Una Bella Sorpresa, Non Più Solo Per Pochi Intimi! Drift Mouth – Loveridge Is Burning

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Drift Mouth – Loveridge Is Burning – Wild Frontier CD

A volte le belle cose hanno origine quasi per caso. I Drift Mouth sono una creatura nata nel 2006 per iniziativa di Lou Poster, songwriter, cantante e chitarrista di Columbus, Ohio, che formò un gruppo con altri musicisti per registrare un album “privato” da regalare al padre che era andato in pensione dopo 37 anni passati a lavorare nelle miniere della West Virginia. Negli anni Poster ha tenuto vivo il gruppo con diversi cambiamenti al suo interno, ma solo nel 2016 a iniziato ad incidere in maniera professionale: prima un singolo, poi nel 2018 il primo album (Little Patch Of Sky) ed ora il secondo lavoro Loveridge Is Burning, che però è il primo ad avere una distribuzione più estesa. Dopo averlo ascoltato, posso affermare che Poster ha fatto bene a riprendere in mano il gruppo con continuità, in quanto ci troviamo di fronte a un ottimo lavoro di puro rock americano, una musica elettrica e chitarristica con elementi country e folk, suonata con grande energia dalla band e cantata da Lou con una bella voce profonda (ricorda vagamente quella di Chris LeDoux, che però era più country).

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Poster si rivela essere un autore di notevole spessore, e le canzoni vengono fuori benissimo grazie anche all’essenzialità del suono: infatti dopo tutti i cambiamenti i Drift Mouth sono ora un classico trio chitarra-basso-batteria, con la sezione ritmica nelle mani di Jess Kauffman (la cui seconda voce è una costante in tutto il disco) e David Murphy, mentre gli interventi esterni si limitano all’organo in un brano ed al violino in un altro. Un album di puro rock’n’roll quindi, prodotto dallo stesso Poster in maniera asciutta e diretta, che inizia ottimamente con Dare D’Evel & The Snake River Canyon, splendida canzone folk-rock elettrica dal ritmo cadenzato e melodia di prim’ordine, impreziosita dalle armonie vocali della Kauffman e da un refrain da applausi https://www.youtube.com/watch?v=Ib23oPqjDQM . The Ghost Of Paul Weaver è il rifacimento del singolo del 2016, un vibrante country & western con la chitarra in primo piano ed un approccio decisamente rock e ricco di pathos https://www.youtube.com/watch?v=GnLETTPf5EU ; ottima anche Iris, solida rock ballad sferzata dal vento che rimanda a LeDoux oltre che per la voce anche per il mood sonoro https://www.youtube.com/watch?v=0vxYb6qHZd8 .

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La title track è la prima delle canzoni scritte da Lou nel 2006 per il padre, una rock song di stampo classico con l’aggiunta di un organo sullo sfondo, un motivo rilassato ed il solito gran lavoro chitarristico, mentre Lifeguard e Tennessee Highway sono due deliziose ballate elettroacustiche alle quali serve poco per emozionare, bastano una bella melodia https://www.youtube.com/watch?v=RoDx9rsNavA , strumenti dosati al punto giusto ed una bella dose di feeling. The Book Of Allison è puro rock’n’roll, sanguigno e trascinante https://www.youtube.com/watch?v=7bCn8cVwH2s , ed ancora più aggressiva è Chase After Me Sheriff, un pezzo tra punk-rock e Link Wray, ritmo alto e chitarra più in tiro che mai; Myra ha un motivo classico di stampo quasi tradizionale (ricorda vagamente The Long Black Veil) che si contrappone ad una base strumentale elettrica e moderna, e prelude alla conclusiva Bad Song, acustica, intensa ed arricchita da un malinconico violino. I Drift Mouth, anche se nati per gioco (anzi, per un regalo) sono una bella realtà.

Marco Verdi

Un Ripasso Della “Seconda Carriera” Della Storica Band Sudista. Lynyrd Skynyrd – Nothing Comes Easy 1991-2012

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Lynyrd Skynyrd – Nothing Comes Easy 1991-2012 – Hear No Evil/Cherry Red 5CD Box Set

I Lynyrd Skynyrd, tra i più leggendari gruppi southern rock ancora in attività, sono discograficamente fermi a Last Of A Dyin’ Breed del 2012 https://discoclub.myblog.it/2012/09/03/e-alla-fine-ne-rimase-uno-lynyrd-skynyrd-last-of-a-dyin-bree/ , anche se fra live e tributi non hanno mai smesso di dare alle stampe materiale a loro nome. In questi giorni il mercato vede l’uscita di ben due progetti riguardanti la band di Jacksonville: il 9 aprile verrà rilasciato in varie configurazioni Live At Knebworth ’76, una mezza fregatura dato che in gran parte era già stato pubblicato anni fa con un altro titolo (ma ve ne parlerà prossimamente ed in maniera più diffusa Bruno), mentre è già disponibile da qualche settimana Nothing Comes Easy 1991-2012, un box quintuplo in formato “clamshell” che si occupa di riepilogare parzialmente la carriera dei nostri a seguito della reunion avvenuta nel 1987, dieci anni dopo il tristemente noto incidente aereo che mise temporaneamente fine alla loro avventura. Il cofanetto ripropone quattro studio album pubblicati nel periodo indicato nel titolo oltre ad un raro EP, scelti peraltro senza un preciso criterio logico: infatti sono presenti i primi due dischi dalla reunion in poi e gli ultimi due, tralasciando quindi il periodo di mezzo formato dall’ottimo unplugged di studio Endangered Species, i discreti Twenty e Edge Of Forever ed il poco riuscito Vicious Cycle.

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Una pubblicazione quindi che interesserà più i neofiti o coloro che possiedono solo i lavori degli anni 70, visto che le strombazzate bonus tracks aggiunte ad ogni dischetto non sono né così rare né tantomeno imprescindibili. In generale il box offre comunque un buon ripasso della discografia recente del gruppo (ed il tutto è stato opportunamente rimasterizzato), con i primi due album ancora legati a doppio filo ai classici rock, blues e boogie tipicamente southern, ed il resto in cui il sound si sposta decisamente su territori hard e AOR. Il primo CD è dedicato a Lynyrd Skynyrd 1991 (indovinate in che anno è uscito), album pubblicato originariamente dalla Atlantic e prodotto dal grande Tom Dowd, con i membri della formazione “classica” Gary Rossington, Ed King, Billy Powell, Leon Wilkeson ed Artimus Pyle (che lascerà la band proprio in quell’anno sostituito da Kurt Custer), raggiunti dai nuovi Johnny Van Zant alla voce e Randall Hall alla chitarra, sostituti rispettivamente del fratello Ronnie Van Zant e di Steve Gaines, scomparsi nel già citato incidente aereo. Il disco è ancora oggi il migliore dal ’91 in poi, e può stare dignitosamente vicino ai lavori pubblicati dai nostri nei seventies, a partire dall’iniziale Smokestack Lightning, un trascinante boogie nel loro tipico stile con tutte le caratteristiche al posto giusto: voce grintosa, chitarre al vento, pianoforte infuocato e backing vocals femminili https://www.youtube.com/watch?v=rfRGWeZtUVk&list=OLAK5uy_m25iVuFxJgmtT0GFLElidVfR9G2Jv6oOk .

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Gli altri highlights sono le potenti e rockeggianti Keeping The Faith, Southern Women, Good Thing (dalla strepitosa coda strumentale) e End Of The Road, tutte all’insegna del gran ritmo e chitarre goduriose, ben controbilanciate dalla limpida ballata elettroacustica Pure & Simple, il saltellante blues Money Man e Mama (Afraid To Say Goodbye), splendida soulful ballad di sette minuti; ci sono anche due pezzi dal suono un tantino “rotondo” (I’ve Seen Enough e It’s A Killer), ma sono entrambi perdonabili. Come unica e poco interessante bonus track abbiamo la versione “edit” di Keeping The Faith. Prodotto da un altro luminare del southern sound, Berry Beckett, The Last Rebel (1993, secondo CD del cofanetto) è ancora un buon disco anche se leggermente inferiore al suo predecessore, e comincia qua e là a spuntare qualche synth seppur usato con parsimonia. I punti di forza dell’album sono l’epica title track, forse la migliore ballata degli Skynyrd dalla reunion in avanti https://www.youtube.com/watch?v=rfRGWeZtUVk&list=OLAK5uy_m25iVuFxJgmtT0GFLElidVfR9G2Jv6oOk , il trascinante rock’n’roll Best Things In Life, sulla scia di classici come Down South Jukin’ e What’s Your Name, e la scintillante country ballad sudista Can’t Take That Away https://www.youtube.com/watch?v=fYA4XqP2Ih8 .

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Non male neppure il sanguigno boogie con fiati Good Lovin’s Hard To Find, l’energica e possente One Thing, il godibile midtempo elettrico Outta Hell In My Dodge e la conclusiva Born To Run, con formidabile finale strumentale che vede il piano di Powell salire in cattedra. Anche qui con le tracce bonus non è che si siano sprecati, avendo aggiunto solo altre due edit versions (The Last Rebel e Born To Run), ed una bella rilettura acustica della title track che però è la stessa di Endangered Species. E veniamo al terzo dischetto, che ci fa fare un balzo in avanti di ben sedici anni e propone God & Guns: di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, la band ha sofferto altre perdite eccellenti (Powell, che però ha fatto in tempo a completare le sessions dell’album, e Wilkeson, mentre King ha lasciato il gruppo nel 1996 per problemi di salute) e quindi Rossington è rimasto l’unico membro originale, raggiunto però dall’ex Blackfoot Rickey Medlocke, che aveva brevemente fatto parte degli Skynyrd prima del loro esordio nel 1973, mentre gli altri componenti sono onesti mestieranti. Ma soprattutto i nostri hanno indurito all’inverosimile il suono alla stregua di un qualsiasi gruppo hard rock (con puntate verso l’AOR), ed il ricorso ad un produttore esperto in hard & heavy come Bob Marlette è significativo, così come la presenza tra gli ospiti di Rob Zombie https://www.youtube.com/watch?v=Vw_6eUgpo30&list=OLAK5uy_nHKof2QbYo33gN7YQ69kwUCAJK-zaQeM8 .

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Suono pesante quindi, come nella potentissima Still Unbroken, con uno di quei riffoni tagliati con l’accetta ed un assolo con steroidi a mille, o la roboante Simple Life, che però ha un ritornello decisamente radio friendly, la solida Little Thing Called You, southern rock per palati forti, l’autocelebrativa e durissima Skynyrd Nation e Comin’ Back For More, con Van Zant che sembra quasi Alice Cooper. Comunque grinta e feeling non mancano, i dischi brutti sono altri, anche se questi Lynyrd Skynyrd sono un’altra band non solo rispetto a quelli degli anni 70 ma anche paragonati ai primi due CD di questo box. Tracce del vecchio smalto ci sono ancora, come nella bella e limpida Southern Ways, che riprende volutamente il mood di Sweet Home Alabama, le ballatone Unwrite That Song, un po’ ruffiana ma dall’indubbio pathos, e That Ain’t My America, anche meglio nonostante il testo infarcito di stucchevole patriottismo, o la splendida Gifted Hands che è di gran lunga il pezzo migliore grazie anche ad un notevole finale chitarristico. Anche qui un misero bonus, Still Unbroken nella solita versione accorciata. Il quarto CD è ancora legato a God & Guns, in quanto si tratta dell’EP di sei pezzi incluso nelle prime copie del disco del 2009 (e qui di bonus tracks neanche l’ombra): tre outtakes di studio, delle quali l’unica degna di nota è il robusto country-blues Hobo Kinda Man, e tre brani dal vivo registrati nel 2007: la non eccelsa Red, White & Blue e le sempre formidabili Call Me The Breeze e Sweet Home Alabama.

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Ed eccoci al quinto ed ultimo CD, il già citato Last Of A Dyin’ Breed del 2012, un disco con lo stesso approccio sonoro di God & Guns (e lo stesso produttore), ma nel complesso meno riuscito https://www.youtube.com/watch?v=ekOH20mxjP4&list=OLAK5uy_kPCkCe5wrWR5c1E_tAgDlWMlhDYrmncO4 . Alti e bassi, tra reminiscenze southern del bel tempo che fu e sonorità decisamente più tamarre: qualche buona canzone c’è, come l’iniziale title track, un bel boogie deciso, coinvolgente e tirato che è un piacere, la rock ballad One Day At A Time, dotata di un ritornello sufficientemente epico, la lenta Something To Live For, ballatona di livello più che buono e suonata nel modo giusto, e la fiera e potente Life’s Twisted. Il resto è hard rock di media qualità, con alcuni brani pessimi come Homegrown e Nothing Comes Easy, oltre a Ready To Fly che è uno slow abbastanza insapore. Qui le bonus tracks sono ben sei, vale a dire tutte quelle comprese nelle due edizioni deluxe dell’epoca (quella “normale” e quella esclusiva della rivista Classic Rock): quattro pezzi in studio, dei quali l’unico davvero incisivo è il rock-boogie Do It Up Right, con i suoi rimandi ai seventies, e due dal vivo, la non imperdibile Skynyrd Nation e la travolgente Gimme Three Steps, southern rock’n’roll allo stato puro. In conclusione, un boxettino che forse può valer la pena acquistare se non si conoscono i Lynyrd Skynyrd “post crash”, ma abbastanza inutile se si possiedono già i dischi in questione, anche per la deludente scelta di bonus tracks.

Marco Verdi

Costa Tanto E Non E’ Inciso Benissimo, Ma C’è Duane E La Performance E’ Ottima! The Allman Brothers Band – Down In Texas ‘71

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The Allman Brothers Band – Down In Texas ’71 – ABB Records CD

La Allman Brothers Band fa ormai parte da diversi anni di quella lunga schiera di gruppi la cui memoria viene discograficamente tenuta viva solo grazie a ristampe e pubblicazioni d’archivio, con proposte che, se dal punto di vista artistico sfiorano quasi sempre l’eccellenza, da quello del rapporto qualità/prezzo non sono sempre impeccabili. Il penultimo appuntamento con la grande band sudista era esplicativo di questa sorta di doppio binario, con un CD live splendido sotto ogni punto di vista (Erie, PA 7-19-05) ed un altro storicamente importante – l’ultima performance di Duane Allman – ma inciso come un bootleg di pessima qualità (The Final Note). Dagli archivi del gruppo è appena uscito un altro live, che si pone giusto a metà tra i due appena nominati, anche se forse siamo più dalle parti del secondo: intanto il CD è reperibile solo sul sito della band, con l’inconveniente per noi poveri italiani di dover spendere più di spedizione che per il disco stesso, e poi la qualità non è certamente perfetta, anche se stavolta non siamo ai livelli infimi di The Final Note, che era comunque un “audience recording”.

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Down In Texas ’71 (registrato al Municipal Auditorium di Austin il 28/09/71) arriva invece dal soundboard, ed alla fine si può giudicare più che accettabile visti i 50 anni che i nastri hanno sul groppone: inizialmente il sound va e viene, è un po’ zoppicante e c’è qualche passaggio a vuoto, ma poi il tutto si normalizza e complessivamente posso dire che alla fine ci si può dichiarare soddisfatti, anche e soprattutto per merito della qualità della performance dei nostri, che in quella serata texana di inizio autunno erano come si suol dire “on fire”. Stiamo infatti parlando del periodo classico della ABB, quando Duane era ancora saldamente nel gruppo e non sbagliavano uno show (dopotutto il mitico Live At Fillmore East, per chi scrive il miglior disco dal vivo di sempre, era stato registrato solo pochi mesi prima): la formazione era quella a sestetto, con Gregg Allman alla voce, piano ed organo, Duane e Dickey Betts (che all’epoca non cantava ancora) alle chitarre e la sezione ritmica formata da Berry Oakley al basso e dai due batteristi Butch Trucks e Jaimoe; in cinque pezzi come ospite interviene il sassofonista Rudolph “Juicy” Carter, anche se i suoi contributi sono quasi inudibili in quanto sepolti nel missaggio un po’ approssimativo.

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Si parte come al solito con Statesboro Blues (la scaletta gira e rigira è sempre la stessa): il suono all’inizio è un tantino fangoso ma migliora man mano che il brano prosegue, e Duane piazza subito un paio di assoli dei suoi con la sua splendida slide https://www.youtube.com/watch?v=7F9WP3fWslE ; giusto il tempo di riprendere fiato ed ecco Trouble No More di Muddy Waters con il classico riff ad introdurre la canzone (ed il sound che prima va e viene e poi si stabilizza), Gregg canta con grinta, la sezione ritmica macina che è un piacere e Betts fa sentire la voce della sua sei corde https://www.youtube.com/watch?v=oqxhrdiC6LI . Una vibrante Don’t Keep Me Wonderin’, dal ritmo spezzettato e con l’organo in evidenza, precede il doppio omaggio ad Elmore James con una breve ma fluida Done Somebody Wrong, con ficcanti assoli dei due axemen ben doppiati dal piano di Gregg, e con la mossa e coinvolgente One Way Out, gran ritmo e solita performance chitarristica davvero notevole e tutta da godere. Ed ecco arrivare i grossi calibri, a partire dalla classica In Memory Of Elizabeth Reed (nove minuti scarsi, ma la versione è incompleta anche se si è fatto di tutto per non far sentire troppo il “taglio” nel mezzo), con le sue tipiche sonorità calde ed il ritmo insinuante non distante da quello che proponevano i Santana in quel periodo, e con un Betts lirico ed ispiratissimo https://www.youtube.com/watch?v=xlBDRCsUTZw .

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Per proseguire con gli altri nove minuti di Stormy Monday (T-Bone Walker), uno slow blues sinuoso e reso ancora caldissimo dall’organo e con i due chitarristi che entrano in punta di piedi ma che non tardano a prendersi la canzone https://www.youtube.com/watch?v=kONF4AUz_Fc . E’ poi il momento del punto più alto del concerto, cioè il fantastico quarto d’ora della signature song di Willie Cobbs You Don’t Love Me, una vera e propria orgia sonora dal feeling formidabile, con i nostri in completa “modalità Fillmore East”, al punto che quindici minuti sembrano pure pochi https://www.youtube.com/watch?v=X_zCQCGv7FQ . Finale con Hot’Lanta, potente jam session con la fusione tra rock, blues e jazz tipica dell’inimitabile stile del gruppo di Macon. Un altro ottimo live dal passato della Allman Brothers Band (parlo della performance), anche se il costo alto e l’incisione piuttosto altalenante mi costringe a consigliarlo solo ai fedelissimi.

Marco Verdi

Un Moderno Hippie Sfida Il Triste Tempo Del Covid. Israel Nash – Topaz

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Israel Nash – Topaz – Desert Folklore Music/Loose Records

Per fortuna in questi travagliati anni duemila il mestiere del cantautore non sembra esser passato di moda, almeno in America, con una nuova generazione di talenti che, disco dopo disco, si stanno mettendo in luce grazie alla loro musica e alle loro personali visioni della realtà contemporanea. Ognuno di voi, certo, avrà la sua personale lista di preferiti, nella mia posso citare Jonathan Wilson, Drew Holcomb, Jason Isbell, Griffin House, Will Hoge e, last but not least, Israel Nash (all’inizio noto anche per un secondo cognome, Gripka), di cui vado a descrivervi l’ultimo album, Topaz. Anticipato alla fine dello scorso anno dall’omonimo EP con cinque brani scaricabili online, questo nuovo lavoro ha preso la sua forma definitiva dopo una lunga gestazione nello studio personale di Nash ad Austin, luogo dove il songwriter originario del Missouri si è stabilito da parecchio tempo. Gli anni degli esordi newyorkesi appaiono lontani, a giudicare da come si presenta l’amalgama sonoro che caratterizza Topaz, successore diretto dei precedenti Lifted del 2018 e Silver Season del 2015, già contraddistinti da quel sound denso e stratificato che qualcuno ha voluto definire cosmic country, dove si vuol far convergere il prog dei Pink Floyd bucolici modello Obscured By Clouds con la delicata patina di psichedelia presente nel roots rock targato Laurel Canyon.

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Paragoni legittimi, tuttavia anche a un ascolto distratto non si può fare a meno di notare l’influenza più rilevante tra tutte, quella di Neil Young e dei suoi gioielli che dagli anni settanta non hanno mai cessato di ispirare le successive generazioni di musicisti. Il brano di apertura, Dividing Lines, mostra il lato più pinkfloydiano di Israel col suo lisergico crescendo, il ruolo determinante della pedal steel guitar suonata dall’ottimo Eric Swanson e l’uso potente dei cori femminili, le bravissime Jenny Carson e Rockyanne Bull https://www.youtube.com/watch?v=VBvy2f9Tdr8 . La morbida Closer è immediatamente accattivante, ancora pedal steel, banjo e armonica a guidare una melodia sognante che sembra perdersi nella vastità degli orizzonti texani https://www.youtube.com/watch?v=OcqFPn8-7zs . La chitarra di Adrian Quesada, leader dei Black Pumas e coproduttore di Topaz, dà l’avvio al turgido soul di Down In The Country, dove ha modo di mettersi in luce l’accompagnamento fiatistico in puro stile Stax dell’ensemble Afrobeat Hard Proof https://www.youtube.com/watch?v=6lluZL-So7Y . In Southern Coasts le campionature ritmiche non rovinano l’atmosfera contemplativa del pezzo, impreziosito nel finale da un bel fraseggio di chitarre https://www.youtube.com/watch?v=KJbRNq18PmU , mentre Stay cattura subito per le sue note calde ed avvolgenti, soul ballad purissima che potrebbe ambire al ruolo di singolo da classifica, sfruttando ancora un brillante uso dei fiati e dell’elettrica di Quesada https://www.youtube.com/watch?v=dykiv1T5-FQ .

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Canyonheart è talmente younghiana che potrebbe essere scambiata per un outtake di Harvest o After The Gold Rush, col suo incedere indolente e l’armonica che accarezza l’anima insieme a banjo e steel guitar https://www.youtube.com/watch?v=X0BePC-qJL0 . Ancora l’ombra del grande canadese si stende sul robusto tessuto melodico di Indiana, (o Alabama, mi verrebbe quasi da cantare!) https://www.youtube.com/watch?v=VA0KKfm1hUA  che si stempera nella contemplativa bellezza della successiva Howling Wind. Tanta spiritualità ed introspezione potrebbero indurci a pensare che Nash viva sospeso nel suo mondo dominato dalle suggestioni di Madre Natura, lontano dalla realtà contingente. A smentire quest’idea arriva la struggente Sutherland Spring, rievocazione della strage compiuta nel novembre 2017 nella chiesa battista dell’omonima località da parte dello squilibrato Devin Patrick Kelley che uccise ventisette persone e ne ferì altre venti. Ogni strumento contribuisce alla resa di questa allucinante vicenda, facendo di questa drammatica ballad uno dei vertici dell’album https://www.youtube.com/watch?v=KZVeal2qbjY . Pressure, con la sua bella enfasi fiatistica in chiave southern soul https://www.youtube.com/watch?v=jA6vEP2rL4o , chiude degnamente un disco piacevolissimo e rigenerante, ricco di sonorità azzeccate e suggestioni meditative, facendo di Israel Nash non più solo una promessa ma un sicuro protagonista della musica che amiamo.

Marco Frosi

Dopo Willie Nelson, Ecco Una “Giovane Promessa” Al Femminile! Loretta Lynn – Still Woman Enough

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Loretta Lynn – Still Woman Enough – Legacy/Sony CD

Se Willie Nelson a quasi 88 anni pubblica ancora grande musica con sorprendente regolarità, lo stesso si può dire di quella che può essere definita la sua controparte femminile, cioè la leggendaria Loretta Lynn, che di anni ne sta per compiere 89 (sia lei che Willie sono nati ad aprile). Tornata ad ottimi livelli, anche di vendite, nel 2004 con Van Lear Rose (prodotto da Jack White), la Lynn si è poi presa una lunga vacanza per ritornare più agguerrita che mai nel 2016 con l’altrettanto riuscito Full Circle, il primo di cinque album pianificati con la produzione di John Carter Cash, figlio del grande Johnny Cash. Dopo il natalizio White Christmas Blue ed il sempre valido Wouldn’t It Be Great del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/07/appendere-la-chitarra-al-chiodo-magari-tra-dieci-anni-loretta-lynn-wouldnt-it-be-great/ , ora Loretta torna tra noi con un altro bellissimo lavoro intitolato Still Woman Enough (stesso titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2002), sotto la supervisione della figlia Patsy Lynn Russell e del solito Cash Jr. Still Woman Enough non sposta di una virgola il suono e lo stile della Lynn (ma a quasi novant’anni mi stupirei del contrario), country che più classico non si può, cantato alla grande con un timbro vocale decisamente giovanile (anche Nelson, tanto per continuare col parallelo, ha ancora una grande voce, ma dimostra tutti i suoi 87 anni) e suonato con classe immensa da un manipolo di luminari di Nashville.

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Un gruppo folto di musicisti con al loro interno nomi notissimi come Paul Franklin alla steel, Ronnie McCoury al mandolino, Shawn Camp e Randy Scruggs alle chitarre, Dennis Croutch e Dave Roe al basso, Matt Combs al violino e, come vedremo tra poco, una manciata di famose colleghe di Loretta a duettare con lei. Puro country, di piacevolissimo ascolto e che una volta di più ci mostra un’artista che, nonostante l’età e la splendida carriera ricca di successi, non ha ancora perso la voglia di fare musica. L’album, tredici canzoni, è diviso a metà tra rifacimenti di brani già interpretati in passato ed altri affrontati per la prima volta: l’unico pezzo veramente nuovo è la title track che apre il CD (scritta da Loretta insieme alla figlia), un country-rock elettrico e sorprendentemente grintoso specie per un’ottuagenaria: gran voce, ritmo cadenzato, un bel mix di chitarre acustiche, elettriche e dobro con la ciliegina della presenza di Reba McEntire e Carrie Underwood ad alternare e sovrapporre le loro ugole a quella di Loretta https://www.youtube.com/watch?v=BB5FHS3eJ_c . I brani “nuovi” proseguono con due omaggi alla Carter Family, una deliziosa e cristallina ripresa della popolare Keep On The Sunny Side in puro stile bluegrass (grande canzone e grandissima voce, una cover da brividi) ed una limpida I’ll Be All Smiles Tonight, dal motivo ammaliante e gustoso accompagnamento per sole chitarre, mandolino ed autoharp.

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Chiudono il lotto dei pezzi mai incisi prima dalla Lynn due riprese di altrettanti traditionals: la solare I Don’t Feel At Home Anymore, ancora dal sapore bluegrass tra dobro, chitarra e mandolino, e la nota Old Kentucky Home (di Stephen Foster, quello di Oh, Susanna! e Hard Times Come Again No More), con quattro strumenti in croce e la voce inimitabile di Loretta per un altro esempio di eccellente country d’altri tempi, oltre ad una trascinante e ritmata rilettura dell’evergreen di Hank Williams I Saw The Light, tra country e gospel, suonata in modo eccelso. E veniamo alle riproposizioni di brani già pubblicati in passato, a partire dall’incantevole Honky Tonk Girl, luccicante esempio, indovinate, di honky-tonk classico suonato in maniera sopraffina (splendidi il pianoforte e la steel), seguita da una versione particolare di Coal Miner’s Daughter, la signature song di Loretta, che non canta ma si limita a recitare il testo in maniera indubbiamente suggestiva, accompagnata solo da un banjo. One’s On The Way è uno splendido honky-tonk elettrico (l’autore è il grande Shel Silverstein) con ben cinque chitarre più la steel e la seconda voce di Margo Price, due ugole strepitose al servizio di una melodia di prim’ordine https://www.youtube.com/watch?v=tmH95_a2Vtk .

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loretta lynn – margo price

I Wanna Be Free è un country-rock mosso ed orecchiabile, cantato come al solito in modo scintillante, mentre Where No One Stands Alone è un antico gospel di Lister Mosie che Loretta trasforma in una superba country ballad pianistica decisamente toccante al tempo di valzer lento (ma sentite come canta!). Chiudono il CD, forse il migliore tra quelli registrati negli studi del figlio di Cash, la dolce ed emozionante My Love e la guizzante You Ain’t Woman Enough, altra strepitosa honky-tonk song in cui la Loretta divide il microfono con un’altra “ragazzina”, Tanya Tucker https://www.youtube.com/watch?v=8LKJRJYPTZc . Non posso che augurare a Loretta Lynn una vita ancora lunga e piena di salute, in modo da poter godere nell’immediato futuro di altri dischi del livello di Still Woman Enough. 

Marco Verdi

Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

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Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

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Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

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Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

Dopo La Scorpacciata Elettrica Coi Crazy Horse, Ecco Il “Giovane Nello” In Beata Solitudine, Esce Il 26 Marzo! Neil Young – Young Shakespeare

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Neil Young – Young Shakespeare – Reprise/Warner CD – CD/LP/DVD Box Set

Ho ancora nelle orecchie il magnifico live del 1990 Way Down In The Rust Bucket, registrato insieme ai Crazy Horse, che già Neil Young pubblica un altro album dal vivo tratto dai suoi sterminati archivi: Young Shakespeare è però l’esatto opposto di Rust Bucket per quanto riguarda il suono, in quanto vede il nostro da solo sul palco armato unicamente di chitarra ed occasionalmente pianoforte. L’album (pubblicato in CD, LP e cofanetto che comprende entrambe le configurazioni aggiungendo un DVD con le riprese video della serata, *NDB al solito prezzo assurdo)) presenta tredici canzoni tratte dal concerto del 22 gennaio 1971 allo Shakespeare Theatre di Stratford, Connecticut, uno spettacolo che si tenne appena tre giorni dopo il famoso show alla Massey Hall di Toronto già pubblicato nel 2007 nell’ambito degli archivi younghiani (ed infatti la setlist di Stratford ricalca per dodici tredicesimi quella canadese).

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Nel presentare Young Shakespeare il nostro non ha nascosto la sua personale preferenza per questo show rispetto a quello di tre giorni prima, a suo dire troppo autocelebrativo e meno spontaneo: io sinceramente dopo aver ascoltato Young Shakespeare non so decidermi, in quanto siamo comunque di fronte a due eccellenti performance. D’altronde stiamo parlando di uno dei grandi della nostra musica in uno dei periodi più creativi della sua carriera, un songwriter di livello sopraffino e performer nato, in grado, ed in questo è uno dei pochi al mondo, di tenere alta l’attenzione del pubblico per un intero concerto anche stando da solo sul palco. Young Shakespeare offre quindi una performance splendida da parte di un artista eccezionalmente ispirato, il tutto di fronte ad un pubblico attento e preparato, e se Way Down In The Rust Bucket è la quintessenza del Neil Young rocker, questo live acustico non è certo inferiore in quanto ad intensità e capacità di emozionare; tra l’altro il suono è stato meticolosamente ripulito e rimasterizzato, ed il risultato è tale da farlo sembrare un concerto registrato un mese fa. E poi i titoli in scaletta parlano da soli, con Neil che già all’epoca era avvezzo a sorprendere il pubblico presentando, su tredici pezzi totali (ma il concerto completo era di sedici), ben sei canzoni all’epoca ancora inedite su disco.

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E non siamo parlando di brani secondari: quattro sono anteprime da Harvest (che uscirà dopo un anno), e cioè le splendide The Needle And The Damage Done e Old Man, la drammatica A Man Needs A Maid, eseguita al pianoforte ed in medley con la sempre formidabile Heart Of Gold (anch’essa al piano, e questa è una rarità), mentre l’oscura Journey Through The Past uscirà nel 1973 sul live Time Fades Away e Dance Dance Dance sarà ceduta ai Crazy Horse per il loro omonimo debut album (ma Neil ne riutilizzerà più avanti la melodia per Love Is A Rose). Il resto del CD è una superba full immersion nel meglio del songbook younghiano dell’epoca, con versioni intime ma allo stesso tempo coinvolgenti di capolavori del calibro di Tell Me Why https://www.youtube.com/watch?v=X_dWqfmPfU8 , Don’t Let It Bring You Down, Helpless, l’arrabbiata (ed applauditissima) Ohio, la conclusiva Sugar Mountain e due imperdibili Cowgirl In The Sand e Down By The River https://www.youtube.com/watch?v=Up0dI-QpqF8 . Dopo un 2020 ricco di pubblicazioni, il 2021 di Neil Young si annuncia ancora più interessante, e se le future uscite saranno del livello di Way Down In The Rust Bucket e di Young Shakespeare il godimento musicale è assicurato.

Marco Verdi

Replay. Quando Non E’ Impegnato A Molestare Le Donne, Si Ricorda Di Essere Anche Un Grande Songwriter. Ryan Adams – Wednesdays: Ora Anche In CD Dal 19 Marzo

ryan adams wednesdays

Ryan Adams – Wednesdays – PAX AM Download – CD 19-03-2021

C’è stato un momento, compreso tra gli ultimi due album dei Whiskeytown ed i primi tre della sua carriera solista, in cui Ryan Adams sembrava destinato a diventare il musicista migliore della sua generazione. Il suo debutto senza la sua prima band, Heartbreaker (2000), era un grande disco, ma Gold dell’anno successivo era senza mezzi termini un capolavoro, un album geniale e creativo di cantautorato rock senza sbavature, il classico disco che se non raggiunge le cinque stellette ci va molto vicino. Anche Demolition del 2002 era ottimo, ma poi Adams ha cominciato a produrre fin troppo materiale badando più alla quantità che alla qualità, alternando bei dischi (Cold Roses, Jacksonville City Nights, Easy Tiger e Ashes & Fire, lavoro targato 2011 che forse è il suo ultimo grande album) ad altri decisamente meno riusciti quando non velleitari (Rock’n’Roll, i due EP Love Is Hell poi riuniti insieme, il pessimo Orion e l’omonimo Ryan Adams del 2014), oltre ad operare scelte abbastanza discutibili come 1989, cover album pubblicato nel 2015 che ricalcava canzone per canzone il disco di Taylor Swift uscito l’anno prima con lo stesso titolo, o come quando nel 2006 ha fatto uscire ben undici album sotto diversi pseudonimi, tutte porcherie tra hardcore e hip-hop.

LOS ANGELES, CA - FEBRUARY 10: (EXCLUSIVE COVERAGE) Mandy Moore and Ryan Adams attend The 2012 MusiCares Person Of The Year Gala Honoring Paul McCartney at Los Angeles Convention Center on February 10, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Kevin Mazur/WireImage)

LOS ANGELES, CA – FEBRUARY 10: (EXCLUSIVE COVERAGE) Mandy Moore and Ryan Adams attend The 2012 MusiCares Person Of The Year Gala Honoring Paul McCartney at Los Angeles Convention Center on February 10, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Kevin Mazur/WireImage)

Quando si parla di Adams bisogna poi separare l’artista dalla persona, visto che il nostro non è certo tra i più simpatici in circolazione, essendo soggetto a comportamenti talvolta irascibili (anche nei confronti dei fans) e talvolta tipici di una rockstar viziata, anche se il peggio Ryan lo ha dato negli ultimi anni dal momento che è stato accusato di molestie sessuali dall’ex moglie Mandy Moore, dalla cantautrice Phoebe Bridgers e da altre cinque donne, fatti che hanno poi avuto un’implicita conferma dalle vaghe ed imbarazzate scuse pubbliche dello stesso Adams. Questa controversia ha rischiato anche di mandargli a pallino la carriera, dal momento che il suo progetto di pubblicare ben tre album nel 2019 è stato sospeso ed il primo CD della trilogia, Big Colors, cancellato all’ultimo momento. Lo scorso 11 dicembre però Ryan a sorpresa ha messo a disposizione sulle principali piattaforme Wednesdays, un nuovo album che doveva essere il secondo dei tre programmati due anni fa (con dentro un paio di brani in origine su Big Colors), una mossa che avrà un seguito il prossimo 19 marzo quando uscirà la versione “fisica”.

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Ebbene, mettendo da parte per un attimo le considerazioni sul personaggio Ryan Adams, la sua controparte artistica in Wednesdays ha davvero dato il meglio, consegnandoci un disco di cantautorato coi fiocchi che lo pone senza molti dubbi come il suo lavoro migliore da Ashes & Fire ad oggi. Prodotto da Ryan insieme a Don Was (che suona anche il basso) e Beatriz Artola, Wednesdays è un disco di ballate intime, profonde e meditate, in cui non troverete il lato rock di Adams ma bensì quello più intenso e melodico, ed una serie di canzoni di limpida bellezza che forse hanno come unica controindicazione il fatto di non essere consigliabili a chi soffre di depressione. Gli strumenti sono quasi tutti nelle mani del nostro con poche ma importanti eccezioni: infatti, oltre al già citato Was, troviamo Benmont Tench al piano (e si sente), Jason Isbell alla chitarra ed Emmylou Harris alle armonie vocali in un paio di brani. La prima volta che ho ascoltato l’iniziale I’m Sorry And I Love You ho pensato di avere scaricato per sbaglio un inedito di Neil Young, dal momento che sia il timbro di voce che lo stile ricordano nettamente le ballate pianistiche del grande canadese (ed anche qualcosa di John Lennon): bella canzone, classica nel suono e con una leggera spolverata d’archi (o forse è un synth, usato però nel modo corretto) https://www.youtube.com/watch?v=vTwRrP9Ovq4 . Who Is Going To Love Me Now, If Not You è un piccolo bozzetto per voce e chitarra, un brano intimista ed interiore con una slide in lontananza che si fa sentire ogni tanto, ed anche When You Cross Over prosegue con lo stesso mood introverso ed il medesimo impianto sonoro scarno, con l’aggiunta del pianoforte, della seconda voce di Emmylou e, circa a metà, della sezione ritmica che contribuisce ad aumentare il pathos https://www.youtube.com/watch?v=NjcnSTn6zqA .

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Walk In The Dark è ancora un lento molto intenso, a confermare che siamo di fronte ad un lavoro serio e profondo e non alla fanfaronata di un artista che molto spesso si è fatto prendere la mano https://www.youtube.com/watch?v=pmC3Fo02fM0 ; Poison & Pain è pura folk music, una slow song suonata in punta di dita (e qui mi viene in mente Paul Simon, quello classico di Hearts And Bones), così come la title track che ha uno sviluppo molto simile https://www.youtube.com/watch?v=COYioAybALw . Birmingham è splendida: intanto è full band dall’inizio (c’è anche l’organo), ed è servita da una melodia straordinaria e da un suono che più classico non si può, un brano che ci fa ritrovare il Ryan Adams dal pedigree immacolato di inizio carriera https://www.youtube.com/watch?v=3RPZs25D3Gk . Con So, Anyways tornano le atmosfere intime e rarefatte, e spunta anche un’armonica ad impreziosire un pezzo dal motivo delizioso, Mamma, sempre acustica, è un po’ meno immediata ma è eseguita in maniera toccante, mentre Lost In Time è di nuovo un folk tune cristallino, nobilitato da una steel che fende l’aria qua e là. Chiude l’album la bellissima Dreaming You Backwards, voce, piano, batteria e feeling in dosi massicce (ed uno dei pochi interventi di chitarra elettrica), che la pongono tra le più riuscite del lavoro https://www.youtube.com/watch?v=hcoRDsy77-M .

In definitiva, se Ryan Adams come personaggio mi stava sulle balle anche prima delle accuse di molestie, devo ammettere che il musicista che è in lui ha dimostrato con questo Wednesdays di essere ancora a pieno titolo tra noi.

Marco Verdi

Il (Doppio) Springsteen Della Domenica: Le Due Facce Del Boss, Rocker E Folksinger. Bruce Springsteen – St. Paul, MN Nov. 12, 2012/Nice, France 1997

bruce springsteen st. paul 2012

Bruce Springsteen & The E Street Band – St. Paul, MN Nov. 12, 2012 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Bruce Springsteen – Nice, France 1997 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

A differenza del solito questa volta ho deciso di raggruppare in un’unica recensione le due ultime uscite degli archivi live di Bruce Springsteen (a dire il vero è appena stato annunciato un altro episodio, registrato nel 2000 al Madison Square Garden nel corso del Reunion Tour), in quanto offrono una esauriente contrapposizione tra le due anime del nostro: lo Springsteen rocker a 360 gradi insieme alla E Street Band in St. Paul, MN Nov. 12, 2012 e quello folksinger da solo sul palco in Nice, France 1997. Lo show di St. Paul, un CD triplo (il quinto del 2012 ed il terzo registrato in suolo americano), è stato indicato da molti come uno dei migliori del tour, e se ho parlato del lato rocker di Bruce non l’ho fatto a caso, in quanto il concerto è decisamente spostato verso i brani più elettrici e mossi e limita al minimo sindacale le ballate. Già uno spettacolo che inizia con I’m A Rocker (tra l’altro è la prima volta che il Boss comincia con questa canzone) lascia ben sperare per il seguito https://www.youtube.com/watch?v=FJrLh6Uomt8 , che infatti mette in fila una sequenza senza respiro con il “crowd-pleaser” Hungry Heart e le epiche No Surrender, Night https://www.youtube.com/watch?v=9RkJDkPJkOc  e Loose Ends https://www.youtube.com/watch?v=pLnx1nz36f0 .

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Dopo due ottimi pezzi dal mood più rilassato (Something In The Night ed una splendida Stolen Car, uno dei brani più oscuri di The River che in quella serata Bruce propose solo per la seconda volta dal 1985) https://www.youtube.com/watch?v=THqSKKv1_yw  lo show riprende a vibrare con tre dei migliori momenti di Wrecking Ball (la title track, We Take Care Of Our Own e Death To My Hometown), per poi arrivare ad una monumentale My City Of Ruins di 17 minuti, piena di anima e con un crescendo notevole, ed una pimpante e ritmata The E Street Shuffle. La parte centrale del concerto forse è ancora meglio, in quanto i nostri alternano coinvolgenti pezzi che non mancano quasi mai come Shackled And Drawn https://www.youtube.com/watch?v=HRpU9HzQHsg , Waitin’ On A Sunny Day, The Rising e Badlands ad altri più rari come una stupenda Devils And Dust dall’insolito arrangiamento rock full band https://www.youtube.com/watch?v=hTIUZvMxLJc , la tesa Youngstown, affilata come una mannaia, una Murder Incorporated resa ancora più potente dai fiati e con una grande sfida finale a base di assoli tra il Boss, Little Steven e Nils Lofgren, e l’irresistibile Pay Me My Money Down che è forse il momento più trascinante della serata. Tra i bis spiccano la solita inimitabile Jungleland (undici minuti con, inutile dirlo, Roy Bittan grande protagonista) ed un finale tra il commovente (Tenth Avenue Freeze-Out, con annesso tributo allo scomparso Clarence Clemons) e l’esagitato (American Land).

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E veniamo al doppio Nice, France 1997, quarto volume della serie ad essere estrapolato dai concerti seguiti alla pubblicazione di The Ghost Of Tom Joad ma primo a provenire dalla parte finale del tour (18 maggio 1997). Una versione intima e pacata del Boss, solo voce, chitarra e armonica (e le tastiere “offstage” di Kevin Buell), un concerto che forse non farà saltare sulla sedia l’ascoltatore ma di certo è in grado di provocare più di un brivido, anche perché vede un Bruce decisamente ispirato e “sul pezzo”. Le canzoni tratte da The Ghost Of Tom Joad occupano un terzo circa della setlist con ben nove selezioni (splendide la title track, durante la quale non si sente volare una mosca, Sinaloa Cowboys, The Line e Across The Border), ma poi ci sono altri brani perfetti per questa veste acustica, come Atlantic City, Highway Patrolman (molto intensa) https://www.youtube.com/watch?v=7XImAedciX0 , l’ironica Red Headed Woman, This Hard Land, l’antica Growin’ Up, l’allora inedita Brothers Under The Bridge, che sarebbe uscita l’anno seguente sul box Tracks https://www.youtube.com/watch?v=Zh9ejlgNsm0 , e It’s The Little Things That Count, una outtake di Tom Joad che a tutt’oggi giace ancora negli archivi  . Il trattamento voce-chitarra funziona anche con pezzi all’apparenza meno adatti, in particolare con It’s Hard To Be A Saint In The City https://www.youtube.com/watch?v=znqV14v7dbY , Two Hearts e l’ancora sconosciuta Long Time Comin’ (in anticipo di otto anni su Devils And Dusthttps://www.youtube.com/watch?v=fMxivCE8wbo , ed in maniera del tutto inaspettata anche brani originariamente rock’n’roll come Murder Incorporated https://www.youtube.com/watch?v=Av1n3isTar0 , You Can Look (But You Better Not Touch) e Working On The Highway.

E’ chiaro, come ho già affermato in passato, che continuo a ritenere il Bruce Springsteen rocker nettamente superiore al suo alter ego folksinger, ma anche armato di sola chitarra e armonica il Boss è tra i pochi al mondo che riesce a suonare per più di due ore senza annoiare.

Marco Verdi

Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Ora Anche In CD. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

gillian welch & david rawlings all the good times are past & gone

Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony/Warner CD

Lo scorso 10 luglio Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) rendendolo inizialmente disponibile solo come download, ma ora possiamo a tutti gli effetti parlare di “disco” in quanto è stato finalmente pubblicato anche su CD. Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (anche se comunque la Welch è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti). Il dubbio che Gillian soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto.

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A parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti dalla folksinger, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione, e se ne sono accorti anche ai recenti Grammy in quanto All The Good Times è stato premiato come miglior disco folk del 2020. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita https://www.youtube.com/watch?v=knr3G8HLITw , e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura https://www.youtube.com/watch?v=CcHo_BtAO0o .

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Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solita e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale pur con l’uso parco della strumentazione https://www.youtube.com/watch?v=W2j_P_m7_sM , e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos https://www.youtube.com/watch?v=Ay3gdEQlV70 , mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante https://www.youtube.com/watch?v=HYt4rRgx5OU ; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso. Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine) https://www.youtube.com/watch?v=hVKMw0owfEI .

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Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo, che ora possiamo goderci anche su CD.

Marco Verdi