11 Canzoni Che Riscaldano Il Cuore: Veramente Un Gran Bel Disco ! Michael McDermott – Out From Under

michael mcdermott out from under

Michael McDermott – Out From Under – Appaloosa/Ird

La vicenda umana ed artistica di Michael McDermott è cosa abbastanza nota: un giovane di belle speranze, nato a Chicago, all’inizio degli anni ’90 inizia ad esibirsi nei club della sua città, viene notato dagli emissari delle majors  e messo sotto contratto dalla Giant/Reprise; il primo album 620 W. Surf (peraltro bellissimo), prodotto da Don Gehman e Brian Koppelman, viene accolto da critiche entusiaste che inneggiano al nuovo Dylan o Springsteen (anche Mellencamp, visto il produttore), il secondo,  Gethsemane, è quasi  altrettanto bello, e il terzo, l’omonimo Michael McDermott del 1996, pure. Le note del disco sono firmate da un fan di eccezione, Stephen King, che scrive di lui  “uno dei più grandi cantautori del mondo e forse il più grande talento non riconosciuto del rock’n’roll degli ultimi 20 anni”, che era una cosa tipo il “ho visto il futuro del R&R” usato per Springsteen. Il problema è che i suoi dischi vendevano a fatica 50.000 copie, ma McDermott era già entrato in una spirale di autocompiacimento ed eccessi, sesso, droga e R&R, misti a tanto alcol, che in poco tempo lo conducono sulla strada della rovina fisica ed emozionale. E lì rimane per lunghi anni, continuando a pubblicare dischi anche buoni, ma non più memorabili. Poi, quando gli anni duemila sono ormai da lungo una realtà, inizia una lenta riscossa morale, prima con due buoni dischi come Hey La Hey e Hit Me Back, generati anche dall’incontro con Heather Horton, collega cantautrice e violinista, che diventa sua moglie, formando una famiglia, e sposandosi in Italia a Ferrara nel 2009, matrimonio da cui nasce una figlia, Rain.

In Italia trova anche una etichetta, la Appaloosa, che gli pubblica i primi due ottimi dischi del suo gruppo collaterale, i Westies https://discoclub.myblog.it/2016/03/05/ho-visto-il-futuro-del-rocknroll-il-nome-michael-mcdermott-ovvero-dischi-cosi-springsteen-li-fa-piu-westies-six-on-the-out/ , che fanno da prologo all’eccellente Willow Springs, dal nome della località vicino a Chicago dove è andato a vivere nel frattempo, e dove ha costruito il suo studio di registrazione casalingo. Anche quel disco del 2016 è veramente splendido, ricco di canzoni dai testi che trattano spesso e volentieri  di “perdenti” come lui (quindi anche autobiografiche), umorali, ironiche, divertenti, sopra le righe, lucide, universali, ma allo stesso tempo personali, e che tratteggiano l’altra America, quella nascosta, dove i sentimenti sono comunque un fattore importante. Il tutto condito da musiche di grande pregio e fattura, dove rock, folk e piccoli tocchi celtici, convivono con scossoni elettrici di grande qualità. Naturalmente quanto detto finora vale anche per il nuovo Out From Under, che come i dischi precedenti riporta nel CD i testi, tradotti in italiano, dove si apprezza la sua prosa brillante, con spunti romantici e storie quasi ai limite dell‘incredibile, ma ciò nondimeno; verosimili: il protagonista dell’iniziale Cal-Sag Road si trova coinvolto in un terzetto erotico con due ragazze, Rita e Gwen, che alla fine delle canzone sono morte ammazzate entrambe e in fondo al lago, in un noir da incubo, quasi alla Tarantino, e che nelle parole di McDermott contiene molti elementi veritieri, fatti che gli sono successi, salvo i due omicidi. Il tutto inserito in uno splendido contesto musicale, un folk-blues-rock che ricorda Dylan ( o Eric Andersen, visto il timbro di voce di McDermott), Springsteen e il meglio della musica Americana, condita dalle chitarre del bravissimo Will Kimbrough, il basso del suo braccio destro Lex Price e la batteria di  Steven Gillis, le tastiere di John Deaderick e il violino e la voce di Heather Horton, per un brano atmosferico, cinematico ed incalzante, veramente pregevole.

La delicata e deliziosa Gotta Go To Work vira verso un country-folk-bluegrass di fattura superba, con chitarre acustiche, mandolini, banjo e violino che si incrociano con elementi blues, in un’altra canzone che conferma la ritrovata vena artistica e d’ispirazione di questo splendido cantautore, che se non è alla pari con i grandissimi citati all’inizio, veramente poco ci manca, appena un gradino sotto. Il rock elettrico e mosso della incalzante Knocked Down rimanda al sound roots-blue collar del miglior Mellencamp e la voce non è da meno, rauca e vissuta come poche altre in circolazione; Sad Songs è il classico rock and roll da sentire in macchina, con i finestrini  abbassati e a tutto volume, quelle canzoni che una volta Bruce Springsteen scriveva come un fiume in piena, e ora, salvo saltuarie eccezioni, fatica ad estrarre dalle sue corde, una road song di quelle goduriose, con chitarre elettriche spiegate, armonie vocali da sballo, come pure la voce potente, una bellissima melodia e un drive irresistibile. This World Will Break Your Heart rischia veramente di spezzartelo il cuore, con le sue storie tristi ed inesorabili, accompagnate da una melodia cristallina e struggente,  quasi elegiaca e ricca di grande partecipazione, sempre dalla parte di quei “perdenti”, umani e sofferenti, che McDermott tanto ama, il tutto condito solo da una chitarra acustica, un pianoforte, il contrabbasso di Price e poco altro, giusto qualche tocco di tastiere sullo sfondo, grande canzone. Il menu è variegato e complesso, ci sono anche canzoni di speranza come Out From Under, che nel libretto dei testi è stata tradotta come “Riemergeremo”, una esortazione a non mollare, a lottare, con un altro tema musicale molto springsteeniano, forse il tema sonoro è già sentito e un filo risaputo, ma non manca di grinta ed energia.

Celtic Sea è un’altra ballata notevole, in crescendo, con un arrangiamento avvolgente e dal suono corposo, con il violino in bella evidenza, come pure il piano e gli intrecci vocali, oltre alle chitarre acustiche ed elettriche che sottolineano la bella melodia della canzone. In Rubber Band Ring, uno dei brani più divertenti del disco, c’è la presenza inconsueta del sax suonato da Rich Parenti, che tanto ci ricorda il Boss innamorato delle sonorità  soul spensierate anni ’60, forse leggerina, ma tanto godibile, una vera boccata di aria fresca. Il motto di Michael McDermott, il suo manifesto programmatico, potrebbe essere Never Goin’ Down Again, una promessa più che una minaccia, un’altra canzone dallo spirito ardente e vibrante, anche un monito a tutti i “nuovi  Dylan” e a quello che dovranno affrontare, con la musica che è classico rock americano anni ’80, quelli buoni però.  E in album che ha non punti deboli, ottima anche la briosa e solare Sideways, molto dylaniana, con organo e chitarre brillanti nel contrappuntare la voce sicura del nostro amico, che si fa intima e raccolta per la sua “preghiera” conclusiva, una God Help Us dove Michael esprime i suoi dubbi e incertezze verso una entità superiore, con un tono discorsivo e sofferto, ma pronto a considerare tutte le opzioni in campo. Veramente un bel disco, 11 canzoni che riscaldano il cuore.

Bruno Conti

Variazioni Lievi Ma Significative, Sempre Ottima Musica! Jono Manson – The Slight Variations

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Jono Manson – The Slight Variations – Appaloosa/IRD

Non so se avete mai avuto l’occasione di assistere ad un concerto di Jono Manson? Il nostro amico si presenta sul palco armato di una chitarra acustica, che suona con una pennata forte ed energica, una chitarra elettrica a quattro corde (per i brani con elementi rock e blues), una bella voce, ma soprattutto tanta simpatia che estrinseca in una serie di aneddoti e storie, usati per presentare le sue canzoni e qualche rara cover, l’insieme lo rende un perfetto uomo da palcoscenico, cosa che fa da oltre trent’anni, in giro per il mondo. Ma Manson è anche un ottimo cantautore, rocker all’occorrenza (quando si esibisce con i suoi amici Brother’s Keeper, ovvero Scott Rednor, Michael Jude e John Michel, tutti presenti nel nuovo album, rafforzati anche da Jason Crosby, alle tastiere e violino e da John Popper dei Blues Traveler all’armonica), produttore, arrangiatore, ingegnere e tecnico del suono, di recente con  i Mandolin’ Brothers e nel disco solista di Jimmy Ragazzon, oltre che produttore anche del nuovo album dei Gang Calibro 77, in uscita il prossimo 24 febbraio: ma è anche un abituale frequentatore del nostro paese, dove ha stretto amicizie e frequentazioni musicali, prima con Paolo Bonfanti, e poi con i Barnetti Bros, ovvero Andrea Parodi, Massimo Bubola e Massimiliano Larocca, con i quali ha inciso un album, Chupadero, che prende il nome della località, nel New Mexico, dove Jono vive e ha anche il suo studio di registrazione, in cui è stato inciso questo The Slight Variations, secondo album pubblicato dall’italiana Appaloosa, per la quale aveva registrato anche l’ottimo Angels On The Other Side, di cui avevo parlato in termini più che lusinghieri su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2014/03/14/conflitto-interessi-what-jono-manson-angels-on-the-other-side/ .

Per volere essere sinceri fino in fondo, per chi scrive, e il giudizio è sempre soggettivo, il nuovo CD è leggermente inferiore al suo predecessore, ma è proprio una “anticchia”, più una impressione (che magari nel tempo e con ulteriori ascolti potrebbe cambiare) che una vera realtà. Comunque un bel disco, dal suono sempre brillante e vario, dove rock, canzone d’autore, roots music, Americana, blues, folk e country (ho dimenticato qualcosa?) si alternano e si mescolano, “frullati” con maestria da Jono Manson, grazie all’aiuto dei musicisti ricordati poc’anzi, con una citazione speciale per Jason Crosby, ottimo polistrumentista, di recente in azione anche con gli Hard Working Americans, ma puree Kevin Trainor, chitarrista elettrico dal tocco leggero e di gran classe, e della sezione ritmica composta da Mark Clark e Steve Lindsay, che si alternano con Jude e Michel. In totale sono dodici pezzi, sei scritti con la moglie Caline Welles, due collaborazioni con l’altro vecchio amico Chris Barron degli Spin Doctors, due con Joe Flood e due in solitaria: a fare crescere di molto il giudizio critico, sempre a mio giudizio, è il trittico iniziale, una splendida Trees, che mescola canzone d’autore e suggestioni celtiche, grazie all’insinuante violino di Crosby e ad una pervasiva melanconia che dà fascino al brano, cantato in modo intimo e raccolto da Jono. Che poi si scatena in Rough And Tumble, un grande R&R, scritto con Barron, tra Stones e Little Feat, con chitarre a tutto riff, un pianino saltellante e le armonie vocali sudiste di Hillary Smith.

E pure I’m Ready è una bellissima rock ballad, tra Dylan e la Band, con un uso sontuoso dell’organo di Crosby e una melodia avvolgente che cita anche qualche mood beatlesiano. Molto piacevole la tenue e delicata Wildflower, che evoca uno spirito alla James Taylor, con il piano che si alterna allo strumento indiano del dilruba per creare esotiche sonorità orientali, e anche The Sea Is The Same appartiene a questa categoria di brani “folky”, raccolti ma ben tratteggiati, autunnali e malinconici. Footprints On The Moon nasce, come racconta lui dal vivo, da vecchi ricordi della sua infanzia, e prende lo spunto dalla prima missione lunare americana del 1969, vista alla TV in bianco e nero, una briosa e movimentata canzone di impianto più rock, con un arrangiamento molto corposo e raffinato, degno delle sue tracce migliori, con begli spunti di chitarra e organo. The Slight Variations (a proposito l’album è diviso in una overture, due movimenti e un epilogo, ispirato dalle Goldberg Vaariatons di J.S. Bach?) è un funky-rock carnale vagamente littlefeattiano con uso d’organo R&B, anche se non mi piace l’idea della voce filtrata e distorta, ma il produttore è lui; What Would I Not Do? è l’altro brano pop-rock dai sapori Beatlesiani, raffinato come sempre. Piacevoli anche la rockeggiante Brother’s Keeper, con le chitarre che si fanno sentire, e la West-Coastiana So The Story Goes, sempre con il lodevole lavoro delle tastiere di Crosby e delle chitarre elettriche, anche se forse manca il colpo d’ala. When The Time Is Right è il classico brano da cantautore, un folk-rock morbido che mi ha ricordato di nuovo il lavoro di James Taylor, mentre l’epilogo di Little Bird Song rimane sempre in queste atmosfere quiete e rarefatte!

Bruno Conti

Il 2017 Riparte Come Era Finito il 2016. E’ Morto Anche Greg Trooper, Aveva 61 Anni!

greg trrooper

Il 15 gennaio ci ha lasciato anche Greg Trooper, quindi il 2017 ricomincia come era finito il 2016, con un’altra scomparsa,per alcuni non certo eccellente, forse non molti ne parleranno, ma mi sembra giusto ricordare questo bravo cantautore del New Jersey con un breve ricordo. Essendo nato il 13 gennaio del 1956 a Neptune, New Jersey, Trooper aveva da pochi giorni compiuto 61 anni, ma, anche se aveva continuato a lavorare praticamente fino quasi alla fine, era gravemente ammalato di un tumore al pancreas dall’estate del 2015. In quel periodo era uscito anche il suo ultimo album Live At The Rock Room, poi ripubblicato nel 2016 dalla Appaloosa con una bonus track. Armato del suo immancabile cappellino Greg aveva deliziato le platee sparse in tutto il mondo, in locali sempre più piccoli e sperduti, ma agli inizi era stato una delle grandi speranze del cantautorato di qualità , prima a livello locale sino dagli anni ’70, e negli anni ’80 aveva fondato la Greg Trooper Band, dove il chitarrista era Larry Campbell, e aveva pubblicato un primo album We Won’t Dance.

Poi negli anni ’90 si era trasferito a Nashville. dove aveva pubblicato l’ottimo Everywhere, prodotto da Stewart Lerman, e l’altrettanto bello Noises In The Hallway, prodotto da Garry W Tallent, completando il trittico degli anni ’90 con Popular Demons, dove alla guida delle operazioni c’era Buddy Miller. In quegli anni aveva stretto amicizie e collaborazioni anche con Steve Earle, che aveva inciso la sua Little Sister e con Billy Bragg, oltre ad avere collaborato anche con Tom Russell e Dan Penn, e anche Vince Gill, Robert Earl Keen, Maura O’Connell Lucky Kaplansky avevano inciso le sue canzoni. Anche negli anni 2000 aveva continuato a pubblicare dischi di notevole valore, Straight Down Rain del 2001 e il suo primo disco dal vivo Between A House and a Hard Place – Live at Pine Hill Farm, con Eric Ambel ai controlli. Proseguendo fino all’ottimo Incident On Willow Street del 2013, pubblicato anche questo in Italia dalla Appaloosa, con libretto dei testi con traduzione in italiano accluso. Fino ad arrivare alla pubblicazione del suo ultimo disco dal vivo, di cui vi avevamo riferito su questo Blog (a dimostrazione che non parliamo di questi artisti solo in occasione della loro morte) e che potete andare a rileggervi qui http://discoclub.myblog.it/2015/07/15/greg-trooper-rivisita-la-anima-intimistica-concerto-live-at-the-rock-room/. All’interno del Post trovate anche la recensione del precedente album del 2013

Quindi lo salutiamo per una ultima volta e che anche lui Riposi In Pace, insieme ai suoi numerosi colleghi che in tempi recenti lo hanno preceduto nel Paradiso Dei Musicisti (sperando che esista)!

Bruno Conti

“Ho Visto Il Futuro Del Rock’N’Roll E Il Suo Nome E’ Michael McDermott!”, Ovvero Dischi Così Springsteen Non Ne Fa Più! Westies – Six On The Out

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The Westies – Six On The Out – Pauper Sky Music/Appaloosa/Ird 

Forse il titolo è un’iperbole esagerata e si poteva già usare negli anni ’90, ma indubbiamente sulla carriera di Michael McDermott, oltre ai suoi eccessi, ha pesato anche una frase di Stephen King che faceva il paio con “ho visto il futuro del rock’n’roll” detta da Jon Landau nel 1974 su un certo Springsteen, o sui vari altri “nuovi Dylan” di quegli anni, da Elliott Murphy a John Prine, oltre allo stesso Bruce. La frase di King diceva letteralmente, “uno dei più grandi cantautori del mondo e forse il più grande talento non riconosciuto del rock’n’roll degli ultimi 20 anni”, nelle note di presentazione del terzo, omonimo album di Michael, uscito nel 1996, bellissimo come i primi due 620 W. Surf https://www.youtube.com/watch?v=jahVGhCsOKM  e Getshemane. Da lì fu il principio della fine, McDermott entrò in una spirale di droga e alcol, alimentata anche dal fatto di sentirsi una sorta di Padreterno, come testimoniavano tutte le recensioni fantastiche dei suoi primi album. Ma non le vendite: allora come oggi ci volle un attimo perché la sua casa discografica gli desse una pedata nel culo, senza un ringraziamento. E il nostro amico si trovò catapultato in questo mondo parallelo dove lui non era più “la grande speranza bianca del R&R” ma un cantautore tra i tanti (pur sempre di talento) che continuava a produrre buoni album che, salvo in alcuni momenti, non avevano più quella scintilla globale di genio che caratterizzava i primi dischi.

Per accorciare la storia, già raccontata molte volte dal sottoscritto http://discoclub.myblog.it/2014/05/05/singer-songwriter-eccellenza-michael-mcdermott-and-the-westies-west-side-stories/ , nel 2009, grazie anche all’Italia, dove conosce e poi sposa, a Ferrara, Heather Horton, quella che oggi è anche la mamma di sua figlia, fedele compagna musicale, come violinista e seconda voce, in questa rinascita artistica, che già aveva mostrato i primi frutti con Hit Me Back nel 2012 e poi ha raggiunto la sua completa fruizione nella creazione dei Westies, gruppo che opera nell’area di Chicago, dove Michael McDermott vive da alcuni anni e si esibisce spesso: prima con l’ottimo album West Side Stories, nel 2014, disco che lo riportava quasi a vertici delle prime prove ed ora con questo Six On The Out che conferma la sua ritrovata vena compositiva. Paragonato da King a Springsteen e Van Morrison, McDermott è sicuramente un rocker, ma ha anche una notevole capacità letteraria nei suoi testi, musicalmente si destreggia bene anche in lidi che lo avvicinano al folk ed alla musica celtica, grazie alla presenza del violino ammaliante di Heather Horton e alla capacità di scrivere ballate rock che sono pura poesia sonora, come l’iniziale If I Had The Gun, dove la sua voce roca e vissuta si erge su un accompagnamento dove si apprezzano anche le chitarre del bravissimo Will Kimbrough e di John Pirruccello, che sostituiscono Joe Pisapia e Daniel Tashian, che avevano suonato nel disco precedente. Lex Price, il bassista, che suona anche bouzouki, mandolino e chitarra acustica, è di nuovo il produttore dell’album, mentre Ian Fitchuk, il batterista, si occupa anche delle tastiere.

Il disco, come il precedente, in Italia esce per la Appaloosa, con bella confezione digipack con i testi e traduzione in italiano, cosa che permette di apprezzare ancora di più i testi delle canzoni di McDermott. Pauper’s Sky è un bel mid-tempo rock, nella migliore tradizione di quel blue-collar springsteeniano, di cui il nostro è tuttora grande portavoce o rappresentante (nonché grande fan e ammiratore, con intere serate a lui dedicate https://www.youtube.com/watch?v=UpEpINoxKN0), scegliete voi il termine, comunque gran bella musica, incalzante ed intensa come si conviene a questo tipo di brani. Parolee, tra mandolini, chitarre acustiche e violini, ha quell’aura celtic-rock di certi brani dei Waterboys, se Springsteen ne fosse stato il cantante,  elettroacustica, bellissima, con tocchi di organo e le celestiali armonie vocali di Heather Horton a rendere più affascinante il tutto, anche Dylan ed Eric Andersen tra i riferimenti, secondo me; anche The Gang’s All Here rimane su queste coordinate sonore, molto pastorali ed eteree, con il penny whistle di John Mock che accentua questo delizioso spirito irish. Like You Used To, cantata da Heather Horton, è un’altra dolcissima ballata di purezza cristallina, suonata in punta di strumenti dai Westies, che qui si confermano vero gruppo, con un suono ben definito e di grande fascino, il breve solo di Kimbrough è tutto da godere.

Everything Is All I Want For You mi ricorda certe cose raffinate di Elliott Murphy, un altro che quanto a fare buona musica rock non è secondo a nessuno, Splendida Henry McCarthy, una solenne rock ballad dal suono avvolgente che ci catapulta da New York a Silver City, sulle tracce di Billy The Kid, con Santa Fe che accelera i tempi per un’altra border song, tra rock, country e di nuovo il Boss, suonata in modo divino, come pure il lamento folkie iniziale di una delicata Once Upon A Time, che poi si apre a mano a mano in un superbo crescendo da godere in religioso silenzio. Molto bella anche This I Know, ma non c’è un brano scarso in questo Six On The Out, che si conclude con la lunga Sirens, altra canzone splendida che conferma il ritorno di Michael McDermott ai livelli che gli competono, cioè quelli di uno dei migliori cantautori in circolazione. Sentire per credere.

Bruno Conti     

Recuperi Di Inizio Anno 6: Una Delle Sorprese di Fine 2015! Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story

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Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story – Appaloosa / I.R.D.

Per chi scrive, è successo in passato, ed è successo di in questa occasione, è succederà certamente in futuro, di avere dei “colpi di fulmine musicali”, in quanto non credo che esistano dischi in grado di essere ascoltati solo in un determinato contesto, ma è altrettanto vero che certi dischi riescono a salire di tono ricordando emozioni anche soltanto immaginarie. Mi sembra questo il caso di Soundtrack To A Ghost Story degli Orphan Brigade (mi sono documentato, e come è abbastanza noto, il nome deriva da una brigata militare di quel periodo intorno a cui ruota tutta la storia), capitanati dal cantautore irlandese trapiantato negli States Ben Glover (di cui mi ero occupato a fine 2014 per il suo pregevole Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ ), affiancato da due autori e musicisti americani, Joshua Britt e Neilson Hubbard (anche produttore del lavoro), che con l’aiuto di altri validi musicisti e collaboratori, tra cui spiccano Heather e Kris Donegan, Danny Mitchell, Dean Marold, Eamon McLoughlin e le brave, e forse meno conosciute di quanto meritino, cantanti Kim Richey http://discoclub.myblog.it/tag/kim-richey/  e Gretchen Peters, che, tutti insieme si sono ritrovati a incidere (a loro insaputa)  in quella che viene considerata la casa colonica più “infestata” d’America, la Octagon Hall Franklin nel Kentucky, sessanta miglia a nord di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=TAwEyiBWY9Y . Tutto questo progetto parte da una serie di documenti ritrovati (lettere, diari e poesie scritti dai militari della Orphan Brigade), messi in musica da questi baldi cantautori di talento, che hanno sfornato l’album rivelazione di fine 2015.

Per impostare il contesto im cui si svolge la vicenda, il disco si apre con i rintocchi funebri del piano in Octagon Hall Prelude, seguiti subito dalla meravigliosa Pale Horse, con un tamburo militare ad accompagnare una solenne melodia, passando poi al “groove” della sferragliante Trouble My Heart (Oh Harriett), con il banjo e la seconda voce della Richey in evidenza, il pungente country-walzer di I’ve Seen The Elephant, addolcito dalla voce di Gretchen Peters, e una intrigante marcetta a ritmo di gospel come Sweetheart (con una tromba lacerante nel finale). Dopo una buona “disinfestazione” le storie ripartono con il lamento delicato di Last June Light e il dolce mandolino che accompagna le voci femminili in The Story You Tell Yourself (su tutte quella della Richey), mentre We Were Marching On Christmas Day è una ballata palpitante, seguita dalla strumentale e fischiettata Whistling Walk.

Il racconto prosegue ancora con Good Old Flag  un tipico brano dall’andatura mid-tempo, per poi passare al lamento in salsa irlandese di una Cursed Be The Wanderer (dove si nota lo zampino di Glover), che ci mette del suo (con solo voce e chitarra) anche nel tradizionale accorato Paddy’s Lamentation, arrivando infine al termine del racconto con la struggente bellezza di Goodnight Mary, una sognante e intensa ninna-nanna  del duo Hubbard e Richey, e una finale The Orphans cantata da Glover e Donegan (supportati nuovamente dalle voci femminili), doveroso omaggio ai soldati che hanno ispirato il nome di questo magnifico “combo”.

Soundtrack To A Ghost Story è la perfetta colonna sonora di una storia vera, che rappresenta uomini veri, ambientata a cavallo della guerra civile americana, ma è anche una “ghost story” cantata e narrata logicamente con forti influenze letterarie. La cosa particolare di questo lavoro è che ascolto dopo ascolto, le trame del disco si sviluppano in modo diverso, con arrangiamenti che spaziano dal folk al rock, dal gospel al country, con bellissimi testi che raccontano di vita e di morte (e che trovate acclusi meritoriamente tradotti in italiano nella versione della Appaloosa), con un percorso sonoro accattivante e coinvolgente.

Per chi ama le storie vere e la buona musica, un vero balsamo, credetemi. Imperdibile!

Tino Montanari