Un Evidente Caso Di Megalomania: Strano Era Vent’Anni Fa E Strano Rimane Oggi! Alan Vega/Alex Chilton/Ben Vaughn – Cubist Blues

cubist blues

*NDB La piccola aggiunta al titolo l’ho fatta io, è riferita all’autore dell’articolo ed è ovviamente ironica ed affettuosa, ma ci sta! La parola a Marco.

Alan Vega/Alex Chilton/Ben Vaughn – Cubist Blues – Light In The Attic CD

State per assistere ad una operazione di “auto-riciclaggio”. Approfittando della ristampa a distanza di quasi vent’anni (da parte della Light In The Attic, etichetta di Seattle specializzata nel recupero di dischi oscuri, già responsabile in passato delle ristampe per la prima volta in suolo americano dei due mitici album di Sixto Rodriguez) di questo disco inciso dall’ex Suicide Alan Vega insieme all’ex Box Tops e Big Star Alex Chilton (nel frattempo passato a miglior vita) ed al rocker Ben Vaughn, un vero outsider di cui si sono un po’ perse le tracce (anche se incide ancora), e dato che nel 1996 per il Buscadero lo avevo ascoltato io, ho pensato di riproporre pari pari la mia recensione di allora, anche perché anche a distanza di cinque lustri (*NDB Facciamo quattro?) il mio parere è rimasto tale e dunque non cambierei una virgola.

Ma andiamo quindi con Cubist Blues 2.0.

Un supergruppo strano per un disco ancora più strano.

Che Ben Vaughn e l’ex Big Star e Box Tops Alex Chilton (due nostri beniamini) si siano messi insieme per fare un disco non sorprende più di tanto: lo strano è che il terzo invitato sia Alan Vega, musicista newyorkese che, in duo con Martin Rev negli anni settanta e sporadicamente negli ottanta, era l’autore di una musica elettronica d’avanguardia, allucinata e comunque poco digeribile sotto il moniker di Suicide (anche se Springsteen è un fan). Ebbene, non si sa come, i tre si sono trovati in uno studio nella lower Manhattan e, canzone dopo canzone, hanno messo a punto un intero album in presa diretta (le sovrincisioni sono pochissime, niente sessionmen, ed in alcuni brani non c’è neppure il basso), dandogli poi l’enigmatico titolo di Cubist Blues. La parte del leone la fa comunque Vega, in quanto Vaughn e Chilton si limitano ad accompagnare la strana voce del newyorkese, mentre la musica non è proprio come quella dei Suicide…ma quasi!

L’opening track, la lunga Fat City, è il manifesto dell’album: una ritmica incalzante, con la voce malata di Vega che sussurra, parla, ogni tanto si ricorda di cantare, grida, il tutto con il rumore del traffico cittadino sullo sfondo, e la chitarra di Chilton che assume tonalità quasi alla Link Wray. Fly Away prosegue sugli stessi toni, ma è più involuta e fin troppo cerebrale; in Freedom finalmente Vega canta, e la melodia è gradevolissima (anche se costruita intorno al synth) e molto sixties, grazie anche ai ricami chitarristici di Alex.

Il disco continua così, tra canzoni di difficile assimilazione (Too Late è quasi musica minimale alla La Monte Young) e momenti di folle lucidità (Sister, un quasi-blues ipnotico), con la voce di Alan che fa il bello ed il cattivo tempo, ed il duo Chilton-Vaughn che si muove in territori non certo abituali. Qualcuno leggendo queste righe potrebbe avvicinare questo disco a quello degli Eels (NDM: all’epoca della recensione originale era appena uscito l’ottimo esordio Beautiful Freak del gruppo di Mark Everett, un disco a mio parere mai più eguagliato), ma a torto, in quanto il trio EButchTommy, in mezzo ad una grande quantità di suoni obliqui, valorizza la melodia pura, mentre in Cubist Blues le melodie vengono sistematicamente fatte a pezzi da Vega.

Quindi un disco strano, non brutto, ma di sicuro non facilmente assimilabile e, visto i prezzi correnti dei CD, non da acquistare a scatola chiusa.

Marco Verdi