Il Periodo Migliore Di Un Cantautore “Doc”! James Taylor – The Warner Bros. Albums 1970-1976

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James Taylor – The Warner Bros. Albums 1970-1976 – Rhino/Warner 6CD – 6LP

Gli anni settanta sono stati senza dubbio la decade di maggior sviluppo per il cantautorato americano (e canadese), ed uno dei massimi esponenti del genere è stato indiscutibilmente James Taylor, musicista depositario di uno stile personalissimo ed immediatamente riconoscibile. Il songwriter di Boston ha sempre costruito i suoi dischi con la massima cura ed attenzione, pubblicandoli solo quando riteneva di avere le canzoni giuste e scegliendo sempre i migliori sessionmen in circolazione; James ha sempre preferito le ballate, create perlopiù intorno alla sua voce, la sua chitarra ed al massimo un pianoforte ed una sezione ritmica, ed il suo stile tranquillo, pacato, gentile ed estremamente raffinato è sempre stato il suo marchio di fabbrica, al punto che quando esce un suo disco nuovo il pubblico sa esattamente cosa aspettarsi. Di album brutti Taylor non ne ha mai fatti, ma è all’inizio degli anni settanta che ha sparato le sue cartucce migliori con una serie di dischi, sei, usciti per la Warner e gratificati da un ottimo successo sia di pubblico che di critica (ma il nostro aveva già un album all’attivo, il discreto James Taylor, registrato durante il suo “periodo londinese” e pubblicato dalla Apple).

Oggi il lustro trascorso con la Warner è interamente riassunto in questo bel boxettino intitolato appunto The Warner Bros. Albums 1970-1976, sei CD (o LP) presentati in un cofanetto “clamshell” e stampati nella loro veste grafica originale, con la rimasterizzazione avvenuta sotto la supervisione del noto produttore Peter Asher, dietro la consolle in tutti i primi quattro album di Taylor (compreso quello targato Apple); non ci sono bonus tracks, anche se io avrei inserito almeno i tre inediti del Greatest Hits del 1976, cioè il rifacimento dei due brani più noti dell’esordio Apple (Something In The Way She Moves e Carolina On My Mind) e la versione live di Steamroller. Il cofanetto comunque è imperdibile se non possedete già tutti i dischi contenuti al suo interno, e soprattutto se siete amanti del cantautorato degli anni settanta. Come dicevo prima, James ha sempre amato circondarsi di musicisti di nobile lignaggio, e solo a leggere i nomi di chi ha suonato con lui su questi dischi c’è da farsi venire l’acquolina in bocca: Danny Kortchmar, Waddy Wachtel, Jim Keltner, Al Perkins, David Grisman, Richard Greene, Rick Marotta, Russell Kunkel, John Hartford, Leland Sklar, i fratelli Randy e Michael Brecker, David Sanborn, Craig Doerge, John McLaughlin, David Spinozza, Hugh McCracken, Willie Weeks, Andy Newmark e Herb Pedersen, oltre ai produttori Russ Titelman e Lenny Waronker (e naturalmente il già citato Asher). Presenze fisse sui suoi dischi erano anche Carole King, grande amica sua, al piano e voce, e l’allora moglie Carly Simon sempre alla voce; in più, una serie di ospiti speciali che vedremo a breve nelle disamine disco per disco.

Sweet Baby James (1970): già subito uno degli album migliori di sempre del nostro, un lavoro che contiene la famosa Fire And Rain, splendida ballata che ancora oggi è un highlight nelle esibizioni dal vivo; molto popolare anche la trascinante Steamroller, un blues elettrico con fiati decisamente piacevole e ben fatto. Poi abbiamo la bellissima country song che dà il titolo all’album, un piccolo capolavoro di equilibrio e finezza, la raffinata Sunny Skies, leggermente jazzata, la folkeggiante Country Road e l’elaborata Suite For 20 G, esempio di songwriting già maturo. Senza dimenticare tre delicati acquarelli acustici come Lo And Behold, Oh Baby Don’t You Loose Your Lip On Me ed una breve ripresa del classico Oh, Susannah. Come ospiti, Chris Darrow e Randy Meisner, quest’ultimo all’epoca ancora nei Poco.

Mud Slide Slim And The Blue Horizon (1971): l’album più famoso di Taylor, grazie soprattutto alla straordinaria You’ve Got A Friend, scritta da Carole King e portata da James al numero uno in classifica, una delle più belle ballate dei seventies (con Joni Mitchell alle armonie vocali). Con un brano così la strada è in discesa, ma il disco è bello anche per la vibrante Love Has Brought Me Around, la bella Riding On A Railroad, dallo stile countreggiante, la fluida Hey Mister, That’s Me Up On The Jukebox, le note You Can Close Your Eyes (eseguita in perfetta solitudine) e Machine Gun Kelly (scritta da Kortchmar e dedicata ad uno dei più noti ospiti di Alcatraz), e la ritmata e coinvolgente Let Me Ride.

One Man Dog (1972): un disco particolare, una sorta di suite con 18 brani fusi insieme, alcuni dei quali appena accennati ed altri solo strumentali: l’ascolto è comunque gradevole ed appagante, con James che nonostante la struttura atipica non cambia il suo stile. C’è una hit minore, l’elegante Don’t Let Me Be Lonely Tonight, ed alcuni deliziosi bozzetti come One Man Parade, pop song di notevole finezza e dalla ritmica di stampo sudamericano, la rilassata e distesa Nobody But You, tipica del nostro, la bella Back On The Street Again, in cui si incontrano pop e folk, ed una squisita rilettura del traditional One Morning In May con Linda Ronstadt alla seconda voce.

Walking Man (1974): dopo un anno di pausa James ritorna senza Asher ai comandi, sostituito dal chitarrista David Spinozza: Walking Man per la prima volta manca di un hit single, e di conseguenza si rivela il disco meno di successo della decade per Taylor, anche se a livello compositivo si mantiene su buoni livelli. Da segnalare in particolare la piacevole e gentile title track, la vibrante Rock’n’Roll Is Music Now (che come nella seguente Let It All Fall Down vede la partecipazione ai cori di Paul e Linda McCartney), la corale e decisamente orecchiabile Ain’t No Song, una sorprendente cover di The Promised Land di Chuck Berry nella quale James ci dà una sua personale versione del rock’n’roll (quindi sempre con estrema eleganza), e la conclusiva Fading Away, malinconica ma molto bella.

Gorilla (1975): Taylor torna ad assaporare il successo con uno dei suoi album più famosi e più riusciti, merito senz’altro della solare Mexico e della deliziosa cover di How Sweet It Is (To Be Loved By You) di Marvin Gaye, canzoni che si difenderanno benissimo nelle classifiche dei singoli. E’ anche il disco con la maggior parte di ospiti di prestigio: Crosby & Nash alle voci nella stessa Mexico ed in Lighthouse, un brano splendido e melodicamente squisito che vede anche Randy Newman all’organo, e Lowell George alla slide in Angry Blues, un guizzante funkettone. Altri momenti salienti di un album comunque senza sbavature sono Music, classe pura, la toccante Wandering, un brano in cui a James basta davvero poco per emozionare, l’ironica title track con accompagnamento tra jazz e Hawaii e l’incantevole Sarah Maria.

In The Pocket (1976): altro album privo di brani di particolare successo, ma solido e brillante, che inizia con la nota Shower The People, splendida ballata dal suono tipicamente californiano, e prosegue con la pregevole A Junkie’s Lament, in cui la voce di Taylor è affiancata da quella angelica di Art Garfunkel. Altri highlights sono la mossa e pianistica Money Machine, l’immediata Everybody Has The Blues, melodicamente ineccepibile, l’intensa Captain Jim’s Drunken Dream e Don’t Be Sad ‘Cause Your Sun Is Down, con Stevie Wonder all’armonica (e co-autore del pezzo). Troviamo di nuovo Crosby & Nash alle voci (Nothing Like A Hundred Miles) e, in Family Man, anche Bonnie Raitt.

Dopo questi album Taylor passerà alla Columbia e continuerà a pubblicare album di pregevole fattura fino ai giorni nostri (i miei preferiti tra tutti sono JT, That’s Why I’m Here, Hourglass, New Moon Shine, October Road e l’ultimo Before This World, uscito però per la Concord), il tutto senza perdere mai il suo stile raffinato e confidenziale, né la capacità di scrivere canzoni semplici ma mai scontate.

A differenza dei capelli, che rimarranno ben presto un ricordo.

Marco Verdi