Un Buon Produttore, Una Buona Band, Forse Non Tutto E’ Perfetto, Ma Molto Meglio Di Quanto Mi Aspettassi. Santana – Africa Speaks

santana africa speaks

Santana – Africa Speaks – Concord/Universal

Dopo l’ottima parentesi della reunion della Santana Band, che registrò i primi tre epocali album tra il 1969 e il 1971 https://discoclub.myblog.it/2016/04/10/supplemento-della-domenica-anticipazione-unoperazione-marketing-anche-finalmente-gran-bel-disco-santana-santana-iv/ , il nostro amico Carlos torna alla carica con un nuovo album Africa Speaks, che vuole appunto esplorare i suoni e i ritmi del continente africano, miscelandoli con il classico latin rock del musicista messicano (anche se ormai californiano da decenni), a cui si aggiunge il solito pizzico abbondante di jazz e molti altri elementi buttati nel calderone. Prima di proseguire specifico subito onestamente che abitualmente non sono un particolare amante di questo tipo di sonorità (non quelle di Santana, ma la musica afro in generale) però credo di essere in grado di fornire un resoconto obiettivo dei contenuti di questo disco. Intanto alcuni fatti salienti: per produrre l’album è stato chiamato Rick Rubin, che neppure lui in precedenza aveva mai affrontato questo tipo di musica, ma non si è tirato indietro, aderendo anche alla richiesta specifica di Carlos di avere nel disco due vocalist femminili diciamo particolari.

La prima e più importante, perché a cantare nella quasi totalità delle canzoni è (Concha) Buika, cantante spagnola (di origini equatoguineane) candidata un paio di volte ai Grammy nella categoria Latina, e con una lunga carriera alle spalle, e l’altra Laura Mvula, ottima cantante inglese, le cui origini risalgono però anche per lei alle isole del Centro America. Rubin le ha contattate, hanno risposto positivamente entrambe e sono state imbarcate nel progetto, durante il quale, secondo le parole di Santana, in un periodo di dieci giorni negli Shangri La Studios di Malibu di proprietà di Rubin, sono state registrate 49 canzoni. 11 delle quali sono state utilizzate per l’album. Santana presenta Buika come un incrocio tra Nina Simone, Etta James, Tina Turner e Aretha: ora non voglio dire che il buon Carlos si sia bevuto il melone, ma mi sembra un tantino esagerato, anche se è legittimo che lo dica, probabilmente sbaglio io. Comunque nel disco suonano, tra gli altri, nei ruoli principali, anche la moglie Cindy Blackman alla batteria, l’ottimo bassista Benny Rietveld, l’organista e pianista David K. Mathews, nel ruolo che fu di Gregg Rolie, e il percussionista Karl Perazzo, quindi musicalmente ci siamo, il suono spesso è bello tosto e vibrante, sulle parti vocali di Buika, che ha scritto anche i testi dell’album su richiesta di Carlos, ho delle riserve (ovviamente personali), ma per dare subito un giudizio generale sul disco, direi che nell’insieme “l’esperimento” mi sembra più che riuscito, meno “pasticciato” che nelle recente produzioni, Santana IV escluso.

Poi vediamo i contenuti più nello specifico: l’iniziale Africa Speaks si apre su un florilegio di percussioni, una breve introduzione parlata di Santana, che inizia a lavorare subito con la sua chitarra, mentre la voce “declamatoria” e carica di Buika fa una breve apparizione insieme agli altri vocalist dell’album, ma è la solista la principale protagonista, nella improvvisazione che ci permette di gustare la chitarra feroce e scintillante, punteggiata dagli interventi vocali e dal lavoro del piano di Mathews, una buona partenza. Batonga, fin dal titolo, ricorda le incursioni latine del gruppo, una delle classiche jam veloci e brillanti tipicamente alla Santana, dove l’asse si sposta sulla musica africana, anche se è cantata tra spagnolo e inglese, ma l’interplay tra la chitarra con wah-wah, l’organo e il basso rotondo di Rietveld è eccellente; Oye Este Mi Canto, ancora fondata su un dancing bass molto funky, prevede un corposo cantato di Buika, sostenuta dagli altri vocalist della band, poi il buon Carletto parte al solito per la tangente con un’altra scarica chitarristica ad alto potenziale, che diventa raffinata, sinuosa e sognante nel finale. Yo Me Lo Merezco vira verso timbriche decisamente più rock, un pezzo solido e tirato, con un bel riff, un ottimo cantato di Buika (ebbene sì), per un crescendo che ci porta a circa tre minuti di formidabile tour de force della solista in modalità wah-wah, chitarra poi protagonista assoluta anche nella lunghissima Blues Skies, un pezzo jazz-rock, dove nella prima parte si apprezzano anche le raffinate evoluzioni vocali della brava Laura Mvula, ma soprattutto le volute di chitarra e tastiere in un brano veramente eccellente nella sua mistica complessità.

Si torna al funky per la ritmatissima Paraisos Quemados, con Santana e Rietveld a scambiarsi riff goduriosi che non avrebbero sfigurato su Caravanserai, anche se il cantato mi sembra sempre un  tantino troppo “drammatico”, notevole anche Breaking Down The Door, un pezzo dove appaiono anche la fisarmonica, i fiati e le tastiere di Salvador Santana, altro esempio del classico tex-mex-latin-rock del passato, con la chitarra di Carlos in grande spolvero. Altre fucilate wah-wah nel groove battente della mossa  ed accattivante Los Invisbles, un clima più danzereccio nella leggera e piacevole Luna Hechicera, con le percussioni in grande evidenza a contenere la solista esuberante, scansioni ritmiche poi ribadite anche nella nuovamente latineggiante Bembele, ma hey stiamo parlando dei Santana. Con un ritorno alle solite contaminazioni con il rock nella conclusiva vibrante Candombe Cumbele dove Carlos conferma il suo piacere di suonare la chitarra con libidine e ferocia, anche a quasi 72 anni, come è da sempre la sua caratteristica principale, Cindy Blackman e soci percuotono i loro tamburi in approvazione. Alla fine, dopo un ascolto attento e ponderato, devo dire meglio di quanto mi aspettassi, un album “importante”, forse è anche per l’effetto Rubin che pesca il meglio senza farsi troppo notare.

Bruno Conti