L’Angolo Del Jazz. Parte Terza: Bill Frisell – Valentine

bill frisell valentine

Bill Frisell – Valentine – Blue Note CD

Bill Frisell, sopraffino chitarrista di orientamento jazz, durante la sua lunga carriera ha suonato di tutto. Dal suo esordio datato 1983 ad oggi ha pubblicato una miriade di lavori tra opere da solista e collaborazioni, spesso andando oltre il jazz e trascendendo i vari generi musicali, sperimentando via via con blues, country, folk e rock e realizzando dischi bellissimi come Nashville (forse il mio preferito), Gone Just Like A Train, Good Dog Happy Man, Blues Dream, The Willies, East/West, Big Sur (altro lavoro splendido), fino al recente Harmony, senza dimenticare il notevole Songs We Know, in duo con il pianista Fred Hersh, ed i due eccellenti album incisi come chitarrista del Ginger Baker Trio. Frisell è un chitarrista capace di coniugare tecnica e feeling, ed in grado di donare profondità con il suo tocco magico a tutti i brani a cui partecipa, cosa che lo ha portato negli anni ad essere rischiestissimo anche sui lavori altrui.*NDB Mi aggiungo io, ricordando un brano che secondo me contiene uno degli assoli più belli, lirici e lancinanti di Frisell, quello nella cover di Going Going Gone di Bob Dylan contenuta nel doppio CD Rubaiayt, che festeggiava i 40 anni della etichetta Elektra, cantata da Robin Holcomb, la trovate come brano n.25, a circa 1 ora e 33 minuti di questo link https://www.youtube.com/watch?v=h1sPaQVV684).

Valentine è il nuovo CD di Bill, ed è a mio parere uno dei suoi più riusciti, un lavoro che rappresenta una sorta di riepilogo di tutti gli stili provati in carriera: l’album è prodotto come d’abitudine da Lee Townsend (e mixato da Tucker Martine, noto per la sua collaborazione con i Decemberists) e vede il nostro esibirsi in trio assieme all’ottima sezione ritmica formata da Thomas Morgan al basso e Rudy Royston alla batteria, due musicisti con i quali Frisell ha un’intesa a prova di bomba in quanto lo accompagnano da anni on stage, ma che qui incidono con lui per la prima volta in studio. Valentine è un disco quasi perfetto nel suo genere, un album che si divide tra brani autografi vecchi e nuovi (la maggioranza) e qualche cover di estrazione molto eterogenea, il tutto con il comune denominatore della creatività di Bill e dei suoi compagni, che per tutti i 65 minuti del CD lasciano volare liberi i loro strumenti nell’aria. Apre il lavoro Baba Drame, un pezzo del cantautore del Mali Boubacar Traoré, brano attendista con Frisell che ricama di fino all’elettrica: c’è del rock ma non è un pezzo rock, ha la struttura tipica del trio jazz ma il jazz è solo sfiorato, e le percussioni aggiungono un sapore etnico.

Hour Glass è ipnotica, quasi psichedelica, e lascia il passo alla godibile title track, questo sì puro jazz, un brano che coniuga swing ed improvvisazione con una classe sopraffina (un applauso va anche ai due accompagnatori di Bill), mentre la notevole Levees mette insieme jazz ed influenze blues desertiche, un pezzo che piacerebbe molto ai Calexico. La rilassata e sinuosa Winter Always Turns To Spring Frisell l’aveva già incisa per l’album Ghost Town, ma qui mi sembra più ispirata; Keep Your Eyes Open è una deliziosa e quasi solare ballata accarezzata dal country e con un leggero mood anni 60: splendida. Altri episodi degni di nota sono lo standard A Flower Is A Lovesome Thing (composto da Billy Strayhorn), uno slow profondo e con un gran lavoro di basso, la western song Wagon Wheels (ma negli anni diventata anche un classico jazz), elegantissima e suonata in punta di dita, una rilettura pulsante ed assolutamente creativa di What The World Needs Now Is Love di Burt Bacharach, tra le più riuscite del CD, e l’acustica e leggiadra Where Do We Go?, in cui i nostri flirtano ancora col country; chiusura con una toccante versione della popolarissima folk song We Shall Overcome, quasi irriconoscibile ma densa di lirismo. Valentine quindi non è un disco di puro jazz, come non lo è di folk, blues, country, rock o fusion, ma è solo ed esclusivamente grande musica.

Marco Verdi

Nuovi E Splendidi Album Al Femminile: Parte 2. Sarah Siskind – Modern Appalachia

sarah siskind modern appalachia

Sarah Siskind – Modern Appalachia – Red Request/Concord CD

Sarah Siskind è una brava cantautrice e folksinger del North Carolina con una mezza dozzina di album pubblicati a partire dal 2002, e che negli anni ha ricevuto diversi apprezzamenti da colleghi anche illustri che hanno inciso le sue canzoni (Alison Krauss, Randy Travis, Wynonna Judd) o che, come nel caso dei Bon Iver, l’hanno voluta come supporting act nei loro concerti esibendosi anche in duetto con lei. Negli ultimi anni si erano perse un po’ le tracce della Siskind (nata Sarah Wingate), dato che il suo ultimo album In The Mountains risaliva al 2015: è quindi con piacere che ho accolto questo suo nuovo lavoro, intitolato Modern Appalachia, e già dal primo ascolto posso affermare di trovarmi davanti al suo lavoro più completo, maturo e riuscito. La scintilla che ha dato vita a questo album è scaturita quando quattro anni fa Sarah ha visto esibirsi in un locale dove facevano musica dal vivo un terzetto di jazz-rock-fusion formato da Mike Seal alla chitarra, Daniel Kimbro al basso e Jeff Sipe alla batteria, rimanendone talmente colpita da reclutarli per il suo prossimo album; a questo punto mancavano le canzoni, e Sarah si è presa tutto il tempo per scriverle, andando in studio coi tre musicisti solo quando si sentiva pronta, con l’aiuto del co-produttore e tecnico del suono Jason Lehning e registrando praticamente in presa diretta, con pochissime sovraincisioni.

Il risultato è un bellissimo album di folk cantautorale moderno con elementi jazz e rock legati al trio che accompagna la Siskind, la quale ha peraltro portato in dote una serie di canzoni di qualità superiore, eseguendole con grande classe ed una straordinaria intesa con la band: talvolta il suono ricorda le escursioni in territorio folk di Bill Frisell (che infatti appare in due brani in qualità di ospite), altre volte il modo di suonare di Seal può essere paragonato a quello di Neil Young, ma in definitiva il merito della riuscita del lavoro è tutto di Sarah che ha avuto il fiuto di scovare il gruppo giusto per le sue canzoni (ed il titolo del CD, Modern Appalachia, rende perfettamente l’idea). Il brano più lungo del disco, oltre sette minuti, è anche quello posto in apertura: Me And Now è un pezzo decisamente affascinante dall’atmosfera rarefatta, con la chitarra elettrica sullo sfondo e la sezione ritmica che accompagna con misura, e la voce di Sarah che si dipana sinuosa sciorinando un motivo che rivela l’influenza di Joni Mitchell, mentre la produzione ha similitudini con lo stile di Daniel Lanois. La title track è il primo dei due brani con Frisell, ed è molto più folk del precedente e per certi versi anche meglio: il ritmo è vivace ma soffuso, le chitarre ricamano che è un piacere e Sarah tira fuori un motivo diretto ed intenso (con Frisell che viene addirittura citato nel testo); Carolina vede il ritmo alzarsi ancora per un folk-rock dall’approccio nuovamente mitchelliano ed un coinvolgente background sonoro, con l’aggiunta di Justin Vernon (deus ex machina dei Bon Iver) che rilascia un ispirato assolo chitarristico e partecipa anche alle armonie vocali.

The One è una raffinata ballata dall’assunto molto piacevole ed eseguita in maniera rilassata ed elegante come al solito: devo dire che la Siskind ha davvero scelto bene i musicisti, che sembrano nati per accompagnare al meglio le sue canzoni. La lenta In The Mountains è il rifacimento della title track del suo penultimo lavoro ed è splendida, un sontuoso pezzo dallo script country-folk ma con la strumentazione elettrica, la solita notevole prestazione chitarristica ed un ritornello di sublime fattura. A Little Bit Troubled è finora il pezzo più rock e grintoso, ma Sarah si muove bene anche in questi territori grazie ad un senso della melodia non comune (e la band…che ve lo dico a fare?), Maybe There’s Love Between Us è più attendista ma è dotata di un lento e costante crescendo, Danny è puro folk-rock elettrificato, una canzone deliziosa e suonata al solito in modo perfetto (sentite la chitarra). Punk Rock Girl è cadenzata e diretta anche se molto più gentile di quello che potrebbe far pensare il titolo (ed il refrain è super), la delicata e rarefatta Porchlight vede ancora Frisell tessere squisiti fraseggi con la sua inimitabile chitarra, mentre Rest In The River, scandita da un drumming marziale, è decisamente folk nella struttura, come se uscisse da un album recente degli Steeleye Span; il CD si chiude con la struggente ballata I Won’t Stop, in cui Sarah è affiancata dalla cantautrice canadese Rose Cousins.

Sapevo che Sarah Siskind era brava, ma un disco bello come Modern Appalachia proprio non me lo aspettavo.

Marco Verdi

7 Settembre 2018: Il Giorno Dei Paul! Parte 1: Paul Simon – In The Blue Light

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Paul Simon – In The Blue Light – Sony CD

Per pura coincidenza, i due Paul più famosi della musica contemporanea, cioè Paul Simon e Paul McCartney, hanno deciso entrambi di fare uscire i loro nuovi lavori il 7 Settembre. Oggi comincio con l’esaminare la proposta del cantautore americano, domani sarà la volta del Paul inglese.

A mio modesto parere (ma so di essere in buona compagnia) Paul Simon non fa un grande disco da un’era geologica, cioè dal mitico Graceland del 1986: The Rhythm Of The Saints (1990) era comunque un buon album, ma alternava grandi canzoni a momenti di noia, mentre You’re The One (2000) aveva il suono ma mancava clamorosamente di canzoni valide, e Surprise (2006), nonostante la presenza di Brian Eno, era sullo stesso livello di mediocrità. Gli ultimi due lavori del songwriter newyorkese, So Beautiful Or So What ed il recente Stranger To Stranger https://discoclub.myblog.it/2016/06/03/sempre-il-solito-simon-complesso-moderno-dai-suoni-stranieri-paul-simon-stranger-to-stranger/ , erano un po’ meglio, ma anche lì non è che i pezzi memorabili abbondassero, e Paul si salvava col mestiere e mascherando il tutto con una produzione ed un suono eccellenti (ho tralasciato, in quanto non era un album vero e proprio, la colonna sonora del fallimentare musical The Capeman: a me era piaciuta, ma non ditelo a nessuno). Mentre scrivo queste righe Paul sta ultimando il suo tour d’addio Homeward Bound, che si concluderà il 22 Settembre al Flushing Meadows Corona Park di New York (nei Queens, vicino a dove andava a scuola da bambino, aspettiamoci ospiti e l’immancabile album dal vivo), e per celebrare meglio il nostro ha deciso di dare alle stampe questo In The Blue Light, album nuovo di zecca che però non contiene inediti, ma dieci brani da lui scelti dal suo repertorio e incisi ex novo, con arrangiamenti totalmente ripensati.

Paul non ha scelto i brani più noti del suo songbook, ma canzoni minori che forse per lui avevano un significato particolare, e le ha davvero rivoltate come calzini, in collaborazione con il suo storico produttore ed amico Roy Halee (tornato a bordo già con Stranger To Stranger). Simon ha sempre avuto una cura maniacale per gli arrangiamenti, ed è stato un pioniere per quanto riguarda le contaminazioni musicali ed i suoni influenzati da culture lontane dalle nostre, però in Into The Blue Light Paul non ha inserito nessuna sonorità “etnica”, ma ha scelto comunque una serie di musicisti del pedigree formidabile: oltre ai soliti noti Steve Gadd e Vincent Nguini, abbiamo gente come John Patitucci, Bill Frisell, Jack DeJohnette, Wynton Marsalis, Sullivan Fortner ed in due pezzi il sestetto d’archi yMusic. Come avrete notato, una lista di musicisti che proviene dal modo del jazz, ed infatti è proprio il jazz la base dei nuovi arrangiamenti pensati da Paul, una rielaborazione di gran classe e raffinatezza, con un gusto sopraffino per i suoni calibrati al millimetro, anche se questo non basta per fare un grande disco. Le canzoni infatti sono contraddistinte da un passo spesso lento, a volte anche lentissimo, e le atmosfere sono qua e là un po’ freddine anche se il tutto risulta tecnicamente ineccepibile: ma Simon ha sempre fatto musica più con la testa che con il cuore, e non potevo certo pensare che cambiasse a quasi ottant’anni.

Il pezzo più noto del disco è senza dubbio René And Georgette Magritte With Their Dog After The War, tratto da Hearts And Bones che era uno dei suoi album migliori di sempre (e forse non tutti sanno che in origine doveva essere il reunion album di Simon & Garfunkel, poi i due hanno “stranamente” litigato): canzone splendida, che fa la sua bella figura anche in questa versione minimale e cameristica, essendo infatti uno dei due pezzi con il sestetto yMusic (più Paul alla chitarra elettrica), con gli archi che accarezzano la melodia facendola risaltare ancora di più. Un altro pezzo che ogni tanto negli anni Paul riproponeva dal vivo è One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor (tratta da There Goes Rhymin’ Simon) un brano bluesato che qui mantiene l’impianto originario aggiungendo un sapore jazz: ritmo cadenzato, ottimo pianoforte di Joel Wenhardt ed un crescendo strumentale notevole, che culmina con l’ingresso di tromba e sax. Uno dei pezzi con più brio, ed infatti è stato messo in apertura di CD. Io non avrei preso in considerazione l’album You’re The One per scegliere canzoni da riarrangiare, dato che lo considero il meno riuscito di tutta la carriera di Paul, che però evidentemente la pensa in modo diverso, dato che di brani da quel disco ne ha scelti ben quattro: in Love sono solo in quattro a suonare, con la riconoscibilissima chitarra di Frisell come leader, per un brano soffice e rilassato, suonato con classe ma sul quale mantengo le mie perplessità riguardo allo script, Pigs, Sheep And Wolves, solo voce, percussioni ed una sezione fiati di sei elementi guidati dalla tromba di Marsalis, è rielaborata quasi dixieland, ma anche qui la canzone latita parecchio, mancando di una vera e propria melodia.

The Teacher è un po’ meglio, sia per un miglior motivo di fondo che per il bell’accompagnamento chitarristico dei fratelli brasiliani Odair e Sergio Assad, in stile flamenco, mentre la lunga (più di sette minuti) Darling Lorraine è suonata alla grande, con una band da sogno che vede in contemporanea Frisell, Nguini, Gadd e Patitucci, e la canzone ne esce migliorata. Can’t Run But (da The Rhythm Of The Saints) è l’altro pezzo con gli yMusic, che qui suonano in maniera nervosa e movimentata, aderendo in maniera perfetta alla linea melodica del brano: Paul canta con il consueto fraseggio vocale rilassato ed il tutto risulta intrigante (l’arrangiamento è di Bryce Dessner, chitarrista e membro di punta dei National). How The Heart Approaches What It Yearns, che viene da One Trick Pony, è puro jazz d’atmosfera, con un accompagnamento di classe sopraffina, che vede la tromba di Marsalis gareggiare in bravura col fantastico piano di Fortner ed il basso di Patitucci: se proprio vogliamo è un po’ soporifera, ma volete mettere addormentarsi con musicisti come questi? Il disco termina con Some Folks Lives’ Roll Easy (presa da Still Crazy After All These Years), tutta incentrata sullo splendido piano classicheggiante di Fortner e con la sezione ritmica Patitucci/DeJohnette che spazzola sullo sfondo, e con Questions For The Angels, che era una delle canzoni migliori di So Beautiful Or So What, ed anche qui si colloca tra le più riuscite, con begli intrecci tra l’acustica di Simon e l’elettrica di Frisell.  Un buon disco quindi, ma non il grande disco che da troppi anni i fans di Paul Simon aspettano, un po’ per la discutibile scelta di alcune canzoni, un po’ per il poco calore umano del suo autore, più propenso a confezionare piccoli e raffinati capolavori di tecnica strumentale che a regalare emozioni.

Marco Verdi

P.S: tra pochi mesi, forse già entro l’anno a detta di qualcuno, Simon dovrebbe pubblicare anche Alternate Tunings/Rare and Unreleased, una collezione appunto di rarità, demos ed inediti presi da vari momenti della sua carriera. Sulla carta dovrebbe essere un disco imperdibile, ma vedremo meglio al momento dell’uscita.

E Costui Da Dove Sbuca? Ma Che Chitarrista Ragazzi! Kevin Breit – Johnny Goldtooth and The Chevy Casanovas

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Kevin Breit – Johnny Goldtooth and The Chevy Casanovas – Stony Plain

Kevin Breit, chi è costui, e soprattutto da dove sbuca, vi chiederete voi? Viene da McKerrow, un piccolo paesino dell’Ontario, quindi canadese, e già questo depone a suo favore: ha vinto svariati premi, soprattutto per album strumentali (e ne ha incisi almeno una decina, poi trovarli è un altro paio di maniche) in Canada, tra cui un paio di Juno Awards, ma come musicista ha partecipato a dischi che complessivamente hanno ricevuto 13 Grammy, e il suo nome lo trovate nei credits di album di Norah Jones, Rosanne Cash, k.d. Lang, Hugh Laurie, Cassandra Wilson, Holly Cole, Jane Siberry, Serena Ryder, Taj Mahal, Irma Thomas e tantissimi altri. Ah dimenticavo: suona la chitarra, ed è uno dei più bravi in circolazione, ma se serve se la cava egregiamente pure a bass clarinet, contrabbasso, vibrafono, melodica e organo, e in questo Johnny Goldtooth & The Chevy Casanovas li suona tutti (volendo canta anche ed è un anche virtuoso del mandolino. Genere musicale praticato? Boh. Pensate ad un incrocio tra Danny Gatton, Buddy Miller, James Burton, per fare i primi nomi che mi vengono in mente, dotato di tecnica ovviamente mostruosa, ma anche una propensione al “cazzeggio” musicale per stemperare il suo virtuosismo debordante, quindi ascoltando i brani di questo CD non ci si annoia di sicuro.

C’è del jazz, del country con tanto di twangy guitar in azione, l’immancabile Americana sound (quando non si sa esattamente il genere, citare sempre), qualche escursione nelle eccentriche traiettorie musicali di un Marc Ribot o di un Bill Frisell, quindi anche un pizzico di Tom Waits ma senza la voce, dei brani che ricordano degli Hellecasters schizzati (avete presente? Will Ray, John Jorgenson e Jerry Donahue), per esempio in un pezzo come Zing Zong Song, oppure il Waits blues e “wordless” in una quasi maniacale The Goldtooth Shuffle, per delle 12 battute molto futuribili e stravaganti, con la chitarra che parte per la tangente con sonorità veramente sghembe e non usuali, anche con slide. Nel disco appaiono con lui Davide Direnzo, il batterista di Cassandra Wilson, che suona in tutti pezzi, Michael Ward Bergman ( che suona nel Silk Road Ensemble di Yo Yo Ma), alla fisarmonica in un brano vorticoso intitolato I Got ‘Em Too, tra country, cajun e musica da festa di paese, ma dalle parti del confine messicano, giuro. Nell’iniziale Chevy Casanova appare Vincent Henry a sax e flauto, uno che ha suonato con Waits (appunto) e Amy Winehouse, e siamo dalle parti di uno strano R&B, misto a musica per colonne sonore, una traccia con continui cambi di tempo e variazioni, dove si apprezza il virtuosismo sopra (e sotto) le righe del pentagramma di Kevin Breit, che assume connotati ancora più inusuali nella non etichettabile C’Mon Let’s Go, dove il clarinetto basso di Breit si intreccia con una chitarra che sta tra i riff del rock e delle sonorità trasversali e quasi acide che sfociano in un assolo incredibile, ma non è facile da descrivere la musica di questo signore, bisogna sentirla e vi consiglio vivamente di farlo per convertirvi al suo approccio inconsueto ma eccitante.

The Knee High Fizzle sembra quasi un esperimento di Danny Gatton nei ritmi del country, con una twangy guitar impazzita sul solito tappeto ritmico complesso dove si annidano anche il vibrafono e il clarinetto di Breit, impegnato vieppiù a sconcertare l’ascoltatore con suoni e timbriche eccentriche ma affascinanti. Cozy With Rosy (divertenti anche i titoli) si avvale, come pure altri brani, della tromba del compatriota Gary Diggins, in un incontro tra musica hawaiiana (la chitarra di Kevin assume quel vibrato particolare della slack-key) e un mezzo valzer dissonante, io ci provo a descriverla questa musica, ma forse è più semplice lasciarsi trasportare dalla genialità di questo vero asso della chitarra, libero nei suoi dischi solisti di dare libero sfogo ad una inventiva sfrenata. Anche Crime Holler ha un arrangiamento curatissimo, ma spiazzante, dove avanguardia e voglia di divertire ricordano per certi versi il compianto Frank Zappa, che era uno che amava una musica complessa ma ricca anche di spunti divertenti e che sorprendessero chi l’ascoltava, con la chitarra che folleggia sempre in modo splendido, diciamo in un approccio non convenzionale. A Horse By Another Stripe è una sorta di desert song tra Calexico e Morricone, che viene omaggiato (penso, almeno nel titolo, ma non solo) anche nella conclusiva Dr. Lee Van Cleef, aggiunta per confondere ancora di più le acque, o forse perché i dischi di Kevin Breit devono avere comunque 11 canzoni. Ma prima ci sarebbe anche One Mo Bo, dove l’urticante solista del nostro si pone su un intricato tappeto di organo e batteria e dimostra una volta ancora che la sua musica non si può catalogare, ma è solo da godere, maneggiare con cura, in tutti i sensi: il mio nuovo “eroe”!

Bruno Conti

In Viaggio Attraverso Le Note Ammalianti Della Band Di Josh Haden. Spain – Live At The Lovesong

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Spain – Live At The Lovesong – Glitterhouse Records LP – CD – Download

Josh Haden, leader indiscusso degli Spain,  altri clienti abituali su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2016/07/02/nel-nome-del-padre-spain-carolina/ , è un uomo di altri tempi: dopo la morte del padre, il mitico Charlie Haden, contrabbassista jazz di fama mondiale, avvenuta nel 2014, ha portato la sua band a suonare periodicamente (ogni martedì,) sul palco del Love Song Bar di Los Angeles, in serate aperte a continue ospitate (Bill Frisell, Matt DeMerritt, Joe Baiza, Bobb Bruno, Ryan Qualls, Craig Haynes e la sorella Pedra Haden), instaurando quindi un rapporto con il pubblico intimo e coinvolgente. Fortunatamente la benemerita Glitterhouse, dopo aver ascoltato alcuni nastri di questi eventi, si è convinta a farne un disco live, e nelle varie serate a salire sul palco la “line-up” degli Spain era composta da Josh voce e basso, Kenny Lyon alla chitarra, Shon Sullivan alle tastiere, Danny Frankel alla batteria, Joe Wong alle percussioni, riproponendo in versioni alternative e dilatate alcuni brani del proprio repertorio, pescando principalmente dal magnifico esordio The Blue Moods Of Spain, il tutto con la produzione musicale di Nate Pottker.

Come i titoli suggeriscono e chi conosce gli Spain ne troverà conferma, si tratta di musica d’atmosfera, come propone subito l’iniziale e poco convenzionale Tangerine, che  vede come ospite il sassofonista di Macy Gray Matt DeMerritt, a dare un impronta jazz all’arrangiamento del brano, seguito dalla bellissima, ma poco nota, Every Time I Try, cantata da Ryan Qualls che viene ripescata dalla colonna sonora di The End Of Violence, un film del lontano ’97 diretto da Wim Wenders, per poi saccheggiare dal citato The Blue Moods Of Spain una versione “psichedelica” di World Of Blue, dove spicca anche il chitarrista jazz Bobb Bruno, la tenue e come sempre bellissima Untitled N° 1, con il batterista jazz Craig Haynes e la tromba del bravo Mike Bolger, e una stratosferica versione di Ray Of Light dove troviamo sul anche palco la chitarra di Bill Frisell, il basso di Zander Schloss (Circle Jerks, Red Hot Chili Peppers) e il violino della sorella Petra Haden, salutata con giubilo dai clienti (e non poteva essere altrimenti), con tanto di slide e melodica aggiunte alle operazioni, per quindici minuti di musica di altissimo livello.

La parte finale dà spazio alle canzoni più recenti, una From The Dust recuperata da Sargent Place, rivoltata come un  calzino e che vede come ospite la chitarra rock-jazz di Joe Baixa, e con il “southern-rock soft” di Lorelei, tratta dal recente Carolina, per concludere con la classica e meravigliosa Spiritual, un lungo blues con ampio spazio alla voce di Petra e al coro dei Mystery Gospel Choir. Meritati applausi e sipario. Quindi dopo una carriera che ha superato ampiamente le due decadi, certificata dagli otto album precedenti, in bilico fra gli umori contaminati del folk-blues, Americana, e leggere sfumature jazz, occorre anche dire che in questo “live” brani vecchi e nuovi contribuiscono a formare una scaletta ben bilanciata, che non fa che confermare ancora una volta che gli Spain di Josh Haden sono una delle formazioni più interessanti e ingiustamente sottovalutate del sottobosco indipendente americano!

NDT: Se non fosse stato che Los Angeles non è proprio dietro l’angolo, un salto era da fare, ma se per caso dovessero ripetere l’esperienza (durata da maggio 2016 a marzo 2017) e avete un martedì sera libero, fateci un pensierino e andate a bervi una buona birra, in caso contrario “accontentatevi” di questo disco, inizialmente disponibile solo in doppio vinile e per il download, ma a breve previsto anche in una versione a tiratura molto limitata, solo per il mercato americano, in CD.

Tino Montanari

Il Miglior Disco Del 2016? Forse E’ Presto, Ma… Lucinda Williams – The Ghosts Of Highway 20

lucinda williams the ghosts of highway 20

Lucinda Williams – The Ghosts Of Highway 20 – 2 CD Highway 20/Thirty Tigers

Ovviamente è presto per fare pronostici, ma Lucinda Williams ci aveva lasciato nell’ottobre del 2014 con quello che poi si era rivelato, probabilmente (come si sa, ognuno ha i suoi gusti), come uno dei migliori dischi dell’anno, Down Where The Spirit Meets The Bones, un formidabile doppio album che aveva confermato il suo status come una delle migliori cantautrici sulla faccia del pianeta http://discoclub.myblog.it/2014/09/30/il-buon-vino-invecchiando-migliora-sempre-piu-lucinda-williams-down-where-the-spirit/ , ed ora, a poco più di un anno, ne pubblica un altro, The Ghosts Of Highway 20, sempre doppio, ma con 14 canzoni rispetto alle 20 del precedenti, che è altrettanto bello, forse un filo meno immediato e quindi da assimilare magari più lentamente. Le canzoni dell’album ruotano attorno alla Highway 20, la cosiddetta Interstate 20, che dal South Carolina porta al Texas, attraverso gli Stati del Sud degli States Come al solito per Lucinda, storie di perdenti, amanti, paesaggi che gravitano intorno alla strada e si intrecciano con il suo percorso, personaggi veri ed inventati, passati e presenti, “fantasmi” che popolano l’immaginario dei suoi brani, sempre imbevuti da un’anima musicale profondamente rock: 86 minuti di musica divisi su due compact, dove i suoi compagni di avventura sono più o meno i soliti, Tom Overby, il marito della Williams, è sempre, con lei, il produttore del disco, e firma anche la title-track, Greg Leisz, con tutte le sue chitarre, soprattutto lap e pedal steel, di cui ormai è maestro incontrastato, questa volta è anche co-produttore, e divide con Bill Frisell il ruolo di solista.

Val McCallum, impegnato anche con Jackson Browne, appare solo in due brani, come chitarrista aggiunto, mentre la sezione ritmica è affidata ai soliti, e solidi, Butch Nortonalla batteria e David Sutton al basso, niente tastiere questa volta, visto che anche la Williams è impegnata a chitarre acustiche ed elettriche: solo nell’ultimo brano Faith And Grace, il più lungo, con i suoi quasi 13 minuti, appaiono come ospiti Carlton “Santa” Davis (il vecchio batterista di Peter Tosh) e il percussionista Ras Michael, all’hand drum. Partiamo proprio da questo pezzo, uno dei più ritmati, tinto, come era ovvio, vista la presenza di un batteria giamaicano, di ritmi reggae e caraibici, che chi mi legge saprà non prediligo particolarmente, se non presi in piccole dosi, ma in questo caso ci sta, visti in un’ottica jam che comunque mi piace: Greg Leisz in questo pezzo è più defilato, con la chitarra di Frisell che fa da contraltare alla voce di Lucinda nelle lunghe elucubrazioni di questa canzone, che conclude degnamente un album che adesso andiamo a vedere nella sua interezza.

Il paragone con il vino che invecchia l’ho già usato per il vecchio album, ma rimane valido anche per questo The Ghosts Of Highway 20, che si apre con un brano, Dust, ispirato da un poema di Miller Williams, il papà di Lucinda, scomparso circa un anno fa, il 1° gennaio del 2015, poeta, traduttore ed editore, che ha lasciato una profonda influenza sulla figlia: la canzone che prende lo spunto dalla polvere che ricopre le strade ha la classica andatura di molte delle canzoni della Williams, lenta e maestosa, si dipana sul lavoro delle chitarre di Leisz Frisell che poi nella parte centrale e finale del brano si lanciano nella classiche jam chitarristice che spesso contraddistinguono i suoi brani. E se il buongiorno si vede dal mattino anche la successiva House Of Earth, una ballata lenta, dolente e notturna, è una gran canzone, meno rock e tirata, ma sempre affascinante nel suo dipanarsi elettroacustico, ancora caratterizzato dal finissimo lavoro di cesello dei due chitarristi, il testo è di Woody Guthrie, con Lucinda Williams che ha aggiunto la musica. La forma della ballata, quella che forse Lucinda predilige viene ripresa anche nella successiva I Know All About It, qui messa in musica con un approccio quasi western, con tocchi jazz, dei due solisti, sempre soffuso e delicato il loro lavoro, in grado di dare forza alle liriche. Testi che sono importantissimi anche in Place In My Heart, brano dolcissimo che vive sull’interpretazione molto calda e malinconica della voce della Williams, accompagnata solo dalle due chitarre che sottolineano lo spirito delicato del brano, una sorta di valzer minimale. Eccellente anche Death Came (ma ci sono brani brutti?), che parte ancora solo con le due chitarre ma poi si anima leggermente con l’ingresso della sezione ritmica, sempre discreta e raffinata. Doors Of Heaven, più mossa e bluesy, ha anche uno spirito country e swampy nel suo Dna, grazie al lavoro intricato delle due chitarre, con Leisz alla slide, brano che fa da preludio alla lunga Louisiana Story, che ci porta nei territori natali della nostra amica, una ballata che riprende in parte i temi di Baton Rouge e li sviluppa, sempre in modo gentile e raffinato, attraverso un lento e meditato dipanarsi che si gusta con ripetuti ascolti, nei vecchi vinili questo segnerebbe la fine del primo album, ma vale anche in questo caso, per il doppio CD.

Si riparte con la title-track, The Ghosts Of Highway 20, uno dei due brani dove appare Val McCallum alla chitarra e qui il tessuto sonoro si fa decisamente più rock, con i solisti che si fronteggiano sui due canali dello stereo, fino alla immancabile coda strumentale, in una di quelle canzoni epiche che sono tipiche della musica di Lucinda Williams. Bitter Tears, di nuovo in solitaria con Frisell e Leisz, è un pezzo country fatto e finito, dal tempo veloce ed incalzante, una riflessione amara sui tempi passati. Poi c’è la sorpresa che non ti aspetti: una cover di Factory, proprio il pezzo di Bruce Springsteen, che però la nostra amica fa alla Williams, con il tempo rallentato ed avvolgente, solo la chitarra di Frisell a disegnare la melodia in modo acido e jazzato (ricordo un suo assolo memorabile in una versione di Going Going Gone di Dylan, cantata da Robin Holcomb per un tributo per i 40 anni della Elektra https://www.youtube.com/watch?v=ALM2SI0GZj8). Viceversa in Can’t Close The Door On Love è la melodia a fare da trave portante al tessuto sonoro della canzone, questa volta più ottimista e positiva, una ballata elettrica stupenda, una delle canzoni più belle del disco, da sentire e risentire.

lucinda williams photo shoot

Ci avviciniamo alla conclusione, rimangono If My Love Could Kill, brano giocato intorno all’elegante groove della batteria di Butch Norton, altra riflessione poetica sugli effetti dell’amore malato e senza futuro. di nuovo impreziosito dal lavoro dei due chitarristi, che poi lasciamo spazio a Val McCallum che torna per la solare e malinconica (sembra un contrasto insanabile, ma nelle canzoni della Williams non lo è) If There’s A Heaven, altro tassello della costruzione sonora di questo album che conferma, ribadisco, lo status di Lucinda Williams come una delle più grandi in assoluto nella musica che conta. Last but not least, come detto, troviamo i ritmi vagamente reggae-rock della lunghissima Faith And Grace che conclude in gloria un disco che si candida fin da ora tra i migliori del 2016! Esce venerdì 22 gennaio, in questi giorni è in tour in Europa, ma niente Italia.

Bruno Conti