzialmente deludente Cahoots del 1971 non ci saranno nuove canzoni originali di The Band fino al 1975, quando uscirà il peraltro magnifico Northern Lights-Southern Cross, che è anche il mio preferito dopo i primi due. Ma queste sono altre storie.

Marco Verdi

Trent’anni (Anzi 31) E Non Sentirli! Black Crowes – Shake Your Money Maker Deluxe Edition

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Black Crowes – Shake Your Moneymaker 30Th Anniversary Edition – Ume/Universal 3 CD

La ristampa di Shake Your Money Maker dei Black Crowes esce in una quantità spropositata di versioni (CD singolo, doppio e triplo, soft pack e Super Deluxe Edition, LP e 4 LP): avrebbe dovuto essere pubblicata lo scorso anno (ma è arrivata la pandemia a rovinare il tour commemorativo dopo poche date) per festeggiare un album che nel febbraio del 1990 riportava in auge il caro vecchio rock, prima dell’avvento del grunge, e presentava una formazione che era innamorata del classic rock di Stones, Faces, Humble Pie, ma anche Beatles e Rich Robinson aveva citato tra le influenze pure i primi Aerosmith, senza dimenticare Otis Redding, di cui incisero, proprio su Shake Your Money Maker, Hard To Handle, e i Led Zeppelin, celebrati anni dopo in Live At the Greek, insieme a Jimmy Page. Nel nuovo tour della reunion, sospeso ed ora previsto per il 2021 (ma sarà possibile?), in effetti si riuniscono solo i fratelli Chris e Rich Robinson, gli altri, per quanto bravi (?) sono tutti nuovi: Isiah Mitchell chitarra (Earthless e Void), il bassista Tim Lefebvre (ex Tedeschi Trucks Band), il tastierista Joel Robinow e il batterista Raj Ojha, non mi sembrano proprio di prima fascia, specie dovendo riproporre il vecchio repertorio e non nuove canzoni (o forse sì?).

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Tornando alla nuova ristampa vediamo i contenuti del triplo: il disco originale, prodotto da George Drakoulias, che li aveva scoperti in Georgia un paio di anni prima, quando si chiamavano ancora Mr. Crowe’s Garden e messi sotto contratto per la Def American di Rick Rubin (indicato in copertina come produttore esecutivo, ma solo dopo il successo del disco), che agli inizi era soprattutto una etichetta di Metal e Rap, lo conosciamo tutti. Dieci brani, più una breve traccia nascosta, dove accanto ai fratelli Robinson, che scrivono anche tutte le canzoni, ci sono l’ottimo secondo chitarrista Jeff Cease, scomparso abbastanza presto (ora è il chitarrista di Eric Church) , Steve Gorman alla batteria, sempre presente, Johnny Colt al basso nei primi quattro album, i migliori, e alle tastiere “l’ospite” Chuck Leavell, che fa un grande lavoro di raccordo. Ci sono almeno tre super classici, ma tutto il disco è un solido album da 4 stellette (in questa edizione espansa anche mezza di più), che venderà complessivamente oltre cinque milioni di copie, trasformando i Black Crowes in un gruppo di enorme successo, tanto che il Melody Maker li definì con una iperbole “il gruppo rock’n’roll più rock’n’roll del mondo”, magari esagerando un tantinello https://www.youtube.com/watch?v=YemrzS7X4e8 . Per i “ricchi” c’è anche una versione Super Deluxe, che però ha lo stesso contenuto di quella soft pack, salvo per i memorabilia.

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Si inizia a godere con Twice As Hard, subito riff come piovesse, poi arriva la voce potente di Chris, le chitarre iniziano a ruggire, modalità normale e slide, mentre macinano sano R&R, Jealous Again è anche meglio, pianino di Leavell pronto alla bisogna, voce di Robinson pimpante, come se Rod Stewart non avesse smesso di essere il frontman dei Faces da una vita, e fratello Rich si spara un “assolino” gustoso. Ma non scherzano anche i pezzi “minori” come Sister Luck, una ballatona mid-tempo stonesiana dalla melodia deliziosa, Could I’ve Been So Blind, un altro potente R&R senza tempo, come pure le volute rock’n’soul della delicata Seeing Things, che profumano di Sud, anche grazie alle armonie vocali di Laura Creamer e all’organo sontuoso di Leavell, come ribadisce la splendida cover di Hard To Handle di Mr. Pitiful in persona Otis Redding, dove rock e soul convergono ancora alla perfezione, come se lo avessero inventato loro, e quelle chitarre tirano veramente di brutto. Sarà anche tutto derivativo, ma un bel “e chi se ne frega” lo vogliamo dire: Thickn’ Thin va di boogie-rock scatenato come non ci fosse un futuro (ma un passato di qualche vecchio vinile dei Faces o degli Humble Pie sì), la band è solida è affiatata, la produzione di Drakoulias chiara e nitida, con tutti gli stumenti e le voci ben evidenziate.

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Poi arriva She Talks To Angels, un’altra piccola meraviglia, una ballata introdotta da una chitarra acustica, che poi diventerà a sua volta un classico del rock degli ultimi 30 anni, l’organo di Leavell che pennella, la ritmica perfetta e pressante nel creare un crescendo come insegnano sui Bignami della migliore musica, discreto ma coinvolgente. Struttin’ Blues non avrebbero potuto farla meglio neppure gli Humble Pie dei tempi d’oro, Steve Marriott all’epoca avrà approvato di sicuro, e anche oggi da lassù guarderà con benevolenza questi suoi “discendenti” che maltrattano le chitarre come riportano i comandamenti del R&R, che poi si ripetono anche nella conclusiva Stare It Cold, un’altra torbida e perversa dimostrazione, con uso slide, dell’assioma “it’s only rock’n’roll but we like it”, in coda la breve Mercy, Sweet Moan è solo un intramuscolo blues che chiude uno dei classici esordi della storia del rock, in seguito faranno anche meglio.

UNITED STATES - JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

UNITED STATES – JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

CD 2 Unreleased Songs & B-Sides Charming Mess è un altro omaggio ai Faces più infoiati, secondo qualcuno potrebbe essere Hot Legs di Rod Stewart con solo le parole cambiate, ma pianino malizioso e chitarre super riffate non mancano https://www.youtube.com/watch?v=OCnr8X3F6vE , poi si passa ad una bella cover di 30 Days In The Hole degli Humble Pie, ma più “impasticcata”, come si fossero gemellati con i Mott The Hoople e gli Stones, comunque sempre una goduria, sentire che chitarre e anche Don’t Wake Me “tira” di brutto, twin guitars come neanche i Lynyrd Skynyrd superati a destra a tutta velocità e Jealous Guy di John Lennon diventa molto bluesy, grazie a piano e organo, con quel cantante che sembra sempre il miglior Rod Stewart, quando non scherzava un c..zzo, ma che è capace di regalarci ballate avvolgenti come pochi altri hanno saputo fare, sentire per credere la deliziosa Waitin’ Guilty, che si anima subito tra slide malandrine e organi hammond comprati in qualche negozio vintage https://www.youtube.com/watch?v=SvL9IeKlOg8 . Niente male, per usare un eufemismo, anche la versione con fiati aggiunti di Hard To Handle, quasi più Stax degli originali di Steve Cropper e soci, quando si “divertivano” con Otis, mentre le due canzoni unplugged, Jealous Again, per sola voce, chitarre acustiche e battito di mani e She Talks To Angels,con piano alla Elton John “americano” e tamburello aggiunti all’acustica, sono solo incantevoli. Meno interessanti, ma comunque gradevoli i due brani dell’era Mr. Crowe’s Garden, con florilegi country-folk, quando non avevano forse ancora deciso se diventare i nuovi Stones/Faces, ma Rod Stewart, quello dei dischi solisti, era già un modello, versioni ruspanti, anche a livello tecnico di registrazione, di She Talks To Angels, e dalla aia di casa Robinson, una Front-Porch Sermon molto country campagnola (uhm, un ossimoro) con tanto di banjo aggiunto.

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Quando a dicembre tornano trionfanti ad Atlanta dopo un tour micidiale (magari anche con qualche scazzottata tra i fratelli), come direbbe Abantuono sono diventati una “putenza”, ed ecco nel CD 3 un fantasmagorico concerto, 14 brani + introduzione, dove i Robinson e soci a questo punto hanno fatto una scelta, o forse no, tra Stones, Faces, Humble Pie, Led Zeppelin e Lynyrd Skynyrd, tutti rollati in uno. Ripeto, non saranno originali, ma cazzarola, averne di “imitatori” così. I Corvi Neri non prendono prigionieri: Cease, che sarà sostituito a breve da Marc Ford, è un fior di chitarrista ed insieme a Rich dà vita a delle sismiche sarabande rock, mentre le immancabili tastiere aggiungono quel tocco di raffinatezza che se non sei un power trio, fanno anche la differenza. Visto che nella versione tripla soft pack quasi te lo regalano, il concerto comunque sarebbe da avere anche come manufatto a sé stante: si parte con Thick’N’Thin con Jeff Cease, chiamato a gran voce da Chris, che comincia a darci dentro alla grande nel Black Crowes Rock And Roll Show, mentre Rich gli risponde da par suo nella “outtake” degli Stones che è You’re Wrong, energia misurata nel potenziometro rock pari a 10, quando arrivano Twice As Hard il pubblico è già sudato ed eccitato come una colonia di maiali, e loro reiterano con l’epitome di quel che si usa definire hard ballad, ma con chitarre a destra e manca, anche con bottleneck alla bisogna. Eccellenti anche Could’ve Been So Blind e Seeing Things (ma ce n’è qualcuna scarsa?) https://www.youtube.com/watch?v=JCHVptbP0OI , altre fabbriche di riff all’ingrosso, la seconda che dà un attimo di tregua al pubblico, grazie al lavoro “sudista” di organo e piano e ad una interpretazione quasi dolente di Chris Robinson, che rispolvera i suoi vecchi vinili di soul music per un veloce ripasso della materia, prima di gettare il pezzo da novanta di una superba She Talks To Angels con il pubblico in delirio https://www.youtube.com/watch?v=ziURlpcUIfA .

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Prosegue la sezione meno assatanata del concerto con Sister Luck, uno dei loro brani stonesiani fino al midollo, in questa versione dal vivo molto ispirata e vicina alla perfezione, poi si innesta la quinta marcia per una poderosa Hard To Handle, che viene seguita dalla cover di Shake ‘em On Down di Fred McDowell che da blues del Delta diventa rock and roll da stadio con wah-wah e bottleneck a manetta, mentre Get Back dei Beatles viene proposta in una versione “brutta e cattiva” tiratissima, con accelerata nel finale e nella successiva e dura Struttin’ Blues si rende omaggio al sound dei Led Zeppelin di Page e Plant, con i fratelli nei rispettivi ruoli, in un anticipo del futuro Live At The Greek. Words You Throw Away, che era uscita come B-Side del singolo Hotel Illness diventa un tour de force di oltre tredici minuti dove la band esprime tutta la sua potenza devastante, ma anche all’interno del brano momenti di calma https://www.youtube.com/watch?v=lRCR27o5O7s , per il finale si torna in modalità Humble Pie per Stare It Cold con le due chitarre ad inseguirsi https://www.youtube.com/watch?v=LyScXLWdDUA  e poi tra Faces e derive sudiste per una sanguigna Jealous Again dove anche il piano fa sentire la sua presenza. Per una volta una ristampa dove i contenuti extra sono all’altezza del resto: ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volume 4: Look At The Moon!

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David Bowie – Look At The Moon! – Parlophone/Warner 2CD – 3LP

E siamo arrivati al giro di boa anche per il box dal vivo di David Bowie Brilliant Live Adventures, che si occupa di riunire concerti che il Duca Bianco tenne negli anni novanta e che in qualche caso erano usciti solo in streaming: è stato infatti pubblicato da poco (ed andato esaurito quasi subito) il quarto volume Look At The Moon!, il primo della serie in doppio CD (o triplo LP). Completamente inedito fino ad oggi, questo album documenta l’intero show di Bowie al Phoenix Festival il 20 luglio 1997, dove Phoenix è inteso come Fenice e non la città dell’Arizona, dal momento che la location è il villaggio di Long Marston in Inghilterra https://www.youtube.com/watch?v=5334YGBvuHI . Diciamo subito che Look At The Moon! è superiore al precedente LiveAndWell.com, che a mio parere era troppo sbilanciato verso le canzoni degli ultimi due album di David all’epoca, Outside e Earthling, due dei lavori più ostici dell’artista britannico con largo uso di elettronica e sonorità tecnologiche (ma i brani erano presi da varie date).

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Qui abbiamo una setlist più equilibrata con più di uno sguardo al passato ed anche un paio di sorprese nel finale, anche se va detto che delle hits bowiane che conoscono tutti (Space Oddity, Starman, Changes, Life On Mars) non ce n’è mezza. La performance del nostro è comunque una delle più valide tra quelle ascoltate finora in questo “box in progress”, merito di un eccellente stato di forma e della solida band che lo accompagna: Reeves Gabriels alle chitarre, Gail Ann Dorsey al basso e voce, Zachary Alford alla batteria e Mike Garson alle tastiere. Forse sei canzoni tratte da Earthling sono ancora troppe, ma se I’m Afraid Of Americans, Battle For Britain (The Letter), Looking For Satellites e Little Wonder non incontrano i miei gusti, Seven Years In Tibet è un pezzo abbastanza riuscito nonostante la veste sonora ultra-moderna, ed anche la pulsante Dead Man Walking risulta abbastanza piacevole (e presenta una notevole performance chitarristica da parte di Gabriels). Da Outside le scelte sono soltanto due, e se Hallo Spaceboy è uno dei brani più orecchiabili degli anni novanta bowiani, anche la cupa The Hearts Filthy Lesson a forza di sentirla riesco quasi a digerirla.

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Tra i classici in scaletta effettivamente qualche successo c’è, a partire da una coinvolgente rilettura della saltellante The Jean Genie, proposta in un inedito arrangiamento boogie-blues (ed infatti è in medley con lo standard di Charles Brown Driftin’ Blues), e proseguendo con il duetto con la Dorsey su Under Pressure (ma Freddie Mercury era su un altro pianeta) e con il funkettone Fame, che non mi ha mai fatto impazzire ma in mezzo alle canzoni di Earthling fa un figurone. Poi abbiamo le title tracks di due album del periodo classico di David, ovvero una The Man Who Sold The World rifatta con i dettami sonori di Earthling ed una spedita e coinvolgente Scary Monsters (And Super Creeps), album dal quale viene tratta anche la danzereccia Fashion https://www.youtube.com/watch?v=BiB356hH0L0 ; ho tenuto per ultima (bis a parte) la canzone di apertura dello show, cioè una splendida rivisitazione della rock ballad Quicksand, un classico minore proveniente da Hunky Dory che viene suonata in maniera “normale” e che rappresenta uno dei momenti migliori della serata.

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Il finale mette in fila una rockeggiante versione della nota White Light/White Heat dei Velvet Underground, che Bowie era solito eseguire anche nei seventies, un’inattesa O Superman, unica hit della carriera di Laurie Anderson (quindi in pochi minuti abbiamo un pezzo di Lou Reed ed uno della sua futura consorte), cantata dalla Dorsey, e la meno nota Stay, brano di Station To Station che si adatta benissimo alle sonorità anni novanta del nostro. Al momento di scrivere queste righe non è ancora noto il contenuto del quinto e penultimo volume della serie, ma voci di corridoio parlano del concerto di Parigi del 1999.

Marco Verdi

 

Ci E’ Andata Anche Bene: Poteva Farlo Triplo! Morgan Wallen – Dangerous: The Double Album

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Morgan Wallen – Dangerous: The Double Album – Big Loud/Universal CD

A parte i dischi dal vivo, la pubblicazione di un album doppio è sempre stato un rischio sia per gli artisti che per le etichette discografiche. Certo, la storia del rock ha avuto diversi doppi che sono diventati capolavori immortali (Blonde On Blonde, The White Album, Electric Ladyland, Tommy, Exile On Main Street, The River) o comunque lavori di altissimo livello (Freak Out, Goodbye Yellow Brick Road, London Calling, The Wall, Tusk, Physical Graffiti), ma in generale si è sempre cercato di evitare una tipologia di pubblicazione problematica da gestire in quanto non è già facile garantire una qualità media alta in un disco singolo, figuriamoci in un doppio. E’ per questo che negli ultimi anni, anche per la lunghezza maggiore del CD rispetto all’LP, la pratica è quasi caduta in disuso (uno degli ultimi esempi è l’ottimo Hymns To The Silence di Van Morrison, che però risale ormai a trenta anni fa), e se artisti affermati non hanno più voglia di azzardare il formato multiplo, potete immaginare la mia sorpresa quando mi sono trovato per le mani il secondo album dell’ancora non conosciutissimo Morgan Wallen, un country singer che con il primo album If I Knew del 2018 ha subito fatto il botto andando al numero uno, ma che comunque non è ancora di certo una superstar da cui aspettarsi un doppio CD.

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E Dangerous: The Double Album (titolo quanto mai appropriato) è proprio questo: un lavoro decisamente lungo, trenta canzoni per cento minuti totali di musica, una mossa parecchio rischiosa dal punto di vista commerciale, ed ancora più strana perché ad avallarla è la Universal. Prodotto come il debutto da Joey Moi, Dangerous ci mostra quindi tutto lo spettro musicale di Wallen, un giovane musicista che però è depositario di un suono perfetto per le radio di settore e tipicamente nashvilliano, country sì ma con robuste iniezioni di pop. C’è da dire che le varie canzoni galleggiano tra il sufficiente e discreto in quanto gli arrangiamenti non sono esageratamente commerciali (niente schifezze alla Keith Urban quindi, a parte forse la “poppettara” Warning ed un paio di altre cosucce), ma a mio giudizio trenta brani sono veramente troppi, specie quando abbiamo a che fare con un artista che comunque non eccelle in personalità e carisma, ma anche per il fatto che Dangerous è al 75% un disco di ballate, che dopo un po’ finiscono con l’assomigliarsi tutte.

NASHVILLE, TENNESSEE: (FOR EDITORIAL USE ONLY) Morgan Wallen performs onstage at Nashville’s Music City Center for “The 54th Annual CMA Awards” broadcast on Wednesday, November 11, 2020 in Nashville, Tennessee. (Photo by Terry Wyatt/Getty Images for CMA)

NASHVILLE, TENNESSEE: (FOR EDITORIAL USE ONLY) Morgan Wallen performs onstage at Nashville’s Music City Center for “The 54th Annual CMA Awards” broadcast on Wednesday, November 11, 2020 in Nashville, Tennessee. (Photo by Terry Wyatt/Getty Images for CMA)

Qualche episodio che si eleva dalla media c’è, come l’iniziale Sand In My Boots, country ballad intensa dal mood toccante (forse la migliore del doppio) https://www.youtube.com/watch?v=ICWZfdZ5XI4 , l’elettrica More Suprised Than Me, con un refrain piacevole, la fluida Neon Eyes, Only Thing That’s Gone, con la seconda voce di Chris Stapleton a nobilitare un brano piuttosto nella norma https://www.youtube.com/watch?v=eiW_OPoM_SQ , una discreta rilettura di Cover Me Up di Jason Isbell https://www.youtube.com/watch?v=1RnChOf8RTs , le solari e rilassate 7 Summers e More Than My Hometown, l’ariosa Me On Whiskey, il gustoso rockin’ country Need A Boat https://www.youtube.com/watch?v=4uPUm4-RPTE  e l’acustica e gradevole Quittin’ Time. Il resto è musica dignitosa anche se lontana dal vero country e poi, ripeto, è abbastanza faticoso arrivare fino in fondo. Tre stelle quindi per il coraggio a Morgan Wallen, ma in tutta onestà devo ammettere che Dangerous: The Double Album è il classico disco che viene dimenticato sugli scaffali dopo un solo ascolto.

Marco Verdi

Un Lavoro Fatto Con L’Amore Dei Fans. The Steel Wheels – Everyone A Song Vol. One

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The Steel Wheels – Everyone A Song Vol. One – Big Ring CD

Pur non essendo mai entrati nelle parti alte della classifica, gli Steel Wheels sono ormai uno dei più affermati gruppi roots americani essendo in giro da più di quindici anni. Originari delle Blue Ridge Mountains in Virginia, i nostri fanno parte dell’apprezzato movimento delle “string bands” che ha come capostipiti Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turtles, anche se il loro approccio non è del tutto tradizionale dal momento che amano inserire spesso e volentieri una strumentazione elettrica, per non dire rock. Nel 2020 il quintetto (Trent Wagler, voce, chitarra e banjo, Jay Lapp, mandolino e chitarra, Eric Brubaker, violino, Brian Dickel, basso e Kevin Garcia, batteria e tastiere) non aveva in programma un nuovo album, dal momento che Over The Trees era ancora abbastanza recente, ma la pandemia ed il lockdown hanno dato al gruppo una brillante idea: hanno infatti aperto una piattaforma online a disposizione dei fans, ognuno dei quali avrebbe postato la richiesta di una canzone da dedicare ad una persona amata o ad un parente o amico portato via dal virus, canzone che poi la band avrebbe dovuto appositamente scrivere ed incidere.

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L’iniziativa, decisamente originale e lodevole, ha avuto un bel successo, cosa che ha “costretto” i nostri a scrivere più canzoni del previsto e ad inciderle rispettando le regole del lockdown (quindi ognuno a casa sua, per poi mixare tutto alla fine): Everyone A Song Vol. One è dunque la prima testimonianza tangibile di questa bella iniziativa, un dischetto nel tipico stile degli Steel Wheels, ma con i testi personalizzati a seconda del destinatario, che è stato anche diligentemente indicato sul retro della confezione. Nove belle canzoni, spesso malinconiche visti i presupposti non certamente allegri, ma che in più di una occasione sono portatrici di un gradito raggio di sole. L’iniziale My Name Is Sharon è una rock ballad suonata con strumenti tradizionali (ma non mancano né la sezione ritmica né la chitarra elettrica), con un motivo corale di matrice folk lento e nostalgico ed il violino ad insinuarsi nelle pieghe del suono https://www.youtube.com/watch?v=Nv_SaDhCvJc . The Healer, tra folk e bluegrass, è guidata da banjo, mandolino e violino e conserva una certa malinconia di fondo, al contrario di Don’t Want To come Back Down che pur mantenendo un ritmo lento ha un background sonoro solare e leggermente reggae.

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The Man Who Holds Up The World è un pezzo godibile che fonde molto bene country, folk ed un pizzico di cajun (vedo l’influenza della Band), voci limpide e melodia diretta e piacevole https://www.youtube.com/watch?v=tNfx4dwz34s , Water And Sky è nuovamente uno slow ma stavolta lo script è di qualità superiore, una splendida via di mezzo tra una folk song alla Woody Guthrie ed il brano Evangeline appunto della Band, mentre Florida Girl (Work For It) è una rock ballad elettrificata con un suggestivo uso delle voci ed un accompagnamento decisamente “californiano” https://www.youtube.com/watch?v=9n0fNUWdPbw . Lucy è country-grass puro e limpido, con i nostri che dopo un inizio attendista si lanciano in una canzone dal ritmo acceso e coinvolgente, e precede le conclusive Genevieve, altra ballatona di grande spessore, struggente e bellissima https://www.youtube.com/watch?v=SdhDop9xy5Y , e l’acustica e profonda Family Is Power, contraddistinta dall’ennesimo motivo di ottimo livello. Un dischetto riuscito ed originale quindi, scaturito da una encomiabile iniziativa che ha permesso agli Steel Wheels di stare vicino ai propri fans nonostante il distanziamento obbligato.

Marco Verdi

Un Affettuoso Tributo Al Figlio Scomparso, Nonché Un Bellissimo Disco. Steve Earle & The Dukes – J.T. Esce In CD Il 19 Marzo

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Steve Earle & The Dukes – J.T. – New West Download – CD/LP 19/03/21

Quando la scorsa estate, nel mese di agosto, il giorno 21 si è diffusa la notizia della morte di Justin Townes Earle, non si può dire che siamo rimasti molto sorpresi, purtroppo: il figlio di Steve Earle aveva avuto una lunghissima storia con la dipendenza da droghe, già iniziata quando aveva dodici anni e continuata per moltissimi anni, come lui stesso aveva dichiarato, “Avevo scoperto presto che il mio modo di approcciarmi alle cose della vita mi avrebbe messo nei guai, ma ho continuato a farlo, perché ho continuato per lungo tempo a credere nel mito che per creare grande arte dovevo distruggere me stesso”. E con perversa pervicacia ha continuato a farlo, nonostante ben nove ricoveri in cliniche di riabilitazione ogni volta ci ricascava, a brevi periodi di sobrietà ne seguivano altri dove i suoi fantasmi riprendevano a perseguitarlo; neppure la nascita della figlia Etta St. James Earle nel 2017 è riuscita a salvarlo. Proprio ad un trust destinato a raccogliere fondi per permettere alla figlia di raggiungere un futuro più sereno saranno destinati i proventi di questo J.T., il disco che Steve Earle ha voluto registrare in memoria del figlio e delle sue canzoni.

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E’ sempre devastante e triste quanto un padre sopravvive al figlio, specie se proprio lui è stato il “modello” con il quale Justin Townes ha dovuto misurare la propria vita: e non deve essere stato facile registrare un terzo album dedicato alle canzoni di un musicista che non c’è più, dopo Townes del 2009, dedicato a Townes Van Zandt e Guy, uscito nel 2017, ed incentrato sulle canzoni di Guy Clark, ecco J.T., altro titolo breve ed affettuoso che rivisita il repertorio del figlio attraverso alcune delle sue canzoni. Con la sola eccezione della canzone Last Words, scritta dalla stesso Earle, una canzone dalla bellezza dolorosa, quasi devastante, non dissimile da tante altre del suo repertorio, ma che in questo contesto assume una forza ancora maggiore, grazie anche alla maestria dei Dukes che lo hanno accompagnato in questo disco, e in questo brano in particolare il dobro di Ricky Ray Jackson che sottolinea lo scarno accompagnamento di una chitarra acustica e del violino della bravissima Eleanor Whitmore, che insieme a Chris Masterson, chitarre e mandolino e Jeff Hill, basso e contrabbaso, e Brad Pemberton, batteria, sono sublimi in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=RR2XPOYqSZI , Steve la canta con voce scarna e ruvida, ancora più dolente del solito e che nel verso finale “I Love you too” è ancora più struggente.

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Justin Townes Earle forse, anzi sicuramente, non ha mai raggiunto i vertici del padre, ma nel corso dei suoi album ha scritto parecchie belle canzoni che Steve rivisita con orgoglio e classe nel suo stile: dall’honky-tonk dai profumi bluegrass della spensierata I Don’t Care, con la seconda voce della Whitmore https://www.youtube.com/watch?v=PzFAztmFYXQ , al country-blues con uso di pedal steel di Ain’t Glad I’m Leaving che rimanda ai suoi migliori dischi, passando per il country-rock ruspante ed elettrico della vibrante Maria.. E ancora la delicata e splendida ballata Far Way In Another Town, con la Whitmore che passa all’organo e Jackson alla pedal steel, oltre a Masterson alla solista, creano una superba atmosfera sudista, mentre They Killed John Henry è uno di quei brani narrativi dal sapore folk in cui Earle (già ma quale?) eccelle https://www.youtube.com/watch?v=1TGssyFJAuk . La quasi profetica Turn Out My Lights è un’altra ballata costruita sulla acustica arpeggiata, la solita steel e il violino straziante della Whitmore; la rabbiosa Lone Pine Hill si dibatte tra echi dylaniani grazie al guizzante violino e ritmi più incalzanti da perfetto outlaw country https://www.youtube.com/watch?v=fRsPjoIC8lI , in parte ribaditi anche nella scandita Champagne Corolla, che però vira verso atmosfere più bluesate, grazie alla elettrica pungente di Masterson e alla ritmica più scandita e cattiva https://www.youtube.com/watch?v=JLYKGOeTSWo .

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The Saint Of Lost Causes (bellissimo titolo) è giustamente considerata una delle canzoni più belle di Justin Townes, una versione dall’alto tasso di intensità che mi ha ricordato certe ballate feroci di Lucinda Williams, con atmosfere sospese e minacciose, sferzate dalle chitarre e dal violino e un cantato quasi febbrile e “incazzato” di Steve https://www.youtube.com/watch?v=xeqGCbo6pFo . E infine Harlem River Blues, tra country e folk con echi fortissimi della musica texana di Guy Clark, Jerry Jeff Walker e soci, ma anche l’amore per il folk-rock dello Steve Earle più ispirato https://www.youtube.com/watch?v=YaK9ZLqqHRI . Veramente un disco bellissimo e un tributo affettuoso a questo figlio scomparso.

Bruno Conti

Miami Steve Al Cavern Di Liverpool Omaggia I Beatles… E Se La Gode Un Bel Po’! Little Steven And The Disciples Of Soul – Macca To Mecca!

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Little Steven And The Disciples Of Soul – Macca To Mecca! – CD + DVD Wicked Cool Records

Inutile sprecare tempo e parole per introdurvi Stevie Van Zandt, o Miami Steve, come tanti fans della E Street Band l’hanno sempre chiamato, o Little Steven come si fa accreditare sulle copertine dei suoi album. Tutti conosciamo l’importanza di questo amico e collaboratore del Boss sin dai lontani esordi e ne apprezziamo le doti di chitarrista, compositore, arrangiatore e produttore. La sua carriera solistica sembrava giunta a un punto morto dopo i primi due meritevoli episodi Men Without Women e Voice Of America dei primi anni ottanta (ristampati di recente con tanto di bonus DVD) https://www.youtube.com/watch?v=WAP-2yRvGD8  e i successivi assai meno convincenti Freedom No Compromise e Revolution. Un solo discreto ritorno nel ’99 con l’ingiustamente sottovalutato Born Again Savage e poi più nulla, se non gli esaltanti tour insieme a Bruce Springsteen e ai compagni della ricostituita E Street Band e il considerevole successo raggiunto come attore televisivo nel cast di importanti serial come I Sopranos e Lilyhammer. A sorpresa, nel 2017 arriva il disco della rinascita, un brillante compendio di rock, soul e rhythm ‘n’ blues intitolato Soulfire, seguito due anni dopo dall’altrettanto spumeggiante Summer Of Sorcery. Nel frattempo, mentre Bruce riempiva le sue serate di esibizioni solitarie a Broadway, il nostro Stevie ha rimesso in piedi una band coi fiocchi formata da quattordici elementi, i Disciples Of Soul, e ha girato in lungo ed in largo gli States e l’Europa portando il suo entusiasmante show anche dalle nostre parti, a Roma e Cortona, fino all’indimenticabile serata del 13 giugno 2019 all’Alcatraz di Milano.

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Prova tangibile dell’assoluto valore di queste sue esibizioni è il doppio CD (o triplo nella sua versione estesa) Soulfire Live!, probabilmente la miglior pubblicazione dell’intera sua discografia. A questa già monumentale prova di energia e talento, Stevie ha deciso di aggiungere un ulteriore dischetto che documenta la sua esibizione nel mitico Cavern di Liverpool, tenutasi all’ora di pranzo del 14 novembre 2017, un vero e proprio tributo ai Fab Four e ai loro esordi, realizzato con la devozione di un fan e l’entusiasmo di chi è consapevole di aver realizzato un sogno. Macca To Mecca prevede oltre agli otto brani eseguiti al Cavern anche un gustoso duetto con Paul McCartney registrato dieci giorni prima a Londra e un’ulteriore cover beatlesiana presa dalla data di Leeds dell’8 novembre https://www.youtube.com/watch?v=cBTL4IwOTaU . Il tutto è estremamente godibile, non solo in audio ma anche in video, grazie a un DVD di ottima qualità che ci rivela i notevoli sforzi logistici compiuti per far esibire una band di quindici elementi sul piccolo stage del Club di Liverpool.

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Ma lo sfizioso antipasto, come vi dicevo, si svolge sul palco della Roundhouse di Londra quando sir Paul raggiunge il visibilmente emozionato Miami Steve per lanciarsi in una ruspante versione di I Saw Her Standing There con tanto di solo all’elettrica. La band gira a mille, mentre il leader si gode la sua special guest supportandolo ai cori. Al Cavern invece i Disciples sono divisi in due settori, causa spazio claustrofobico della sala chiamata non a caso Tunnel: Little Steven, il chitarrista Marc Ribler e il bassista Jack Daley si spartiscono la prima linea e dietro di loro si accomodano, si fa per dire, i due tastieristi Andy Burton e Lowell Levinger, oltre al batterista Rich Mercurio e al percussionista Anthony Almonte. Nel corridoio laterale si devono giocoforza piazzare le tre notevoli coriste e il quintetto dei fiati guidato dal sassofonista Eddie Manion.

little steven macca to macca cd+dvd 1Proprio a loro è affidato il compito di introdurre un classico come Magical Mystery Tour, esecuzione da manuale e adeguata apertura di un omaggio che va a scavare nelle origini della band più famosa al mondo, quando la sua dimensione era ancora quella dei piccoli locali come il Cavern e il repertorio era infarcito di cover di artisti americani di soul e r&b. https://www.youtube.com/watch?v=jQLA-4ip7KI&list=OLAK5uy_kgydfMf_n6t2-kVyhqW9oF6SJ_-MslLNI  Questo spiega la scelta di una sequenza che parte con Boys, b-side delle Shirelles e prima incisione come lead vocalist di Ringo Starr sull’album d’esordio Please Please Me, poi Slow Down di Larry Williams, uno dei cinque artisti coverizzato sia dai Beatles sia dai Rolling Stones, Some Other Guy e Soldier Of Love, la prima dalla penna di Richard Barrett coadiuvato dalla premiata ditta Leiber & Stoller, la seconda dal repertorio di Arthur Alexander, entrambe presenti solo su Live At The BBC.

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Le versioni che di questi brani poco noti ci propongono Steven e i suoi compagni suonano fresche ed attuali, suscitando l’entusiasmo dello sparuto pubblico del Cavern. C’è ancora qualche piacevole sorpresa da menzionare come l’ottimo recupero da Sgt. Pepper di Good Morning Good Morning, con i suoi continui cambi di ritmo, e la perfetta resa in stile Motown di Got To Get You Into My Life, con una superlativa performance della sezione fiati, autentico valore aggiunto al suono dei Disciples. Per chiudere, Miami Steve sceglie l’inno ecumenico beatlesiano per eccellenza, All You Need Is Love, perfetto suggello di una performance impeccabile. Sul CD e DVD c’è ancora spazio per una sanguigna Birthday, registrata alla 02 Academy di Leeds con dedica alla moglie Maureen nel giorno del suo compleanno. Durante i saluti finali, il ghigno felice di Little Steven è l’immagine perfetta per quest’ulteriore riprova della sua rinascita artistica.

Marco Frosi

Un Piacevole Lavoro Di Moderno Bluegrass. Ray Cardwell – Just A Little Rain

ray cardwell just a little rain

Ray Cardwell – Just A Little Rain – Bonfire CD

Ray Cardwell è un musicista figlio d’arte originario del Missouri: suo padre, Marvin Cardwell, negli anni sessanta era a capo di un gruppo bluegrass, e questo ha trasmesso al figlio la passione per quel genere fin dai primi anni. Ray ha poi iniziato a scrivere canzoni e a girare l’America con diversi gruppi fin dalla metà dei seventies, intraprendendo una vita quasi da nomade che lo ha portato a vivere in diverse città per poi tornare in Missouri allorquando ha messo su famiglia. Una gavetta lunghissima se pensiamo che Ray è riuscito soltanto nel 2017 a pubblicare il suo album d’esordio Tennessee Moon, facendolo seguire due anni dopo da Stand On My Own, due lavori che hanno attirato l’attenzione a livello locale per quanto riguarda la musica bluegrass. Ray infatti ha deciso di continuare l’opera del padre, ma aggiungendo un tocco personale: il genitore infatti aveva un approccio decisamente tradizionale con il tipo di musica proposta, mentre Ray ha optato per un taglio più moderno per quanto riguarda la struttura compositiva, dal momento che dal punto di vista strumentale le sonorità sono assolutamente vintage.

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Just A Little Rain, terzo e nuovo album del nostro, è perfettamente indicativo di quanto sto dicendo: dieci canzoni (otto nuove più due cover) che dal punto di vista sonoro non vanno oltre la classica configurazione tipica del bluegrass, un quartetto formato da chitarra, banjo, violino e mandolino, con Cardwell al basso (e non c’è la batteria), mentre dal lato compositivo la scrittura è attuale, contemporanea. Ed il disco è godibile dall’inizio alla fine, poco più di mezz’ora di musica pura suonata con grande perizia e con ottime armonie vocali che sono il vero quid in più che fa di Just A Little Rain un album che non deluderà gli appassionati del genere. Prendete l’introduttiva e vivace The Grass Is Greener: l’accompagnamento è tradizionale al 100% con le voci amalgamate alla perfezione, ma lo script è moderno ed il brano si reggerebbe sulle proprie gambe anche con una base strumentale rock. Standing On The Rock è la cover di un pezzo degli Ozark Mountain Daredevils, puro bluegrass godibile dalla prima all’ultima nota con assoli a raffica dei vari strumenti, ed anche se la melodia originale è di matrice blues qui siamo idealmente in piena mountain music. La creatività del nostro spicca ancora di più nella seguente rilettura del classico di Al Green Take Me To The River, canzone che qui viene spogliata dei suoi elementi soul-errebi per diventare una folk song di stampo tradizionale dal sapore d’altri tempi, con Ray che canta con voce limpida https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk .

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I Won’t Send You Flowers è una delicata ballad, una country tune moderna  in tutto e per tutto contraddistinta da un motivo toccante, ma con Born To Do siamo ancora in pieno bluegrass a tutto ritmo nonostante l’assenza della batteria, ed il brano è quasi un pretesto per lanciarsi in assoli al fulmicotone. La title track inizia come uno slow attendista, poi il tempo si fa più veloce ed il pezzo si tramuta in una riuscita miscela tra folk e blues; Rising Sun ricorda un po’ la Nitty Gritty Dirt Band più tradizionale, puro country nobilitato da un refrain diretto ed immediato https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk , mentre Shoulda Known Better è dotata di un motivo splendido, legato a doppio filo alle canzoni di settanta e più anni fa. Il dischetto si conclude con Thief In The Night, altra bluegrass tune suonata ai cento all’ora, e con la lenta e malinconica Constant State Of Grace (scritta insieme a Darrell Scott), che ha uno sviluppo melodico simile a certe cose di Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=FGI3uBuToyE . Ray Cardwell è quindi un musicista da tenere d’occhio, in quanto riesce a rendere attuale un genere musicale legato al passato grazie ad una scrittura piacevole e moderna.

Marco Verdi

Un Cofanetto Interessante Ma Non Esente Da Pecche (E Costoso). Black Sabbath – Vol. 4 Super Deluxe

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Black Sabbath – Vol. 4 Super Deluxe – BMG 4CD – 5LP Box Set

Dopo che lo scorso anno i Black Sabbath hanno ristampato il cofanetto quadruplo dedicato al loro secondo album Paranoid per celebrarne i 50 anni, box originariamente uscito nel 2016 (aggiungendo stavolta anche la versione in cinque LP), nel 2021 sarebbe stato lecito aspettarsi un identico trattamento per Master Of Reality, terzo lavoro del quartetto di Birmingham: invece, siccome le case discografiche sono delle simpatiche burlone, l’onore è toccato a Vol. 4 del 1972, lasciando quasi pensare che il gruppo formato da Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward abbia un problema con i suoi dischi dispari, dal momento che anche il loro debutto omonimo del 1970 non ha beneficiato di un’edizione Super Deluxe. Vol. 4 è uno degli album della band hard rock (qualcuno dice heavy metal) più amati dai fans e di maggior successo della loro discografia, ed è chiamato in gergo “il disco della cocaina” dato che durante la sua incisione (ai Record Plant Studios di Los Angeles, primo lavoro dei quattro ad essere registrato fuori dall’Inghilterra ed anche il primo ad essere autoprodotto) venivano recapitati in studio con cadenza quasi giornaliera scatoloni pieni della droga più popolare negli anni settanta, al punto che il titolo dell’album inizialmente doveva essere Snowblind, dove la neve che acceca non era esattamente quella che cade dal cielo.

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Eppure, nonostante Ozzy e soci fossero perennemente fatti come cavalli, riuscirono miracolosamente a tirare fuori un lavoro di livello più che buono, lucido, potente e coinvolgente come nella loro migliore tradizione, un disco che oggi rinasce a nuova vita grazie ad una rimasterizzazione adeguata in questo bel box che contiene quattro CD ed un libro ricco di foto e dettagli, anche se purtroppo il prezzo oscilla tra gli 80 ed i 90 euro (ed ancora di più per la versione in vinile), un costo già alto di suo ma che è ancora più sbilanciato se rapportato ai contenuti musicali, che se nel secondo e terzo CD si traducono in outtakes di studio inedite come da prassi (che però non aggiungono granché al disco originale), e che come vedremo a breve deludono abbastanza nel quarto dischetto, quello dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=LU99kUnWW3E . Il Vol. 4 originale si apriva giustamente con il pezzo migliore, la potente e riffata Wheels Of Confusion dai tipici e repentini cambi di ritmo e melodia dei Sabbath, fraseggi chitarristici tutti da godere, la sezione ritmica che non perde un colpo ed un finale travolgente. Le sonorità pesanti la fanno ovviamente da padrone, con la vibrante Tomorrow’s Dream, unico singolo estratto all’epoca, la solida e riffatissima Supernaut https://www.youtube.com/watch?v=LU99kUnWW3E , il midtempo elettrico Snowblind https://www.youtube.com/watch?v=y_MAyLcNz3c , la plumbea e decisamente hard Cornucopia, la cadenzata e coinvolgente St. Vitus Dance e la nota Under The Sun.

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Ma il disco non è solo heavy rock, in quanto il pezzo più famoso è la ballatona Changes (incisa in anni più recenti anche dal solo Ozzy in duetto con la figlia Kelly), uno slow romantico in cui la voce del frontman è accompagnata solo da piano e mellotron https://www.youtube.com/watch?v=RGOKgfIOGaA , ed inoltre troviamo anche il delizioso e folkeggiante strumentale acustico Laguna Sunrise, cercando di dimenticare una stranezza come FX, che per fortuna dura poco. Il secondo e terzo CD offrono nel complesso 17 tracce aggiuntive riferite a sei degli undici brani di Vol. 4 tra takes complete e non, false partenze e versioni alternate, il tutto remixato dall’onnipresente Steven Wilson. Abbiamo quindi sei diverse Wheels Of Confusion, tre Supernaut, altrettante Under The Sun (tra cui una eccellente take strumentale), due Snowblind ed una versione alternata ciascuna di The Straightener, Changes e Laguna Sunrise, tutte quante meno rifinite di quelle pubblicate sul disco del 1972 e più che altro destinate a fans e completisti della band britannica.

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Il quarto dischetto è, come ho già accennato, quello più deludente: registrato dal vivo in varie date del tour inglese del 1973, si propone di ricreare per la prima volta la setlist completa dei concerti di quel periodo, ma già questo non è vero perché ciò era già avvenuto nel postumo Live At Last del 1980. Ma la cosa più grave è che l’80% del CD è proprio la riproposizione di Live At Last (certo, con un suono migliore), e solo Tomorrow’s Dream, Sweet Leaf e Snowblind sono versioni inedite, cosa abbastanza inaudita dal momento che a quel prezzo uno vorrebbe perlomeno un intero show mai sentito. Polemiche a parte, le performance sono tutte solide e di buon livello, con i brani di Vol. 4 perfettamente inseriti in scaletta a fianco dei classici del gruppo (anche se mancano stranamente sia Black Sabbath che Iron Man, ma in quel periodo non venivano proprio suonate): tra gli highlights segnalo la nota War Pigs, un medley di 20 minuti che include Wicked World, Orchid, Into The Void, Sometimes I’m Happy e Supernaut (con una prestazione stratosferica di Iommi), ed il gran finale di Children Of The Grave e Paranoid.

Un cofanetto che ha quindi il difetto di rivolgersi principalmente ai fans più accaniti (e danarosi) dei Black Sabbath, con l’aggravante della mezza fregatura del quarto CD: per i neofiti sarà sufficiente accaparrarsi la versione singola di Vol. 4 e, se proprio vorranno, Live At Last.

Marco Verdi