Il “Nuovo” British Blues, Made In Italy. Alex Haynes & The Fever – Howl

alex haynes howl

Alex Haynes & The Fever – Howl – Appaloosa Records/Ird

Da non confondere con il quasi omonimo chitarrista texano Alan Haynes, né tantomeno, ovviamente, con Warren Haynes, Alex Haynes è un bluesman britannico: proveniente dal nord del Regno Unito, si è trasferito nella zona di Londra, dove alterna la sua attività di musicista con quella di insegnante (sempre di musica), “mestiere” che condivide con il pianista Richard Coulson, presente al piano come ospite in questo Howl. In attività da una decina di anni ha pubblicato un EP e un album, credo francamente non molto facili da reperire (però il nostro amico nei suoi tour europei  passa spesso dall’Italia, per cui mai dire mai). Anche lui, come le generazioni che lo hanno preceduto è stato influenzato dalla musica di John Lee Hooker e Howlin’ Wolf, per fare un paio di nomi, ma ovviamente anche da tutto il fenomeno storico del British Blues, con una preferenza per i Fleetwood Mac di Peter Green, ma anche altre influenze confluiscono nei suoi brani (10 in questo CD, tutti firmati da Haynes stesso). Ascoltando il primo pezzo Nervous direi anche il Bo Diddley più blues o sul lato inglese i primi Savoy Brown, quando c’era ancora Bob Hall al piano, o i Dr. Feelgood meno deraglianti: comunque c’è grinta, elettricità e potenza, siamo dalle parti di un  blues-rock verace, dove la sezione ritmica italiana dei The Fever, Alessandro Diaferio al basso e Pablo Leoni alla batteria, non si tira indietro e “strapazza” di gusto i propri strumenti, mentre la chitarra di Haynes segue le orme dei grandi solisti di Terra D’Albione che lo hanno preceduto, e anche l’organo di Ernesto Ghezzi, oltre al pianino saltellante di Coulson è a tratti elemento portante del sound.

Ed è solo il primo brano. I’m Your Man (non “quella”) ha qualche retrogusto alla Cream, sempre con l’organo di supporto, e un groove che va anche di boogie, come pure sfarfallii del beat inglese, quello più sporco e genuino delle prime band anni ‘60. Non guasta ricordare che Haynes ha anche una buona voce, solida ed espressiva, come evidenzia l’ipnotica Howl dove si manifesta anche una minacciosa slide, per una canzone dalle atmosfere sospese e sporche, che profumano di Chicago Blues casa Chess rivisto in ottica rock e piccoli tocchi psych, come usava sempre negli anni ’60, prima di rilasciare un esplosivo solo al bottleneck. Shake It Up ha un tiro più roots-rock, saltellante e mossa, con il giusto equilibrio tra melodia e slancio rock and roll, e un riff vagamente alla Creedence; Lonesome Shadows è una ballata tra country e blues, solo la voce di Alex e una chitarra elettrica prima arpeggiata e poi twangy, che rimanda al suono dei primordi del rock, mentre All I Got In This World, con una acustica in modalità nuovamente slide viaggia dalle parti del primo John Lee Hooker, ma anche dell’Elmore James tanto amato dai Fleetwood Mac, senza dimenticare l’hill country blues di RL Burnside ereditato dai North Mississippi Allstars di Luther Dickinson o da Reed Turchi.

I nomi “volano” ma servono ovviamente per far capire la musica, spero: senza dimenticare una poderosa Bad Money, dura e cattiva il giusto, dove il gruppo tira come una cippa lippa. Notevole pure la  deliziosa simil soul ballad con uso d’organo, Solid Sender, dove Alex Haynes sfodera un timbro vocale veramente accattivante e la chitarra disegna interessanti spunti improvvisativi nell’ottimo solo nella parte centrale; e per sparare un altro nome, ecco Andy J Forest,  che appare di persona con la sua armonica per vivacizzare, insieme al piano di Coulson, un pezzo che profuma da lontano di Blues di Chicago, il più classico possibile, con Haynes di nuovo alla slide. E per concludere l’opera rimane la traccia più lunga dell’album Shed My Skin, di nuovo a cavallo tra boogie blues ipnotico e derive psichedeliche elettriche anni ’60 di ottima fattura, con la chitarra che parte per la tangente e non la ferma più nessuno. Decisamente un buon disco, solido e dai contenuti variegati, consigliato a chi ama il blues ancora in grado di sorprendere, non troppo paludato o canonico, per quanto rispettoso dei maestri.

Bruno Conti