Il Periodo Più Celebrato Del Gruppo Fusion Per Antonomasia. Weather Report – The Columbia Albums 1976-1982

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Weather Report – The Columbia Albums 1976-1982 – Music On CD/Sony 6CD Box Set

Miles Davis è stato probabilmente il più grande musicista jazz di tutti i tempi, ma oltre ad essere un genio il trombettista di Alton aveva anche un’altra dote: quella di circondarsi di accompagnatori di altissimo livello, che in molti casi avrebbero intrapreso una illuminata carriera per loro conto, come per esempio John McLaughlin, Chick Corea e Herbie Hancock. Nel biennio 1969-70 Davis pubblicò In A Silent Way e Bitches Brew, due album rivoluzionari in cui il leader fondeva per la prima volta elementi rock in un tessuto jazz creando un suono mai sentito prima: nella band che lo accompagnava avevano una grande importanza (anche come compositori) un tastierista austriaco di nome Joe Zawinul ed un sassofonista del New Jersey, tale Wayne Shorter, che sfruttando un’amicizia che li legava già da un decennio, decisero di formare una sorta di “spinoff band” insieme al bassista Miroslav Vitous. Nacquero così i Weather Report, che in pochi anni divennero la più popolare band del neonato genere “fusion”, cioè una miscela di jazz, rock, musica etnica, funky, avant-garde e, nel loro caso, anche elementi pop negli anni di maggior successo. La bravura di Zawinul e Shorter (gli unici membri sempre presenti nelle varie incarnazioni del gruppo dal 1971 al 1986) è stata proprio quella di rendere popolare ed alla portata di un vasto pubblico un genere musicale da sempre ritenuto elitario, mantenendosi in perfetto equilibrio tra arte e commercio in modo da accontentare sia gli appassionati sia coloro che di jazz forse compravano due-tre dischi all’anno.

Ora Sony via Music On CD rimette in circolazione ad un prezzo più che vantaggioso (intorno ai trenta euro) un box sestuplo già pubblicato nel 2011 e da tempo fuori catalogo: The Columbia Albums 1976-1982 (NDM: la mia copia in copertina riporta erroneamente la scritta “album” invece di “albums”…senza volerlo possiedo una rarità?) comprende i lavori pubblicati dal gruppo, cinque in studio ed un live, durante il periodo di maggior successo, ed insieme al cofanetto quadruplo Forecast: Tomorrow uscito nel 2006 è sicuramente il modo migliore per approcciarsi al mondo delle “Previsioni del Tempo”. Il sottotitolo di questo boxettino in formato clamshell (che riporta anche una dozzina di bonus tracks dal vivo sparse in quattro dei sei dischetti, due delle quali inedite) potrebbe essere “The Jaco Years”, dal momento che un elemento fondamentale nella lineup di quegli anni era Jaco Pastorius, talentuosissimo bassista che rivoluzionò l’approccio allo strumento: esperto della tecnica “fretless”, Pastorius era infatti capace di fraseggi di basso assolutamente geniali ed innovativi, ed il suo strumento si trovava spesso a fungere da solista (in quegli stessi anni il suo fondamentale contributo era riscontrabile anche nei dischi di Joni Mitchell): purtroppo la sua carriera, ma soprattutto la sua vita, vennero troncate nel 1986 a soli 36 anni per le conseguenze di una stupida rissa in un locale di Fort Lauderdale.

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Ma esaminiamo nel dettaglio i dischetti contenuti nel box dedicato a questo “dream team” del jazz-rock, nel quale gli unici musicisti che cambiano sono i batteristi (Alex Acuna, Chester Thompson, Narada Michael Walden, Tony Williams e, dal ’78 all’82, il grande Peter Erskine) ed i percussionisti (ancora Acuna, Manolo Bandrena e Robert Thomas Jr.), con l’alternarsi a seconda degli anni della formazione a quattro a quella a quintetto. Black Market del 1976 è insieme al seguente l’album più famoso dei nostri, un disco dove peraltro Pastorius compare solo in due brani dato che negli altri è ancora presente il vecchio bassista Alphonso Johnson. Il disco è assolutamente godibile dalla prima all’ultima canzone, con punte di eccellenza nella vivace e solare title track, piena di intriganti soluzioni melodiche e ritmiche https://www.youtube.com/watch?v=U7_vNpVXubA , la splendida ed avvolgente Cannon Ball, la potente Gibraltar, con Zawinul che fa i numeri alle tastiere https://www.youtube.com/watch?v=8TcQSLYyQnE , e la ritmata e funkeggiante Barbary Coast, con il basso di Jaco in grande evidenza. Heavy Weather (1977) è l’album più famoso e più venduto dei Weather Report, grazie soprattutto alla popolarità della pimpante ed orecchiabile Birdland, uno dei rari brani della band ad essere uscito anche come singolo https://www.youtube.com/watch?v=Ae0nwSv6cTU . Ma non sono da meno l’elegantissima e suadente A Remark You Made https://www.youtube.com/watch?v=boNCY0Ai44M , il funky scattante della breve Teen Town, la notevole Palladium, jazz-rock di gran classe, e la strepitosa Havona, roboante pezzo con eccellenti performance strumentali di tutti i membri del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=boNCY0Ai44M .

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Anche Mr. Gone (1978) è un buon lavoro, anche se lievemente più “leggero” dei suoi due predecessori. Qui l’influenza di Pastorius è evidente (ascoltate i suoi virtuosismi nella peraltro piuttosto statica Punk Jazz), e gli episodi migliori sono The Pursuit Of The Woman With The Feathered Hat, ipnotica, con una melodia circolare che si apre gradualmente ed elementi di musica etnica https://www.youtube.com/watch?v=eE38JtY75bo , il piacevole pop-jazz Young And Fine, con il sax tenore di Shorter protagonista, la rarefatta e misteriosa The Elders e l’insinuante e cadenzata title track, dominata dallo straordinario lavoro di basso da parte di Jaco https://www.youtube.com/watch?v=s-btnDSY5R0 . Per contro, la danzereccia River People non rende giustizia alla bravura dei nostri. 8:30 è un album dal vivo pubblicato nel 1979 che rivela in maniera eccelsa che la dimensione live si addiceva alla perfezione alla musica del gruppo, con performance trascinanti, dilatate e con grande spazio per le improvvisazioni strumentali in cui i nostri erano maestri.

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Abbiamo quindi versioni “definitive” di vari classici della band come Black Market, Teen Town, A Remark You Made, Birdland https://www.youtube.com/watch?v=x9B-dSkvqB4  ed il travolgente medley Badia/Boogie Woogie Waltz https://www.youtube.com/watch?v=TZAr_lub6GQ , oltre ad una breve ma applaudita rilettura dell’evergreen di Miles Davis, ma scritto di Zawinul, In A Silent Way. I quattro pezzi finali sono brani registrati in studio, tra i quali spiccano la spigliata e diretta Brown Street   ed il puro jazz di Sightseeing https://www.youtube.com/watch?v=8zec9ABOE5k . Night Passage del 1980 è meglio di Mr. Gone, ed affiorano qua e là influenze africane ed orientali. La scorrevole ed immediata title track https://www.youtube.com/watch?v=_vxhUebW_-U , la notturna e raffinata Dream Clock, la mossa ed “africaneggiante” Port Of Entry, con Jaco formidabile https://www.youtube.com/watch?v=uGtWSlmilRc , ed una bella cover ricca di swing di Rockin’ In Rhythm di Duke Ellington sono i pezzi salienti. E veniamo a Weather Report, che nel 1982 metterà fine all’avventura di Pastorius all’interno della band (lascerà per perseguire una carriera solista che, come abbiamo visto, avrà breve durata). Il suono si fa più radiofonico ed anni 80, seppur non disprezzabile: la mini-suite in tre parti N.Y.C. fa la parte del leone https://www.youtube.com/watch?v=gDCHFgeoiY4 , ma non sono male anche la frenetica Volcano For Hire ed il lounge-jazz di classe Current Affairs https://www.youtube.com/watch?v=zS6-r_E0pgY Un box quindi imperdibile se avete mancato la prima uscita di qualche anno fa: con una cifra abbordabile vi porterete a casa un pezzo di storia della musica fusion.

Marco Verdi

Qui Di Americano Non C’è Solo L’Anima. Aaron Watson – American Soul

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Aaron Watson – American Soul – Big Label CD

Il caso del countryman texano Aaron Watson andrebbe studiato, in quanto abbastanza incomprensibile dal punto di vista commerciale. Stiamo infatti parlando di un artista attivo da più di vent’anni (ha esordito nel 1999) che non ha mai inciso per una major ma sempre per label indipendenti, con risultati di vendite inizialmente poco significativi come tutti i casi di musicisti che fanno del vero country senza godere di una promozione adeguata e di una distribuzione capillare; poi, all’improvviso, l’album Real Good Time del 2012 si è spinto fino ad entrare nella Top Ten country, ed il successore The Underdog è arrivato addirittura in prima posizione. Da quel momento, ogni suo lavoro non ha mancato l’aggancio con posti di alta classifica, ma mentre un fatto del genere è abbastanza comune per artisti che approdano alle major e si piegano alle logiche commerciali cambiando in peggio il loro sound, nel caso di Watson stiamo parlando di uno che ha continuato a restare indipendente senza modificare di una virgola il tipo di musica proposta.

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Aaron fa del vero country elettrico e moderno, con le chitarre sempre in primo piano ed un bel senso del ritmo, un approccio sonoro che si mantiene tale anche nelle ballate: in più, è dotato di una buona penna e si circonda di sessionmen che suonano strumenti veri senza affidarsi a diavolerie tecnologiche. Il suo nuovo album American Soul conferma il trend, un riuscito disco di puro country che si lascia ascoltare con piacere dalla prima all’ultima canzone, dura il giusto (poco più di mezz’ora), è ben scritto e ben prodotto (da Watson stesso insieme a Phil O’Donnell), e presenta una serie di musicisti si cimentano con strumenti veri: tante chitarre, steel, violino, basso, batteria e pianoforte, con nomi noti come il fiddler Stuart Duncan e lo steel guitarist Milo Deering (Shawn Colvin, Don Henley, LeAnn Rimes). Il CD parte col piede giusto grazie al rockin’ country di Silverado Saturday Night, un concentrato di ritmo e chitarre dal bel refrain immediato, un brano adatto sia alle radio di settore ma anche perfetto per gli estimatori del vero country https://www.youtube.com/watch?v=7ilDymePPSw . Boots ha il passo lento ma l’accompagnamento è sempre elettrico ed il tasso zuccherino è tenuto ampiamente a bada, Whisper My Name inizia anch’essa come una ballata ma il ritmo non si fa attendere molto, la melodia è piacevole e tutto l’insieme funziona (non per niente è il primo singolo).

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Best Friend è uno slow toccante e suonato in maniera impeccabile con violino e pianoforte a fare la loro parte, mentre Long Live Cowboys è rock’n’roll with a country touch, gradevole e texana al punto giusto, così come Stay che è solo un filo più “piaciona” ma ha ritmo e coinvolge. La title track è un’altra country ballad strumentata a dovere e senza mollezze di sorta, con l’ennesimo motivo che piace al primo ascolto https://www.youtube.com/watch?v=IT2swMXI7vU , ed ancora meglio è Out Of My Misery, brano cadenzato tra i più orecchiabili di tutto il disco. Chiusura in crescendo con la rockeggiante Touchdown Town, ancora con le chitarre in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=CHl3Vd3JKso , e con Dog Tags, suggestiva ballatona elettrica che non manca di toccare le giuste corde. Con American Soul Aaron Watson si conferma musicista coerente e credibile, due qualità che, fortunatamente, ogni tanto pagano ancora.

Marco Verdi

Una Delle Ultime Leggende Del Piano Boogie, Blues E Jazz! Erwin Helfer – Celebrate The Journey

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Erwin Helfer & The Chicago Boogie Ensemble – Celebrate The Journey – The Sirens Records

Erwin Helfer, da Chicago Illinois, è una piccola leggenda della musica locale, sulle scene da tantissimi anni: la sua etichetta, la Sirens Records, lo presenta come ”Legendary Chicago Blues, Boogie, Jazz e Gospel Piano”, e qui si potrebbe chiudere la recensione. Ma visto che non sono un sadico elaboriamo un poco l’argomento: questo signore è ovviamente un artista di culto, a gennaio 2021 ha compiuto 85 anni, ma non è che al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati sia molto conosciuto, anche perché i suoi dischi non sono di facile reperibilità, benché solo negli anni 2000 ne abbia pubblicati ben sei per la Sirens Records, (un paio con Barrelhouse Chuck, altro virtuoso del piano) più altrettanti per etichette diverse nei 40 anni precedenti. Il Chicago Blues Ensemble che lo accompagna in questo Celebrate The Journey è un quartetto con doppio sassofono tenore, John Brumbach e Skinny Williams, Lou Marini al basso e Davide Ilardi alla batteria: il resto la fa tutto il piano di Erwin Helfer, che alla sua non più tenera età è ancora un fulmine di guerra con gli 88 tasti del suo strumento di lavoro, brillante, creativo, divertente, dotato di grande tecnica che applica ad uno stile swingante e divertente, ma anche riflessivo a tratti.

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L’apertura con DOXY ha chiari profumi jazz, poi uno guarda l’autore e capisce il perché visto che la firma è di Sonny Rollins, prima Krumbach e poi Williams, ma anche all’unisono, si lanciano in lunghe improvvisazioni al tenore, con un suono comunque caldo e indicato anche per chi non è uno stretto aficionado del jazz, a metà brano arriva il piano di Erwin, e poi nel finale c’è spazio anche per il contrabbasso di Marini https://www.youtube.com/watch?v=mvvlHYiFNpQ . Ma è quando si passa al blues che ci si inizia a divertire, Ain’t Nobody’s Business è una struggente ballata di Jimmy Witherspoon, nella quale Helfer inizia a titillare il suo pianoforte, sempre lasciando ampio spazio ai sassofoni dei suoi compari, qui più intimi ed avvolgenti, sempre con Marini soave contrabbassista al servizio del boss https://www.youtube.com/watch?v=dxcNc41ylLk , poi si passa ad un brano tradizionale come Down By The Riverside, a tutto swing, sempre con sax pronti alla bisogna e il nostro amico che comincia a fare volare le mani sulla tastiera con assoluta nonchalance e classe https://www.youtube.com/watch?v=a3IY_z50hpg .

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Pooch Piddle è uno dei brani firmati dallo stesso Helfer, e qui si comincia ad andare di boogie woogie marcato Chicago, con lavoro sublime del nostro amico, che ha un gusto veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=SsU_bhQE6_c , poi confermato in un altro classico senza tempo come St. James Infirmary, legato ad Armstrong, ma che hanno suonato tutti i grandi del jazz, del blues, e anche del rock, di nuovo con tutti i solisti in grande spolvero, anche Marini al contrabbasso con l’archetto. Altro pezzo celeberrimo è Alexander’s Ragtime Band di Irving Berlin, un classico dell’American Songbook, sempre suonato con il giusto swing dal quartetto, mentre la lunga Big Joe, ulteriore composizione di Erwin è più felpata e notturna, raffinata il giusto, con il mestiere di questi musicisti sublimi che viene evidenziato dalla registrazione limpida, nitida e precisa https://www.youtube.com/watch?v=IGolArmTo9s . A chiudere Day Dream, un brano per solo piano https://www.youtube.com/watch?v=e1u2C_8-weg  dove si apprezza nuovamente la tecnica ed il feeling senza tempo di questo vecchio marpione della musica.

Bruno Conti

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volumi 5-6: Something In The Air/At The Kit Kat Klub

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David Bowie – Something In The Air – Parlophone/Warner CD – 2LP

David Bowie – At The Kit Kat Klub – Parlophone/Warner CD – 2LP

Eccomi a parlare degli ultimi due volumi che vanno a completare Brilliant Live Adventures, cofanetto dedicato a sei concerti dal vivo di David Bowie nella seconda metà degli anni 90, una pubblicazione che ha attirato a sé una marea di critiche fin dal principio, a causa della scelta quantomeno discutibile di far pagare a parte i box vuoti, sia che fossero per i CD o gli LP, e non magari offrirli in omaggio almeno a chi prenotava in anticipo l’intera serie, opzione peraltro non disponibile. Niente però in confronto alle lamentele anche feroci in conseguenza proprio delle ultime due uscite di cui mi accingo a parlare: se infatti i primi quattro volumi erano sì in tiratura limitata ma sufficiente ad accontentare (quasi) tutti i numerosi fans del compianto musicista britannico, sia il quinto che il sesto episodio sono andati esauriti in mezz’ora circa ciascuno, con la maggior parte dei possibili acquirenti rimasta con un palmo di naso anche perché uno dei due siti esclusivi per la vendita è andato praticamente subito in crash. Un’operazione quasi fallimentare dal punto di vista gestionale (qualcuno l’ha addirittura definita la peggiore della storia), che ha costretto la Parlophone a stendere una lettera aperta di scuse ai fans con la vaga promessa di un prossimo riassortimento di stock per quanto riguarda gli ultimi due volumi.

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Ed inoltre, bisogna dirlo, non è che si stia parlando di chissà quali rarità imperdibili, ma di concerti che in gran parte erano già stati resi disponibili come download. Tornando comunque alla parte musicale, ecco nel dettaglio i famigerati ultimi due episodi della serie (ebbene sì, faccio parte dei “fortunati” che sono riusciti ad accaparrarseli), entrambi riguardanti il mini-tour del 1999 (solo otto date tra Europa e Stati Uniti, tra cui anche una all’Alcatraz di Milano) seguita alla pubblicazione dell’album Hours, un lavoro di buon livello nel quale Bowie tornava alla forma canzone classica dopo le sperimentazioni modernistiche di Outside e Earthling. Il quinto volume si intitola Something In The Air e documenta lo show di Parigi del 14 ottobre all’Elysée Montmartre, quindici brani in tutto (il concerto è completo) con David accompagnato da una solida band che suona molto più rock e meno “techno” di quella dei tour precedenti: rispetto ai primi quattro CD del box gli unici membri rimasti sono il tastierista Mike Garson e la bassista e cantante Gail Ann Dorsey, con l’aggiunta di Page Hamilton e Mark Plati alle chitarre, Sterling Campbell alla batteria ed i cori di Emm Gryner e Holly Palmer.

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Vista la scorpacciata negli altri CD di pezzi tratti da Outside e Earthling questa volta si è scelto di soprassedere, e la setlist vede un Bowie in forma e di ottimo umore spaziare lungo tutta la sua carriera essendo anche meno “avaro” di hits: intanto la serata si apre con una lucida rilettura per sola voce e piano della splendida Life On Mars?, una delle più belle ballate di sempre del  nostro https://www.youtube.com/watch?v=nRnbuDvk7zM , e poi trovano spazio anche brani popolarissimi e coinvolgenti come China Girl, Changes e la roccata Rebel Rebel, che chiude lo show. Chiaramente i pezzi di Hours hanno molto spazio, con cinque selezioni: Thursday’s Child, gradevole pop ballad vagamente tinta di soul, Something In The Air, cadenzata ed avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=HRhjVNGqmIg , la bella Survive, un lento elettroacustico di presa immediata e con un ottimo guitar solo finale, Seven, delicata e toccante (tra le più belle della serata), che si contrappone alla dura e chitarristica The Pretty Things Are Going To Hell. Ma come in ogni concerto bowiano che si rispetti, il Duca Bianco va a pescare diversi “deep cuts”, cioè episodi meno conosciuti del suo vasto catalogo, come Word On A Wing, suadente slow dal tono quasi confidenziale, l’intrigante rock ballad Always Crashing In The Same Car, l’applaudita Drive-In Saturday, splendidamente sixties-oriented https://www.youtube.com/watch?v=qqQ__Jr77WE , e la rockeggiante ed obliqua Repetition. Dulcis in fundo, non mancano un paio di sorprese: dal primo album dei Tin Machine I Can’t Read, affascinante e ricca di pathos, e addirittura il ripescaggio dell’oscura Can’t Help Thinking About Me, un raro singolo pubblicato dal nostro per la Pye Records nel 1966, delizioso power pop elettrico con coretti, chitarre in evidenza e ritornello orecchiabile.

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Live At The Kit Kat Klub (il sesto ed ultimo CD) è invece inerente al concerto del 19 novembre in un piccolo locale di New York di fronte ad una platea di invitati, un’altra valida e godibile performance che però per dieci dodicesimi contiene brani già presenti nello show parigino  https://www.youtube.com/watch?v=vfpM1BbxPdY (un altro problema di questo cofanetto: la ripetitività), con le uniche due differenze che consistono nella potente Stay (da Station To Station), contraddistinta da un ossessivo riff chitarristico dal sapore quasi funky, e, da Earthling, l’ipnotica e non imperdibile I’m Afraid Of Americans.

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Il prossimo autunno la “Bowie Inc.” dovrebbe riprendere con le pubblicazioni dei cofanetti riepilogativi della carriera (fermi a Loving The Alien del 2018, che si occupava degli anni 80 di David), una serie di manufatti che finora si è attirata molte meno critiche del box Brilliant Live Adventures, a parte quella non trascurabile della poca presenza di brani rari o inediti.

Marco Verdi

Per Chi Ama Le Voci Femminili Di Qualità. Garrison Starr – Girl I Used To Be

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Garrison Starr – Girl I Used To Be – Soundly Music

Quando Garrison Starr arriva sulla scena musicale americana a metà anni ‘90 è poco più che una ragazza: nativa di Memphis, ma cresciuta a Hernando, Mississippi, pubblica il suo primo EP all’età di 20 anni, ma già in precedenza era avvenuto l’importante incontro con Neilson Hubbard, quello che sarebbe stato sin da allora il suo fido luogotenente, nonché produttore di gran parte dei suoi album e con il quale rinnova la collaborazione nel nuovo Girl I Used To Be, disco che segna il suo ritorno dopo una pausa piuttosto lunga (il precedente Amateur, l’ultimo ufficiale, uscito abbastanza in sordina nel 2012) per motivi personali ed esistenziali, credenze religiose e orientamenti sessuali che le hanno creato problemi ed incertezze. Il successo di pubblico e critica del primo album per una major Eighteen Over Me, aveva portato a paragoni con Melissa Etheridge, Mary Chapin Carpenter, Lucinda Williams, Shawn Colvin, anche Steve Earle, con il quale è stata spesso in tour, per quel suo saper fondere elementi country e folk mainstream, con una anima rock e Americana, una bella voce limpida e squillante, una penna brillante come autrice, anche se fin dagli inizi i dubbi la laceravano, ma si dice che aiutino la creatività.

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Comunque i passaggi da Nashville alla California, con continui cambi di case discografiche, e una lunga pausa di quattro anni tra il secondo e il terzo album, non le avevano giovato, anche se il suo ultimo album importante The Girl That Killed September del 2007, era forse stato, anche per la sua autrice, il migliore della carriera fino a quel punto, ma tutti i primi vi consiglio di cercarli. Poi anche lei, come decine di altri artisti, è dovuta diventare “indipendente” ed è sparita dai radar, tra progetti non sempre riusciti (mi viene in mente collaborare con i Backstreet Boys o con l’amica Margaret Cho, in un album della categoria Comedy). In questo ping pong tra Nashville e California, attualmente risiede a Los Angeles. Tra l’altro il disco è stato completato tra il 2017-2018 e doveva essere pubblicato nel 2020, ma causa Covid è stato rinviato al 2021: prodotto da Hubbard, che suona anche batteria e tastiere, vede la presenza di eccellenti musicisti come Will Kimbrough alle chitarre, Annie Clements al basso, Josh Day dei Sugarland alla batteria e la cantautrice Maia Sharp alle tastiere, e consta di nove brani tutti scritti dalla stessa Garrison che collabora con diversi autori, a parte due firmati solo da lei. Apre The Devil In Me, un brano che parte lentamente, poi entrano tutti gli strumenti e la canzone ha un bel crescendo, anche la voce si fa più assertiva, aiutata da un testo interessante, che parla dei rifiuti avuti per essere gay, e da una incantevole melodia avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=70LtJ79IUmMJust A Little Rain è un’altra bella canzone, elettroacustica e solare, piacevoli armonie vocali e un po’ di leggero jingle jangle alla Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=D4PYFnhPzus .

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Downtown Hollywood ha un suono ispirato dalla California del titolo, quasi epico a tratti, con un bel piglio sonoro ricco ed affascinante https://www.youtube.com/watch?v=0gZ8fkGUODs , mentre la bellissima Don’t Believe In Me esplora le incertezze del passato, anche sulla sua Cristianità, il suono è più intimo e meno incalzante, ma sempre di eccellente fattura https://www.youtube.com/watch?v=F57Ga1sjFrY .Run con un bel lavoro delle chitarre è più elettrica e vibrante, ancora ben strutturata e con un solido arrangiamento di Hubbard che sovraintende con classe alle operazioni https://www.youtube.com/watch?v=migGpK6QtxE , ottima anche The Train That’s Bound For Glory, perfetto esempio di roots music tendente all’Americana sound, con la voce raddoppiata https://www.youtube.com/watch?v=Oea16DhRSmI  e deliziosa anche la malinconica e delicata ballata folk oriented che è Make Peace With It https://www.youtube.com/watch?v=9BfL1Ur2Zzk . Nobody’s Breaking Your Heart è la canzone scritta insieme a Maia Sharp, un altro ottimo esempio di Modern Country raffinato, intenso e squisitamente rifinito con quel sound tipicamente californiano https://www.youtube.com/watch?v=nDj5NhReHwI ; a chiudere Dam That’s Breaking, altra partenza lenta, solo voce e chitarra acustica, poi scaldati i motori la canzone acchiappa l’ascoltatore, grazie ancora una volta al solido lavoro di Hubbard che cura tutti i particolari con precisione e alla voce appassionata di Garrison Starr https://www.youtube.com/watch?v=hYx0pKdSv3s . Per chi ama le voci femminili di qualità.

Bruno Conti

L’Erba (Tagliata) Del Vicino E’ Sempre Più…Blu! Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 2

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Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 2 – High Top Mountain/Thirty Tigers CD

A pochi mesi dal primo volume https://discoclub.myblog.it/2021/01/08/meno-male-che-i-dischi-belli-li-sa-ancora-fare-sturgill-simpson-cuttin-grass-vol-1/  (ma per il download era già disponibile da fine 2020) esce il secondo episodio del progetto Cuttin’ Grass, due album nei quali l’ormai noto singer-songwriter Sturgill Simpson reinterpreta una serie di brani del suo songbook in chiave bluegrass. E quando dico bluegrass intendo il termine nella sua accezione più pura e tradizionale, senza la benché minima traccia di contaminazione rock o di altro genere: Sturgill ha scelto canzoni dal suo passato anche remoto (ma non recente: il pessimo Sound & Fury è ignorato anche in questo secondo volume) e le ha totalmente reinventate secondo i canoni della mountain music di settanta e passa anni fa, con una strumentazione totalmente acustica e con la batteria usata col contagocce.

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Cuttin’ Grass Vol. 2 è quindi il logico prosieguo della prima parte, con gli stessi musicisti (Stuart Duncan al violino, Mark Howard e Tim O’Brien alle chitarre, Mike Bub al basso, Sierra Hull al mandolino, Scott Vestal al banjo e Miles Miller alle percussioni, e tutti quanti alle armonie vocali) ma diversa location di registrazione: se infatti il primo episodio era stato inciso ai piccoli Butcher Shoppe Studios di Nashville, per il seguito la combriccola si è spostata ai Cowboy Arms Studios, che erano di proprietà del grande Cowboy Jack Clement e di recente sono stati trasferiti ad un nuovo indirizzo ma sempre a Nashville. L’album, assolutamente gradevole e suonato benissimo così come il precedente, vede Simpson omaggiare soltanto due album della sua discografia, arrotondando il tutto come vedremo a breve con un inedito assoluto e due “quasi”: il disco a cui attinge maggiormente con sei pezzi su dodici è A Sailor’s Guide To Earth del 2016, con canzoni che se originariamente riflettevano il mood soul-pop-errebi di quel lavoro, qui si trasformano in perfette bluegrass songs, tra pezzi suonati a velocità supersonica con assoli a raffica (Call To Armshttps://www.youtube.com/watch?v=P7VYILfhh3w , brani cadenzati tra country e folk (Brace For Impact, la deliziosa Sea Stories, e la vibrante Keep It Between The Lines, dalla struttura melodica contemporanea) e limpide e cristalline ballate dal sapore bucolico (Oh Sarah, dal ritmo comunque sostenuto, e Welcome To Earth (Polliwog), lenta e struggente ma con una notevole accelerata dalla metà in avanti).

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Dal suo primo album, High Top Mountain, Sturgill riprende tre canzoni: le bellissime Hero e You Can Have The Crown https://www.youtube.com/watch?v=gRk4-sIaL7Y , che mantengono la struttura country originale anche se in veste “unplugged”, e Some Days, energica nel ritmo e dal motivo diretto ed immediato. Ci sono anche due pezzi risalenti al periodo dei Sunday Valley, la prima band del nostro che però non ha lasciato testimonianze su disco: Jesus Boogie, che a dispetto del titolo inizia come uno slow decisamente suggestivo, salvo poi crescere nel ritmo dopo un minuto grazie al banjo che dà il via alle danze, e la fulgida country ballad Tennessee https://www.youtube.com/watch?v=bo8DDMFC-9Q . Dulcis in fundo, Simpson propone l’inedita Hobo Cartoon, pezzo scritto insieme nientemeno che a Merle Haggard ma rimasto nei cassetti fino ad oggi, una splendida ed intensa ballata western che ha in ogni nota della toccante melodia i cromosomi del grande Hag https://www.youtube.com/watch?v=85c9-9UBazo . Un ottimo modo per concludere un secondo volume allo stesso livello del primo, e che ci fa sperare ancora di più che Sound & Fury sia stato soltanto un brutto incidente di percorso.

Marco Verdi

Tutti Bravi Ma…La Voce Dov’è? Dale Watson – Presents: The Memphians

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Dale Watson – Presents: The Memphians – BFD CD

Dale Watson, prolifico countryman nativo dell’Alabama ma texano d’adozione, è fermo discograficamente a Call Me Lucky del 2019, ma non è che nel frattempo se ne sia stato con le mani in mano. Al contrario, ha apportato alla sua vita un paio di cambiamenti piuttosto importanti: si è trasferito da Austin a Memphis (dove ha aperto anche un ristorante, Hernando’s Hideaway, ed uno studio di registrazione) e si è sposato con la singer-songwriter Celine Lee. Ma il passaggio a Memphis ha portato in Dale anche un mutamento dal punto di vista musicale, in quanto il suo nuovo lavoro The Memphians è in tutto e per tutto un tributo alla sua nuova città ed alle origini del rock’n’roll, un album in cui il nostro mostra influenze alternative a quelle dei suoi “honky-tonk heroes”: Elvis Presley, Carl Perkins, i dischi della Sun Records e, essendo Dale anche un valido chitarrista, gente come Scotty Moore, Hank Marvin, Duane Eddy e lo stesso Perkins. The Memphians è quindi un disco molto meno country del solito, ma che presenta un range sonoro che va dal rock’n’roll allo swing, dal rockabilly alla ballata anni 50 e che, soprattutto, non ci fa sentire la bella voce baritonale di Watson in quanto è un lavoro al 100% strumentale.

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A dire il vero quando ho letto questa notizia ho storto un po’ il naso, nello stesso modo in cui l’avevo storto nel 1999 (facendo le debite proporzioni tra i due artisti) quando Willie Nelson aveva pubblicato lo strumentale Night And Day: ad ascolto ultimato però devo ammettere che The Memphians risulta essere un dischetto godibile e ben fatto, che regala all’ascoltatore mezz’oretta indubbiamente piacevole, anche se io al Dale Watson cantante non rinuncerei mai. C’è anche un po’ di Italia, in quanto il secondo chitarrista (e co-autore con Watson di quattro pezzi, mentre gli altri sono del solo Dale) è il catanese trapiantato a Memphis Mario Monterosso, affiancato dalla sezione ritmica di Carl Caspersen al basso e Danny Banks alla batteria, e soprattutto dal bravissimo pianista T. Jarrod Bonta, collaboratore di lungo corso del leader, e dall’ottimo sassofonista Jim Spake. L’iniziale Agent Elvis è un chiaro omaggio a Duane Eddy, un pezzo cadenzato con chitarrone twang in evidenza ed il sax che si prende il suo spazio mentre in sottofondo la band accompagna con discrezione guidata dal pianoforte spazzolato da Bonta https://www.youtube.com/watch?v=5YMhC-Clr0k . Dalynn Grace, languida ballata d’altri tempi che fa venire in mente gli episodi più melodici di Elvis (ma la voce, come ho già detto, non c’è), con una chitarra vagamente hawaiana ed un ritmo da bossa nova https://www.youtube.com/watch?v=xX4jZ04UL38 , si contrappone alla spedita Alone Ranger, brano di stampo quasi western che riprende il sound degli Shadows, con sax ed organo che si ritagliano entrambi una parte da solisti https://www.youtube.com/watch?v=Xy81bQmz16s .

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Standin’ In Line è una gradevolissima canzone ritmata e ricca di swing, tra country e rockabilly con una spruzzata di jazz, Serene Lee riporta il CD su languide atmosfere da ballo della mattonella (mi aspetto di sentire arrivare Chris Isaak da un momento all’altro), Deep Eddy è un altro suggestivo pezzo che profuma di Shadows lontano un miglio, con un approccio raffinato ed una delle migliori performance chitarristiche del disco. Hernando’s Swang è ispirata al locale aperto da Dale a Memphis, ed è un coinvolgente brano a tutto swing con i soliti eccellenti spunti di piano e sax https://www.youtube.com/watch?v=JR3X_JYyXSM , Mi Scusi (avete letto bene) è puro rock’n’roll dal ritmo decisamente sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=pKWrs3G_DpE , mentre 2020 riavvicina il nostro al country con una veloce canzone influenzata da Chet Atkins, e la conclusiva Remembering Gary vede Dale lasciarci con uno slow suadente e dall’aria nostalgica. Dopo anni di ottimo honky-tonk texano ci sta che Dale Watson possa cambiare genere, ma la scelta di non usare la voce ha reso The Memphians niente più di un piacevole divertissement.

Marco Verdi

Un Piccolo Grande Gruppo Conferma La Propria Classe. The Hold Steady – Open Door Policy

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The Hold Steady – Open Door Policy – Positive Jams/Thirty Tigers

Li avevamo lasciati nell’estate del 2019 con l’ottimo Thrashing Thru The Passion, un CD che mescolava materiale nuovo a canzoni che erano uscite solo in digitale tra il 2017 ed appunto il 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/10/21/ottimo-ritorno-per-la-band-di-brooklyn-peccato-per-la-scarsa-reperibilita-the-hold-steady-thrashing-thru-the-passion/ . Album che confermava la ritrovata vena della band newyorchese dopo il rientro in formazione del tastierista Franz Nicolay, e che riportava gli Hold Steady ai fasti della prima decade degli anni 2000. Comunque nel frattempo Craig Finn, la vera mente del gruppo, ha avviato anche una proficua carriera solista, che conta già quattro album. Dopo l’album precedente, per variare il loro approccio, i sei musicisti sono tornati ad applicare il formato del disco classico: due sessions di studio, una ad agosto, l’altra a dicembre del 2019, con delle seguenti verifiche insieme al loro produttore Josh Kaufman, per decidere quali brani rifinire per poi pubblicarli su quello che sarebbe diventato Open Door Policy. Nel mezzo c’è stata anche la lunga pausa causata dalla pandemia, ma alla fine quella che abbiamo tra le mani è un’altra piccola opera d’arte rock che conferma il valore della band di Brooklyn: Sid Selvidge e soprattutto Tad Kubler, sono i due chitarristi che costituiscono gli altri punti di forza della formazione, che è completata dal batterista Bobby Drake e dal bassista Galen Polivka, in un approccio che a grandi linee ricorda quello della E Street Band, o dei Rumour di Graham Parker, classico R&R con influenze sixties, ma nel caso degli Hold Steady anche le loro radici nel punk, che fanno sì che il suono sia quasi sempre energico e potente, lasciando comunque ampio spazio allo stile compositivo composito e geniale di di Finn.

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Nel nuovo album, a differenza dei precedenti, questa volta praticamente (quasi) non ci sono le loro classiche ballate, ma si rimedia con una serie di pezzi ad alto contenuto adrenalinico, caratterizzati dal tipico cantar parlando del leader Craig Finn. Dieci tracce in tutto, oltre alla bonus Parade Days, presente solo nella versione per il download digitale, quaranta minuti scarsi di musica, però belli compatti e senza sbavature: si parte con The Feelers un brano che inizia appoggiandosi sul piano di Nicolay, a tempo di ballata, ma poi accelera subito, diventando una canzone epica, molto vicina ai pezzi rock cantautorali alla Springsteen, entra l’organo, poi una slide che definisce la parte centrale, tra accelerazioni e rallentamenti continui, che tengono desta l’attenzione dell’ascoltatore, grazie ad un arrangiamento maestoso e curato, in virtù del lavoro prezioso di Kaufman, partenza splendida  ; nella successiva Spices, dopo un inquietante riff della chitarra di Kubler, il tempo accelera di nuovo, entrano i fiati di Stuart Bogie, Ray Mason e Jordan McLean, che danno profondità e melodia al brano, peraltro sempre incalzante nel suo dipanarsi https://www.youtube.com/watch?v=w3Bf8zLEqWk . I personaggi delle canzoni di Finn sono sempre ben definiti, come l’attore che cerca la sua strada in Lanyards, vestiti dalla musica urgente ma raffinata come in questo caso, dove tastiere e chitarre si dividono gli spazi, in un crescendo lento ma inesorabile, nel quale si inseriscono anche le voci di supporto di Annie Nero e Cassandra Jenkins, le due eccellenti coriste https://www.youtube.com/watch?v=8Fcj0xB1ZRk ; i riff esaltanti e travolgenti di chitarre, tastiere e fiati della turbolenta Family Farm ricordano tanto il punk “intellettuale” dei Replacements quanto il primo Springsteen, ma alla fine è classico Hold Steady sound, il loro marchio di fabbrica, a prevalere in questa cavalcata che emoziona l’ascoltatore anche più distratto https://www.youtube.com/watch?v=QDLGG1ZsdNw .

photo Adam Parshall

photo Adam Parshall

Unpleasant Breakfast ha un ritmo più frammentato e disomogeneo, spesso con riff che ti attraversano da destra e manca, i fiati che sottolineano, come pure la sezione ritmica, e tanti piccoli particolari gettati con noncuranza nell’arrangiamento comunque complesso e coinvolgente, prima del finale veemente; l’organetto di Nicolay che introduce l’euforica Heavy Covenant poi si frantuma negli innumerevoli rivoli del suono, dai fiati alla chitarra insinuante di Kubler, il declamare di Finn che racconta le vicende di questo venditore di computer dai vizi nascosti https://www.youtube.com/watch?v=KktO5nlLT0c , mentre The Prior Procedure ha tratti decisamente più rock, con sventagliate ed assoli delle chitarre sottolineate dal pianino di Franz e dai fiati springsteeniani, altro grande brano. Riptown nella sua andatura ricorda moltissimo quella delle canzoni di Graham Parker con i Rumour, con una bella melodia che si insinua “subdolamente” nel tuo subconscio e non ti molla più, come i soliti fiati onnipresenti che coloriscono il suono https://www.youtube.com/watch?v=GeFOv_tAxa4 , Me And Magdalena è la storia di una ragazza che si innamora di un junkie, un drogato, altro personaggio ai margini, sottolineato dalla musica complessa ed inquietante degli Hold Steady, arricchita dalle percussioni di Matt Barrick e da un breve assolo torcibudella di Kubler. Per il sereno finale ci si affida al piano elettrico di Nicolay che in Hanover Camera trova un timbro splendido, arricchito dalle sventagliate di fiati e chitarre e dal pulsare inesorabile del basso di Polivka https://www.youtube.com/watch?v=_JkOBD1Cacc , a conferma della grande ecletticità di questa piccola “grande” band from Brooklyn, New York City, ormai una garanzia per chi ama il buon rock

Bruno Conti

Torna Il Grande Produttore-Musicista Con Un Disco Finalmente “Per Tutti”. Daniel Lanois – Heavy Sun

daniel lanois heavy sun

Daniel Lanois – Heavy Sun – eOne CD

Non penso di dovervi ricordare in questa sede chi sia Daniel Lanois, grande produttore canadese del Quebec, uno di quelli che quando presta i suoi servizi per gli artisti da cui è ingaggiato (si chiamino essi U2, Peter Gabriel, Robbie Robertson, Bob Dylan, Emmylou Harris, Willie Nelson o Neil Young), oltre alla sua esperienza ed alle sue capacità in sala di registrazione porta anche un suono. Sì, perché Daniel è uno dei pochi producers che, come Phil Spector o, facendo le debite proporzioni, Jeff Lynne, ha un suo sound ben distinto e distinguibile: se però nel caso di Spector si parla di sonorità stratificate e magniloquenti, Lanois ci ha invece abituati ad atmosfere rarefatte e quasi misteriose, con ritmiche ondeggianti e riverberi di chitarra, il tutto a creare un patchwork che talvolta raggiunge anche toni cupi ed onirici. Dal 1989 il canadese ha poi affiancato a quella di produttore la carriera di musicista per conto proprio, ed anche qui le soddisfazioni non sono mancate: il suo esordio Acadie era un album splendido, un disco di roots-rock cantautorale in cui il nostro mostrava notevoli capacità anche come autore di canzoni (e pure come cantante se la cavicchiava), ma pure il seguente For The Beauty Of Wynona del 1993 era un lavoro notevole. Da lì in poi i suoi album hanno cominciato a diventare più elitari, con collezioni di pezzi in molti casi solo strumentali che avrebbero potuto essere la colonna sonora di un film immaginario (ma spesso erano delle soundtracks vere e proprie), con poche eccezioni come lo splendido Shine del 2003, in cui Lanois esplorava le possibilità sonore della steel guitar (da quel momento in poi una vera passione per lui), ed i discreti Rockets, Belladonna e Here Is What Is.

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Ora, a cinque anni da Goodbye To Language (ma in mezzo c’è stato anche l’ostico disco in collaborazione con il musicista dance-jungle-techno Venetian Snares), Daniel torna con Heavy Sun, un album che, dopo un attento ascolto, non esito a mettere tra i più riusciti e fruibili del produttore-musicista. Lanois infatti è tornato a fare musica con la M maiuscola, ben coadiuvato da un terzetto formato dal noto chitarrista californiano Rocco DeLuca (da anni partner artistico di Daniel), dal bassista Jim Wilson e dall’organista e cantante Johnny Shepherd, con la partecipazione di Chris Thomas ancora al basso e del noto batterista jazz Brian Blade, oltre al coro gospel Zion Baptist Church, diretto da Shepherd e fondato da Brady Blade Sr., che però ha una grande importanza nell’economia del disco. Ma la vera sorpresa di Heavy Sun è che si tratta, come la presenza del già citato coro lascia supporre, di un disco di moderno soul-gospel, con una serie di canzoni di ottima qualità scritte in collaborazione dai quattro musicisti principali e con toni talvolta gioiosi e solari in contrasto con le atmosfere notturne alle quali Lanois ci aveva abituato (pare come reazione alla cupa situazione mondiale conseguente alla pandemia). Il centro del progetto è l’organo di Shepherd e la sua voce (infatti Lanois non canta), ma anche Daniel mostra di trovarsi pienamente a suo agio con certe sonorità, come d’altronde era successo nel 1989 allorquando produsse lo splendido Yellow Moon dei Neville Brothers.

foto floria sigismondi

foto floria sigismondi

L’iniziale Dance On apre benissimo il disco: note suggestive di organo, poi entra la voce di Shepherd (grande ugola tra parentesi) ed inizia un coinvolgente botta e risposta con il coro, con le chitarre che si fanno sentire col contagocce ma solo quando serve https://www.youtube.com/watch?v=kouZADMLFNU . Power è più strumentata, il sound è moderno e classico nello stesso tempo, con la chitarra riverberata tipica, organo e sezione ritmica che avvolgono la parte vocale che qui è di competenza esclusiva del coro, ed un intervento di Shepherd in leggero falsetto https://www.youtube.com/watch?v=qbkkcxFIMFg ; Every Nation è introdotta da una chitarra twang e da una ritmica fluttuante e dal sapore quasi reggae, ed il brano è una suadente soul song annerita alla quale la chitarra di DeLuca fornisce l’elemento rock. Tutto estremamente gradevole. Way Down è una bella e toccante ballata resa calda dall’organo e con la voce di Lanois che doppia ottimamente quella di Shepherd, il tutto in un’atmosfera d’altri tempi  https://www.youtube.com/watch?v=ncbCqVMoXWo , Please Don’t Try è un altro pezzo di bravura per voce ed organo, ma con l’immancabile coro a colorare il refrain, mentre Tree Of Tule è un pezzo mosso e pianistico nuovamente cantato a più voci e con una solarità di fondo che lo rende immediatamente fruibile https://www.youtube.com/watch?v=zIYHF2eV8ac .

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Tumbling Stone vede ancora la sola presenza di organo, voce solista e coro, ma la melodia dal sapore gospel tradizionale ed il pathos esecutivo ne fanno uno dei brani di punta del CD; Angels Watching è splendida, un gospel-reggae-rock suonato in punta di dita e cantato meravigliosamente, con il tocco di Lanois riconoscibile in ogni nota https://www.youtube.com/watch?v=eHqI0O-77Dg , ed anche l’orecchiabile (Under The) Heavy Sun, primo singolo dell’album, porta luce e positività in un disco che è un’inattesa sorpresa https://www.youtube.com/watch?v=OrXDf-3ZpWg . Finale con Mother’s Eyes e Out Of Sight, ennesimi affascinanti brani in cui l’organo è l’unico strumento presente: Daniel Lanois è quindi tornato a fare musica non solo per sé stesso (e questa è già di per sé un’ottima notizia), regalandoci il suo lavoro migliore dai tempi di Shine.

Marco Verdi

Musica Sopraffina Dal Profondo Sud! Damon Fowler – Alafia Moon

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Damon Fowler – Alafia Moon – Landslide Records

Se, come me, vi siete chiesti cosa cacchio sia questo Alafia, in effetti si tratta di un fiume, che scorre vicino alla città natia di Damon Fowler, nella contea di Hillsborough, Florida. Lo avevamo lasciato un paio di anni abbondanti fa, a fine 2018, all’uscita di The Whiskey Bayou Session, pubblicato dalla omonima etichetta di proprietà del collega Tab Benoit, che aveva anche prodotto il disco, che come al solito esplorava quei territori sonori a cavallo tra blues, rock, musica della Louisiana. swamp e sudista in genere, oltre ad uno stile da cantautore, in quanto Damon è anche un ottimo autore, oltre che sopraffino chitarrista, soprattutto in modalità slide, e anche un eccellente cantante, tanto che avevo inserito quell’album tra i miei preferiti dell’anno (ma tutta la sua produzione è eccellente). A un certo punto Fowler era stato contattato per entrare a fare la parte della band di Dickey Betts, ma poi i problemi di salute del musicista di West Palm Beach avevano fermato la sua attività concertistica: finita anche la sua collaborazione con Butch Trucks, dopo la morte, e in stand-by quella con i Southern Hospitality, la band che condivide con Victor Wainwright e JP Soars, il nostro amico ha firmato un contratto con la Landslide Records e si è messo al lavoro per un nuovo CD.

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Accompagnato dai fedeli compagni Chuck Riley, bassista dei Southern Hospitality e dal batterista della sua band Justin Headley, con un piccolo aiuto da T.C. Carr all’armonica, Mike Kach alle tastiere e Betty Fox alle armonie vocali, Fowler ha confezionato un ennesimo gioiellino. Undici brani, dieci firmati da Damon, uno in collaborazione con Jim Suhler, e la splendida cover di The Guitar di Guy Clark, resa in modo molto fedele: quindi gagliarda musica rock-blues, ma anche momenti più intimi e raccolti, altri divertenti e le divagazioni chitarristiche mai fini a sé stesse, rilasciate con una tecnica prodigiosa ma mai troppo “esagerate”, con uso di Fender, Slide e Lap Steel ed echi di Winter, Thorogood, Duane Allman, Ry Cooder e Lowell George. Prendiamo la iniziale potente Leave It Alone, suono scandito, chitarra ed armonica di Carr che si rispondono dai canali dello stereo, mentre la Fox supporta la voce rauca, espressiva e vissuta di Damon, e lui inizia a lavorare di bottleneck, creando questo insieme “paludoso” e southern https://www.youtube.com/watch?v=XKGLPEr32a8 ; I’ve Been Low accelera i tempi, la musica si fa più minacciosa, la slide e la solista imperversano e la ritmica attizza il nostro verso un rock-blues di grande energia https://www.youtube.com/watch?v=BFPtrya52rI , mentre nella title-track, una ballata mid-tempo fluida e scorrevole, l’organo Hammond B3 di Mike Kach (già nella band di Butch Trucks) aggiunge elementi deep soul e Fowler canta con voce calda e partecipe, prima di far “parlare” la sua chitarra ricca di feeling https://www.youtube.com/watch?v=ADne0Nn0zR4 . Nella delicata The Guitar, il brano di Clark e Verlon Thompson, Damon si rivela anche fine picker alla acustica e declama da consumato interprete di talkin’ country blues i versi di questo racconto incentrato intorno ad un banco di pegni per chitarre https://www.youtube.com/watch?v=YTAGnDiqGGo .

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Make The Best Of Your Time vira verso il funky, un suono che ricorda il Cooder più sanguigno o il Duane Allman più rilassato quando faceva il sidemen per i cantanti soul, impersonato per l’occasione da Fowler, spalleggiato dalla solita Fox, mentre la lap steel lavora di fino sullo sfondo con guizzi continui, forse il riff è anche troppo ripetuto, ma fossero questi i difetti datecene altri così https://www.youtube.com/watch?v=4WtZZAr2mYI. Hip To Your Trip è il pezzo firmato con Suhler, un brano di chiara impronta southern, lato Allman, ma anche grazie al timbro vocale usato per l’occasione da Damon qualche reminiscenza di Dr. John e del New Orleans sound https://www.youtube.com/watch?v=fGJw_bMBZV8 , con la successiva accelerata di Some Things Change che rocca e rolla alla grande, tra Little Feat, sbuffi di armonica, passate di organo, e sanguigni riti sudisti, con finale chitarristico devastante https://www.youtube.com/watch?v=6Rfx04bd4JU . Taxman ovviamente non è il pezzo di Harrison per i Beatles, ma è un bluesazzo di quelli duri e puri, con lap steel incazzosa come sapeva fare Lowell George con i Feat più ispirati (per citarli è un “Political Blues”), con il nostro che si sdoppia anche alla solista https://www.youtube.com/watch?v=27raprdtSTk , mentre in Wanda Fowler e Kach si dividono gli spazi in un ulteriore interscambio raffinato tra chitarra e organo, con Damon che si inventa un timbro grasso e corposo per la sua solista, quasi claptoniano https://www.youtube.com/watch?v=eDe1TJhDivs . The Umbrella fa parte di quei lunghi brani parlati inseriti nei suoi concerti nel segmento gig stories, quando il nostro amico intrattiene il pubblico (il brano non è dal vivo, i rumori di fondo sono fasulli, aggiunti in studio), aneddoto divertente, ma scusate la franchezza, a lungo andare rompe le balle, otto minuti che si potevano impiegare meglio https://www.youtube.com/watch?v=VlEcCQszrWQ , come nella breve, divertente e travolgente Kicked His Ass Out, boogie. swing e rock and roll a tutta velocità https://www.youtube.com/watch?v=ORPWcl1YbCE . Quindi alla fine, sia pure con questo piccolo intoppo, un disco “solo” quasi perfetto.

Bruno Conti