Non C’é Il Due Senza Il Tre – Johnny Winter – Live At Rockpalast 1979

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Johnny Winter – Rockpalast: Legends Vol.3 – Mig Records

Ultimamente mi capita spesso di occuparmi di Johnny Winter, come recensore e appassionato.
Questo è il terzo disco di archivio che esce in un arco temporale ristretto (meno di un anno) dedicato al grande chitarrista albino texano. A differenza delle Bootleg Series giunte al volume 7 di cui non è sempre chiara la provenienza, questo doppio CD (ma esiste anche il DVD) fa il paio con lo straordinario Live At the Fillmore East 10/3/70 in quanto a qualità sonora (buona) e contenuti. Mentre il concerto del 1970 è uno dei momenti migliori in assoluto della carriera di Winter questo doppio Live è appena un gradino al di sotto.

Siamo alla Grugahalle di Essen, casa del leggendario Rockpalast, nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 1979, nella stessa serata hanno già suonato la J Geils band e Patti Smith (non male come programma) che rimane sotto il palco, incantata e munita del suo clarinetto, per eventualmente fare una jam con Winter. Che, come racconta l’organizzatore della serata, chiede di vedere il filmato del concerto registrato da Muddy Waters nella sua apparizione al Rockpalast del 1978 e dichiara la sua soddisfazione per il sound della band di Waters con ben sette elementi e quindi la non necessità di provare lui che di elementi ne ha solo tre nel proprio gruppo. Proprio un paio di anni prima Winter aveva prodotto per la sua Blue Sky una trilogia di album per il veterano di Chicago, a partire dal notevole Hard Again, che rimangono tra le cose migliori della sua discografia. Non solo, con Nothin’ But The Blues aveva realizzato un disco che gli aveva fatto vivere una sorta di seconda giovinezza in parte bissata con il successivo White Hot and Blue.

Quindi il periodo è quello, nella piena maturità del texano che incappa in una serata magica e chiede ed ottiene dagli organizzatori che il suo concerto dagli 80 minuti originali si possa espandere fino alle due ore (come alla RAI, ma solo per le “mitiche” serate dei varietà del sabato sera, per la musica al limite la sfumano). Il trio vede l’immancabile Jon Paris al basso e Bob Torello alla batteria e il repertorio è eclettico e micidiale allo stesso tempo: si parte con una fantastica (e lunghissima) versione del classico di Freddie King Hideway con la chitarra di Johnny Winter che cesella una serie di assoli degni dell’autore del brano.

Si prosegue con una Messin’ With The Kid che fa il paio come potenza di tiro della chitarra e grinta nella voce con quella che faceva il compianto Rory Gallagher. Walkin’ By Myself non è da meno e nei 18 minuti di Mississippi Blues dimostra perché è giustamente considerato uno dei più grandi chitarristi bianchi di tutti i tempi. Lo ribadisce nella cover inconsueta di un brano di Sleepy John Estes Divin’ Duck e nella versione come sempre terrificante del suo cavallo di battaglia Johnny B Goode dove la potenza devastante del riff immortale di Chuck Berry viene sublimata dalla solista inarrestabile di Winter. E questo è solo il 1° CD.

Nel secondo si parte con una versione ipnotica della classica Suzie Q di Dale Hawkins ma che tutti conoscono nella cover (magnifica) che facevano i Creedence. Tanto per gradire 13 minuti, una versione breve!  Segue un brano che si chiama Drum Solo, e che mai sarà? Provate ad indovinare? I’m ready non è quella di Muddy Waters ma una versione a velocità supersonica del brano di Fats Domino, blues e rock and roll dall’impatto devastante. I ritmi invece di rallentare vengono ancora più esasperati con una tiratissima Rockabilly Boogie e con un brano intitolato Medley che è l’occasione per sfoderare la sua proverbiale maestria alla slide guitar. Conclude in gloria una versione nucleare del classico degli Stones Jumpin’ Jack Flash.

E se volete sapere, Patti Smith se l’è proprio dimenticata ai bordi del palco. Ma penso che sarà rimasta comunque soddisfatta come il resto del pubblico.Una cosa che non sapevo, il nome dell’etichetta non riguarda gli aerei, ma sta per Made In Germany, uno pensa le cose più incredibili e poi…

Per la cronaca, il vecchio Johnny non molla, l’avevo visto male al Crossroads Guitar Festival di Clapton ma sembra di nuovo in discrete condizioni, take a look!

Bruno Conti

For Collectors Only! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.7

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Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol. 7 – Friday Music

La sufficienza viene concessa di stima per questo nuovo volume della serie dedicata al materiale di archivio del grande chitarrista albino texano. Johnny Winter non gode di buona salute come avrete visto dalle sue partecipazioni al Crossroads Festival di Clapton e quindi le probabilità di un nuovo disco mi paiono scarse ma qui siamo lontani dalle punte di eccellenza di quello straordinario CD pubblicato dalla Collectors’ Choice Live At Fillmore East 10/03/70 di cui vi ho parlato alcuni mesi or sono ( blast-from-the-past-sbucati-dal-passato-johnny-winter-and-po.html e che rimane uno dei documenti migliori della sua discografia. In questo volume 7 le note sono più scarne del solito e possiamo presumere che le registrazioni provengano dal periodo fine ’80 inizio ’90 visti i musicisti utilizzati Tom Compton alla batteria e Jon Paris e Jeff Ganz che si alternano al basso. Sono Bootleg e lo dice il nome stesso, quindi la qualità sonora non sempre è straordinaria ma ogni tanto si scende sotto il livello di guardia.

Le note del libretto del CD sono compilate da un fan “inaspettato”, Warren Haynes che confessa che i tre suoi chitarristi preferiti nella sua formazione musicale, i suoi guitar heroes, sono stati Clapton, Hendrix e Johnny Winter. Mentre per i primi due la cosa è abbastanza risaputa, per il terzo mi sarei giocato la camicia su Page o Duane Allman ma evidentemente mi sbagliavo. Haynes ne tesse giustamente le lodi ricordandone la straordinaria importanza in quel territorio che sta tra rock e blues, un ponte tra i due generi e uno straordinario chitarrista nonché un ottimo cantante.

Questo album contiene solo sette brani compresa una breve introduzione di 22 secondi: la cover di Don’t Take Advantage Of Me un brano di Lonnie Brooks da sola quasi vale il prezzo di ammissione, una torrenziale sequela di note in uno stile funky-rock-blues quasi hendrixiano che ci riconduce al Johnny Winter più valido e anche con una qualità sonora eccellente. Mean Mistreater lo slow blues dal repertorio di Muddy Waters è uno dei suoi classici assoluti e questa versione sarebbe molto buona se il suono non fosse molto “paludoso” forse in onore al suo autore, tipo buon bootleg ma nulla più. La lunga Blues Jam che immagino provenga dalla stessa fonte vi costringe ancora ad aguzzare le orecchie ma dopo anni di “bootleg veri” si può anche fare un sacrificio, visto che il brano è proprio quello, una lunga jam chitarristica nel corso della quale Winter esplora in su e in giù il manico della sua chitarra alla ricerca di recondite squisitezze tecniche e con spazio anche per i suoi soci di avventura. Shame, shame, shame è una onesta ripresa del classico di Jimmy Reed col tipico train sonoro di Winter mentre Kiss Tomorrow Goodbye è uno strano brano acustico di provenienza dubbia, affascinante ma assolutamente “oscuro” e dalla voce potrebbe provenire anche dal lontano passato.  Leland Mississippi Blues sarebbe anche molto bella ma qui il suono è veramente pessimo. Una curiosità mi assale, ma dove cacchio l’ha ascoltata Got To Find My Baby il buon Warren Haynes, visto che la cita nelle sue note? Forse c’era solo nella sua copia perché io nel CD non ne ho trovato traccia!

Misteri della vita! Per fan sfegatati del blues e di Winter ma speriamo meglio per eventuali nuovi capitoli.

Bruno Conti

Archivi Inesauribili E Preziosi! Rory Gallagher – Irishman In New York

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Rory Gallagher – Irishman In New York 2 CD S’more Entertainment/Rockbeat Records

Il 14 giugno del 1995 moriva a Londra Rory Gallagher, aveva solo 47 anni, ma la lunga dipendenza dal cocktail tra gli alcolici e le pastiglie sedative che prendeva per superare la paura del volo sviluppata negli ultimi anni, ebbe la meglio sul suo fegato e nonostante un tentativo di trapianto fatto all’ultimo istante, il grande musicista irlandese dovette soccombere alla sua malattia. Fino al gennaio di quell’anno Gallagher aveva continuato a suonare, ma nell’ultimo concerto tenuto in Olanda era visibilmente malato e fu costretto ad interrompere la sua ennesima tournée. Perché in effetti i concerti dal vivo sono sempre stati il fiore all’occhiello di una carriera comunque leggendaria, costellata anche da grandi album di studio ma soprattutto da tantissimi dischi live, alcuni tra i più belli della storia della musica rock (e blues). Non considerato uno dei primissimi chitarristi nelle classifiche di categoria (Rolling Stones nel suo elenco lo pone al 57° posto), Rory godeva comunque della stima incondizionata dei suoi colleghi: Brian May, Bonamassa, Gary Moore, Johnny Marr, per ricordarne alcuni di quelli recenti, lo citavano tra i loro preferiti, mentre leggenda (o verità), non sapremo mai, vuole che Jimi Hendrix incalzato da un giornalista che gli chiedeva come ci si sentisse ad essere il più grande chitarrista del mondo, rispose: “Non lo so, chiedetelo a Rory Gallagher”! E qualcuno a Cork, in Irlanda ha dedicato un enorme murale a questa dichiarazione.

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In ogni caso quest’anno sono già venti anni dalla scomparsa e proseguono le pubblicazioni di materiale d’archivio tratte dalle inesauribili scorte curate dal fratello Donal (ma non solo), che culmineranno a fine agosto con la pubblicazione da parte della Universal di un cofanetto quadruplo I’ll Remember, dedicato alla sua prima band, i Taste, che conterrà gli album originali rimasterizzati nei primi due CD e due dischetti di materiale dal vivo, inedito, registrato a Stoccolma, Londra e al Festival di Woburn Abbey. Nel frattempo, lo scorso anno, è uscito il bellissimo box dedicato al celebre Irish Tour ’74 http://discoclub.myblog.it/2014/09/16/gradita-consistente-sorpresa-rory-gallagher-irish-tour-boxset/, considerato il suo miglior disco dal vivo in assoluto, anche se io preferisco il Live In Europe di due anni prima, ma è una questione di differenze infinitesimali. Comunque dopo la sua morte di album postumi, soprattutto dal vivo, ne sono usciti molti: tra i migliori in assoluto Notes From San Francisco, metà in studio e metà live, il doppio delle BBC Sessions, il Live At Montreux CD + 2 DVD e quello delle Beat Club Sessions che torna agli inizi della sua carriera http://discoclub.myblog.it/2010/10/11/cosi-non-ne-fanno-piu-rory-gallagher-the-beat-club-sessions/ Chi scrive, per fortuna ( o purtroppo, perché il tempo passa) ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo ai tempi d’oro, e quindi non posso che confermare le meraviglie che si dicono di questo stupendo e genuino personaggio, camicia a quadrettoni d’ordinanza (comprata all’ingrosso e in quantità a qualche liquidazione dove l’altro cliente era Neil Young), chitarra Fender Stratocaster scrostata, ma dal suono meraviglioso, e una grinta e una potenza quasi paranormali, purtroppo alla fine pagate.

Ora esce questo doppio Irishman In New York, pubblicato dalla Rockbeat americana, che è la testimonianza di un concerto registrato al My Father’s Place il 7 settembre del 1979, nel tour americano a cavallo tra l’uscita di Photo-Finish dell’anno prima (presente con quattro brani) e Top Priority, in uscita dieci giorni dopo, di cui Rory Gallagher presenta in anteprima Keychain. Tra l’altro, curiosamente, come ha ricordato il fratello Donal, l’irlandese considerava come suoi album migliori Defender e Fresh Evidence, forse non perché fossero i più belli (sicuramente non lo erano) ma in quanto ultimi usciti, e il più recente è sempre il migliore per un’artista. Tornando al concerto di New York, formazione in trio, con Gerry McAvoy al basso e Ted McKenna alla batteria ed un repertorio che alterna vecchi classici, materiale più recente e brani meno noti e quindi non è un doppione rispetto ai moltissimi Live in circolazione e poi non dimentichiamo che ogni concerto di Gallagher era un evento, per la passione e la furia chitarristica che il nostro donava sempre al suo pubblico. Tratto da un broadcast radiofonico dell’epoca il sound è ruspante, ma decisamente buono e presente.

Si parte subito fortissimo con Shin Kicker e anche se il CD presenta alcune analogie con il repertorio presente nel disco ufficiale dell’epoca Stage Struck (dove però non erano riportati i classici e la durata era molto più ridotta) è sempre un gran bel sentire. D’altronde se di Grateful Dead, Dylan e Johnny Winter con le loro bootleg series, in tempi recenti Gov’t Mule e Phish, esistono decine di registrazioni Live, non si vede perché non possa essere così anche per Rory Gallagher, che era un vero animale da palcoscenico, non tanto a livello scenografico, quanto a consistenza qualititativa dei suoi spettacoli, ma potremmo citare moltissimi altri artisti di cui esistono concerti, ufficiali e non, in quantità, che non valgono l’opera del nostro. Tornando al concerto, il brano di apertura, tratto da Photo-Finish,  ha una potenza inaudita, con Rory che estrae dalla sua Stratocaster un mare di note e riff, la voce forte e sicura, un misto di classe e rabbia che lo avvicina al Johnny Winter degli esordi, tra R&R e blues, con la solista che rilancia continuamente, in un florilegio di citazioni del grande songbook della chitarra elettrica. The Last Of The Indipendents viene dallo stesso disco e l’intensità non cala di una briciola, anzi, se possibile, la velocità accelera verso ritmi supersonici in questa orgogliosa dichiarazione di intenti verso il mondo della musica, con Rory che inizia a fare i numeri sul manico della sua chitarra, di cui era un vero virtuoso, anche se forse non sembrava vista la violenza sonora che scaturiva da quel piccolo e nervoso ometto (per l’occasione munito anche di giubbetto di jeans, oltre alla immancabile camicia a quadrettoni). Il terzo brano, Keychain, è l’unico estratto del nuovo album in uscita, Top Priority, ma il pubblico gradisce lo stesso, si tratta di un brano più lento ed intenso, un hard blues di quelli tipici di Gallagher, con tanto di assolo acido e contorto, quasi hendrixiano, puro power rock trio, seguito da una potentissima Moonchild, uno dei brani migliori di Calling Card, una vera scarica di adrenalina e anche la riffatissima The Mississippi Sheiks, sempre uno dei brani nuovi dell’epoca, non cede di intensità.

I Wonder Who è il classico slow blues che non può mancare in un concerto di Rory, un brano di Muddy Waters dove Gallagher dimostra la sua perizia di grande bluesman bianco, uno di quelli che conosceva l’argomento come pochi altri in circolazione e qui la chitarra scorre fluida e ricca di feeling e tecnica. con un fantastico lavoro di vibrati e toni. A seguire uno dei brani più noti, quella Tattoo’d Lady che era il titolo di uno dischi più belli della sua discografia, anche nella versione senza pianoforte, un torrente di note e ritmo. Poi c’è l’intermezzo acustico a base di slide guitar, Too Much Alcohol (perché sapeva!), un vecchio brano di J.B. Hutto che coinvolge alla grande il pubblico presente, peccato venga sfumato nel finale, ottima anche l’interpretazione quasi ragtime della divertente e complicata Pistol Slapper Blues. La seconda parte riprende con una tiratissima Shadow Play, sempre tratta da Photo-Finish, altra fucilata rock-blues di grande potenza, con Bought And Sold, tratta da Against The Grain, pezzo presente anche su Stage Struck, dove Gallagher dimostra che era un uomo fatto riff, una inesauribile fabbrica di scariche chitarristiche. Walk On Hot Coals, viene da Blueprint, uno dei dischi migliori di studio, datato 1973, e raramente, la troviamo nei Live di Rory (quella di Irish Tour in effetti è insuperabile), versione poderosa e coinvolgente con quel misto di uso della chitarra tra ritmica e solismo tipico del miglior power blues trio, poi ribadito in uno dei suoi cavalli di battaglia, quella Messin’ With The Kid, che anche se è un classico del blues e del rock, per me rimane sempre legata inscindibilmente alla figura di Gallagher, con la chitarra che infiamma il pubblico presente. I due bis sono Bullfrog Blues, un boogie incredibile e sfrenato, e qui sono indeciso tra la sua versione e quella dei Canned Heat, una bella lotta, ma forse vince quella di Rory e Sea Cruise, che nasce come R&R pianistico di Frankie Ford, e diventa un altro violentissimo attacco alle coronarie del pubblico presente, aggredito da un tornado chitarristico, anche slide, e vocale che conclude in gloria un fantastico concerto https://www.youtube.com/watch?v=B4KfRakagTg !

Bruno Conti