Recuperi Di Fine Anno 3: Una Vena D’Oro Tutt’Altro Che Esaurita. Bill Callahan – Gold Record

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Bill Callahan – Gold Record – Drag City

Bill Callahan, meglio conosciuto ad inizio carriera con lo pseudonimo Smog, è un tesoro prezioso da conservare o da scoprire, per chi ancora non ha avuto la fortuna di conoscerlo. Presentatosi sulla scena alla fine degli anni ottanta, quando cominciava a farsi strada la tendenza del lo-fi tra i cantautori e i gruppi del rock alternativo americano (Beck o i Pavement, tanto per citare due nomi noti), Bill ha subito trovato modo di farsi apprezzare da pubblico e critica grazie ai suoi acquerelli minimalisti che scavano a fondo nell’animo umano portandone alla luce i recessi più cupi in cui dominano angoscia ed alienazione, facendo uso di un tessuto sonoro scarno ma originale, basato perlopiù su fraseggi nervosi delle chitarre. Dopo undici album a nome Smog (e vari EP) Callahan decide di continuare ad incidere col suo nome senza per questo stravolgere la sua concezione musicale, fino alla lunga pausa che va da Dream River del 2013 all’ottimo ritorno nel 2019 con Shepherd In A Sheepskin Vest.

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Photo by Hanly Banks Callahan

Durante questa pausa creativa si è sposato con la fotografa e regista Hanly Banks ed è diventato padre, due eventi che hanno modificato in modo sensibile il punto di vista dei protagonisti delle sue storie, non più ingabbiati nell’ individualismo dettato dalla loro solitudine, ma finalmente inseriti in contesti in cui famiglia e vita sociale hanno una nuova e spiccata rilevanza. Il nuovo lavoro, Gold Record, ha avuto una gestazione del tutto particolare: nove canzoni su dieci sono stati pubblicate come singoli, con cadenza settimanale, a partire dallo scorso giugno, prima dell’uscita dell’intera raccolta, avvenuta all’inizio di settembre. Va anche detto che si tratta di brani composti in tempi diversi durante i trascorsi decenni e poi accantonati dal loro autore fino a questo definitivo restyling. Malgrado ciò il disco si presenta compatto e non dispersivo, dotato del consueto suono ridotto all’osso ma denso di piacevoli soluzioni grazie anche alla bravura dei musicisti che accompagnano il leader, il chitarrista Matt Kinsey, il bassista Jamie Zurverza e il batterista Adam Jones.

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In Hello, I’m Johnny Cash, con un incipit che cita volutamente quello di At Folsom Prison dell’uomo in nero, Callahan ci immerge subito nella suadente e rilassata atmosfera dell’iniziale Pigeons, tra deliziosi tocchi di chitarre e una tromba sullo sfondo che aggiunge solennità alla calda voce narrante del protagonista https://www.youtube.com/watch?v=PSv60b7PWpU . Impossibile non tracciare un parallelo col maestro Leonard Cohen per le due successive perle acustiche Another Song e 35. Come il grande e compianto canadese Bill possiede la capacità di rendere importanti e dense di significato le normali vicissitudini della vita quotidiana, come nella splendida The Mackenzies in cui racconta dell’incontro con i vicini di casa in seguito ad un suo problema con l’auto https://www.youtube.com/watch?v=hMMEUgts6i0 , oppure nell’intimo frammento di vita famigliare che è descritto in Breakfast https://www.youtube.com/watch?v=_kw6NHEVia4 .

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Con lenta cadenza blues, in Protest Song il suo autore descrive se stesso seduto in poltrona di fronte ad un collega che in tv si sforza di far approvare al pubblico i suoi inni di protesta, mentre il solare arpeggio della delicata Let’s Move To The Country (l’unico episodio già apparso in forma diversa su un album precedente, Knock Knock, del 1999) richiama certe luminose ballate del primissimo Bruce Cockburn https://www.youtube.com/watch?v=Em6BszKzA9o . Il fischiettio e il suono di tromba che ricompare nella lenta Cowboy ci trasportano in una dimensione atemporale ed è impossibile non apprezzare l’omaggio che Bill fa ad un altro gigante, Ry Cooder, nell’omonima ballata ricca di citazioni testuali, da Buena Vista a Chicken Skin https://www.youtube.com/watch?v=m74apAtI2X8 . Il finale è affidato all’intensa As I Wonder, poetica riflessione sulla propria vita e sulla professione del cantautore in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando. Bill Callahan ha saputo nobilitare l’una e l’altra con un disco importante per il mese in cui è stato pubblicato, ma addirittura perfetto per riscaldare le dure giornate di questo gelido inverno.

Marco Frosi

Ennesima Conferma Per Una Delle Migliori Band Rock Alternative Americane. Old 97’s – Twelfth

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Old 97’s – Twelfth – Ato Records CD LP

Come ci ricorda il titolo del disco, Twelfth è il dodicesimo disco in studio della band texana, ma se contiamo riedizioni potenziate, Live vari, dischi natalizi https://discoclub.myblog.it/2019/01/25/se-volete-celebrare-ancora-il-natale-in-ritardo-facendo-casino-old-97s-love-the-holidays/ , si superano abbondantemente le venti unità, senza contare gli otto dischi solisti di Rhett Miller, di cui uno pubblicato prima della nascita degli Old 97’s. Non male per un gruppo che viene considerato tra i fondatori del movimento alt-country negli anni ‘90, ma il cui genere Miller ha comunque preferito definire “loud folk”. Un’altra delle loro peculiarità è che hanno mantenuto sempre la stessa formazione degli esordi: Ken Bethea, chitarra solista e voce, Murry Hammond, basso e voce, Philip Peeples, batteria e appunto Rhett Miller, voce solista, chitarra ritmica, e autore della quasi totalità delle canzoni. Nella scorsa decade hanno avuto quasi tutti grossi problemi di salute, Peeples una frattura al cranio che ha fatto temere per la sua vita, Bethea, perdita di funzioni motorie con intervento alla spina dorsale, mentre Miller è riuscito dopo anni a risolvere i suoi problemi di alcolismo, Hammond tutto bene, grazie.

Se aggiungiamo che la registrazione del disco, partita la notte successiva al forte tornado che ha colpito Nashville ad inizio anno, si è trovata a fare i conti poi con la pandemia e il disco ha avuto quindi una genesi laboriosa. Il CD ha ricevuto ottime recensioni , con un paio di eccezioni dei soliti pignoli, e ci presenta la band alle prese con il loro classico R&R venato di alt-country, o viceversa se preferite; al sottoscritto sembra un ottimo album, del tutto degno del predecessore Graveyard Whistling, del quale mantiene il produttore, l’esperto Vance Powell. “Casualmente” nel disco ci sono 12 canzoni (ma 12 è anche il numero del Quarterback dei Dallas Cowboys Roger Staubach che appare sulla copertina), e sin dall’iniziale Dropouts le chitarre iniziano a ruggire, i ritmi sono elevati, Miller canta con brio, e le melodie sono accattivanti, gli argomenti trattati sono i soliti che girano intorno all’amore e le sue varie sfaccettature, magari aggiornati al fatto che i nostri veleggiano ormai sulla cinquantina e guardano agli errori del passato per correggerli, visto che Rhett ha compiuto i 50 anni proprio il 6 settembre, ma cercano di mantenere quell’eterno amore per power pop, rock, qualche reminiscenza di cow punk che da sempre li caratterizza, Forever Young cantava qualcuno.

Annie Crawford all’harmonium, Eleanor Denig al violino e agli arrangiamenti degli archi e Cara Fox al cello, aggiungono un tocco raffinato ad alcuni brani; This House Got Ghosts ha un vago sentore garage-psych con elementi di rock britannico fine anni ‘70, Turn Off The TV, il singolo, cita T.Rex, Pixies e Kids, in un euforico power pop che riporta ai tempi migliori, con chitarre sbarazzine e ripetute, mentre I Like You Better è più riflessiva e mi ha ricordato i Kinks americani” di inizio anni ‘70, anche per il cantato disincantato (se mi passate il bisticcio) di Miller, e le chitarre tintinnanti, Happy Hour, non credo dedicata agli amanti della movida, è cantata dal bassista Murry Hammond, con chitarrone twangy e richiami al country punk meno frenetico, misti a sonorità spaghetti western. Belmont Hotel è una bella ballata malinconica a tempo di valzer con uso di archi, mentre Confessional Boxing, con chitarre vivaci e pungenti, e ritmi accelerati, è un R&R vibrante come nella migliore tradizione degli Old 97’s.

Molto bella anche Diamonds On Neptune, tra jingle-jangle alla Tom Petty e il Bowie del periodo Ziggy Stardust, con un bel florilegio di chitarre che si rispondono dai canali dello stereo, mentre Miller ci ricorda che lui è You know I’m always on the move. Leavin’ is what I do, I go from neon sign to neon sign”, seguita dalla speranzosa e quasi esultante Our Year, un’altra delle canzoni migliori dell’album, con un notevole lavoro della chitarre. Bottle Rocket Baby è forse una astuta citazione dei loro compagni di avventura durante il massimo splendore dell’alt-rock? Dal ritmo galoppante e dalle sferzate della chitarra di Bethea potrebbe anche essere; Absence (What We’ve Got) è una deliziosa ed elegante love song dai retrogusti pop, sempre cantata da Rhett, che lascia a Hammond il compito di concludere l’album con la propria Why Don’t We Ever Say We’re Sorry?, acustica e confessionale., solo una chitarra e l’armonium.

Bruno Conti

Un Nuovo Gruppo “Alternativo” Sotto Il Cielo Di Nashville. Country Westerns – Country Westerns

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Country Westerns – Country Westerns – Fat Possum Records – CD – LP

In questi mesi di forzato “lockdown”, consultando in rete le varie piattaforme musicali, mi è tornata la sottile voglia di accostarmi a nomi e gruppi minori del panorama musicale americano, con la tentazione ed il desiderio di scoprire il nuovo “fenomeno”, con la speranza di sottoporlo al pubblico degli appassionati (e lettori), magari per farne oggetto di culto. Oltretutto spesso la difficile reperibilità dei CD (ultimamente ne abbiamo recensiti alcuni), e degli autori di volta in volta scoperti, aumenta la curiosità ed il gioco di complicità che ne scaturisce, se poi capita che in rete si leggano le recensioni mesi prima della effettiva uscita, come nel caso di questo album, aumenta la confusione. Fatta dunque questa onesta precisazione, mi permetto e vorrei consigliare l’ascolto dei Country Westerns, un solido trio rock di Nashville (nato quasi per caso) composto dal cantante, autore e chitarrista Joseph Plunket (ex membro della band The Weight), dal batterista Brian Kotzur (ha suonato nei grandissimi Silver Jews del compianto David Berman), completala line-up la violinista e bassista Sabrina Rush, il tuttp per un debutto registrato tra gli Studios di Brooklyn e Nashville, con la produzione di Matt Sweeney (Bonnie “Prince” Billy) e, cosa non trascurabile, grazie a un contratto con la Fat Possum Records (importante etichetta indipendente).

Consultando, come appena riportato, le poche recensioni in merito a questo esordio, e di riflesso i commenti degli addetti ai lavori, si percepisce chiaramente che i Country Westerns (chiariamo subito che il nome della band non corrisponde al genere che fanno), di volta in volta vengono accostati al altri gruppi importanti del settore, e questo mi consente di fare un giochino, sviluppare i brani “track by track” segnalando in coda l’artista di riferimento:

AnytimeL’inizio è folgorante, con le chitarre in spolvero che accompagnano la voce passionale e ruvida del cantante Joseph Plunket, brano che ricorda il primo periodo dei Lucero di Ben Nichols.

It’s Not Easy – Altro brano chitarristico con un “drumming” dinamico che detta il ritmo, per una musica robusta e accattivante, che sembra quasi essere suonata dai Replacements di Paul Westerberg.

Guest Checks – Questo pezzo invece è completamente diverso, mette in mostra “intriganti” sonorità in stile anni ‘80, cantato coralmente dal trio, rimanda al Prince che duettava con Apollonia (!?!), ma in meglio.

I’m Not Ready – Altro inizio fulminante con la sezione ritmica galoppante, per un rock’n’roll diretto che arriva diritto al cuore, e che non può non ricordare la band di Brooklyn degli Hold Steady.

Gentle Soul – Arriva anche il momento di una sorta di ballata rock, dove trovano posto meravigliosi “licks” di chitarra, cantata con grinta da Plunket, e che rimanda alla storica band di Young i Crazy Horse.

It’s On Me – Altro giro, altra corsa, ritornano le chitarre “distorte” del gruppo a creare un suono particolare, con assoli tirati e acidi, marchio di fabbrica dei grandi Dream Syndicate di Steve Wynn.

Times To Tunnels – Questo è il brano più “folk-rock” del disco, dove spiccano anche piacevoli armonie vocaie, e qui è fin troppo facile accostarli ai migliori Whiskeytown di Ryan Adams.

TV Lights – Questa traccia ricalibra la band verso una sorta “punk-rock”, dove il basso della Rush tira la canzone, con un frastuono di voci in sottofondo, tipico del punk californiano degli X di John Doe.

Close To Me – Tipica canzone “pop-rock” che prima o dopo entra nel repertorio di ogni band che si rispetti, in questo caso la mente e il cuore viaggiano verso il Texas dei misconosciuti Slobberbone.

Slow Nights – Altra moderna ballata rock chitarristica, perfetta per le atmosfere malinconiche e piovose di Seattle (dove è nato il genere grunge), che ricordano certe canzoni dei Walkabouts.

Two Characters In Search Of A Country Song – Si chiude con una “cover” dei Magnetic Fields, un sentito omaggio a Stephin Merritt per la canzone più “country” dell’album, in una versione comunque da Country Westerns.

Il successo di una band si basa sulle proporzioni, e adesso terminato il “giochino”, è ora di dare il giusto merito a questi Country Westerns, in quanto anche se in fondo non fanno nulla di nuovo, c’è una certa abilità in questo trio nell’amalgamare i suoni che prende in prestito, con la spavalderia e la bravura di Plunket, il drumming metronomico di Kotzur, e il basso armonico della Rush, che riescono a creare canzoni rock estremamente accattivanti, con un perfetto bilanciamento tra un mix composto da rock stradaiolo, grunge, punk anni ’70, e il miglior “blue collar rock” (quello per intenderci di Joe Grushechy e i suoi Houserockers). Se ci fosse un solo CD di questo “genere” per il quale dovessi decidere di spendere i miei (svalutati) euro, non avrei alcun dubbio.

L’album è uscito ieri. Meritevole di ascolto!

Tino Montanari

Un Gruppo Di Texani Anomali. The Vandoliers – Forever

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Vandoliers – Forever – Bloodshot Records

Sono in sei, vengono dal Texas,  ma incidono per una etichetta di Chicago, la Bloodshot, e il disco è stato registrato in quel di Memphis. Forever è il terzo disco dei Vandoliers, band proveniente dall’area di Dallas/Forth Worth, e come molti gruppi sotto contratto con la Bloodshot il loro genere ha comunque strette parentele con lo stile alternative e punk frequentato da gruppi come gli Old 97’s, i Mekons, ma anche pescando nel passato, Jason And The Scorchers, oppure su lato più vicino al folk arrabbiato, i Dropkick Murphys. Il leader dei Vandoliers Joshua Fleming, ha anche raccontato di una recente passione per la musica country, e per Marty Stuart nello specifico, sviluppata durante un periodo di riabilitazione da un infezione alla vista, passata guardando lo show televisivo di quest’ultimo. Tutto questo quindi ci porta al fatidico cow-punk, termine abbastanza” inflazionato” che comprende influenze country, alternative rock, ovviamente punk, ma anche elementi di roots music e Americana, insomma un calderone dove confluisce un po’ di tutto.

In America hanno ricevute molte definizioni lusinghiere: dai Pogues americani, a un incrocio trai Calexico e Dropkick Murphys, ma anche Tex-Mex punk e via discorrendo. Ascoltando il loro disco tutto torna, queste influenze e rimandi naturalmente ci sono, aiutati da una formazione che affianca una sezione ritmica particolarmente grintosa ed un chitarrista diciamo energico come Dustin Fleming, che non è parente di Joshua, alla presenza di un violinista, Travis Curry e di un multistrumentista come Cory Graves, tastiere ma anche tromba, per cui tutte le suggestioni sonore poc’anzi ricordate ci sono,  per carità niente di straordinario, comunque si apprezzano almeno freschezza e vivacità confortanti per chi ama il genere. Joshua Fleming ha la classica voce vissuta e roca, temprata dal passato punk, mitigata da questa “nuova” commistione con stili meno roboanti: ecco allora il Red Dirt country energico dell’iniziale Miles And Miles, dove il violino guizzante di Curry si affianca alle chitarre ruvide e alla voce scartavetrata di Fleming, per un brano che potrebbe rimandare anche ai Gaslight Anthem https://www.youtube.com/watch?v=3eiTD0BkBbs. La galoppante Troublemaker, con il suo ritmo incalzante e la voce sgangherata ricorda appunto quasi dei Pogues  in trasferta sui confini messicani, con violino e tromba ad animare le influenze folk e tex-mex immerse in un punk barricadero. Trombe che imperversano anche in All In Black, altro brano energico, con una chitarra twangy a ricordarci i vecchi Jason And The Scorchers: insomma tutta roba già sentita, piacevole ma nulla più.

Fallen Again è nuovamente border music, non particolarmente innovativa ma con qualche spunto sonoro più interessante, a voler essere benevoli. Sixteen Years con trombe mariachi che si innestano su una base di rock americano blue collar, e con la voce urgente di Fleming e la chitarra dell’altro Fleming a menare le danze, è sempre gradevole, ma non travolgente; Shoshone Rose potrebbe ricordare un Popa Chubby (anche per il tipo di voce) convertito ad un roots-rock di stampo ’70’s e Bottom Dollar Baby vira verso un “countrabilly” più frenetico, di nuovo in bilico tra Messico e chitarre twangy. E non manca neppure una ballata “ruffiana” come Cigarettes And Rain, che comunque non dispiace, un pezzo di chiaro stampo southern, che però mi sembra sincero e partecipe, bella melodia corale e anche l’interpretazione dei due Fleming è efficace, con il violino che torna a farsi sentire; Nowhere Fast ci scaraventa di nuovo verso la frontiera con il Messico, anche se poi il sound vira verso un rock mainstream quasi radiofonico, se le emittenti FM contassero ancora. A chiudere arriva Tumbleweed, altra ballatona country-folk eletroacustica di impianto vagamente celtico, grazie al solito violino che interagisce con una chitarra elettrica più lirica del solito https://www.youtube.com/watch?v=LhLhC9TTgSc . Abbiamo già sentito tutto, ma essendoci in giro decisamente molto di peggio, diciamo sufficienza risicata con riserva.

Bruno Conti

Una Band Decisamente Anomala, Ma Interessante. Dr. Dog – Critical Equation

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Dr. Dog – Critical Equation – We Buy Gold/Thirty Tigers                

Del quintetto di Philadelphia non si è mai capito esattamente che genere facessero: i Dr. Dog sono stati etichettati di volta in volta come indie-rock, alternative rock, neo psichedelia morbida, anche pop e jam rock, e probabilmente contengono nella loro musica, sparsi. un po’ di tutti questi elementi , quindi diciamo che l’unico elemento certo di questo Critical Equation è che si tratta del loro decimo album https://www.youtube.com/watch?v=rklOPchnf6o . Forse la band a cui si possono avvicinare di più sono i My Morning Jacket, anche loro sfuggenti e difficili da etichettare, oltre a cambiare spesso nei loro dischi, anche in base al fatto che fossero più o meno riusciti. Prodotto e registrato in quel di L.A. da Guy Seyffert, recente collaboratore di Roger Waters, e che ha lavorato in passato con decine di solisti e band, i più disparati, il nuovo disco dei Dr. Dog ha avuto critiche molto differenziate: Uncut e American Songwriter ne hanno parlato benissimo, Q e altri siti di musica sono stati più tiepidi, o ne hanno parlato addirittura negativamente. Diciamo che forse, come ci insegnano da sempre i latini, la verità sta nel mezzo: un buon album complessivamente, senza particolari levate d’ingegno ma neppure cadute di stile evidenti, alla lunga si apprezza.

La band è una sorta di “democrazia” in cui i brani sono attribuiti ai diversi componenti, ma Scott McMicken, e Toby Leaman, i due fondatori, sono i principali autori, che si alternano comunque con Zach Miller, Frank McElroy e Eric Slick ai diversi strumenti, per cui troviamo accreditati due batteristi, due bassisti e così via, e pure a livello vocale intervengono un po’ tutti per creare piacevoli armonie globali, anche se la voce guida è quella di McMcMicken. Per cui alla fine il sound ha tutte le sfumature indicate poc’anzi: l’iniziale pigra e ciondolante Listening In, ha un’aria più pop e elegante, quasi “pensierosa” magari non definita del tutto, con le voci filtrate e chitarre e tastiere a segnare il territorio, pur se si apprezzano alcuni cambiamenti di tempo nella struttura della canzone. Go Out Fighting, dopo la solita partenza interlocutoria assume una andatura decisamente più rock, con la voce vagamente Lennoniana anni ’70, sottolineata da piacevoli armonie, che lasciano poi spazio ad un intervento quasi acido e psych della solista che si fa largo nel sound collettivo; Buzzing In the Light ha nuovamente qualche elemento beatlesiano nella costruzione della melodia e negli intrecci vocali, anche se il sound è decisamente più contemporaneo ed indie, morbido, sognante e godibile, mentre Virginia Please è più vivace e mossa, forse qualche eccesso nell’uso delle tastiere, ma non dispiace https://www.youtube.com/watch?v=aAF8KBglcIY .

Critical Equation è nuovamente riflessiva e ricercata, una delicata ballata con i giusti equilibri tra pop raffinato e di gran classe e la ricerca di melodie sempre molto centrate, con interventi misurati della chitarra https://www.youtube.com/watch?v=p4YAJ7rLOy4 . Qualcuno ha citato anche rimandi a band come Cheap Trick e Steve Miller Band che hanno sempre cercato di mediare tra pop e rock: l’orecchiabile True Love ne è un buon esempio, un pezzo rock, dove probabilmente la presenza di Seyffert ha contribuito ad arrangiamenti più complessi e ricercati, con Heart Killer che accelera ulteriormente i tempi, sempre con rimandi a band e solisti che maneggiano in modo brillante pop e rock, potremmo ricordare gli Squeeze o Nick Lowe, ma pure i citati My Morning Jacket. La lunga Night parte acustica e poi si trasforma in una brillante ballata melodica, dove forse si sarebbero potuti evitare gli eccessivi interventi del synth, che però non rovinano il fascino del brano. Intricati effetti vocali ci portano a Under The Wheel il pezzo che rimanda di più alla Steve Miller Band fine anni ’70 ricordata prima, tra chitarre e ritmi rock molto coinvolgenti. Chiude Coming Out Of Darness, che come l’iniziale Go Out Fighting non mi convince, forse sarà l’uso eccessivo del falsetto o un sound troppo turgido, ma per il sottoscritto non funziona, pur non inficiando il giudizio complessivo del disco che, come detto all’inizio, è positivo.

Bruno Conti

Il Ritorno Di Una Delle Migliori Band “Alternative” Americane. Buffalo Tom – Quiet And Peace

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Buffalo Tom – Quiet And Peace – Schoolkids Records – Deluxe Edition

Il nome di Bill Janovitz presumo forse non dica molto ai “non addetti ai lavori”, ma se abbinato a quello dei Buffalo Tom, acquista tutto un altro significato. I Buffalo Tom infatti nascono sul finire degli anni ’80, quando tre ragazzi di Boston cominciano a suonare insieme (Bill Janovitz alla chitarra e voce, Tom Maginnis alla batteria, e Chris Colbourn al basso), ispirandosi al rock alternativo dell’epoca e in modo particolare a band come Husker Du, Pixies, e Dinosaur Jr. (forse quelli più vicini alle loro tematiche musicali). Uno degli incontri fondamentali è proprio con il leader dei Dinosaur Jr. J.Mascis, produttore dell’ omonimo album d’esordio Buffalo Tom (88), che unisce forte rumore e melodia in pieno stile Husker Du, stesse prerogative che si colgono nel seguente Birdbrain (90), mente in Let Me Come Over (forse il loro vertice artistico (92), le coordinate sonore iniziano ad ampliarsi verso una forma di “americana” più fruibile. Tali caratteristiche vengono espresse pienamente nel seguente e in parte interlocutorio Big Red Letter Day (93), mentre il seguente Sleepy Eyed (95) recupera l’energia dei lavori precedenti, per poi arrivare al “classic rock” di Smitten (98) che termina una prima fase di carriera.. Dopo una pausa di ben nove anni durante i quali Janovitz decide di intraprendere una propria carriera solista, i Buffalo Tom ritornano con materiale inedito in sala di registrazione con Three Easy Pieces (07, un onestissimo disco di “alternative-rock” americano, che viene bissato con il seguente Skin (11), che si può considerare un vero e proprio punto di ripartenza, confermato dopo un’altra pausa di sette anni con questo inaspettato nuovo lavoro Quiet And Peace, che arriva “casualmente” all’incirca nel 25° anniversario del mai dimenticato Let Me Come Over (come detto pietra miliare della loro discontinua carriera).

Il nuovo disco di Janovitz e soci è stato registrato presso i Woolly Mammoth Studios in quel di Waltham (Massachusets), studi di proprietà di David Minehan  (produttore  del disco ed ex leader dei Neighborhoods), con il mixaggio affidato a John Agnello (Kurt Vile, Sonic Youth, Hold Steady tra gli altri). Il lavoro, che ha avuto una lunga gestazione, visto che doveva uscire nel 2017, si apre con l’”alt-rock” classico di All Be Gone, un brano puramente in stile primi Buffalo Tom, con il suono familiare e palpipante della chitarre di Janovitz, a cui fanno seguito la deliziosa Overtime che sembra uscita dai solchi dei mai dimenticati Jayhawks, per poi passare alla chitarristica e vibrante Roman Cars, e alla bellissima Freckles dal ritmo incessante e impareggiabile. Si prosegue con il groove nevrotico di Catvmouse, per poi ritornare ai ritmi incalzanti, frenetici e coinvolgenti di Lonely Fast And Deep (con “riff” chitarristici alla J.Mascis dei Dinosaur Jr.), senza dimenticare di emozionare con due dolcissime ballata come See High The Hemlock Grows, cantata in duetto da Chris Colbourn e da Sarah Jessop, e una più elettrica In The Ice (la prima rimanda ai Counting Crows e la seconda ai Gin Blossoms).

Ci si avvia alla fine del viaggio con la galoppante e tambureggiante Least We Can Do, una intrigante Slow Down che dopo una apertura acustica, si sviluppa con un arrangiamento di chitarre noisy e voci da “rocker” selvaggi, e chiudere infine con una commovente interpretazione di una splendida cover di Simon & Garfunkel , la famosa The Only Living Boy In New York (dove appare la figlia di Janowitz alle armonie vocali). La Deluxe Edition comprende tre “bonus tracks” , la prima è una cover “arrapata” di un brano degli Who, The Seeker, seguita da una ballata acustica con tastiere e archi Saturday, cantata con trasporto da Colbourn, che si cimenta anche nella finale Little Sisters (Why So Tired), dove spicca un delizioso “riff” della chitarra di Janovitz.

Sulle scene da una trentina di anni, i Buffalo Tom sono una di quelle rare band capaci di catturarti fin dai primi ascolti e certamente nel tempo hanno sviluppato un suono che è un vero e proprio marchio di fabbrica (una sorta di “working class band”), e dopo sette anni sabbatici i “fans” del trio saranno sicuramente contenti per questo solido Quiet And Peace, che se non rappresenta un rinnovamento musicale è comunque il solito buon disco della band del Massachussets, ricco di canzoni di buona fattura, che ci assicurano una cinquantina di minuti assolutamente godibili e che non sfigurano con i tanti brani memorabili della loro discografia, pubblicata nei decenni precedenti, e per chi scrive i tre “graffiano” ancora il cuore.!

Tino Montanari

Una Splendida Seconda Carriera “Contromano”. Grant-Lee Phillips – Widdershins

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Grant-Lee Phillips – Widdershins – Yep Roc Records

Da qualche anno a questa parte questo signore non sbaglia un colpo, a partire diciamo da Walking In The Green Corn (12) http://discoclub.myblog.it/2012/12/30/un-cantastorie-nativo-americano-grant-lee-phillips-walking-i/ , seguito dall’ottimo The Narrows (16) http://discoclub.myblog.it/2016/03/24/grande-narratore-della-tribu-creek-grant-lee-phillips-the-narrows/ , sino ad arrivare a questo nuovo album solista Widdershins (il nono se non ho sbagliato il conto), e chiunque abbia ascoltato negli anni il suono della sua prima band The Shiva Burlesque, come pure dei mai dimenticati Grant Lee Buffalo, deve convenire che il buon Grant Lee Phillips, è uno dei migliori talenti espressi della scena “alternative rock” americana. Widdershins è stato registrato in soli quattro giorni a Nashville presso gli studi Sound Emporium, con la stessa e fidata sezione ritmica utilizzata da Phillips nel precedente The Narrows, composta dal bassista Lex Price, e da Jerry Roe alla batteria e percussioni (praticamente un trio con Grant Lee alle chitarre e tastiere), con l’apporto del tecnico del suono Mike Stankiewicz e mixato dal bravo e professionale Tucker Martine (uno che ha lavorato, tra i tanti, con  My Morning Jacket e Decemberists), per un lavoro prodotto e scritto interamente dallo stesso Phillips, album dove trovano spazio una manciata di brani, che riflettono i temi dell’attuale società americana.

La partenza con la “pettyana” Walk In Circles è quanto di meglio posso ricordare dai primi dischi dei citati Grant-Lee Buffalo, con squillanti chitarre “byrdsiane”, a cui fanno seguito la grintosa Unruly Mobs, la gentile e delicata King Of Catastrophes, per poi passare ad una robusta ballata in stile anni ’60 come Something’s Gotta Give, con un ritornello martellante. Si riparte con il rock di una trascinante Scared Stiff, il folk saltellante di una vivace Miss Betsy, viene anche riproposta la spina dorsale chitarre e batteria nel rock gagliardo di The Wilderness, e omaggiato ancora il “pop” anni ’60, con il ritmo regolare che accompagna Another, Another, Then Boom. Sentori di George Harrison si manifestano nella melodia di Totally You Gunslinger, per poi emozionare l’ascoltatore con la sua bellissima voce in una ballata folk-rock di spessore come History Has Their Number (perfetta per Neil Young), ritornare al rock teso e sincopato di una intrigante Great Acceleration, e chiudere con il grido “liberatorio” di una infuocata e tonificante Liberation.

Molto spesso (si dice) il terzo disco è quello cruciale, il più difficile, la famosa prova della verità, e questo era già successo prima con i Grant-Lee Buffalo dopo lo splendido album d’esordio Fuzzy, un seguito meno entusiasmante ma comunque riuscito come Mighty Joe Moon, arrivando al disco della maturità con il terzo Copperopolis. La stessa procedura si può applicare, se mi concedete la licenza, per quest’ultima parte di carriera solista dell’artista californiano (ma nativo americano), che completa questa “trilogia” musicale, che si sta rafforzando vieppiù, dopo il precedente The Narrows, con Phillips e i suoi “partner che” in questo Widdershins suonano come un perfetto “power trio”, dove la musica che si sprigiona dalle canzoni è piena di forza sonora e emotiva. In conclusione, i nostalgici dei Grant Lee Buffalo continueranno a sognare un passato forse irripetibile, ma per tutti gli altri in questi ultimi dischi c’è abbastanza materiale per innamorarsi ancora una volta di Grant-Lee Phillips. Splendido e consigliatissimo!

Tino Montanari