Un “Piccolo” Grande Cantautore E Quattro Ristampe Per Ricordarlo. Steve Goodman – Artistic Hair/Affordable Art/Santa Ana Winds/Unfinished Business

steve goodman photo

Steve Goodman – Artistic Hair – Omnivore CD

Steve Goodman – Affordable Art – Omnivore CD

Steve Goodman – Santa Ana Winds – Omnivore CD

Steve Goodman – Unfinished Business – Omnivore CD

Oggi purtroppo in pochi si ricordano di Steve Goodman, bravissimo cantautore originario di Chicago che, dopo una decina di pregevoli album pubblicati tra gli anni settanta ed i primi anni ottanta, ci ha lasciato a soli trentasei anni a causa di una leucemia che lo aveva accompagnato per tutta la sua breve vita, fin dalla scoperta avvenuta a Chicago nel 1968, ma che non gli aveva impedito di sposarsi ed avere tre figlie, tanto che si faceva chiamare con il nomignolo di “Cool Hand Leuk”. Eppure molti di voi avranno ascoltato almeno una volta la splendida City Of New Orleans o nella rilettura di Arlo Guthrie o in quella di Willie Nelson (solo per citare le due più conosciute): ebbene, il brano in questione è stato scritto proprio da Goodman, anche se della sua versione originale del 1971 si ricordano in pochi. Questa è stata un po’ la storia della carriera di Steve, che ha attraversato i seventies ed i primi eighties in punta di piedi, con la massima discrezione, pubblicando ottimi dischi e scrivendo diverse bellissime canzoni, ma senza mai assaporare il successo in prima persona, se non già verso la fine dei suoi giorni quando compose Go Cubs Go, che divenne in breve tempo l’inno della squadra di baseball dei Chicago Cubs. Goodman era però molto stimato dai colleghi: grande amico del concittadino John Prine, che nel corso degli anni scrisse e cantò con lui più di una canzone, Steve aveva tra i suoi fans gente del calibro di Jimmy Buffett, che deve molto al suo stile scanzonato ed ironico e ha inciso più di un suo brano, tra cui Banana Republic (proprio quella tradotta in italiano da Dalla e De Gregori), Johnny Cash, Kris Kristofferson e perfino Bob Dylan, che addirittura nel 1972 si scomodò per partecipare nel secondo album Somebody Else’s Troubles, ai cori in un brano e al piano in due, sotto lo pseudonimo di .Robert Milkwood Thomas.

Oggi la benemerita Omnivore ristampa i quattro album finali della carriera di Steve, in eleganti edizioni in digipak, con nuove liner notes e, cosa più importante, diverse bonus tracks inedite; in realtà solo due di questi lavori furono pubblicati da Goodman quando era ancora in vita, cioè il live Artistic Hair ed Affordable Art, mentre Santa Ana Winds e Unfinished Business sono entrambi usciti postumi (ma mentre il primo era già pronto per essere immesso sul mercato, copertina compresa, il secondo è stato un lavoro di produzione fatto su pezzi lascati in un cassetto). Ed è un grande piacere ascoltare (o ri-ascoltare) questi album, in quanto ci mostrano un cantautore dal tocco gentile e raffinato, ma anche profondamente ironico e diretto (in questo aveva molto di Prine); Steve in quegli anni era in ottima forma, e questi album sono considerati (soprattutto Santa Ana Winds) tra i migliori della sua discografia: non nascondo che ascoltandoli ho provato una certa malinconia per il fatto che un talento simile ci sia stato portato via così presto. Ma andiamo ad esaminare nel dettaglio queste ristampe, cercando da parte mia di non nominare tutte le canzoni anche se lo meriterebbero.

steve goodman artistic hair

Artistic Hair (1983). Album dal vivo che riepilogava la carriera di Steve fino a quel momento. Registrato in varie location e con alle spalle una band perlopiù acustica, Artistic Hair ci mostra l’umiltà di Goodman, che nonostante fosse un songwriter di prima fascia nei suoi concerti suonava anche parecchie canzoni non sue. Così, vicino a classici autografi del calibro di City Of New Orleans (sempre un capolavoro), della splendida You Never Even Called Me By My Name (scritta con Prine e portata al successo nei settanta da David Allan Coe), il quasi rock’n’roll Elvis Imitators e l’applaudita Chicken Cordon Bleus, abbiamo proposte “alternative” come l’umoristica Let’s Have A Party di Carl Martin, il noto strumentale di origine brasiliana Tico Tico (pezzo di bravura di Jethro Burns al mandolino), una scherzosa rivisitazione del classico natalizio Winter Wonderland ed una più seria del traditional The Water Is Wide. Il tutto proposto in maniera coinvolgente da parte di un artista che sapeva stare sul palco e che era dotato di un senso dell’umorismo non comune.

Il CD presenta ben dieci bonus track, in pratica un altro live, che però non sono inedite in quanto incluse nel 1994 nell’antologia No Big Surprise, con titoli che sono già uno spasso da leggere (The I Don’t Know Where I’m Goin’ But I’m Goin’ Nowhere In A Hurry Blues, Wonderful World Of Sex, Men Who Love Women Who Love Men) ed ancora di più da ascoltare.

steve goodman affordable art

Affordable Art (1984). Un album riuscito e molto piacevole, con brani in studio intervallati da qualche episodio live. Proprio dal vivo sono i tre brani iniziali, acustici: If Jethro Were Here, un pregevole strumentale dal sapore vagamente irlandese, seguito dalla godibilissima Vegematic, dal testo umoristico che manda in visibilio il pubblico, e dalla splendida Old Smoothies, una vera delizia di canzone. Talk Backward è uno squisito pezzo ricco di swing con tanto di fiati, che dimostra la versatilità del nostro, capace anche di incursioni nel rock come nell’irresistibile How Much Tequila (Did I Drink Last Night?), brano scanzonato e ricco di ritmo nello stile di Buffett e scritto ancora a quattro mani con Prine. E l’amico John compare in duetto, due voci e due chitarre, in una limpida versione della sua Souvenirs (sempre un grande brano), mentre il country fa capolino nella scintillante When My Rowboat Comes In, che vede Marty Stuart al mandolino e Jerry Douglas al dobro.

Goodman era anche un grande appassionato di baseball, tifoso dei Chicago Cubs, e qui abbiamo ben tre pezzi a tema sportivo: una guizzante cover dello standard Take Me Out To The Ball Game, la spiritosa A Dying Cub’s Fan Last Request (dal titolo sinistramente premonitore) e, come prima bonus track, il già citato inno Go Cubs Go, che ancora oggi viene suonato allo stadio di Chicago quando i padroni di casa vincono. Alla fine le sto citando quasi tutte lo stesso, ma come faccio a non nominare la trascinante Watchin’ Joey Glow, brano tra folk e country che è anche uno dei più belli del CD? Sette le bonus tracks (otto con Go Cubs Go), tutti demo inediti per voce e chitarra tra i quali spiccano le versioni in studio di Vegematic e Old Smoothies ed una deliziosa e limpida cover di Streets Of London di Ralph McTell.

steve goodman santa ana winds

Santa Ana Winds (1984). Steve in quel periodo era anche prolifico, e Santa Ana Winds è un album stupendo, uno dei suoi migliori: peccato che quando uscì il suo autore non era già più tra noi. Accompagnato da una solida band con all’interno tra gli altri George Marinelli alla chitarra, Byron Berline al violino, Steve Fishell alla steel e Jim Rothermel al sax, il disco inizia con la splendida Face On The Cutting Room Floor, una squisita ballata, ariosa e limpida, scritta con Jeff Hanna e Jimmy Ibbotson della Nitty Gritty Dirt Band (e si sente) e con il contributo vocale di Kris Kristofferson, seguita dal travolgente country-rock Telephone Answering Tape, composto assieme a David Grisman e vera delizia per le orecchie. Altri brani degni di nota di un disco comunque senza sbavature sono la bellissima e toccante The One That Got Away, puro songwriting di alto livello, la coinvolgente Queen Of The Road, rara ma riuscita incursione del nostro nel rock’n’roll, la solare country ballad Fourteen Days, con Emmylou Harris ospite, la cadenzata e bluesata Hot Tub Refugee e la jazzata e raffinatissima title track.

Anche qui otto bonus tracks, di cui sei inedite (Where’s The Party e I Just Keep Falling In Love erano già uscite sulla già citata antologia del 1994): una più bella dell’altra, con menzioni speciali per la versione acustica e lenta di Telephone Answering Tape, forse anche più bella dell’originale, e per le elettriche Homo Sapiens e Outside Of Nashville.

steve goodman unfinished business

Unfinished Business (1987). Nell’ultimo periodo della sua vita Steve era diventato decisamente prolifico, e questa collezione di demo alla quale il produttore Peter Bunetta ha aggiunto varie sovrincisioni sembra proprio un disco fatto e finito, al punto che fruttò al suo autore un Grammy postumo.

Arrangiamenti rispettosi delle incisioni originali, come nella gradevole pop song d’apertura, Whispering Man, gentile e raffinata, o nell’irresistibile Mind Over Matter, tra swing e rock’n’roll (un piacere per le orecchie), o ancora nella deliziosa God Bless Our Mobile Home, splendida canzone dal sapore folk. Millie Make Some Chili è ancora uno spigliato e trascinante rockabilly, In Real Life è sofisticata ed elegante, mentre la rockeggiante Don’t Get Sand In It ha una melodia di quelle che piacciono al primo ascolto. Ben nove qui le bonus track (otto inedite), tutte voce e chitarra: splendida Don’t Get Sand In It anche senza band alle spalle e molto bella anche l’intensa You’re The Girl I Love.

Quattro ristampe che definirei quindi imperdibili, sia per la bontà delle canzoni presenti che per la quantità di inediti, che ci fanno riscoprire la figura di Steve Goodman, cantautore sfortunatissimo e colpevolmente sottovalutato.

Marco Verdi

Una Splendida Full Immersion Nella Leggenda, 3 Giorni Di Pace E Musica! Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive. Giorno 1

woodstock_deluxebox_productshot_1VV.AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive – Rhino/Warner 38CD/BluRay Box Set

*NDB  Dal nostro inviato a Woodstock, resoconto completo del Festival durato tre giorni che quindi sarà diviso in tre parti, la parola a Marco.

Prima Parte

E’ fuori di dubbio che il Festival di Woodstock, che si tenne in realtà nella vicina Bethel, stato di New York (nel gigantesco campo di proprietà dell’agricoltore ed allevatore Max Yasgur) il 15, 16 e 17 Agosto del 1969, fu il più famoso fenomeno musical-cultural-popolare di massa di tutti i tempi, nonché massima espressione del movimento hippy e della Summer Of Love. E’ però altrettanto vero che negli ultimi cinquant’anni si è parlato in lungo e in largo di questo irripetibile evento senza conoscerlo a fondo, dato che per decenni l’unica testimonianza ufficiale di ciò che accadde fu lo striminzito triplo LP che uscì come colonna sonora del film documentario (al quale si aggiunse un altro doppio album nel 1971), ed anche il box di 6 CD uscito nel 2009 per il quarantesimo anniversario gettò una luce solo parziale su ciò che avvenne su quel palco: in pratica gli unici ad aver avuto un quadro completo furono i quasi 500.000 che parteciparono di persona, anche se molti di loro erano fatti come cavalli e non so quanto ricordino di quei tre giorni (quasi quattro, dato che a causa dei vari ritardi accumulatisi si arrivò fino all’alba del 18 Agosto).

Oggi però per mano della Rhino anche Woodstock non ha più segreti, grazie alla pubblicazione di un mastodontico cofanetto che in ben 38 CD (più un BluRay con il Director’s Cut del film originale) riepiloga (quasi) tutto quello che è successo in quei tre mitici giorni d’estate in rigoroso ordine cronologico, un’opera monumentale che ha l’unico difetto di costare parecchio (non affrettatevi però a cercarlo, sono andate già esaurite tutte le 1969 copie, e lo potete trovare a prezzi ancora più alti solo su siti come Ebay o simili), anche se per chi volesse spendere meno esistono una versione in 3 CD (o 5 LP) ed un altro considerevole box di 10 CD. Ma oggi e nei prossimi giorni vi voglio parlare del mega-cofanetto (sì, sono uno dei 1969 pazzi), un manufatto incredibile, di grande pregio, interamente in legno intagliato con attorno un’autentica tracolla per chitarra: all’interno, i 38 CD divisi in tre raccoglitori separati (uno per giorno), uno splendido libro fotografico rilegato a cura di Michael Lang (uno degli organizzatori), un altro libro con la cronaca di ciò che accadde, brevi biografie di tutti gli artisti coinvolti e le tracklist disco per disco, più altre chicche come poster, riproduzione del programma originale, ecc.

Ma quello che più ci interessa è il contenuto musicale, riportato con grande perizia nei vari CD, con ogni artista o gruppo che ha a disposizione un intero dischetto (alcuni anche due), e sono presenti anche i vari interventi parlati e gli “stage announcements” (perlopiù da parte di Chip Monck, tecnico delle luci, e di John Morris, coordinatore di produzione) in modo da fornire un’esperienza il più possibile vicina alla realtà. (NDM: a dire il vero le canzoni non sono tutte presenti neppure stavolta, in quanto mancano una canzone e mezza dal set degli Sha Na Na per problemi al nastro originale e due brani dal concerto di Jimi Hendrix, Mastermind e Gypsy Woman, che erano però cantati dal chitarrista ritmico Larry Lee e per i quali gli eredi di Jimi non hanno dato l’autorizzazione. Diciamo che comunque possiamo fare a meno di queste “mancanze”). Alcune performance sono già note in quanto sono già state pubblicate separatamente in passato (proprio quella di Hendrix, ma anche Jefferson Airplane, Johnny Winter, Janis Joplin, Santana e Sly & The Family Stone, oltre a quella dei Creedence Clearwater Revival che è uscita quasi in contemporanea con questo box), ma qui sono inserite nel loro contesto originale e hanno quindi più senso; e poi finalmente abbiamo la possibilità di ascoltare cose che pensavamo di non sentire mai, come lo show di The Band e quello completo dei Grateful Dead (dei quali fino a quest’anno era uscita solo Dark Star nel box del 2009) e dei soliti devastanti Who, o ancora l’esibizione intera di CSN(&Y), nonché di vivere minuto per minuto l’evento come si fossimo tornati indietro nel tempo, inclusi i momenti di tensione dovuti alle persone che si arrampicavano sulle torri o il disappunto degli organizzatori per la pioggia battente che rischiò di rovinare più di un concerto (tipo quelli degli stessi Dead e dei Ten Years After).

Il box, registrato ottimamente (in mono) è quindi un’esperienza totale, e mi ha fatto anche cambiare l’opinione generale che avevo sul Festival: avevo infatti sempre pensato che, aldilà dell’importanza culturale, le performance non fossero state sempre all’altezza (per esempio giudicavo il Festival di Monterey del 1967 superiore), mentre ora che ho avuto la possibilità di ascoltare tutto quanto ho dovuto rivedere alcune opinioni. (NDM 2: se la lista di partecipanti era impressionante ed impensabile al giorno d’oggi, altrettanto importante è quella di chi per vari motivi era assente, a partire da Bob Dylan che a Woodstock all’epoca ci viveva, ma che snobbò l’evento – salvo poi esibirsi pochi giorni dopo come headliner all’isola di Wight –  come fecero i Byrds, i Doors ed i Led Zeppelin. Poi ci fu il caso dei Jethro Tull che non andarono perché Ian Anderson non sopportava gli hippies, e quelli che dovevano esserci ma che per vari motivi dovettero rinunciare, come il Jeff Beck Group, che si sciolse pochi giorni prima del Festival, i Moody Blues che cambiarono idea o gli Iron Butterfly che rimasero bloccati in aeroporto). Ma occupiamoci di chi a Woodstock c’era, con una disamina disco per disco di quei magnifici tre giorni.

Day 1/CD 1-8.

CD1 – Richie Havens. Il folksinger di colore inaugura il Festival accompagnato da un altro chitarrista ed un percussionista: la sua esibizione si ricorderà per la celeberrima Freedom (ricalcata sul tema del traditional Motherless Child), ma tutta la performance è contraddistinta da riletture personali di brani autografi come la grintosa Stranger e varie cover (With A Little Help From My Friends e Strawberry Fields Forever dei Beatles, I Can’t Make It Anymore di Gordon Lightfoot), il tutto con il suo modo unico di suonare la chitarra, anche se in qualche momento affiora una certa noia.

CD2 – Sweetwater. Band di Los Angeles che inizia più o meno come ha finito Havens, cioè con Motherless Child, qui riletta in stile folk-psichedelico tipico dell’epoca, tipo Jefferson Airplane ma con l’aggiunta del flauto. A seguire una selezione di brani dal songbook del gruppo guidato da Alex Del Zoppo (tastiere) e Nansi Nevins (voce solista), con menzioni particolari per lo strumentale For Pete’s Sake, la limpida e folkie Day Song e la jammata What’s Wrong (15 minuti), con Del Zoppo strepitoso al piano elettrico. Il finale è appannaggio dell’inno hippy Let The Sunshine In e del classico Oh Happy Day.

CD3 – Bert Sommer. Sfortunato cantautore di New York che ebbe il suo unico momento di gloria grazie alla sua partecipazione al musical Hair, ma incise soltanto quattro album e morì nel 1990 a soli 41 anni. Sommer si presenta a Woodstock in trio elettroacustico con una serie di composizioni di matrice folk (lo stile è simile a quello di Donovan), tra cui ottime cose come la melodica Jennifer (ottima voce), l’emozionante The Road To Travel, la splendida ed intensa And When It’s Over ed una riuscita cover di America di Paul Simon.

CD4 – Tim Hardin. Altro musicista che ebbe un tragico destino, anche se a differenza di Sommer era piuttosto famoso: Tim si presenta accompagnato da una band di sei elementi dal suono di matrice folk-jazz. Performance scintillante, con bellissime rese dei suoi due pezzi più noti (If I Were A Carpenter e Reason To Believe), e notevoli brani come la pianistica e struggente How Can We Hang On To A Dream, la fluida e raffinata Speak Like A Child e la bluesata Snow White Lady, grandissima versione di un quarto d’ora. Senza dimenticare la trascinante Simple Song Of Freedom, cover di Bobby Darin ed unico successo a 45 giri del nostro.

CD5 – Ravi Shankhar. In quegli anni, grazie a George Harrison ma non solo, la musica indiana era molto popolare anche in Occidente, e Shankhar ne era indubbiamente il rappresentante più autorevole. A Woodstock Ravi si presenta con il suo sitar a capo di un trio ed intrattiene il pubblico con tre luighe suite strumentali: so che la musica indiana ha diversi estimatori, ma io non sono tra quelli.

CD6 – Melanie. Sette canzoni per voce e chitarra, gradevoli ma non indispensabili: Melanie era una folksinger di terza fascia, nonostante abbia conntinuato ad incidere sino ai giorni nostri ed abbia avuto qualche singolo di successo negli anni settanta. Non male comunque Beautiful People, uno dei suoi brani più noti, ed una discreta cover di Mr. Tambourine Man di Dylan.

CD7 – Arlo Guthrie. Il figlio di Woody si presenta alla testa di un quartetto classico (due chitarre, basso e batteria) per un set decisamente piacevole tra folk e country, con punte come la bella Coming Into Los Angeles, due ottime riletture di traditionals del calibro di Oh Mary, Don’t You Weep e Amazing Grace, l’orecchiabile Every Hand In The Land ed il monologo umoristico The Story Of Moses, più cabaret che musica. E, in mancanza di Bob, una Walking Down The Line più dylaniana che mai.

CD8 – Joan Baez. La più grande folksinger di tutti i tempi si presenta in trio (ed incinta di sei mesi) e fornisce una prestazione solida e ricca di feeling. Grande voce, cristallina e potente al tempo stesso, al servizio di una serie di ballate del calibro di The Last Thing On My Mind (Tom Paxton), I Shall Be Released (Dylan), Joe Hill, Sweet Sir Galahad (uno dei primi brani autografi di Joan), e di traditionals come Take Me Back To The Sweet Sunny South ed una Swing Low, Sweet Chariot cantata a cappella. C’è spazio anche per cover contemporanee come Hickory Wind e Drug Store Truck Drivin’ Man, entrambe dei Byrds, e One Day At A Time di Willie Nelson, e chiusura con l’inno pacifista We Shall Overcome.

Fine della prima parte, segue…

Marco Verdi

Torna Finalmente Il Padre Di Tutti I Tributi! VV.AA. – Woody Guthrie: The Tribute Concerts

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Woody Guthrie: The Tribute Concerts – Bear Family 3CD Box Set

Non ho controllato con precisione, ma credo proprio che il concerto del Gennaio 1968 tenutosi alla Carnegie Hall di New York in memoria di Woody Guthrie sia stato il primo omaggio “all-stars” ad un singolo artista, evento tra l’altro replicato due anni dopo stavolta sulla costa Ovest, alla Hollywood Bowl di Los Angeles, con successo molto minore (anche perché nel frattempo, musicalmente parlando, era cambiato il mondo). E’ comprovato comunque che se in quel periodo c’era una figura meritevole di un tale trattamento, questa era certamente Guthrie (passato a miglior vita nell’Ottobre 1967 dopo una lunga malattia), grandissimo folksinger, attivista convinto e padre putativo musicale del cosiddetto “folk revival” in voga nei primi anni sessanta, oltre che titolare di un songbook talmente importante che negli anni è entrato a far parte della Biblioteca del Congresso (la sua This Land Is Your Land è considerata una sorta di inno americano non ufficiale). I due concerti in questione, organizzati entrambi dal figlio di Woody, Arlo Guthrie (singer-songwriter a sua volta, anche se di statura artistica decisamente inferiore rispetto al padre), portarono sul palco la crema della musica folk (e non) dell’epoca, due serate magiche che vennero pubblicate prima su LP ed in seguito anche su CD, anche se il tutto era ormai fuori catalogo da anni.

Ora la benemerita Bear Family, etichetta tedesca specializzata quasi esclusivamente in ristampe (e quasi mai a buon mercato), immette sul mercato questo Woody Guthrie: The Tribute Concerts, uno splendido cofanetto triplo che presenta per la prima volta i due concerti nella loro interezza, comprendendo anche le parti narrate tra un brano e l’altro (da Robert Ryan, Will Geer e Peter Fonda), ed aggiungendo anche diverse performances mai sentite prima. In più, il box si presenta con due bellissimi libri a copertina dura pieni zeppi di note dettagliate, rare foto dei due eventi, testimonianze dei partecipanti, oltre ad una esauriente retrospettiva sulla figura di Guthrie e sulla sua importanza, includendo anche una discografia essenziale e le copertine di tutti gli album tributo usciti negli anni. Un’operazione importante quindi anche dal punto di vista culturale, che per una volta vale fino all’ultimo centesimo l’alto costo richiesto (circa cento euro). Dal punto di vista della musica, il meglio si trova nel primo CD, che riporta integralmente la serata del 1968 a New York, soprattutto grazie alla presenza di Bob Dylan, un evento nell’evento in quanto si trattava della prima volta on stage dopo i famosi concerti europei del ’66 (e dopo l’altrettanto noto incidente motociclistico). Bob si presenta sul palco insieme a The Band (unico artista della serata a beneficiare di un accompagnamento elettrico, ma stavolta, a differenza di Newport 1965, sono solo applausi), dimostrandosi in ottima forma e proponendo ben tre brani uno in fila all’altro, “rubando” lo show come si dice in gergo: una coinvolgente Grand Coulee Dam, dal ritmo saltellante (e Bob che urla nel microfono come nei concerti del 1966), seguita da una lunga e godibile Dear Mrs. Roosevelt di stampo quasi country e da I Ain’t Got No Home, splendido esempio di folk-rock di classe.

Il resto della serata include la crema del circuito folk dell’epoca, pur con qualche grave assenza (soprattutto Phil Ochs e Dave Van Ronk, oltre a Jack Elliott che però ci sarà nel 1970). Le performances migliori sono date da Arlo Guthrie, con una Oklahoma Hills pura e rigorosa, la splendida Judy Collins con una cristallina So Long, It’s Been Good To Know Yuh (Dusty Old Dust) e la meravigliosa Plane Wreck At Los Gatos (Deportee), una delle più belle folk songs di sempre, Roll On Columbia, la bellissima Union Maid in duetto con Pete Seeger ed una in trio con Pete ed Arlo per una fluida Goin’ Down The Road. Seeger è stranamente poco presente (ma si rifarà due anni dopo), in quanto esegue soltanto la poco nota Curly Headed Baby da solo al banjo e Jackhammer John insieme a Richie Havens, il quale ha poi spazio con la sua Blues For Woody (unico brano della serata non scritto da Guthrie) e con una lunga ed a suo modo coinvolgente Vigilante Man, caratterizzata dal tipico modo di suonare la chitarra del folksinger di colore. Tom Paxton è un altro bravo, e si prende due classici assoluti (Pretty Boy Floyd e Pastures Of Plenty) e la meno nota Biggest Thing That Man Has Ever Done, mentre l’immensa (non solo in senso fisico) Odetta presta la sua grandissima voce ad una Ramblin’ Round da brividi. Gran finale con tutti sul palco (Dylan compreso) per la prevedibile celebrazione di This Land Is Your Land.

La serata del 1970 occupa invece tutto il secondo dischetto e metà del terzo e, nonostante l’assenza di Dylan, risulta in certi momenti ancora più piacevole, grazie soprattutto alla presenza in diversi pezzi di una band elettrica, guidata nientemeno che da Ry Cooder (e la sua slide è riconoscibilissima) e con gente del calibro di Chris Etheridge al basso, John Beland al dobro, Gib Guilbeau al violino, Thad Maxwell e John Pilla alle chitarre e Stan Pratt alla batteria. Rispetto a New York sono “confermati” Guthrie Jr., Seeger, Havens ed Odetta, mentre le new entries sono Jack Elliott, Earl Robinson, Country Joe McDonald e soprattutto una ispiratissima Joan Baez a prendere idealmente il posto della Collins. L’inizio è simile, con Arlo ad intonare Oklahoma Hills (ma con la slide di Cooder in più), mentre gli highlights sono rappresentati da un intenso duetto tra la Baez e Seeger (So Long, It’s Been Good To Know Yuh), le stupende Hobo’s Lullaby e Plane Wreck At Los Gatos (Deportee) sempre con Joan protagonista, una I Ain’t Got No Home con Pete ed Arlo (ed il figlio di Woody ci regala anche una trascinante Do Re Mi, quasi rock), la solita potentissima Odetta (Ramblin’ Round e John Hardy – che è di Leadbelly – entrambe elettriche e da brividi lungo la schiena), mentre Elliott e Country Joe il meglio lo danno rispettivamente con la drammatica 1913 Massacre (dalla quale Dylan rubò la melodia per scrivere la sua Song To Woody) e con la countreggiante Pretty Boy Floyd, con Cooder in grande evidenza. Senza dimenticare una strepitosa Hard Travelin’ dall’arrangiamento bluegrass ad opera di un inedito sestetto formato da McDonald, Eliott, Robinson, Baez, Arlo e Seeger, ed il maestoso finale con This Land Is Your Land ed ancora So Long, It’s Been Good To Know Yuh unite in medley per la durata di dieci minuti (e con la voce di Odetta che si staglia su tutte).

Come ulteriore bonus abbiamo una serie di brevi ed interessanti interviste di quest’anno in cui vari protagonisti (Arlo, la Collins, Paxton, Seeger in una testimonianza del 2012, McDonald ed Elliott) ricordano le due serate fornendo anche qualche aneddoto, oltre ad un Phil Ochs del 1976 (quindi a poco tempo dalla sua morte) ancora risentito del mancato invito. Per chiudere con Dylan che recita la sua poesia Last Thoughts On Woody Guthrie, performance già edita sul primo Bootleg Series. Splendido box quindi, che ci presenta per la prima volta due serate nelle quali i migliori folksingers del mondo hanno fatto squadra per omaggiare il loro ideale padre artistico. In una parola: imperdibile.

Marco Verdi