Un’Ottima Band Che Porta Avanti Le Tradizioni Montanare. Appalachian Road Show – Tribulations

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Appalachian Road Show – Tribulations – Billy Blue Records/New Day CD

Ormai quella delle string bands (ovvero quei gruppi che rielaborano la tradizione folk e bluegrass utilizzando perlopiù strumenti a corda acustici) è diventata una delle nicchie più importanti della musica roots americana, data la grande quantità di nuovi nomi che quasi mensilmente decidono di seguire le orme di Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e colleghi vari. Ma se nella maggior parte dei casi i gruppi in questione adattano quel tipo di suono alle loro esigenze aggiungendo talvolta dosi di country-rock e perfino di pop, ce ne sono altri che decidono di non muoversi dalle sonorità di 70-80 anni fa. Tra questi un posto di primo piano lo occupano certamente gli Appalachian Road Show, un quintetto che ha esordito due anni fa con l’album omonimo e che ora decide di concedere il bis con Tribulations. Gli ARS non sono però una band di novellini, bensì una sorta di supergruppo formato da tre sessiomen che forse diranno poco al grande pubblico ma hanno suonato con gente del calibro di Dolly Parton, Josh Turner e Rhonda Vincent e hanno vinto anche alcuni Grammy: si tratta del banjoista e cantante Barry Abernathy, del mandolinista e cantante Darrell Webb e del violinista Jim VanCleve (completano il quintetto il bassista Todd Phillips, in passato membro del David Grisman Quintet, e del giovane chitarrista Zeb Snyder, che per la sua abilità con lo strumento è stato paragonato addirittura a Doc Watson e Norman Blake).

Il nome del gruppo non è casuale, in primo caso perché i tre componenti principali provengono tutti dai Monti Appalachi (Abernathy dal versante georgiano, VanCleve da quello del North Carolina e Webb dal West Virginia), ma soprattutto in quanto il loro repertorio è basato esclusivamente su brani della tradizione montanara con canzoni che vanno indietro anche di più di un secolo, ed anche i pochi pezzi originali si basano sullo stesso tema. Tribulations è quindi una sorta di concept album con tanto di parti narrate qua e là nel quale i nostri raccontano a modo loro le tradizioni degli Appalachi e le storie inerenti a quella zona geografica, e dal punto di vista musicale è un album da godere dalla prima all’ultima nota. I cinque sono infatti dei virtuosi dei rispettivi strumenti (pare che le loro esibizioni live siano imperdibili), ma la loro tecnica non è fine a sé stessa bensì messa al servizio delle canzoni scelte, con montagne (tanto per stare in tema) di feeling e passione. Non cercate in questo lavoro contaminazioni rock e pop: qui c’è solo purissima musica bluegrass, folk e country, con qualche elemento gospel qua e là.

Il disco si apre, dopo una breve introduzione narrata, con il noto traditional Don’t Want To Die In The Storm, che inizia a cappella e poi si rivela un godibilissimo folk-grass che sembra uscito da un disco di ottanta anni fa, con ottimi intrecci strumentali. In Goin’ To Bring Her Back (scritta da VanCleve, ma la melodia è tradizionale al 100%) i nostri cominciano a suonare a velocità supersonica, con chitarra, banjo e mandolino che vanno talmente spediti che sembra che qualcuno abbia accelerato il nastro; Sales Tax On The Women (brano degli anni trenta dei Dixon Brothers) è un pezzo decisamente allegro e ritmato pur in assenza di batteria, un brano ricco di swing che si pone tra i più riusciti, mentre Wish The Wars Were All Over è intensa, drammatica e dal sapore irlandese, con il violino protagonista (ed è uno dei brani più moderni, essendo stato scritto da Tim Eriksen e pubblicato anche da Joan Baez nel suo ultimo Whistle Down The Wind). Goin’ Across The Mountain è un traditional della guerra civile inciso in passato anche da Pete Seeger, e qui è una deliziosa folk tune, pura e cristallina come appunto l’acqua di montagna, brano che sfocia nella magnifica The Appalachian Road, uno strumentale bluegrass originale che però si rifà chiaramente a modelli antichi, con assoli che si sprecano di tutti gli strumenti tranne il basso (e con Snyder che si conferma un chitarrista provetto).

Gospel Train è un canto del 1800 dalle origini afroamericane che qui viene eseguito interamente a cappella, Beneath The Willow Tree (conosciuta anche come Bury Me Beneath The Willow) ha una strumentazione countreggiante che si contrappone alla melodia tesa e drammatica, con il mandolino a dettare legge; con 99 Years And One Dark Day (di Jesse Fuller) siamo ancora in territori bluegrass, un pezzo orecchiabile e diretto eseguito in maniera scintillante e con il violino che fa i numeri, mentre Hard Times Come Again No More è una delle più note canzoni del songbook americano e gli ARS la rileggono con un accompagnamento scarno volto ad evidenziare la splendida melodia: bella versione, sentita e profonda. L’album si chiude con la lenta title track, un brano fluido e limpido che è il degno finale di un disco che mantiene alta la bandiera della tradizione folk e bluegrass, dando finalmente visibilità ad un gruppo di sessionmen dalle notevoli capacità.

Marco Verdi