Un Godurioso Omaggio Alla Vera Country Music! Josh Turner – Country State Of Mind

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Josh Turner – Country State Of Mind – MCA Nashville/Universal CD

Josh Turner, musicista originario della Carolina del Sud, è un countryman atipico: infatti, pur vivendo ed incidendo a Nashville ed avendo ottenuto un grande successo con i suoi sette album pubblicati tra l 2003 ed il 2018 (tutti piazzatisi tra la prima e la terza posizione), non ha mai smesso di fare musica di qualità. A molti suoi colleghi l’aria di alta classifica fa girare la testa, ma Josh è uno bravo, coi piedi per terra, e pur non disdegnando un suono adatto alla programmazione radiofonica non ha mai esagerato e ha sempre proposto canzoni suonate con strumenti veri. Nonostante l’età ancora giovane quindi Turner ha poco da dimostrare, e dunque quest’anno ha deciso di fare un disco che, ne sono sicuro, pianificava già da qualche tempo, cioè un album di cover che omaggiasse gli artisti che lo hanno influenzato, alternando brani più o meno popolari ed in più di un caso ospitando lo stesso autore del pezzo.

Country State Of Mind è il risultato di questa idea, e si rivela un lavoro davvero strepitoso fin dal primo ascolto: le canzoni belle come ho detto ci sono già, ma Josh le interpreta con notevole grinta e senso del ritmo, mettendo in primo piano le chitarre e la sua splendida voce baritonale, coadiuvato dalla produzione impeccabile di Kenny Greenberg e con la partecipazione in session di autentici luminari di Nashville come lo stesso Greenberg alle chitarre, Glenn Worf al basso, Chad Cromwell alla batteria e Dan Dugmore alla steel. Più gli ospiti che partecipano vocalmente (non in tutti i brani, non è un vero e proprio album di duetti), i quali danno il tocco in più ad un disco che in ogni caso si sarebbe retto sulle proprie gambe anche senza di loro. Il CD parte ottimamente con I’m No Stranger To The Rain, una bella western ballad (dal repertorio di Keith Whitley) che qui viene rivestita da un bell’intreccio di chitarre e da un suono forte di stampo rock, il tutto completato ad hoc dalla voce profonda di Josh, country al 100%. John Anderson quest’anno è tornato in gran forma con il bellissimo Years, e qui porta in dote la sua I’ve Got It Made, un irresistibile rockin’ country tuto ritmo e chitarre, che la voce vissuta di John impreziosisce ulteriormente. A proposito di voci vissute, che ne dite di Kris Kristofferson?

Il grande texano è infatti il prossimo ospite in Why Me, uno dei suoi brani più popolari e canzone già splendida di suo che viene ancor di più abbellita dal duetto tra i due protagonisti: Josh è bravo, ma quando Kris si avvicina al microfono è tutta un’altra storia. Chris Janson unisce le forze con Turner nella sanguigna title track (di Hank Willims Jr.), un honky-tonk elettrico, vibrante e decisamente coinvolgente; I Can Tell By The Way You Dance è un pezzo del 1984 di Vern Gosdin che Josh, qui da solo (anche perché Gosdin è morto), rilegge in maniera pimpante e ricca di ritmo, con il solito approccio rock che è un po’ la costante di questo disco: gli assoli chitarristici sono ottimi e la melodia vincente. Alone And Forsaken è una nota canzone di Hank Williams (Senior), qui arrangiata come una scintillante ed evocativa western ballad ed ulteriormente nobilitata dalla seconda voce della brava Allison Moorer, mentre Forever And Ever, Amen è uno dei classici di Randy Travis, che ovviamente compare in prima persona a prestare l’ugola: bella canzone, dal ritmo spedito e country fino all’osso. Alan Jackson si può ormai considerare sia un contemporaneo che un veterano, e Josh esegue senza ospiti la sua Midnight in Montgomery, un’intensa ballata ancora dal sapore western, ripresa con un feeling notevole e non inferiore all’originale.

Good Ol’ Boys era il tema del telefilm The Dukes Of Hazzard ma anche uno dei brani più famosi di Waylon Jennings, e Turner la rifà con grande rispetto per l’originale ma anche con un notevole senso del ritmo, aumentando la componente rock’n’roll e regalandoci una cover trascinante, tra le più riuscite del CD, mentre You Don’t Seem To Miss Me, scritta da Jim Lauderdale, era in origine un duetto tra Patty Loveless e George Jones, ed è una tersa e molto piacevole ballata di stampo classico eseguita con il trio vocale delle Runaway June. Chiusura con Desperately, un midtempo dal motivo diretto e toccante al tempo stesso (incisa prima dal suo autore Bruce Robison e poi da George Strait) proposto con l’aiuto del duo al femminile Maddie & Tae, e con The Caretaker, uno dei pezzi più antichi e meno conosciuti di Johnny Cash, altra splendida rilettura questa volta per sola voce (e che voce) e chitarra, ed un mood da vero cowboy. Non esagero: Country State Of Mind è tra i migliori country album del 2020.

Marco Verdi

Semplicemente Uno Dei Migliori Tributi Degli Ultimi Tempi. VV.AA. – Come On Up To The House: Women Sing Waits

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VV.AA. – Come On Up To The House: Women Sing Waits – Dualtone CD

Il destino di Tom Waits è comune a quello degli altri grandi songwriters del panorama mondiale, da Bob Dylan in giù, è cioè quello di vedere molte delle loro composizioni rifatte da colleghi più o meno famosi con risultati a volte superiori agli originali, talvolta in termini di qualità e più spesso di popolarità e vendite. Tra l’altro Waits in passato non è mai stato tenero verso le sue canzoni rivisitate da altri, pur non negandone l’utilizzo (una volta Glenn Frey disse che il Tom non era per niente contento della versione degli Eagles di Ol’ 55, ma cambiò idea quando vide l’assegno), ma negli ultimi anni si è un po’ ammorbidito, arrivando persino a produrre nel 2001 Wicked Grin, album del bluesman John Hammond composto unicamente da brani dell’artista di Pomona. Sul finire del 2019/inizio 2020 è uscito un tributo molto particolare alle canzoni di Tom, Come On Up To The House, che come fa intuire il sottotitolo Women Sing Waits è formato unicamente da cover incise per l’occasione da donne, siano esse gruppi o soliste.

Waits ha sempre avuto un debole per l’universo femminile, e ha scritto alcune delle più belle canzoni d’amore dagli anni settanta in poi, e questo disco è una sorta di ringraziamento ed apprezzamento che il sesso opposto ha rivolto al cantautore californiano, un tributo bellissimo, intenso e toccante da parte di artiste più o meno note, un disco che suona decisamente unitario nonostante sia stato suonato e prodotto da musicisti diversi. Il produttore esecutivo dell’album è Warren Zanes, ex chitarrista dei Del Fuegos (il quale ha confessato nelle note interne al CD di essere stato introdotto all’arte di Waits da sua madre), che si è occupato di reclutare le artiste per questo tributo, lasciando però loro mano libera sulla scelta di produttore e musicisti (questi ultimi non sono indicati nella confezione, unica pecca del progetto). Come On Up To The House è quindi un disco splendido, con interpretazioni di alto livello emozionale almeno nel 90% dei casi, che forse non superano gli originali (o le cover più famose) ma di certo si avvicinano molto; piccola curiosità: l’album di Waits più “saccheggiato” con ben cinque canzoni su dodici totali è Mule Variations, ovvero il miglior disco di Tom da Rain Dogs in poi, e quindi degli ultimi 35 anni.

Si inizia con il brano che intitola la raccolta, affidato alle Joseph (un trio tutto al femminile di Portland, Oregon): un pianoforte solitario apre la canzone subito assistito da una voce suadente, e la struttura del brano resta invariata tranne che per l’intervento di un violino solista prima, di un quartetto d’archi dopo e di un suggestivo coro verso la fine. Una cover intima e profonda, che dà il via al disco nel modo migliore. Hold On è la più bella canzone di Mule Variations ed una delle migliori del songbook waitsiano, e qui viene affidata alla brava Aimee Mann, che la tratta coi guanti bianchi fornendo un’interpretazione in puro stile rock ballad, inventandosi un arrangiamento soffuso con il ritmo scandito da uno shaker ed una chitarrina elettrica sullo sfondo: grande classe. Molto bella anche Georgia Lee, cantata in maniera emozionante da Phoebe Bridgers (giovanissima cantautrice “indie” di Los Angeles), anche qui con l’accompagnamento ridotto all’osso che fa risaltare la melodia e la bella voce di Phoebe, mentre Ol’ 55 non può prescindere dalla famosa versione degli Eagles, ed infatti la cover delle sorelle Shelby Lynne e Allison Moorer si ispira più a quella della band californiana che all’originale di Tom: le due sisters sono come al solito bravissime e la loro rivisitazione dal sapore western ballad è splendida, tra le migliori del lotto.

Angie McMahon, una songwriter australiana che ha debuttato lo scorso anno, propone una rilettura molto rarefatta di Take It With Me, con la voce in primo piano e sonorità d’atmosfera e quasi ambient, ma con un risultato di grande fascino (anche per la bellezza del brano); Jersey Girl è ormai diventata una canzone più di Bruce Springsteen che di Waits, con il Boss che ciclicamente la riprende dal vivo soprattutto quando si esibisce vicino a casa: qui il pezzo è nelle mani di Corinne Bailey Rae (brava cantante britannica che era anche tra le protagoniste di Joni: The River Letters, splendido tributo del 2007 a Joni Mitchell da parte di Herbie Hancock), che la affronta con bella voce limpida ed espressiva ed una strumentazione molto waitsiana, cioè con base folk-rock quasi classica ma con un marimba in evidenza, per un’altra cover estrememente piacevole (anche se vi confesso che se fossi stato io al posto di Zanes per questo brano avrei pensato a Patti Scialfa, per motivi che non sto neanche a spiegarvi). E’ il momento di due pezzi da novanta, cioè Patty Griffin che emoziona con una sontuosa versione pianisitica di Ruby’s Arms, rilettura da brividi lungo la schiena grazie anche all’interpretazione vocale di Patty, e Rosanne Cash che propone la stupenda Time in puro stile da cantautrice raffinata, alla James Taylor, con i suoni dosati alla perfezione dal marito John Leventhal.

La texana Kat Edmonson, con la produzione di Mitchell Froom, ci regala una curiosa You Can Never Hold Back Spring, riletta come se fosse una jazz ballad alla Billie Holiday con classe, bravura e creatività, mentre la bravissima Iris DeMent riveste la toccante House Where Nobody Lives con una deliziosa patina country, ed anche qui la voce fa la differenza. Downtown Train è uno dei brani più celebri di Waits, grazie soprattutto alla cover di grande successo da parte di Rod Stewart (cover che mi è sempre piaciuta nonostante l’arrangiamento “rotondo”, ma più di recente l’ha incisa anche Bob Seger con ottimi risultati): l’ex Jimmy Eat World Courtney Marie Andrews ne fornisce una versione cadenzata anche se leggermente meno strumentata di quella del biondo cantante scozzese, lasciando però intatta la straordinaria melodia e mettendo in evidenza il pianoforte ed un chitarrone “twang”. Il CD si chiude con Tom Traubert’s Blues (della quale ricordo una bella versione dei Pogues), affidata alla band di Los Angeles The Wild Reeds (composta per quattro quinti da donne), una cover discreta che però manca un po’ di pathos, un finale in tono minore che però non inficia affatto il giudizio complessivo sul valore dell’album, un tributo splendido che mi sento di consigliare non solo ai fans di Tom Waits ma agli amanti dell’ottima musica in generale.

Marco Verdi

Si Conferma Una Delle Cantautrici Più Lucide, Brave E Coinvolgenti In Circolazione. Shelby Lynne – Shelby Lynne

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Shelby Lynne – Shelby Lynne – Everso Records/Thirty Tigers – 17-04-2020

Come è capitato di scrivere in passato sul Blog parlando di altri dischi di Shelby Lynne, la cantante di Quantico, Virginia, oltre ad essere una interprete in possesso di una delle più belle voci della scena musicale americana, è anche una cantautrice di grande spessore, con una lunga carriera alle spalle, iniziata nel lontano 1988, il cui ultimo capitolo in solitaria era l’eccellente I Can’t Imagine del 2015, ma che poi nel 2017 ha pubblicato in coppia con la sorella Allison Moorer un raffinato disco di cover di altri autori (con un solo brano firmato dalle due) https://discoclub.myblog.it/2017/08/12/un-ottimo-esordio-per-due-promettenti-ragazze-shelby-lynne-allison-moorer-not-dark-yet/ . Pochi mesi fa la Moorer ha rilasciato un bellissimo e sofferto album intitolato Blood che per la prima volta toccava esplicitamente la loro drammatica storia familiare https://discoclub.myblog.it/2019/11/18/un-disco-bellissimo-nato-in-conseguenza-di-uninfanzia-terribile-allison-moorer-blood/ , ora è il turno di Shelby di presentarci la sua nuova fatica discografica, dal titolo semplice ma significativo di Shelby Lynne. Il disco prende spunto, ed è stato in parte registrato, durante le riprese del film indipendente When We Kill The Creators, non ancora uscito e realizzato dalla regista, sceneggiatrice e paroliera Cynthia Mortsua attuale compagna, che è stata co-autrice con la Lynne di circa metà delle liriche delle canzoni incluse nell’album https://www.youtube.com/watch?v=1ut_5lqS4ro : per la realizzazione la stessa Lynne ha poi registrato quasi tutte le parti musicali, suonando piano, chitarra, basso, batteria, tastiere, persino il sax , lasciando solo le principali parti delle tastiere a Mimi Friedman, Ed Roth, Billy Mitchell e soprattutto Benmont Tench. 11 canzoni in tutto, registrate in diversi periodi, di cui più della metà durante le riprese del film, nel quale Shelby appare anche come attrice.

Strange Things apre splendidamente le operazioni, un brano intenso e variegato, cantato con grande partecipazione, e con un tema musicale che mi ha ricordato a tratti la melodia di Ballad Of A Thin Man di Bob Dylan, con un suono caldo ed avvolgente; I Got You, con la voce della Lynne potenziata dal multitracking, ha un profumo blue eyed soul, ritmato ma soffice, sempre con la bella voce della nostra amica che naviga su un tappeto di tastiere e una sezione ritmica in parte sintetica ma “umana”. Love Is Coming è più notturna e soffusa, rarefatta, con la musica che risalta più per sottrazione, affidandosi soprattutto all’uso della voce, protagonista assoluta, Weather è una ballata pianistica classica, direi confidenziale, con tocchi quasi di gospel profano, voci di supporto appena accennate ma decisive, e un crescendo sempre affascinante della elegante vocalità di Shelby. Revolving Broken Heart, quasi sussurrata, si avvale dell’uso di una chitarra acustica, di piano e tastiere e le solite stratificazioni vocali che creano una atmosfera intima e raffinata, quasi privata, dove i sentimenti sono dolorosi e quasi malinconici, splendida. Off My Mind, ricorda quelle interpretazioni classiche di cantanti come Dusty Springfield o Laura Nyro, bianche ma che amavano molto la musica nera, e anche la Lynne dimostra di saper maneggiare con maestria la materia.

Don’t Even Believe In Love rimane sempre in questo ambito, ma con una maggiore scansione ritmica, il soul di Memphis incontra il country e l’Americana, in una ballata mid-tempo dal sottile fascino “sudista” dove l’interpretazione vocale è ancora una volta superba, e mi sentirei di azzardare (anche se non ho le note) che l’organo è quello magistrale di Benmont Tench. Sempre sofferta e rarefatta anche My Mind’s Riot dove la Lynne mette a nudo i suoi sentimenti in un brano dove la chitarra acustica e il piano vengono raggiunti da un sassofono suonato con grande perizia dalla stessa Shelby, che poi ci regala una ballata magnifica, solo voce e piano, la superba ed assertiva Here I Am, quasi desolata ma con sentori di speranza, che quasi essudano dalla interpretazione maiuscola, vulnerabile, ma ricca di forza. The Equation, con i suoi quasi sette minuti, è il brano più lungo dell’album, sempre giocato sull’interscambio tra una chitarra acustica, pianoforte ed organo, ma anche con una chitarra elettrica che incombe sullo sfondo e poi irrompe nell’arrangiamento complesso del brano, meno lineare, più intricato e tortuoso del resto del disco, che si chiude con Lovefear (tutto attaccato), un breve sketch di 1:40 ancora dai retrogusti errebì e che conferma il pregevole valore complessivo di questa nuova fatica della Lynne.

Esce domani, venerdì 17 aprile.

Bruno Conti

Un Disco Bellissimo Nato In Conseguenza Di Un’Infanzia Terribile. Allison Moorer – Blood

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Allison Moorer – Blood – Autotelic/Thirty Tigers CD

Anche la bella e brava Allison Moorer, sorella di Shelby Lynne https://discoclub.myblog.it/2010/05/19/un-disco-di-gran-classe-shelby-lynne-tears-lies-and-alibis/  nonché ex moglie di Steve Earle ed attuale fidanzata di Hayes Carll, ha ormai superato il ventennio di carriera, e a quattro anni dal suo ultimo lavoro Down To Believing https://discoclub.myblog.it/2015/04/02/pene-damor-perduto-ritorno-alle-origini-del-suono-allison-moorer-down-to-believing/  (ma in mezzo c’è stato il bel disco di cover inciso insieme alla Lynne Not Dark Yet https://discoclub.myblog.it/2017/08/12/un-ottimo-esordio-per-due-promettenti-ragazze-shelby-lynne-allison-moorer-not-dark-yet/ ) ha deciso di consegnarci il suo album più personale in assoluto. Blood è infatti un’opera autobiografica che accompagna il libro di memorie dallo stesso titolo scritto dalla cantautrice dell’Alabama, un volume nel quale Allison racconta senza censure o limitazioni di alcun tipo gli anni tremendi della sua infanzia, durante i quali lei e la sorella Shelby erano in balia di un padre alcolizzato ed aggressivo: un periodo fatto di abusi e violenze domestiche che è culminato con la terribile scena dell’omicidio della madre da parte del genitore ed il suo conseguente suicidio. Avvenimenti che avrebbero potuto portare all’instabilità se non addirittura alla follia più di una persona, ma sia Allison che Shelby si sono dimostrate persone forti ed equilibrate, ed ora la minore delle due sorelle ha deciso che è arrivato il momento di togliere il velo da quei tragici anni.

Non so il libro, ma l’album Blood è un lavoro davvero ispirato e splendido, un disco in cui Allison affronta senza paura i suoi demoni e si mette a nudo in dieci canzoni di un’intensità rara, dieci capitoli di una sorta di autobiografia musicale che la nostra affronta con l’aiuto del suo abituale produttore e chitarrista Kenny Greenberg (i due suonano l’80% degli strumenti, tra chitarre, pianoforte, steel e basso), il batterista Evan Hutchings e la nota violinista Tammy Rogers. Allison però non ce l’ha con i suoi genitori (più che altro col padre, dato che anche la madre è una vittima), anzi li omaggia con una bellissima foto di famiglia riprodotta all’interno della confezione in digipak del CD e, come ha lei stessa dichiarato in una recente intervista, con questa doppia operazione libro-disco cerca in un certo senso la redenzione per il padre. Tra i dieci brani, otto sono nuovi di zecca mentre due erano già apparsi (in versione ovviamente diversa) in album precedenti della cantante dai capelli rossi, dei quali uno, Cold Cold Earth, addirittura sul suo secondo lavoro The Hardest Part del 2000 (come ghost track), a dimostrazione che Allison aveva già da tempo queste canzoni dentro di lei. Il CD si apre con Bad Weather, una splendida ballata dal passo lento dotata di un motivo toccante e di ampio respiro, interpretata dalla Moorer con il giusto pathos e con un arrangiamento classico basato su chitarre e steel. Cold Cold Earth, ispirata agli ultimi momenti di vita dei genitori, è un profondo e struggente slow dal sapore folk, con il violino della Rogers a fendere l’aria ed Allison che canta davvero con il cuore in mano https://www.youtube.com/watch?v=cOGOQpngdAo .

Nightlight è un delizioso bozzetto costruito intorno alla voce della protagonista e ad una chitarra acustica pizzicata (e con un’altra melodia cristallina), alle quali si aggiungono una steel lontana, la sezione ritmica discreta ed anche una malinconica tromba, ed è seguita da The Rock And The Hill, un brano più mosso ed elettrico, una rock ballad affrontata da Allison con il solito approccio elegante, servita da un accompagnamento potente e con un coinvolgente crescendo ritmico https://www.youtube.com/watch?v=GIYXMzahgxM . I’m The One To Blame è un testo che Shelby ha trovato nella 24 ore del padre, scritto da lui, ed al quale la Lynne ha aggiunto la musica (e vengono i brividi soltanto a leggere il titolo, “Sono Io Quello Da Incolpare”, sapendo ciò che è successo dopo), e vede la Moorer sola con la sua chitarra, per un brano intenso e sincero fino al midollo https://www.youtube.com/watch?v=St0SqBGUa6M , così come Set My Soul Free, che pur essendo leggermente più strumentata mantiene una certa drammaticità di fondo (ed il feeling dell’autrice fa il resto), mentre The Ties That Bind non è quella di Springsteen ma è comunque un brano davvero stupendo, sfiorato dal country e dotato di una melodia di quelle che colpiscono dritto al cuore: probabilmente la migliore del disco. La grintosa e roccata All I Wanted (Thanks Anyway), trascinante e cantata veramente bene, confluisce direttamente nella title track (che era già apparsa in Down To Believing), ancora acustica e decisamente profonda, la quale a sua volta precede la conclusiva Heal, scritta a quattro mani con Mary Gauthier (un’altra che sa cosa sono il dolore e la sofferenza), una magnifica ballata sotto forma di preghiera che mette la parola fine ad un album tanto intenso e personale quanto splendido.

Marco Verdi

Disco Dopo Disco E’ Sempre Più Bravo! Hayes Carll – What It Is

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Hayes Carll – What It Is – Dualtone CD

Nuovo album per il cantautore texano Hayes Carll, uno che incide con il contagocce (sei album in diciotto anni di carriera), ma potete stare certi che quando pubblica qualcosa riesce sempre a distinguersi dalla banalità. La peculiarità di Carll è che il livello dei suoi lavori è in continuo crescendo, ed ogni suo disco ha sempre qualcosa in più del precedente: Lovers And Leavers (2016) https://discoclub.myblog.it/2016/04/05/piu-countryman-songwriter-completo-hayes-carll-lovers-and-leavers/  era meglio di KMAG YOYO (2011), che a sua volta era meglio di Trouble In Mind (2008). E What It Is, il suo CD nuovo di zecca, già al primo ascolto si rivela il migliore di tutti, un album composto da una serie di canzoni splendide sempre nello stile tipico del nostro: musica country d’autore, di alto livello e decisamente coinvolgente, ma sono ben presenti anche elementi folk, rock’n’roll e perfino soul. Una cosa che contraddistingue le canzoni di Carll sono anche i testi, intelligenti e sempre sul filo di un’ironia alla John Prine, quando non sfociano nel puro sarcasmo alla Randy Newman. Infine, una spinta alla riuscita di What It Is deve averla data anche la situazione sentimentale di Hayes, che si è fidanzato con la bella e brava Allison Moorer (una delle tante ex mogli di Steve Earle), ed il mio non è solo gossip fine a sé stesso, in quanto la musicista dai capelli rossi è coinvolta anche artisticamente in questo disco, in quanto ne è la produttrice (insieme a Brad Jones), ha scritto diversi brani insieme al suo boyfriend, ed è pure presente in qualità di corista (con Bobby Bare Jr., figlio di cotanto padre).

Un gran bel disco quindi, oltre che per le canzoni anche per i musicisti coinvolti, tra i quali si segnalano il noto Fats Kaplin al violino, mandolino, banjo e steel (fondamentale il suo contributo), Will Kimbrough alle chitarre ed il bravissimo pianista e organista Gabe Dixon. Dodici canzoni, una meglio dell’altra: si parte con None’Ya, eccellente ballata countreggiante, cadenzata e diretta, con un motivo di quelli che restano in testa immediatamente ed un bellissimo violino. Irresistibile poi Times Like These, un rock’n’roll dal ritmo travolgente, elettrico quanto basta ed ancora con il violino a fungere come elemento di disturbo: impossibile tenere il piede fermo, siamo dalle parti del miglior Billy Joe Shaver (anche come timbro vocale); davvero bella anche Things You Don’t Wanna Know, un pezzo stavolta dal chiaro sapore soul (una novità per Hayes), con il nostro che dimostra di essere più che credibile usando fiati ed organo in maniera magistrale, il tutto servito da una melodia decisamente orecchiabile. Che dire di If I May Be So Bold? Una scintillante country song elettrica ancora con Shaver in testa (ma anche Johnny Cash), ritmo alto e gran godimento, mentre Jesus And Elvis è uno slow ancora dal chiaro approccio country, limpido e scorrevole, che ha il passo delle migliori composizioni di John Prine (anche nel testo, tra il poetico e lo scherzoso): splendida anche questa.

Che Carll sia in stato di grazia lo si capisce anche da brani come American Dream, apparentemente un tipo di country song già sentita prima, ma con una marcia in più data dalla brillantezza della scrittura e dall’accompagnamento delizioso da parte della band (ottimo l’intreccio tra chitarre, violino e mandolino); Be There è una ballata fluida, intensa e melodicamente impeccabile (il refrain è perfetto), con una sezione d’archi che la rende emozionante. Beautiful Thing, ancora a metà tra country e rock’n’roll, è nobilitata da un ritmo coinvolgente e dal formidabile pianoforte di Dixon; un banjo apre la squisita What It Is, che porta il disco in territori bluegrass, ed è inutile dire che sia Hayes che la band danno il loro meglio anche qui. Il CD volge (purtroppo) al termine, il tempo di ascoltare ancora Fragile Men, lenta, epica e con un arrangiamento da film western, la potente Wild Pointy Finger, tra country e southern, e con l’intima e folkie I Will Stay, solo voce, chitarra ed archi.

Dopo un inizio in sordina finalmente anche il 2019 sta cominciando a produrre dischi degni di nota, e questo nuovo tassello della carriera di Hayes Carll è al momento nella mia Top Five.

Marco Verdi

Un Tributo Splendido Anche Se Tardivo! Strange Angels: In Flight With Elmore James

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Strange Angels: In Flight With Elmore James – Sylvan Songs/AMPED CD

Trovo abbastanza scandaloso che non fosse mai uscito prima d’ora un tributo fatto con tutti i crismi alla figura del grande Elmore James, uno dei bluesmen più leggendari della storia, uno che ha suonato con Robert Johnson e Sonny Boy Williamson, e che ha praticamente inventato la tecnica slide nel suonare la chitarra, influenzando generazioni di musicisti a venire (tra i quali gente del calibro di Eric Clapton, Peter Green, Brian Jones, Duane Allman, Stevie Ray Vaughan, Johnny Winter e Sonny Landreth). Ci ha dovuto pensare la piccola Sylvan Songs (?) a riparare al torto, mettendo a punto questo splendido Strange Angels: In Flight With Elmore James, un omaggio fatto in grande stile, con una serie di ospiti di alto profilo, che si sono mossi tra l’altro a titolo gratuito, in quanto il ricavato delle vendite andrà a finanziare MusiCares e la Edible Schoolyard NYC, un progetto grazie al quale a giovani studenti viene insegnato a coltivare la terra ed a prendersi cura di giardini situati nei cortili delle scuole, avvicinandoli così al mondo della natura. Strange Angels, come ho già detto, è un album strepitoso, nel quale tutti i partecipanti si sono esibiti al meglio delle loro possibilità, fornendo diverse prestazioni da antologia, ben coadiuvati da una house band da sogno, formata da una serie di musicisti dal pedigree eccezionale.

Troviamo infatti in studio, tra i tanti (i partecipanti si alternano nei vari brani), G.E. Smith, storico chitarrista del Saturday Night Live ed in seguito nelle touring bands di Bob Dylan e Roger Waters, Doug Lancio, per anni nella band di John Hiatt e recentemente con Patty Griffin e Tom Jones, Viktor Krauss, fratello di Alison e membro della sua band, Rick Holmstrom, attuale bandleader di Mavis Staples, Rudy Copeland, pianista di Solomon Burke e Johnny “Guitar” Watson, John Leventhal, stimato musicista e produttore nonché marito di Rosanne Cash, Charlie Giordano, tastierista della E Street Band, Jay Bellerose, il batterista preferito da Joe Henry, Larry Taylor, ex bassista dei Canned Heat e più di recente con Tom Waits, e Marco Giovino, ex membro dei Band Of Joy di Robert Plant, nonché produttore del tributo. E non li ho neanche citati tutti. L’album parte con Can’t Stop Loving You, che inizia subito con una slide lancinante (Lancio, quindi lancio-nante…), un ritmo vivace e la gran voce di Elayna Boynton, una giovane e brava soul singer: pochi secondi e siamo subito “dentro” al disco (peccato che il brano duri poco più di due minuti) La grandissima Bettye LaVette (che ha in uscita un disco di covers di Bob Dylan, non vedo l’ora) aggredisce subito Person To Person con la sua vocalità strepitosa, una potenza seconda forse solo a Mavis Staples, ed il gruppo la segue con un suono “grasso” e coinvolgente. Rodney Crowell non è mai stato associato al blues, ma ha una classe che gli permette di adattarsi al meglio anche in questa veste: Shake Your Money Maker è uno dei classici assoluti di James, e Rodney ne fornisce un’interpretazione fresca e saltellante, quasi rockabilly, doppiato alla grande dalla slide di Lancio, che si conferma uno dei protagonisti del CD.

Tom Jones è tornato tra noi, in termini di qualità musicale, da diversi anni, e la sua rilettura di Done Somebody Wrong è poderosa e piena di feeling, con la sua formidabile voce al servizio di un suono sporco al punto giusto: qui Lancio non c’è, ma Holmstrom e Taylor (che oltre ad essere bassista suona anche la slide) coprono benissimo la sua assenza. Sapevo che Mean Mistreatin’ Mama sarebbe stato un highlight assoluto già quando ho letto che era stata affidata a Warren Haynes e Billy Gibbons, ma non pensavo ad un tale grado di splendore: sia Warren che Billy si cimentano alla slide (Haynes è anche voce solista), ed il duello finisce in parità, ma non con uno 0-0 con poche emozioni, ma bensì un 3-3 spettacolare, con pali, traverse ed occasioni salvate sulla linea; la goduria è completata da Mickey Raphael, la cui armonica abbandona il tono country che ha di solito con Willie Nelson e si avvicina allo stile di Charlie Musslewhite. Dust My Broom è forse il brano più celebre di James (ne ricordo una versione indimenticabile negli anni novanta fatta da Willy DeVille, con Fabio Treves all’armonica, al vecchio City Square di Milano), e qui è affidato a Deborah Bonham, sorella di John (e quindi zia di Jason): forse non ha la stessa potenza vocale di quella che aveva il fratello ai tamburi, ma è comunque davvero brava (e vogliamo parlare di come suona la band?); It Hurts Me Too è un altro superclassico, ed alla slide troviamo ancora l’immenso Warren Haynes, che però stavolta cede il microfono a Jamey Johnson, e la coppia funziona eccome, ed in più abbiamo una incredibile jam finale, che rende la canzone tra le più riuscite del disco.

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Le sorelle Allison Moorer e Shelby Lynne dopo il bel disco in duo dell’anno scorso ci hanno preso gusto http://discoclub.myblog.it/2017/08/12/un-ottimo-esordio-per-due-promettenti-ragazze-shelby-lynne-allison-moorer-not-dark-yet/ , anche se all’apparenza le loro voci non si adattano a brani blues di questa forza: infatti la loro Strange Angels è arrangiata in maniera più leggera, quasi jazzata, anche se l’esito finale è sì discreto, ma meno convincente del resto. La cura Taj Mahal ha fatto bene a Keb Mo’, che si destreggia splendidamente con Look On Yonder Wall, suonata in maniera elettroacustica, con l’aggiunta di una fisarmonica che dona più colore al suono, proprio come avrebbe fatto il vecchio Taj. Mollie Marriott, figlia di Steve (Small Faces e Humble Pie), non la conoscevo http://discoclub.myblog.it/2017/12/15/una-figlia-darte-un-po-tardiva-mollie-marriott-truth-is-a-wolf/ , ma è molto brava e con un timbro vocale vicino a quello di Bonnie Raitt (una che in questo disco ci sarebbe stata alla grande), e la sua My Bleeding Heart è decisamente godibile; Chuck E. Weiss è un fuori di testa, ma quando canta è serissimo, anche se la sua presenza in Hawaiian Boogie, in cui si limita a borbottare qualche “Oh Yeah!” e “Boogie!” ed a grattare sulla washboard, è impalpabile, ma il pezzo è comunque trascinante. Addi McDaniel è una attrice ed anche cantante, e la sua Dark And Dreary è una vera sorpresa, un folk-blues-jazz molto raffinato, con tanto di violino, fisa e banjo: grande classe. Chiude l’album lo strumentale Bobby’s Rock, con la house band protagonista, per l’occasione autoribattezzatasi Elmore’s Latest Broomdusters Broomdusters era il nome dato alla backing band di James), un rock-blues solido e vibrante, con Lancio e Holmstrom sugli scudi. Un tributo dunque imperdibile, che sicuramente figurerà tra i dischi blues dell’anno.

Marco Verdi

Un Ottimo “Esordio” Per Due Promettenti Ragazze! Shelby Lynne & Allison Moorer – Not Dark Yet

shelby linne & allison moorer not dark yet

Shelby Lynne & Allison Moorer – Not Dark Yet – Silver Cross/Thirty Tigers CD – 18-08-2017

Non tutti sanno che Shelby Lynne ed Allison Moorer, oltre ad essere due belle ragazze (anzi donne, dato che vanno entrambe per la cinquantina) e due brave cantautrici, sono anche sorelle: infatti il nome completo della Lynne è Shelby Lynn Moorer http://discoclub.myblog.it/2010/05/19/un-disco-di-gran-classe-shelby-lynne-tears-lies-and-alibis/ . A parte queste considerazioni di parentela, le due musiciste hanno sempre condotto due carriere parallele, con alterne soddisfazioni e senza mai neppure rischiare di diventare delle superstars al livello, per esempio, di una Trisha Yearwood o di una Reba McEntire: troppa qualità nella loro musica, e troppo poche concessioni al pop che a Nashville spacciano per country, anche se la Lynne qualcosa negli anni, ad inizio carriera, ha concesso (ed infatti ha venduto più della sorella, che ha sempre mantenuto la barra dritta, proponendo un country di stampo cantautorale di ottimo livello http://discoclub.myblog.it/2015/04/02/pene-damor-perduto-ritorno-alle-origini-del-suono-allison-moorer-down-to-believing/ ). Un disco insieme però non lo avevano mai fatto, almeno fino ad ora: Not Dark Yet è infatti il primo album di duetti delle due sorelle, che hanno deciso per questo loro “esordio” di riporre le rispettive penne (tranne in un caso) e di omaggiare una serie di autori da loro amati, scegliendo nove brani molto eterogenei, canzoni di provenienza non solo country, ma anche rock, folk e addirittura grunge (e privilegiando titoli tutt’altro che scontati), arrangiando il tutto in maniera raffinata e con sonorità pacate, gentili e meditate, a volte quasi notturne, con le due voci al centro di tutto ed un accompagnamento sempre di pochi strumenti.

E per quanto riguarda la scelta dei musicisti sono state fatte le cose in grande: la produzione è infatti nelle mani del bravo Teddy Thompson (figlio di Richard e Linda), che ha riunito una superband formata da Doug Pettibone e Val McCallum alle chitarre (entrambi a lungo con Lucinda Williams), Don Heffington e Michael Jerome alla batteria, Taras Prodaniuk al basso e soprattutto il formidabile Benmont Tench (degli Heartbreakers di Tom Petty, ma che ve lo dico a fare?) protagonista in quasi tutti i brani con il suo splendido pianoforte, essenziale per il suono di questo disco, a volte quasi al livello delle voci delle due leader. Il resto lo fanno le canzoni e la bravura di Shelby ed Allison nell’interpretarle, a partire dall’iniziale My List, un brano della rock band di Las Vegas The Killers: non conosco l’originale, ma qui siamo di fronte ad una intensa ballata, intima e toccante, con le due voci che si alternano fino all’ingresso della band, momento in cui il suono si fa pieno e con il predominio di piano, chitarre ed organo, davvero una bellissima canzone. Every Time You Leave è un brano dei Louvin Brothers, affrontato in modo classico, voci all’unisono ed arrangiamento di puro ed incontaminato stampo country, sullo stile del trio formato da Emmylou Harris, Dolly Parton e Linda Ronstadt, ancora con uno splendido pianoforte; Not Dark Yet è una delle più grandi canzoni degli ultimi vent’anni di Bob Dylan, ed è materia dunque pericolosa: le due ragazze scelgono intelligentemente di non variare più di tanto l’arrangiamento, lasciando il mood malinconico dell’originale ma rendendo l’atmosfera meno cupa ed accelerando leggermente il ritmo.

E poi una grande canzone, se sei bravo, resta sempre una grande canzone. I’m Looking For Blue Eyes è un’altra intensa slow ballad scritta da Jessi Colter, ancora con piano, chitarra e le due voci in gran spolvero; splendida Lungs, di Townes Van Zandt, una western tune perfetta per le due sorelle, con lo spirito del grande texano presente in ogni nota, un uso geniale del piano e l’atmosfera tesa e drammatica tipica del suo autore, mentre The Color Of A Cloudy Day è il brano più recente della raccolta, essendo del duo marito e moglie Jason Isbell/Amanda Shires, ed è l’ennesima bellissima canzone del CD, anzi direi una delle più belle, con una melodia di cristallina purezza: complimenti per la scelta. Silver Wings di Merle Haggard è forse la più nota tra le cover presenti, e le Moorer Sisters la trattano coi guanti di velluto, mantenendo arrangiamento e melodia originali ma aggiungendo il loro tocco femminile, mentre Into My Arms è una sontuosa ballata di Nick Cave (apriva il bellissimo The Boatman’s Call), riproposta con grande classe e finezza, e con una dose di dolcezza e sensualità che obiettivamente al songwriter australiano mancano. Il CD, che è quindi tra le cose migliori delle due protagoniste, si chiude con una sorprendente Lithium dei Nirvana, che è il brano più elettrico della raccolta anche se siamo distanti anni luce dal suono di Cobain e soci (ed è comunque la scelta che mi convince meno), e con Is ItToo Much, unico brano nuovo scritto dalle due, un pezzo notturno e suggestivo il cui suono a base di chitarra sullo sfondo e pianoforte cupo fa venire in mente le atmosfere di Daniel Lanois: un finale che, oltre a confermare la bontà del disco, dimostra che se volessero le due sorelle potrebbero bissare con un intero album di brani autografi dello stesso livello.

Esce il 18 Agosto.

Marco Verdi

Uno Splendido Omaggio Al Country Texano Anni Settanta. Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw

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Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw – Warner CD – Deluxe CD/DVD

Dopo il piacevole ma piuttosto disimpegnato disco di duetti con Shawn Colvin di un anno fa http://discoclub.myblog.it/2016/06/21/buon-debutto-nuovo-duo-shawn-colvin-steve-earle-colvin-earle/ , torna Steve Earle con uno degli album più belli della sua ormai più che trentennale carriera. So You Wannabe An Outlaw è un CD di brani originali che, come lascia intuire il titolo, è anche un sentito tributo ad una certa musica country texana dei seventies, meglio conosciuta come Outlaw Music, che aveva i suoi massimi esponenti in Willie Nelson, Waylon Jennings e Billy Joe Shaver, un country robusto ed elettrico e non allineato con i precisi dettami commerciali di Nashville. Ma questo album è anche un omaggio di Steve alla sua gioventù, ed ai suoi primi passi come songwriter, quando venne preso dal grande Guy Clark sotto la sua ala protettiva (e Guy viene ricordato in una delle canzoni più intense del disco). Dal punto di vista sonoro So You Wanna Be An Outlaw è il lavoro più country di Earle da moltissimi anni a questa parte, se escludiamo il disco The Mountain inciso con la Del McCoury Band (che però era molto più legato ai suoni folk appalachiani), ed è forse il primo album a ricollegarsi direttamente ai due suoi fulminanti dischi d’esordio, Guitar Town ed Exit 0. Il suono è robusto, con Waylon come influenza principale, la produzione è dell’ormai inseparabile Richard Bennett, e la band che lo accompagna, oltre a qualche ospite che vedremo, sono i fedeli Dukes, che nella formazione attuale comprendono Chris Masterson alla chitarra solista, Eleanor Whitmore al violino e mandolino, Kelley Looney al basso, Brad Pemberton alla batteria, Ricky Ray Jackson alla steel e Chris Clark alle tastiere e fisarmonica.

E le canzoni di Steve sono, ripeto, tra le migliori che il nostro ha messo su CD da molti anni a questa parte, cosa ancora più significativa dal momento che il musicista texano d’adozione fa parte di quella ristretta schiera di artisti che non ha mai sbagliato un disco. L’album inizia benissimo con la title track, robusta country song che fa molto Waylon & Willie, in cui Earle fa la parte di Jennings e Willie Nelson fa…sé stesso, accompagnati dai Dukes in maniera energica con grande uso di steel e violino, ma anche di chitarre elettriche. Molto bella anche Lookin’ For A Woman, tempo cadenzato, melodia fluida e solare, voce del nostro leggermente arrochita e solito gran gioco di chitarre https://www.youtube.com/watch?v=eaj4iv58s0E ; The Firebreak Line è un delizioso rockabilly elettrico, gran ritmo e Steve pimpante come non lo sentivo da anni, mentre News From Colorado è una delicata ballata di stampo acustico (scritta assieme all’ex moglie Allison Moorer), dominata dalla voce imperfetta ma vissuta del leader. La tonica If Mama Coulda Seen Me ha poco di country, in quanto è un rock’n’roll tra il Texas e gli Stones, anche se il motivo sembra davvero uscire dalla penna di Waylon, Fixin’ To Die non è il classico di Bukka White ma un brano originale dallo stesso titolo, ed anche qui la base è blues, ma ad alta gradazione rock, di sicuro il pezzo meno in linea con le atmosfere del disco, mentre This Is How It Ends è un duetto con Miranda Lambert (che è anche co-autrice del brano), una squisita country ballad dal ritmo spedito e melodia cristallina, tra le più belle del CD.

The Girl On The Mountain, ancora lenta ed intensa, e con violino e steel più languidi che mai, precede due scintillanti honky-tonk, You Broke My Heart (con Cody Braun dei Reckless Kelly al violino) e la più elettrica Walkin’ In L.A., nella quale partecipa il leggendario countryman texano Johnny Bush con il suo vocione, due pezzi decisamente riusciti e godibili, che verrebbero approvati anche da uno come Dwight Yoakam. Il country elettrico di Sunset Highway, il più vicino come suono ai primi due album di Steve, ed il toccante e sentito omaggio a Guy Clark di Goodbye Michelangelo, chiudono positivamente il CD “normale”: sì, perché esiste anche una versione deluxe che, oltre ad un DVD aggiunto (con dentro il making of, il videoclip della title track ed un commento canzone per canzone da parte di Steve), presenta quattro brani in più, quattro cover scelte appunto nel repertorio dei tre più famosi Outlaws citati prima, ovvero Waylon, Willie e Shaver. Di quest’ultimo Steve propone Ain’t No God In Mexico, mentre di Nelson vengono scelte le poco note Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint (unite in medley), e l’altrettanto oscura Local Memory, mentre di Waylon abbiamo la famosa Are You Sure Hank Done It This Way, rifatta alla grande da Steve, con spirito da vero rocker. L’ho già detto ma è doveroso ripeterlo: So You Wannabe An Outlaw è un grande disco, uno dei migliori di sempre di Steve Earle.

Marco Verdi

Non Più Solo Countryman, Ma Un Songwriter Completo! Hayes Carll – Lovers And Leavers

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Hayes Carll – Lovers And Leavers – Highway 87/Thirty Tigers CD

Con cinque dischi in quindici anni, non si può certo dire che Hayes Carll, singer-songwriter texano, sia uno che inflazioni il mercato discografico. Dopo i due album di esordio, nei quali aveva fatto già intravedere buone qualità (specie nel secondo, Little Rock), è con lo splendido Trouble In Mind del 2008 che il nostro si rivela come uno dei più dotati talenti in campo alternative country, con un disco di ottime canzoni in perfetto stile Americana, condite da testi contraddistinti da uno spiccato senso dell’ironia, un lavoro bissato tre anni dopo dall’altrettanto valido KMAG YOYO, altro CD molto country-oriented che non faceva che confermare quanto di buono Carll aveva mostrato in precedenza.

Ora, a ben cinque anni di distanza, Hayes torna tra noi con Lovers And Leavers, che segna un deciso cambiamento di registro: un lavoro molto meno country e più folk, nel quale il nostro predilige le ballate ed i pezzi più riflessivi, ma da un certo punto di vista migliora anche la qualità della sua proposta: Lovers And Leavers ci mostra infatti un autore definitivamente maturato, che ha una perfetta padronanza della materia e sa come fare un album intero di sole ballate senza annoiare neppure per un attimo. In più, Hayes ha scelto come produttore uno dei migliori sulla piazza, Joe Henry, che fa al solito un ottimo lavoro e si conferma perfetto per un certo tipo di sonorità, cucendo attorno alla voce del nostro pochi strumenti, centellinando gli interventi, e mettendo in risalto le melodie piene di fascino dei dieci brani presenti. Anche la band che accompagna Carll è frutto di una attenta selezione: oltre a Hayes stesso che suona la chitarra acustica, troviamo il fedelissimo (di Henry) Jay Bellerose alla batteria, che come di consueto fa un lavoro raffinatissimo e mai invasivo, l’ottimo Tyler Chester al piano ed organo, David Piltch al basso ed Eric Heywood alla steel; avrete notato l’assenza assoluta di chitarre elettriche, ma devo dire che durante l’ascolto del CD quasi non ci si fa caso.

Dulcis in fundo, Hayes ha scritto i pezzi di questo disco con alcuni personaggi a noi ben noti, dal famoso countryman Jim Lauderdale, ai meno conosciuti ma non meno validi Darrell Scott e Will Hoge, passando per Jack Ingram, l’ex signora Earle, Allison Moorer e, in Jealous Moon, addirittura J.D. Souther. Drive inizia soffusa, con un arpeggio chitarristico ed una leggera percussione, e la voce di Carll ad intonare una melodia molto folk, un brano puro con un bel crescendo emozionale. E la mano di Henry si sente già. Molto bella Sake Of The Song, un pezzo tra folk e blues dal motivo coinvolgente, ritmo cadenzato ed ottimi fills di piano, steel ed organo, mi ricorda curiosamente certe cose dei Kaleidoscope (un grandissimo gruppo oggi purtroppo totalmente dimenticato dove suonavano David Lindley Chris Darrow): grande canzone. Anche Good While It Lasted è dotata di un pathos notevole, pur avendo tre strumenti in croce intorno alla voce particolare del leader: è proprio da brani come questo che si comprende la crescita esponenziale del nostro come autore, e la scelta di Henry, un maestro della produzione “per sottrazione”, si rivela vincente.

You Leave Alone ha l’andatura di una country ballad, ma anche qualche vaga somiglianza con Deportee di Woody Guthrie: voce e poco altro, ma che feeling; My Friends ha un suono più pieno, con punti in comune con il country “cosmico” di Gram Parsons, il passo è sempre lento ma non ci si annoia per niente; The Love That We Need, scritta a sei mani con Ingram e la Moorer, è in effetti una delle migliori del CD, con la sua melodia splendida e grande uso del piano, una ballata sontuosa. La tenue e “sotto strumentata” Love Don’t Let Me Down precede The Magic Kid, altra folk song purissima e dal solito accompagnamento pulito e di gran classe. Il dischetto termina con Love Is So Easy, molto John Prine primo periodo (testo ironico compreso) e graditi riff di organo stile sixties, e con Jealous Moon, chiusura malinconica e poetica per un album davvero notevole.

Ottime canzoni, musicisti di valore e produzione perfetta: Hayes Carll ormai è uno dei “nostri”.

Marco Verdi