Replay. Quando Non E’ Impegnato A Molestare Le Donne, Si Ricorda Di Essere Anche Un Grande Songwriter. Ryan Adams – Wednesdays: Ora Anche In CD Dal 19 Marzo

ryan adams wednesdays

Ryan Adams – Wednesdays – PAX AM Download – CD 19-03-2021

C’è stato un momento, compreso tra gli ultimi due album dei Whiskeytown ed i primi tre della sua carriera solista, in cui Ryan Adams sembrava destinato a diventare il musicista migliore della sua generazione. Il suo debutto senza la sua prima band, Heartbreaker (2000), era un grande disco, ma Gold dell’anno successivo era senza mezzi termini un capolavoro, un album geniale e creativo di cantautorato rock senza sbavature, il classico disco che se non raggiunge le cinque stellette ci va molto vicino. Anche Demolition del 2002 era ottimo, ma poi Adams ha cominciato a produrre fin troppo materiale badando più alla quantità che alla qualità, alternando bei dischi (Cold Roses, Jacksonville City Nights, Easy Tiger e Ashes & Fire, lavoro targato 2011 che forse è il suo ultimo grande album) ad altri decisamente meno riusciti quando non velleitari (Rock’n’Roll, i due EP Love Is Hell poi riuniti insieme, il pessimo Orion e l’omonimo Ryan Adams del 2014), oltre ad operare scelte abbastanza discutibili come 1989, cover album pubblicato nel 2015 che ricalcava canzone per canzone il disco di Taylor Swift uscito l’anno prima con lo stesso titolo, o come quando nel 2006 ha fatto uscire ben undici album sotto diversi pseudonimi, tutte porcherie tra hardcore e hip-hop.

LOS ANGELES, CA - FEBRUARY 10: (EXCLUSIVE COVERAGE) Mandy Moore and Ryan Adams attend The 2012 MusiCares Person Of The Year Gala Honoring Paul McCartney at Los Angeles Convention Center on February 10, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Kevin Mazur/WireImage)

LOS ANGELES, CA – FEBRUARY 10: (EXCLUSIVE COVERAGE) Mandy Moore and Ryan Adams attend The 2012 MusiCares Person Of The Year Gala Honoring Paul McCartney at Los Angeles Convention Center on February 10, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Kevin Mazur/WireImage)

Quando si parla di Adams bisogna poi separare l’artista dalla persona, visto che il nostro non è certo tra i più simpatici in circolazione, essendo soggetto a comportamenti talvolta irascibili (anche nei confronti dei fans) e talvolta tipici di una rockstar viziata, anche se il peggio Ryan lo ha dato negli ultimi anni dal momento che è stato accusato di molestie sessuali dall’ex moglie Mandy Moore, dalla cantautrice Phoebe Bridgers e da altre cinque donne, fatti che hanno poi avuto un’implicita conferma dalle vaghe ed imbarazzate scuse pubbliche dello stesso Adams. Questa controversia ha rischiato anche di mandargli a pallino la carriera, dal momento che il suo progetto di pubblicare ben tre album nel 2019 è stato sospeso ed il primo CD della trilogia, Big Colors, cancellato all’ultimo momento. Lo scorso 11 dicembre però Ryan a sorpresa ha messo a disposizione sulle principali piattaforme Wednesdays, un nuovo album che doveva essere il secondo dei tre programmati due anni fa (con dentro un paio di brani in origine su Big Colors), una mossa che avrà un seguito il prossimo 19 marzo quando uscirà la versione “fisica”.

ryan adams foto 2

Ebbene, mettendo da parte per un attimo le considerazioni sul personaggio Ryan Adams, la sua controparte artistica in Wednesdays ha davvero dato il meglio, consegnandoci un disco di cantautorato coi fiocchi che lo pone senza molti dubbi come il suo lavoro migliore da Ashes & Fire ad oggi. Prodotto da Ryan insieme a Don Was (che suona anche il basso) e Beatriz Artola, Wednesdays è un disco di ballate intime, profonde e meditate, in cui non troverete il lato rock di Adams ma bensì quello più intenso e melodico, ed una serie di canzoni di limpida bellezza che forse hanno come unica controindicazione il fatto di non essere consigliabili a chi soffre di depressione. Gli strumenti sono quasi tutti nelle mani del nostro con poche ma importanti eccezioni: infatti, oltre al già citato Was, troviamo Benmont Tench al piano (e si sente), Jason Isbell alla chitarra ed Emmylou Harris alle armonie vocali in un paio di brani. La prima volta che ho ascoltato l’iniziale I’m Sorry And I Love You ho pensato di avere scaricato per sbaglio un inedito di Neil Young, dal momento che sia il timbro di voce che lo stile ricordano nettamente le ballate pianistiche del grande canadese (ed anche qualcosa di John Lennon): bella canzone, classica nel suono e con una leggera spolverata d’archi (o forse è un synth, usato però nel modo corretto) https://www.youtube.com/watch?v=vTwRrP9Ovq4 . Who Is Going To Love Me Now, If Not You è un piccolo bozzetto per voce e chitarra, un brano intimista ed interiore con una slide in lontananza che si fa sentire ogni tanto, ed anche When You Cross Over prosegue con lo stesso mood introverso ed il medesimo impianto sonoro scarno, con l’aggiunta del pianoforte, della seconda voce di Emmylou e, circa a metà, della sezione ritmica che contribuisce ad aumentare il pathos https://www.youtube.com/watch?v=NjcnSTn6zqA .

ryan-adams foto 3

Walk In The Dark è ancora un lento molto intenso, a confermare che siamo di fronte ad un lavoro serio e profondo e non alla fanfaronata di un artista che molto spesso si è fatto prendere la mano https://www.youtube.com/watch?v=pmC3Fo02fM0 ; Poison & Pain è pura folk music, una slow song suonata in punta di dita (e qui mi viene in mente Paul Simon, quello classico di Hearts And Bones), così come la title track che ha uno sviluppo molto simile https://www.youtube.com/watch?v=COYioAybALw . Birmingham è splendida: intanto è full band dall’inizio (c’è anche l’organo), ed è servita da una melodia straordinaria e da un suono che più classico non si può, un brano che ci fa ritrovare il Ryan Adams dal pedigree immacolato di inizio carriera https://www.youtube.com/watch?v=3RPZs25D3Gk . Con So, Anyways tornano le atmosfere intime e rarefatte, e spunta anche un’armonica ad impreziosire un pezzo dal motivo delizioso, Mamma, sempre acustica, è un po’ meno immediata ma è eseguita in maniera toccante, mentre Lost In Time è di nuovo un folk tune cristallino, nobilitato da una steel che fende l’aria qua e là. Chiude l’album la bellissima Dreaming You Backwards, voce, piano, batteria e feeling in dosi massicce (ed uno dei pochi interventi di chitarra elettrica), che la pongono tra le più riuscite del lavoro https://www.youtube.com/watch?v=hcoRDsy77-M .

In definitiva, se Ryan Adams come personaggio mi stava sulle balle anche prima delle accuse di molestie, devo ammettere che il musicista che è in lui ha dimostrato con questo Wednesdays di essere ancora a pieno titolo tra noi.

Marco Verdi

Il (Doppio) Springsteen Della Domenica: Le Due Facce Del Boss, Rocker E Folksinger. Bruce Springsteen – St. Paul, MN Nov. 12, 2012/Nice, France 1997

bruce springsteen st. paul 2012

Bruce Springsteen & The E Street Band – St. Paul, MN Nov. 12, 2012 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Bruce Springsteen – Nice, France 1997 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

A differenza del solito questa volta ho deciso di raggruppare in un’unica recensione le due ultime uscite degli archivi live di Bruce Springsteen (a dire il vero è appena stato annunciato un altro episodio, registrato nel 2000 al Madison Square Garden nel corso del Reunion Tour), in quanto offrono una esauriente contrapposizione tra le due anime del nostro: lo Springsteen rocker a 360 gradi insieme alla E Street Band in St. Paul, MN Nov. 12, 2012 e quello folksinger da solo sul palco in Nice, France 1997. Lo show di St. Paul, un CD triplo (il quinto del 2012 ed il terzo registrato in suolo americano), è stato indicato da molti come uno dei migliori del tour, e se ho parlato del lato rocker di Bruce non l’ho fatto a caso, in quanto il concerto è decisamente spostato verso i brani più elettrici e mossi e limita al minimo sindacale le ballate. Già uno spettacolo che inizia con I’m A Rocker (tra l’altro è la prima volta che il Boss comincia con questa canzone) lascia ben sperare per il seguito https://www.youtube.com/watch?v=FJrLh6Uomt8 , che infatti mette in fila una sequenza senza respiro con il “crowd-pleaser” Hungry Heart e le epiche No Surrender, Night https://www.youtube.com/watch?v=9RkJDkPJkOc  e Loose Ends https://www.youtube.com/watch?v=pLnx1nz36f0 .

bruce springsteen st. paul 2012 1

Dopo due ottimi pezzi dal mood più rilassato (Something In The Night ed una splendida Stolen Car, uno dei brani più oscuri di The River che in quella serata Bruce propose solo per la seconda volta dal 1985) https://www.youtube.com/watch?v=THqSKKv1_yw  lo show riprende a vibrare con tre dei migliori momenti di Wrecking Ball (la title track, We Take Care Of Our Own e Death To My Hometown), per poi arrivare ad una monumentale My City Of Ruins di 17 minuti, piena di anima e con un crescendo notevole, ed una pimpante e ritmata The E Street Shuffle. La parte centrale del concerto forse è ancora meglio, in quanto i nostri alternano coinvolgenti pezzi che non mancano quasi mai come Shackled And Drawn https://www.youtube.com/watch?v=HRpU9HzQHsg , Waitin’ On A Sunny Day, The Rising e Badlands ad altri più rari come una stupenda Devils And Dust dall’insolito arrangiamento rock full band https://www.youtube.com/watch?v=hTIUZvMxLJc , la tesa Youngstown, affilata come una mannaia, una Murder Incorporated resa ancora più potente dai fiati e con una grande sfida finale a base di assoli tra il Boss, Little Steven e Nils Lofgren, e l’irresistibile Pay Me My Money Down che è forse il momento più trascinante della serata. Tra i bis spiccano la solita inimitabile Jungleland (undici minuti con, inutile dirlo, Roy Bittan grande protagonista) ed un finale tra il commovente (Tenth Avenue Freeze-Out, con annesso tributo allo scomparso Clarence Clemons) e l’esagitato (American Land).

bruce springsteen nice france 1997

E veniamo al doppio Nice, France 1997, quarto volume della serie ad essere estrapolato dai concerti seguiti alla pubblicazione di The Ghost Of Tom Joad ma primo a provenire dalla parte finale del tour (18 maggio 1997). Una versione intima e pacata del Boss, solo voce, chitarra e armonica (e le tastiere “offstage” di Kevin Buell), un concerto che forse non farà saltare sulla sedia l’ascoltatore ma di certo è in grado di provocare più di un brivido, anche perché vede un Bruce decisamente ispirato e “sul pezzo”. Le canzoni tratte da The Ghost Of Tom Joad occupano un terzo circa della setlist con ben nove selezioni (splendide la title track, durante la quale non si sente volare una mosca, Sinaloa Cowboys, The Line e Across The Border), ma poi ci sono altri brani perfetti per questa veste acustica, come Atlantic City, Highway Patrolman (molto intensa) https://www.youtube.com/watch?v=7XImAedciX0 , l’ironica Red Headed Woman, This Hard Land, l’antica Growin’ Up, l’allora inedita Brothers Under The Bridge, che sarebbe uscita l’anno seguente sul box Tracks https://www.youtube.com/watch?v=Zh9ejlgNsm0 , e It’s The Little Things That Count, una outtake di Tom Joad che a tutt’oggi giace ancora negli archivi  . Il trattamento voce-chitarra funziona anche con pezzi all’apparenza meno adatti, in particolare con It’s Hard To Be A Saint In The City https://www.youtube.com/watch?v=znqV14v7dbY , Two Hearts e l’ancora sconosciuta Long Time Comin’ (in anticipo di otto anni su Devils And Dusthttps://www.youtube.com/watch?v=fMxivCE8wbo , ed in maniera del tutto inaspettata anche brani originariamente rock’n’roll come Murder Incorporated https://www.youtube.com/watch?v=Av1n3isTar0 , You Can Look (But You Better Not Touch) e Working On The Highway.

E’ chiaro, come ho già affermato in passato, che continuo a ritenere il Bruce Springsteen rocker nettamente superiore al suo alter ego folksinger, ma anche armato di sola chitarra e armonica il Boss è tra i pochi al mondo che riesce a suonare per più di due ore senza annoiare.

Marco Verdi

Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Ora Anche In CD. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone

Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony/Warner CD

Lo scorso 10 luglio Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) rendendolo inizialmente disponibile solo come download, ma ora possiamo a tutti gli effetti parlare di “disco” in quanto è stato finalmente pubblicato anche su CD. Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (anche se comunque la Welch è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti). Il dubbio che Gillian soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto.

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone 1

A parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti dalla folksinger, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione, e se ne sono accorti anche ai recenti Grammy in quanto All The Good Times è stato premiato come miglior disco folk del 2020. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita https://www.youtube.com/watch?v=knr3G8HLITw , e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura https://www.youtube.com/watch?v=CcHo_BtAO0o .

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone 2

Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solita e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale pur con l’uso parco della strumentazione https://www.youtube.com/watch?v=W2j_P_m7_sM , e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos https://www.youtube.com/watch?v=Ay3gdEQlV70 , mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante https://www.youtube.com/watch?v=HYt4rRgx5OU ; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso. Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine) https://www.youtube.com/watch?v=hVKMw0owfEI .

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone 3

Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo, che ora possiamo goderci anche su CD.

Marco Verdi

Non Solo Blues, Appunto Molto “Elastico”! Paolo Bonfanti – Elastic Blues

paolo-bonfanti-elastic-blues-20201215204849

Paolo Bonfanti – Elastic Blues – Rust Records CD + Libro

Da quando Paolo Bonfanti, detto il Bonfa, iniziava a muovere i primi passi nell’ambito delle 12 battute, in quel di Genova (anzi Sampierdarena), prima come fan, e poi come membro dei Big Fat Mama di Piero De Luca, è passato qualche annetto. Appena prima, durante e dopo, potrei sbagliare la cronologia, c’era stata la Hot Road Blues Band, in una era in cui non era ancora stato inventato il CD e la musica usciva su vinile, detto LP (al limite anche in cassetta e persino Stereo8) e in Italia c’erano due principali scuole di praticanti del blues, quella di Milano e quella di Roma: della prima faceva parte Fabio Treves, con la sua band, della seconda era capostipite Roberto Ciotti, ma c’era anche qualche deviazionista in Veneto, leggi Guido Toffoletti e Tolo Marton, agli inizi nelle “progressive” Orme, e a Genova, nei primi anni ‘70, c’erano stati i Garybaldi di Niccolò “Bambi” Fossati, noto epigono Hendrixiano, con un wah-wah al posto del cuore. Tutto questo, e moltissimo altro, lo potete leggere nel bellissimo libretto che accompagna questo Elastic Blues (che io ero convinto, pensate, fosse un disco dei Nucleus), dove tra aneddoti e brevi storie Paolo ci ricorda cosa è successo nei ultimi 40 anni della sua vita, anzi non solo nella musica, quindi 60 in totale.

BigFatMama

Inaugurata con gli studi di pianoforte a metà anni ‘70, proseguita più convintamente con la conversione alla chitarra, grazie ad Armando Corsi e Beppe Gambetta, grande virtuoso dell’acustica, ancora in pista oggi, e poi con l’ingresso in quei Big Fat Mama, nati nel 1979, di cui Bonfanti diventerà il chitarrista solista e frontman dal 1985 al 1990. Ovviamente nella penisola italica c’erano anche altri musicisti che suonavano il blues, cito a caso, Rudy Rotta, Fabrizio Poggi, i Mandolin Brothers di Jimmy Ragazzon, Angelo “Leadbelly” Rossi, i Model T. Boogie, dai quali passerà Nick Becattini, Aida Cooper, moglie di Cooper Terry, i Blues Stuff della scuola napoletana, da cui provenivano anche Edoardo Bennato e Pino Daniele, che avevano anche molto blues nelle loro corde: ce ne sarebbero moltissimi altri, ma è meglio se mi fermo, se no diventa un trattato, neppure breve. La carriera da solista di Bonfanti inizia nel 1992, per cui facciamo un Fast Forward verso il futuro e arriviamo al 2015 in cui esce l’ottimo CD dal vivo Back Home Alive, l’ultimo in ambito rock-blues https://discoclub.myblog.it/2015/09/07/la-via-italiana-al-blues-1-paolo-bonfanti-back-home-alive/ , mentre nel 2019 viene pubblicato Pracina Stomp, insieme all’amico Martino Coppo, il secondo in coppia, disco elettroacustico nel quale sono prodotti dal bravissimo Larry Campbell, a lungo collaboratore di Levon Helm, che Dio lo abbia in gloria : in mezzo c’è stato molto altro, ma concentriamoci sui contenuti di Elastic Blues, che è una sorta di “riassunto” delle puntate precedenti, un sequel e un prequel contemporaneamente, con la presenza di molti amici come “ospiti”.

Cirimilla un collega

Un” collega” omonimo di Paolo, le altre foto seguenti nell’articolo sono di Guido Harari.

Come dice la presentazione dell’album, che riporto integralmente

10 mesi di lavoro in piena pandemia, 40 musicisti coinvolti (compreso l’autore), 60 anni, 70 minuti di musica, 80 pagine di libro, 15 brani inediti, 1 cover, una campagna di co-produzione dal basso che ha ampiamente doppiato la cifra inizialmente richiesta; la prefazione di Guido Harari e molto altro per questo “Elastic Blues” che non è solo musica ma anche un libro di memorie, riflessioni, introduzione ai pezzi e traduzione dei testi, impreziosito dalle immagini e dalla grafica di Ivano A. Antonazzo.

PAOLO_BONFANTI-GUIDO_HARARI-0DBK4381-360

Vediamo i 16 brani del disco del mancino chitarrista genovese: si parte “stranamente” con il prog-rock misto a trip psichedelico di ALT!, che non è un ordine della pattuglia che ti controlla per vedere se sei in giro in violazione del lockdown, ma è tedesco che sta per “vecchio” in contrapposizione a Neu: quasi otto minuti di uno strumentale che miscela Grateful Dead e King Crimson (magari anche i Nucleus che citavo prima, con alla chitarra l’ottimo Chris Spedding), sezione ritmica ufficiale dell’album Alessandro Pelle, batteria e Nicola Bruno, basso, con l’aiuto di Yo-Yo Mundi assortiti, tra chitarre elettriche stranianti ed assolo di basso spinto di Andrea Cavalieri. D’altronde al 21st Century ci siamo arrivati, e quindi il progressive buono si ascolta sempre volentieri, specie se va a questi ritmi vorticosi. E anche The Noise Of Nothing, un duetto tra chitarra acustica e fisarmonica di un altro fedelissimo come Roberto Bongianino (che però suona come un organo, ricorda Paolo nelle ricche note del CD) forse col blues, non c’entra molto, ma mi ha ricordato certe sperimentazioni gentili di Richard Thompson con John Kirkpatrick, più spinte verso “l’altro”.

PAOLO_BONFANTI-GUIDO_HARARI-0DBK4489-360

E un po’ di jazz non ce lo vogliamo mettere? Magari il Jazz-rock di Haze, l’unica cover del CD, un brano di Bobby & The Midnites, una strana formazione che univa Bob Weir dei Dead, Bobby Cochran, quindi doppia chitarra, con Billy Cobham alla batteria e Alphonso Johnson al basso, più Brent Mydland anche lui dei Dead alle tastiere, sulla carta fantastici, i dischi, a mio parere, molto meno riusciti, anche se questo brano, registrato con la band anni ‘90 di Paolo, approda verso un robusto funky jazz-rock che ha anche qualche parentela di elezione con il sound dei Little Feat, e poi, a furia di tirare l’elastico della musica, si approda alla canzone d’amore In Love With The Girl, solo voce, chitarra acustica, un insinuante violino e la bella voce di Bonfanti, che poi mischia nuovamente le carte in Unnecessary Activies, dove suonano in metà di mille (facciamo una quindicina di musicisti, giro AnanasnnA, più Lucio Fabbri al violino) per un funky-jazz-rock che mi ha ricordato certe cose di James “Blood” Ulmer, segue una giravolta di 360° e arriva la pedal steel di John Egenes per Heartache By Heartache, una outtake di Pracina Stomp, una delicata ballata che profuma di country. Poi si ritorna al rock quasi da power trio, con seconda solista aggiunta nella potente Don’t Complain con la chitarra di Gabriele Marenco, come direbbero gli americani “all over the place” per un assolo cattivo il giusto, con wah-wah fumante. E non manca neppure la canzone in dialetto genovese, una Fin De Zugno ispirata dai moti anti Tambroni del 1960 contro un governo che voleva inserire i fascisti nel governo (la Meloni ce lo ha risparmiato), solo voce, chitarra acustica e un quartetto d’archi gli Alter Echo String Quartet, per un brano molto alla De André  .

PAOLO_BONFANTI-GUIDO_HARARI_0DBK5567E_360

Già, ma il Blues? Ci sta, ci sta! In We’re Still Around, brano dal titolo quantomai esplicativo, tornano i Big Fat Mama, con tanto di duello con doppia chitarra, nel caso Maurizio Renda, per un pezzo che profuma di rock sudista, di quello buono. A O Canto, sarebbe On The Corner in genovese, sarà mica un disco di un certo Miles Davis? Mi sa di sì, doppia batteria, fiati in evidenza, Aldo De Scalzi, altro genovese doc (fratello di Vittorio dei New Trolls) ad un piano elettrico che tanto ci ricorda Chick Corea scomparso di recente, con la chitarra di Paolo molto “lavorata”, e visto il titolo del disco ci metto anche il sound di quei Nucleus ricordati prima. Hypnosis, per due chitarre acustiche, azzardo, potrebbe essere dalle parti del primo John Martyn, quello che non aveva ancora scoperto l’Echoplex, per quanto qualche effettuccio in questo brano malinconico c’è; in I Can’t Find Myself, canzone di Paolo del 2004, che ci suona tutti gli strumenti, esclusa l’armonica, affidata a Fabio Treves, che non poteva mancare alla festa per i 60 anni, in questo shuffle classico, tra Chicago e Texas, ma anche qualche tocco di British Blues o della Butterfield Blues Band.. Ottimo anche l’omaggio al Gumbo, il New Orleans Sound gemellato con quello genovese e napoletano in Sciorbì/Sciuscià, fiati a go-go dei Lambrettas (ma non facevano ska? Ah no quelli inglesi) e la fisarmonica di Roberto Bongianino, per un brano che fa muovere i piedi.

PAOLO_BONFANTI-GUIDO_HARARI_0DBK5784E_360

La title track, per quelli che parlano bene, va verso territori dove il blues si fa futuribile, ma anche retrò (in senso positivo), tra fisarmonica e la seconda chitarra di Matteo Carbonicini che divaga con quella di Paolo in questo complesso pezzo strumentale. Per Where Do We Go https://www.youtube.com/watch?v=0WDJWqylWpc  Bonfanti nelle note del libretto parla di Van Morricrosby (questa prima o poi me la rigioco), in quanto l’ispirazione era quella di ricreare atmosfere tra Van Morrison, David Crosby e Ennio Morricone, e mi pare ci sia riuscito, anche se sapete che Van The Man parte avvantaggiato, perché da giovane ha ingoiato un microfono e quindi quella voce non è replicabile, ma il risultato finale è eccellente. Finito? Quasi, come insegnava Mastro Jimi ci vorrebbe un bel Slight Return, applicato a Unnecessary Activies, virato, vista la forte presenza di fiati, alla musica di Hendrix ripresa da Gil Evans nel suo celebre omaggio. Tutto molto bello, magari tra 60 anni uscirà il secondo capitolo, per ora se può interessare lo potete comperare sul suo sito, oppure qui https://paolobonfanti.bandcamp.com/album/elastic-blues. Ne vale assolutamente la pena.

Bruno Conti

P.s Ora attendiamo We’ll Talk About It Later (questa la capiranno in pochi, è il titolo del secondo disco dei Nucleus).

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volume 4: Look At The Moon!

david bowie look at the moonDavid-Bowie-Look-at-the-moon-live-in-Phonenix-97-CD

David Bowie – Look At The Moon! – Parlophone/Warner 2CD – 3LP

E siamo arrivati al giro di boa anche per il box dal vivo di David Bowie Brilliant Live Adventures, che si occupa di riunire concerti che il Duca Bianco tenne negli anni novanta e che in qualche caso erano usciti solo in streaming: è stato infatti pubblicato da poco (ed andato esaurito quasi subito) il quarto volume Look At The Moon!, il primo della serie in doppio CD (o triplo LP). Completamente inedito fino ad oggi, questo album documenta l’intero show di Bowie al Phoenix Festival il 20 luglio 1997, dove Phoenix è inteso come Fenice e non la città dell’Arizona, dal momento che la location è il villaggio di Long Marston in Inghilterra https://www.youtube.com/watch?v=5334YGBvuHI . Diciamo subito che Look At The Moon! è superiore al precedente LiveAndWell.com, che a mio parere era troppo sbilanciato verso le canzoni degli ultimi due album di David all’epoca, Outside e Earthling, due dei lavori più ostici dell’artista britannico con largo uso di elettronica e sonorità tecnologiche (ma i brani erano presi da varie date).

david bowie look at the moon 3

Qui abbiamo una setlist più equilibrata con più di uno sguardo al passato ed anche un paio di sorprese nel finale, anche se va detto che delle hits bowiane che conoscono tutti (Space Oddity, Starman, Changes, Life On Mars) non ce n’è mezza. La performance del nostro è comunque una delle più valide tra quelle ascoltate finora in questo “box in progress”, merito di un eccellente stato di forma e della solida band che lo accompagna: Reeves Gabriels alle chitarre, Gail Ann Dorsey al basso e voce, Zachary Alford alla batteria e Mike Garson alle tastiere. Forse sei canzoni tratte da Earthling sono ancora troppe, ma se I’m Afraid Of Americans, Battle For Britain (The Letter), Looking For Satellites e Little Wonder non incontrano i miei gusti, Seven Years In Tibet è un pezzo abbastanza riuscito nonostante la veste sonora ultra-moderna, ed anche la pulsante Dead Man Walking risulta abbastanza piacevole (e presenta una notevole performance chitarristica da parte di Gabriels). Da Outside le scelte sono soltanto due, e se Hallo Spaceboy è uno dei brani più orecchiabili degli anni novanta bowiani, anche la cupa The Hearts Filthy Lesson a forza di sentirla riesco quasi a digerirla.

david bowie look at the moon 1

Tra i classici in scaletta effettivamente qualche successo c’è, a partire da una coinvolgente rilettura della saltellante The Jean Genie, proposta in un inedito arrangiamento boogie-blues (ed infatti è in medley con lo standard di Charles Brown Driftin’ Blues), e proseguendo con il duetto con la Dorsey su Under Pressure (ma Freddie Mercury era su un altro pianeta) e con il funkettone Fame, che non mi ha mai fatto impazzire ma in mezzo alle canzoni di Earthling fa un figurone. Poi abbiamo le title tracks di due album del periodo classico di David, ovvero una The Man Who Sold The World rifatta con i dettami sonori di Earthling ed una spedita e coinvolgente Scary Monsters (And Super Creeps), album dal quale viene tratta anche la danzereccia Fashion https://www.youtube.com/watch?v=BiB356hH0L0 ; ho tenuto per ultima (bis a parte) la canzone di apertura dello show, cioè una splendida rivisitazione della rock ballad Quicksand, un classico minore proveniente da Hunky Dory che viene suonata in maniera “normale” e che rappresenta uno dei momenti migliori della serata.

david bowie look at the moon 2

Il finale mette in fila una rockeggiante versione della nota White Light/White Heat dei Velvet Underground, che Bowie era solito eseguire anche nei seventies, un’inattesa O Superman, unica hit della carriera di Laurie Anderson (quindi in pochi minuti abbiamo un pezzo di Lou Reed ed uno della sua futura consorte), cantata dalla Dorsey, e la meno nota Stay, brano di Station To Station che si adatta benissimo alle sonorità anni novanta del nostro. Al momento di scrivere queste righe non è ancora noto il contenuto del quinto e penultimo volume della serie, ma voci di corridoio parlano del concerto di Parigi del 1999.

Marco Verdi

 

Un Affettuoso Tributo Al Figlio Scomparso, Nonché Un Bellissimo Disco. Steve Earle & The Dukes – J.T. Esce In CD Il 19 Marzo

steve earle j.t.

Steve Earle & The Dukes – J.T. – New West Download – CD/LP 19/03/21

Quando la scorsa estate, nel mese di agosto, il giorno 21 si è diffusa la notizia della morte di Justin Townes Earle, non si può dire che siamo rimasti molto sorpresi, purtroppo: il figlio di Steve Earle aveva avuto una lunghissima storia con la dipendenza da droghe, già iniziata quando aveva dodici anni e continuata per moltissimi anni, come lui stesso aveva dichiarato, “Avevo scoperto presto che il mio modo di approcciarmi alle cose della vita mi avrebbe messo nei guai, ma ho continuato a farlo, perché ho continuato per lungo tempo a credere nel mito che per creare grande arte dovevo distruggere me stesso”. E con perversa pervicacia ha continuato a farlo, nonostante ben nove ricoveri in cliniche di riabilitazione ogni volta ci ricascava, a brevi periodi di sobrietà ne seguivano altri dove i suoi fantasmi riprendevano a perseguitarlo; neppure la nascita della figlia Etta St. James Earle nel 2017 è riuscita a salvarlo. Proprio ad un trust destinato a raccogliere fondi per permettere alla figlia di raggiungere un futuro più sereno saranno destinati i proventi di questo J.T., il disco che Steve Earle ha voluto registrare in memoria del figlio e delle sue canzoni.

steve earle j.t. 1

E’ sempre devastante e triste quanto un padre sopravvive al figlio, specie se proprio lui è stato il “modello” con il quale Justin Townes ha dovuto misurare la propria vita: e non deve essere stato facile registrare un terzo album dedicato alle canzoni di un musicista che non c’è più, dopo Townes del 2009, dedicato a Townes Van Zandt e Guy, uscito nel 2017, ed incentrato sulle canzoni di Guy Clark, ecco J.T., altro titolo breve ed affettuoso che rivisita il repertorio del figlio attraverso alcune delle sue canzoni. Con la sola eccezione della canzone Last Words, scritta dalla stesso Earle, una canzone dalla bellezza dolorosa, quasi devastante, non dissimile da tante altre del suo repertorio, ma che in questo contesto assume una forza ancora maggiore, grazie anche alla maestria dei Dukes che lo hanno accompagnato in questo disco, e in questo brano in particolare il dobro di Ricky Ray Jackson che sottolinea lo scarno accompagnamento di una chitarra acustica e del violino della bravissima Eleanor Whitmore, che insieme a Chris Masterson, chitarre e mandolino e Jeff Hill, basso e contrabbaso, e Brad Pemberton, batteria, sono sublimi in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=RR2XPOYqSZI , Steve la canta con voce scarna e ruvida, ancora più dolente del solito e che nel verso finale “I Love you too” è ancora più struggente.

steve earle j.t. 2

Justin Townes Earle forse, anzi sicuramente, non ha mai raggiunto i vertici del padre, ma nel corso dei suoi album ha scritto parecchie belle canzoni che Steve rivisita con orgoglio e classe nel suo stile: dall’honky-tonk dai profumi bluegrass della spensierata I Don’t Care, con la seconda voce della Whitmore https://www.youtube.com/watch?v=PzFAztmFYXQ , al country-blues con uso di pedal steel di Ain’t Glad I’m Leaving che rimanda ai suoi migliori dischi, passando per il country-rock ruspante ed elettrico della vibrante Maria.. E ancora la delicata e splendida ballata Far Way In Another Town, con la Whitmore che passa all’organo e Jackson alla pedal steel, oltre a Masterson alla solista, creano una superba atmosfera sudista, mentre They Killed John Henry è uno di quei brani narrativi dal sapore folk in cui Earle (già ma quale?) eccelle https://www.youtube.com/watch?v=1TGssyFJAuk . La quasi profetica Turn Out My Lights è un’altra ballata costruita sulla acustica arpeggiata, la solita steel e il violino straziante della Whitmore; la rabbiosa Lone Pine Hill si dibatte tra echi dylaniani grazie al guizzante violino e ritmi più incalzanti da perfetto outlaw country https://www.youtube.com/watch?v=fRsPjoIC8lI , in parte ribaditi anche nella scandita Champagne Corolla, che però vira verso atmosfere più bluesate, grazie alla elettrica pungente di Masterson e alla ritmica più scandita e cattiva https://www.youtube.com/watch?v=JLYKGOeTSWo .

Steve-Earle-1280x720

The Saint Of Lost Causes (bellissimo titolo) è giustamente considerata una delle canzoni più belle di Justin Townes, una versione dall’alto tasso di intensità che mi ha ricordato certe ballate feroci di Lucinda Williams, con atmosfere sospese e minacciose, sferzate dalle chitarre e dal violino e un cantato quasi febbrile e “incazzato” di Steve https://www.youtube.com/watch?v=xeqGCbo6pFo . E infine Harlem River Blues, tra country e folk con echi fortissimi della musica texana di Guy Clark, Jerry Jeff Walker e soci, ma anche l’amore per il folk-rock dello Steve Earle più ispirato https://www.youtube.com/watch?v=YaK9ZLqqHRI . Veramente un disco bellissimo e un tributo affettuoso a questo figlio scomparso.

Bruno Conti

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volume 3: LiveAndWell.com

david bowie liveandwell. com

David Bowie – LiveAndWell.com – Parlophone/Warner CD – 2LP

(Premessa: continuo con le recensioni di questa serie di pubblicazioni del Duca Bianco per puro dovere di cronaca, dal momento che ogni uscita è in edizione davvero limitata ed al momento esaurita. Compreso il già annunciato quarto volume, polverizzato solo con i pre-ordini).

Terzo appuntamento con il cofanetto “virtuale” (nel senso che il box per contenere sia i CD che gli LP è andato esaurito praticamente subito) Brilliant Live Adventures, che raccoglie sei album dal vivo registrati da David Bowie negli anni novanta e mai pubblicati fino ad ora in versione fisica, quando non completamente inediti. Dopo i primi due volumi Ouvrez Le Chien e No Trendy Rechauffé, che documentavano due show del 1995 tratti dal tour di Outside, con questa terza uscita ci spostiamo in avanti di due anni: infatti LiveAndWell.com è inerente alla tournée del 1997 seguita alla pubblicazione di Earthling, e se il titolo non vi suona nuovo avete ragione, in quanto era già stato realizzato una prima volta nel 1999 solo come download, e rimesso fuori lo scorso anno ma sempre in formato “liquido”.

david bowie liveandwell 1

A differenza dei primi due volumi che riguardavano ciascuno un unico concerto, LiveAndWell.com contiene brani presi da diverse location (il Paradiso di Amsterdam, il Radio City Music Hall di New York, il Phoenix Festival ed il Metropolitan di Rio de Janeiro) e, se pensavate che sia Ouvrez Le Chien che No Trendy Rechauffé fossero troppo sbilanciati verso le canzoni nuove, qui abbiamo praticamente solo brani tratti da Outside e Earthling, due album tra i più sperimentali del nostro con sonorità art-rock, techno e drum’n’bass che all’epoca spiazzarono non poco i fans del Bowie più classico. Rispetto alla versione del 1999 però c’è l’aggiunta alla fine di due canzoni prese da dischi precedenti di David, anche se non esattamente due hits. La band che accompagna Ziggy è la stessa del tour di Outside ma senza Carlos Alomar, e cioè Reeves Gabriels alle chitarre, Gail Ann Dorsey al basso e voce, Zach Alford alla batteria e Mike Garson al piano, tastiere e synth. Nonostante non sia più la tournée di Outside il CD presenta ben cinque brani su dodici totali dal disco del 1995: i più ”orecchiabili” (termine in questo caso da prendere con le molle) sono la lenta e atmosferica The Motel e la pulsante Hallo Spaceboy, mentre sia l’ossessiva The Hearts Filthy Lesson che la cupa I’m Deranged https://www.youtube.com/watch?v=Kc-Cox7L2O4 e The Voyeur Of Utter Distruction (As Beauty) https://www.youtube.com/watch?v=ZjbBJ_51TnQ , che invece mette ansia (anche se alla fine c’è un notevole guitar solo), hanno sonorità stranianti ed a volte quasi dissonanti.

david bowie liveandwell 2

I cinque pezzi presi da Eathling spostano ancora di più il suono verso un’ottica modernista in cui l’elettronica la fa da padrona, a partire da I’m Afraid Of Americans in cui l’unica cosa che ha una parvenza di classicità è la parte cantata. Telling Lies è piuttosto caotica ed alienante, Battle For Britain (The Letter) è un techno-rock discreto nella melodia ma strumentalmente discutibile, mentre la cadenzata Seven Years In Tibet non è affatto male https://www.youtube.com/watch?v=4_OLXd-a65Q (sorvolerei invece sulla brutta Little Wonder, che all’epoca uscì addirittura come primo singolo – ricordo un Bowie dai capelli arancioni proporla al Festival di Sanremo di fronte alle facce perplesse degli occupanti delle prime file). I due brani finali, entrambi strumentali, appartengono uno al passato prossimo di Bowie e solo l’ultimo agli anni settanta, mantenendo però sonorità in linea con le canzoni precedenti: Pallas Athena (da Black Tie White Noise, 1993) è pura dance music da club per fighetti, e V-2 Schneider è una delle pagine più oscure di Heroes, un brano influenzato dai Kraftwerk e quindi vi lascio immaginare dove andiamo a parare. LiveAndWell.com è quindi un live album che mi sento di consigliare solo ai “die-hard fans” di David Bowie: il già citato quarto volume della collana, Look At The Moon!, farà ancora parte del tour del 1997 ma presenterà anche canzoni meno ostiche essendo la riproposizione di uno show completo.

Marco Verdi

Parte “Rockumentario” E Parte Fiction, Ma Nell’Insieme Una Vera Goduria! Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story

rolling thunder revue scorsese dylan

Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story – The Criterion Collection Blu-Ray – DVD

E’ finalmente disponibile da pochi giorni su Blu-Ray o DVD la versione fisica di Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story (peccato che costi un botto), splendido lungometraggio diretto da Martin Scorsese uscito nel 2019 per la piattaforma Netflix, che documenta appunto la prima parte del leggendario tour di Bob Dylan con la Rolling Thunder Revue, un gigantesco carrozzone di musicisti, poeti ed artisti di vario genere che girò l’America nel biennio 1975-1976: in particolare il film si concentra sul ’75, quando la tournée girava perlopiù nei piccoli teatri con concerti che spesso venivano organizzati senza molto preavviso, prendendo spunto un po’ dai “Medicine Show” di fine ottocento ed un po’ dalla Commedia Dell’Arte italiana (mentre nel ’76 Dylan, anche per rientrare dalle perdite dell’anno prima – la troupe la doveva comunque pagare – si esibì in arene più convenzionali per un concerto rock degli anni 70) https://www.youtube.com/watch?v=RulpXOLn6BI .

last waltz

Non è la prima volta che Scorsese si cimenta con film a sfondo musicale: a parte il mitico The Last Waltz vorrei ricordare il film-concerto Shine A Light dei Rolling Stones o la splendida biografia di George Harrison Living In The Material World, e, con Dylan stesso come protagonista, il capolavoro No Direction Home, probabilmente uno dei migliori “rockumentari” di sempre se non il migliore. Rolling Thunder Revue non raggiunge quei livelli ma non ci va neanche troppo lontano, ed in due ore e venti minuti che scorrono in un baleno ci delizia con uno strepitoso mix di scene inedite girate all’epoca, altre prese dal famoso film Renaldo And Clara ed alcune interviste recenti ai protagonisti, oltre ovviamente a diverse performance musicali https://www.youtube.com/watch?v=uDikcwqQDr8 . Tra gli intervistati la parte principale è ovviamente quella dello stesso Dylan (non era scontata la sua presenza visto il personaggio), che come spesso capita tende a commentare con ironia le varie fasi del tour cercando di togliergli quella patina di leggenda, affermando tra il serio ed il faceto di non ricordare quasi nulla di ciò che avvenne, e sentenziando alla fine che a distanza di 40 anni della Rolling Thunder Revue non è rimasto niente, “solo cenere”.

no direction homerenaldo e clara

Altre interviste, a parte alcune “particolari” che vedremo tra poco, riguardano Joan Baez, che si ricongiungeva in tour con Bob a distanza di dieci anni, il giornalista Larry “Ratso” Sloman, incaricato da Rolling Stone di seguire il carrozzone, il poeta Allen Ginsberg (in immagini di repertorio essendo morto nel 1997), anch’egli tra i protagonisti della tournée, alcuni musicisti ed ospiti dei vari concerti (Roger McGuinn, Ramblin’ Jack Elliot, Ronee Blakely, David Mansfield, uno spettacolare Ronnie Hawkins uguale a Babbo Natale), l’attore, scrittore e drammaturgo Sam Shepard, ingaggiato da Dylan per lo script di Renaldo And Clara, ed l’ex pugile Rubin “Hurricane” Carter, protagonista all’epoca di un celebre caso di malagiustizia cantato da Bob nella nota Hurricane. Il film inizia con le immagini dei rehearsals per il tour, in cui un Dylan rilassato e sorridente improvvisa varie canzoni in studio tra le quali Rita May, Love Minus Zero/No Limit ed il classico di Merle Travis Dark As A Dungeon. Poi ci si sposta al Gerde’s Folk City di New York, famoso locale del Village in cui un giovane Dylan mosse i primi passi e nel quale all’inizio del 1975 ci fu una rimpatriata sotto gli occhi estasiati del proprietario Mike Porco: le immagini mostrano Bob che si esibisce con la Baez ed altri musicisti che entreranno a far parte della RTR (si intravedono Bob Neuwirth e David Blue), e poi lo inquadrano tra il pubblico (seduto vicino a Bette Midler) assistere ad una performance di Archer Song da parte di Patti Smith accompagnata alla chitarra da Eric Andersen.

patti smith rtrIl film si dipana poi in veri momenti di vita on the road (con Dylan che spesso è alla guida del tour bus): non vi racconto le varie scene per filo e per segno, ma vorrei segnalare un paio di momenti divertenti che riguardano Ginsberg, che prima legge il suo Kaddish ad una platea di arzille pensionate in una sala bingo e poi, visto che man mano che il tour proseguiva il suo spazio on stage era sempre più ridotto, per rendersi utile dà una mano alla troupe con i bagagli (questa scena era presente sulla versione di Netflix ma sul Blu-Ray viene solo accennata) https://www.youtube.com/watch?v=iUD5snx-XOo . Ci sono anche due momenti notevoli dal punto di vista musicale, il primo toccante con Dylan che suona The Ballad Of Ira Hayes di Peter LaFarge di fronte ad una platea di Indiani d’America, ed il secondo straordinario con una versione superba di Coyote di Joni Mitchell cantata dalla stessa cantautrice canadese accompagnata da Dylan e McGuinn alle chitarre, il tutto a casa di Gordon Lightfoot che, in canottiera, osserva i tre sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=zeaO5UZ5OcI .

rolling_thunder_revue_a_bob_dylan_story joni mirchell

Ma il film ha fatto parlare di sé anche per quattro interviste a personaggi inventati o che narrano storie non vere, una cosa molto “da Dylan” alla quale lo stesso Bob si è prestato volentieri. La prima riguarda il fantomatico Stefan Van Dorp, che in teoria dovrebbe essere il regista originale delle immagini del 1975 ma in realtà non è mai esistito e nelle interviste viene interpretato dall’attore Martin Von Haselberg, marito tra l’altro della Midler. Poi ci sono le testimonianze di Jim Gianopulos, che è un vero discografico (ed attuale presidente della Paramount) e qui viene presentato come il promoter del tour ma in realtà non ebbe mai nulla a che vedere con esso, e del senatore Jack Tanner che non esiste, essendo l’attore Michael Murphy che riprende un suo personaggio di una serie TV degli anni 80 diretta da Robert Altman. E poi, dulcis in fundo, abbiamo il “fake” più succoso di tutti, in cui una stupenda Sharon Stone (è incredibile come stia invecchiando splendidamente senza l’aiuto apparente della chirurgia estetica) racconta di quando appena diciannovenne andò ad un concerto del tour con sua madre indossando una maglietta dei Kiss e fu notata nel backstage da Dylan che scambiò con lei qualche battuta, ed incontrandola di nuovo qualche settimana dopo la convinse ad unirsi al tour come aiuto-costumista, lasciando intendere che tra i due ci sia stato anche un breve flirt.

bob-dylan-nel-rolling-thunder-revue

La cosa pare essere totalmente inventata, anche perché la Stone all’epoca di anni ne aveva 17 e quindi una relazione con Dylan avrebbe potuto creare qualche imbarazzo, però è raccontata dai due in maniera decisamente credibile: inoltre qui si apre un altro mini-fake, e cioè che Bob aveva avuto l’idea di dipingersi la faccia prima dei concerti con la RTR dopo aver assistito ad uno show proprio dei Kiss, al quale era stata portato dalla violinista Scarlet Rivera che all’epoca usciva con Gene Simmons (è falso che il trucco facciale dei membri della band sia stato influenzato dalla hard rock band di New York, ma stranamente il fatto che Simmons e la Rivera si vedessero sembra vero). Last but not least, i vari momenti musicali presenti sono davvero di altissimo profilo in quanto Dylan all’epoca era all’apice come performer ed anche disponibile verso i fans (divertente il siparietto quando qualcuno dal pubblico urla “Bob Dylan for President!” ed il nostro risponde ridendo “President of what?”) https://www.youtube.com/watch?v=9wKi3_W6sQo .

rolling-thunder-revue-cs-249p_1d14b329e093131457fd6789d80ffb4c

Le canzoni presenti, in parte o complete (e che comunque si trovano tutte sul cofanetto The 1975 Live Recordings del 2019) https://www.youtube.com/watch?v=HCAiAf21K20 sono Mr. Tambourine Man, When I Paint My Masterpiece, una strepitosa A Hard Rain’s A-Gonna Fall in versione rock-blues, I Shall Be Released e Blowin’ In The Wind in duetto con la Baez, Hurricane, The Lonesome Death Of Hattie Carroll (splendida anche questa), Isis, Oh Sister, Simple Twist Of Fate, One More Cup Of Coffee https://www.youtube.com/watch?v=4viQhTmhDX8  ed una Knockin’ On Heaven’s Door in cui Bob divide il microfono con McGuinn https://www.youtube.com/watch?v=4viQhTmhDX8 . Il dischetto, oltre a contenere un bellissimo libretto con foto inedite e scritti di Shepard e Ginsberg, è masterizzato digitalmente con la tecnologia 4K e tra gli extra contiene una esauriente intervista a Scorsese e tre performance aggiuntive (e complete)  https://www.youtube.com/watch?v=SqmTfkf7GRg di Tonight I’ll Be Staying Here With You, Romance In Durango e Tangled Up In Blue; l’unica pecca per chi non fosse troppo padrone della lingua straniera è il fatto che i sottotitoli siano solo in inglese per i non udenti (ma non escludo come già successo per il film su Harrison una versione italiana fra qualche mese. Un film quindi che non esito a definire impedibile: siamo solo a febbraio ma potremmo già avere per le mani il DVD/Blu-Ray dell’anno.

Marco Verdi

Un Bel Disco Dal Vivo, Ma Attenti Alla Fregatura! Strawbs – Live In Concert

strawbs live in concert

Strawbs – Live In Concert – Mooncrest 2CD/DVD

Gli Strawbs sono uno dei gruppi inglesi più longevi al mondo: fondati nel 1964 come bluegrass band (ma hanno debuttato su disco solo nel ’69), sono unanimemente considerati tra i paladini del folk britannico, con tendenze al progressive sviluppate specialmente negli anni settanta. Guidati da Dave Cousins, unico membro fondatore ancora nel gruppo (ma nel tempo hanno militato al suo interno anche una giovane Sandy Denny, prima di entrare nei Fairport Convention, ed il tastierista Rick Wakeman un attimo prima di diventare una star con gli Yes), gli Strawbs hanno all’attivo circa 25 album in cinquanta anni, e non hanno ancora finito in quanto hanno da poco annunciato un nuovo lavoro, Settlement, in uscita il prossimo 26 febbraio.

strawbs live down with the strawbs

Oggi però vi parlo di un doppio CD dal vivo con accluso DVD intitolato semplicemente Live In Concert, che documenta uno show del marzo 2006 nella cittadina inglese di Bilston: attenzione però alla fregatura, dal momento che questo concerto era già stato pubblicato nel 2008 con il titolo Lay Down With The Strawbs ma tenendo separate le parti audio e video, e con la medesima tracklist di oggi. Se però non avete l’edizione di dodici anni fa, questo Live In Concert è un album da non sottovalutare anche se siete dei neofiti per quanto riguarda la band londinese, dal momento che siamo di fronte ad un concerto bello, elettrico e coinvolgente, con all’interno parecchi classici dei gruppo e più di un momento epico: oltre a Cousins, voce, chitarra e banjo, la lineup comprende Dave Lambert anch’egli voce e chitarra elettrica, John Hawken alle tastiere, Chas Cronk al basso e Rod Coombes alla batteria, oltre alla partecipazione speciale dell’ex membro John Ford in una manciata di pezzi.

strawbs live

Lo show inizia e finisce con i due brani più famosi della band, le splendide e trascinanti Lay Down https://www.youtube.com/watch?v=umzenPU9M0g  e Part Of The Union, entrambe eseguite in maniera decisamente rockeggiante https://www.youtube.com/watch?v=69O8xmIeenU . In mezzo, sedici canzoni prese dal loro vasto songbook, con ottimi esempi di folk-rock come la limpida e tersa I Only Want My Love To Grow In You, la fulgida ballata corale Shine On Silver Sun, altro loro brano tra i più popolari, gli otto minuti della complessa ed affascinante Ghosts, con le tastiere prog che incontrano la melodia folk  https://www.youtube.com/watch?v=z5REqemQ0o0, la lenta e nostalgica Remembering/You And I When We Were Young, e la vibrante fusione tra rock e folk di Cold Steel, anche se l’assolo di synth al quarto minuto me lo sarei risparmiato.

strawbs 2000's

Altri momenti salienti del concerto sono la epica e coinvolgente The Auction, il gradevole acquarello elettroacustico Out In The Cold, la roccata Just Love, dal ritmo sostenuto, ed il suggestivo medley Autumn Suite. Come bonus finale abbiamo cinque brani presi dal set acustico dello show, che inizia con la lunga e distesa The Man Who Called Himself Jesus e si snoda attraverso l’intensa Tears, la gustosa folk song dal sapore tradizionale Pavan (con ottima prestazione chitarristica), la struggente e bellissima Kissed By The Sun e la vivace Heavy Disguise, dallo stile non dissimile da quello dei Jethro Tull più folkeggianti. Bel concerto quindi, anche se trattasi di ristampa “travestita” da disco nuovo.

Marco Verdi

Una Band Durata Troppo Poco, Ma Che Varrebbe La Pena Riscoprire. Trees – Trees

trees box 4 cd 50th anniversary edition

Trees – Trees – Earth 4CD Box Set

(NDM: questa recensione è dedicata a Celia Humphris, bravissima e bellissima cantante del gruppo scomparsa lo scorso 11 gennaio). https://www.youtube.com/watch?v=h6apTudTFLc&feature=emb_logo 

A parte Fairport Convention e Pentangle (e Steeleye Span, Strawbs, Lindisfarne ed altri gruppi che hanno goduto di una certa popolarità), il sottobosco del folk inglese a cavallo tra gli anni 60 e 70 ha prodotto una lunga serie di band che, pur essendo musicalmente più che valide, non sono mai andate oltre un dignitoso status di culto. Tra di esse ci sono i Trees, quintetto londinese formatosi a Londra nel 1969 e scioltosi nel 1973 dopo due soli album e diverse esibizioni dal vivo, che negli anni seguenti è diventato una mezza leggenda in quanto i suoi ex componenti non si sono certo distinti per luminose carriere nel mondo della musica, e quindi intorno al gruppo è sempre rimasto un certo alone di mistero. I leader erano il chitarrista acustico David Costa ed il bassista/tastierista Bias Boshell (che era anche il principale compositore), completati dalla chitarra solista di Barry Clarke, dalla batteria di Unwin Brown e dalla splendida voce angelica della Humphris, che oltretutto era dotata di una presenza scenica incantevole. I cinque, dopo aver firmato per la CBS, diedero alle stampe due album abbastanza ravvicinati tra loro, The Garden Of Jane Delawney (aprile 1970) e On The Shore (gennaio 1971), due lavori di ottimo livello in cui i nostri mischiavano abilmente brani originali e pezzi della tradizione folk rivisitati con un piglio rock a volte quasi psichedelico.

trees folk band 3

Nonostante le critiche positive e gli apprezzati concerti dal vivo i due album non ebbero successo, forse anche a causa dei continui paragoni con i Fairport che non aiutarono di certo Costa e compagni, e di fatto il nucleo originale si sciolse nel corso del 1971. Una seconda incarnazione dei Trees con la Humphris, Clarke e tre rimpiazzi continuò ad esibirsi fino al 1973, ma l’indifferenza pressoché generale che li circondava costrinse anche loro a dire basta. Da lì in poi il più attivo in campo musicale fu Boshell, che collaborò con Kiki Dee, Barclay James Harvest ed i Moody Blues per poi riunirsi a Costa nel 2018 come On The Shore Band per riproporre dal vivo le canzoni dei Trees; Urwin intraprese la carriera di insegnante fino alla sua morte prematura avvenuta nel 2008, Clarke entrò nel business della gioielleria e la Humphris si ritirò praticamente a vita privata prestando molto saltuariamente la sua voce come ospite su dischi di altri artisti (fra i quali Judy Dyble) e, piccola curiosità, registrando la frase “mind the gap” che si sente ancora oggi sulle linee Northern e Jubilee della metropolitana di Londra. (NDM2: a dire il vero un tentativo di reunion ci fu nel 2007 nell’occasione dei remix dei due album originali, ma non si andò oltre un paio di brani nuovi, anche a causa dello stato di salute già compromesso di Urwin).

Trees_Lots_Rd_1970_col_credit_Hipgnosis

Per ricordare i Trees sul finire dello scorso anno la Earth, etichetta responsabile tra le altre cose dei recenti cofanetti retrospettivi di Bert Jansch, ha dato alle stampe Trees, un bellissimo box quadruplo che ripercorre la carriera del quintetto affiancando ai due album di studio opportunamente rimasterizzati una serie di demo, mix alternativi, outtakes e rarità dal vivo, che lo rendono un acquisto praticamente obbligato per gli amanti del folk-rock britannico dell’epoca classica, sia per la ricchezza della proposta che per la bontà dei contenuti musicali (a meno che non possediate le già citate ristampe del 2007, rispetto alle quali il cofanetto propone solo sei inediti). Prodotto come il suo successore da Tony Cox, che si era fatto già un nome in cabina di regia con i Caravan, The Garden Of Jane Delawney è ancora oggi un disco bellissimo, un vero tesoro nascosto del folk-rock britannico dell’epoca, tra brani originali e traditionals reinventati. L’iniziale Nothing Special è un pezzo elettrico, vibrante e decisamente rock, dominato dalla chitarra di Clarke che giganteggia per tutta la durata, e Celia dà un assaggio della sua voce sognante https://www.youtube.com/watch?v=QRh68muODfY  ; segue la bella The Great Silkie, cristallina rilettura di un brano tradizionale che in questo caso caso avvicina abbastanza i nostri ai Fairport, almeno nei primi tre minuti in quanto dopo la canzone prende un’altra direzione e diventa un rock psichedelico con la giusta punta di acidità, in cui i cinque (anzi quattro, visto che Celia non suona) jammano che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=nIerYC_JURU .

Trees Gardenjd

L’album prosegue in maniera decisamente creativa con la bucolica title track, delicata, emozionante e con la voce della Humphris accompagnata da una strumentazione acustica con aggiunta di clavicembalo e flauto, a cui seguono tre traditionals consecutivi https://www.youtube.com/watch?v=hF2GHHCLFTM : i sette minuti di Lady Margaret, puro acid folk con godurioso assolo di Clarke https://www.youtube.com/watch?v=RAJOcq9is3Q , la saltellante Glasgerion, suonata alla grande, ed una tesa e drammatica versione della classica She Moved Thro’ The Fair, altri otto minuti molto intensi in cui si invade quasi il territorio dei Led Zeppelin. Chiusura con la spedita e rockeggiante Road, con un duetto vocale tra Celia e Boshell, la suggestiva Epitaph, stavolta puro folk, e la bella e limpida Snail’s Lament https://www.youtube.com/watch?v=I-sdufQjoTM . On The Shore è forse un gradino sotto il suo predecessore ma sempre validissimo, e si apre con Soldiers Three, gradevole folk-rock quasi sotto forma di filastrocca, per proseguire con la folk ballad Murdoch, complessa ma coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=6-lUwcjXqgA , e con i due pezzi centrali del lavoro: i sette minuti e mezzo di Streets Of Derry, in cui il suono tagliente contrasta con la voce eterea della Humphris https://www.youtube.com/watch?v=vSKF1Dg6yCQ , ed i dieci minuti di Sally Free And Easy, che dopo una bella introduzione pianistica si apre a poco a poco con sonorità ipnotiche ed un notevole crescendo https://www.youtube.com/watch?v=kr6_EWt9cTA  .

Trees On_the_shore

Altri momenti salienti cono due splendide riletture del noto traditional scozzese Geordie (che da noi ha inciso anche De André) https://www.youtube.com/watch?v=V69A96sMDCI  e di Polly On The Shore, che invece i Fairport rileggeranno nel 1973 sull’album Nine https://www.youtube.com/watch?v=_-BbyyLmrNw , oltre allo psych-folk Fool, quasi californiana, ed una vivace ripresa del folk tune Little Sadie, che Bob Dylan aveva rifatto l’anno prima sul bistrattato Self Portrait. Il terzo CD presenta sei remix del 2007 di brani di On The Shore a cura di Costa e Boshell (gli stessi pubblicati nell’edizione deluxe dello stesso anno), in cui i due ex membri hanno tolto la patina di antico che gli originali potevano avere risuonando anche alcuni passaggi strumentali (cosa abbastanza evidente in Murdoch); in aggiunta due demo inediti del 1970 di Polly On The Shore e Streets Of Derry, entrambe non perfettamente rifinite ma già molto interessanti. Il quarto dischetto presenta brani di varia provenienza anche diversi da quelli poi finiti sui due LP originali, a partire da tre demo del 1969 con una She Moved Thro’ The Fair più corta ma ugualmente bella, e due outtakes: il traditional piuttosto noto Pretty Polly, che inizia con un arrangiamento da folk tune appalachiano con banjo in evidenza per poi trasformarsi in una rock song degna della Summer Of Love https://www.youtube.com/watch?v=24SsipdFLJA , e la breve ballata pianistica Little Black Cloud.

celia-humphris-un-cantante-con-gli-alberi-gruppo-pop-la-foto-mostra-pete-drummond-con-la-sua-sposa-dopo-il-servizio-presso-il-kensington-r-o-questa-mattina-e10er1

Poi abbiamo tre BBC sessions del 1970 (di cui due inedite): una cupa The Great Silkie, sette minuti di pura psichedelia in cui gli unici elementi folk sono la melodia e la voce (sentite il finale chitarristico) https://www.youtube.com/watch?v=IN2usssvsqI , una guizzante Soldiers Three e Forest Fire, sontuosa rock ballad eseguita in maniera superba che avrei visto bene su uno dei due album dell’epoca. Tra le chicche del box ci sono poi due ottime e riuscitissime riletture, ovviamente inedite, di She Moved Thro’ The Fair e Murdoch registrate nel 2018 al Café Oto di Londra da parte della On The Shore Band, con Costa e Boshell circondati da una corposa band che comprende quattro chitarristi, la sezione ritmica, violino, fisarmonica, flauto e due voci femminili https://www.youtube.com/watch?v=8vNrySgIq9s . Infine, i due inediti della mancata reunion del 2007, con la bella e sognante Black Widow (la voce di Celia era ancora bellissima) https://www.youtube.com/watch?v=e1kXvm_Mf0k  ed il discreto strumentale Little Black Cloud Suite. Trees è un cofanetto di cui non si è parlato molto in quanto celebra una band di cui oggi si ricordano in pochi, ma che visto il livello del suo contenuto musicale sarebbe colpevole ignorare (*NDB Purtroppo però sembra che il Box non sia più disponibile, Out Of Stock o il più netto Sold Out, con l’eccezione, forse, degli USA dove però risulta soggetto a ulteriori tasse e diritti doganali).

Marco Verdi