Lo Springsteen Del Lunedì: Uno Degli Anni “Oscuri” Del Boss. Bruce Springsteen & The E Street Band – Palace Theatre, Albany 1977 – Auditorium Theatre, Rochester 1977

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Palace Theatre, Albany 1977 – nugs.net 2CD – Download

Bruce Springsteen & The E Street Band – Auditorium Theatre, Rochester 1977 – nugs.net 2CD – Download

Gli anni magici dei concerti dal vivo di Bruce Springsteen e della sua E Street Band, quelli nei quali il rocker del New Jersey si è affermato come uno dei più grandi performers di tutti i tempi, sono stati senza dubbio il 1975, il 1978 ed il biennio 1980/81, periodi in cui ogni serata poteva diventare una di quelle esperienze tali da poter far dire ai fortunati presenti “Io c’ero”. Il 1977 è stato invece un anno stranamente poco documentato anche a livello di bootleg, anche se Bruce continuava ad esibirsi in quanto era discograficamente fermo a causa del contenzioso legale con il suo ex manager Mike Appel, un problema che poteva stroncargli la carriera ma si concluse positivamente nella primavera di quello stesso anno, consentendo così al nostro di cominciare a lavorare su Darkness On The Edge Of Town. Ora il sito che da tempo si occupa della gestione degli archivi dal vivo del Boss, live.brucespringsteen.net, esce con uno dei volumi più interessanti della serie (mentre scrivo queste righe ne sono già usciti altri tre, dei quali mi occuperò in futuro), e per la prima volta pubblicando due interi concerti separatamente, cioè le serate del 7 ed 8 Febbraio 1977 rispettivamente ad Albany e Rochester, nello stato di New York. Questi due spettacoli sono una vera chicca, in quanto i nastri non erano mai circolati neppure tra i collezionisti più accaniti, e quindi, oltre al valore delle due esibizioni, il tutto assume un’importanza storica notevole. Diciamo subito che dal punto di vista artistico non siamo ai livelli degli show leggendari di Bruce, si percepisce qua e là una certa tensione (specie nella serata di Albany), dovuta sicuramente allo stato d’animo del nostro che era impegnato nella già citata causa legale: i due spettacoli (che sono anche più corti del solito, entrambi sotto le due ore) non sono infatti esplosivi come saranno quelli dell’anno seguente, ed in certi momenti le atmosfere sono perfino intimiste.

Non mancano però gli episodi di grande livello emotivo, specie nella serata di Rochester dove il Boss appare più “sciolto”, e l’acquisto di almeno uno dei due doppi CD è comunque da consigliare in quanto ci mostra un aspetto diverso del nostro in una fase cruciale della carriera. Due parole per la qualità d’incisione, che non è al livello dei precedenti volumi, il suono è limpido, ma il volume è piuttosto basso e ci sono diversi “salti” in almeno cinque canzoni in totale dovuti a mancanze e difetti del nastro originale: comunque decisamente meglio di un bootleg. Lo show di Albany è già atipico dall’avvio, non il solito inizio roboante ma bensì la tenue Something In The Night, in anticipo su Darkness ed in modalità work in progress (anche il testo è differente), versione dilatata e con un crescendo degno di nota, subito seguita dall’errebi straccione di Spirit In The Night, con la E Street Band già in formato macchina da guerra, e dalla festosa Rendezvous, dominata dal piano di Roy Bittan. La splendida Thunder Road è “schiacciata” in mezzo a due covers: una maestosa It’s My Life degli Animals, preceduta da una lunga introduzione quasi psichedelica, e da una corretta ma non entusiasmante Mona di Bo Diddley, fusa insieme ad una decisamente più energica She’s The One. Il primo CD si chiude con una struggente e bellissima The Promise per sola voce e piano, mentre il secondo (le due canzoni erroneamente indicate a chiusura del primo dischetto sono in realtà poste in apertura del secondo) inizia con una Backstreets davvero splendida e potente, tra le migliori della serata, ed una pimpante Growin’ Up che Bruce dedica al padre. E’ la volta di una Tenth Avenue Freeze-Out al solito calda, ritmata e soulful (ma piuttosto nella media), che sfocia nella formidabile Jungleland, altro highlight dello show, commovente come non mai (e con il Boss, ormai in trance agonistica, che rilascia un assolo chitarristico notevole); ecco poi due pezzi agli antipodi come la colorata Rosalita e la romantica 4th Of July, Asbury Park (Sandy) (col solito toccante intervento di Danny Federici alla fisarmonica).

Ancora due brani, ma se il finale di Born To Run ce lo potevamo aspettare (manca la prima strofa per il già citato problema al nastro), il penultimo pezzo, Action In The Streets, è un inedito assoluto, proposto dal nostro per un periodo molto breve e, pare, mai inciso in studio, un saltellante e coinvolgente rock’n’soul con i fiati dei Miami Horns protagonisti (ed anche il sax di Clarence Clemons) ed il Boss che sembra più Southside Johnny che sé stesso. La serata di Rochester ha, cosa rara per Bruce, una scaletta identica ad Albany al 99% (manca Growin’ Up ed al suo posto c’è la vivace Raise Your Hand di Eddie Floyd), anche se diversi pezzi hanno una collocazione differente in scaletta: per esempio The Promise è appena prima del finale di Born To Run (scelta opinabile secondo me) ed Action In The Streets è nella prima parte. L’esito complessivo della serata è comunque, a mio parere, superiore a quella precedente, con un Boss più sicuro di sé ed un momento magico assoluto nelle rese superbe di Backstreets e Jungleland, qui suonate una dopo l’altra. Un (doppio) capitolo dunque molto interessante delle avventure live di Bruce Springsteen, pur non essendo al livello degli show che il nostro terrà nel 1978: con il prossimo volume salteremo in avanti di quasi vent’anni, con uno show acustico tratto dal tour di The Ghost Of Tom Joad.

Marco Verdi

*NDB. Il Post avrebbe dovuto essere pubblicato nel Blog ieri, ma per problemi tecnici arriva solo oggi, quindi, visto che di solito questi articoli venivano rilasciati come Supplemento della Domenica, abbiamo pensato di chiamarlo “Lo Springsteen Del Lunedì”. Nulla di misterioso.

Recuperi (E Sorprese) Di Fine Anno 1. Aiuto! Il Mio Lettore Va A Fuoco! The Sonics – This Is The Sonics

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The Sonics – This Is The Sonics – Revox CD

Quando è uscito questo disco l’ho preso più che altro per curiosità, senza immaginare che mi sarei ritrovato a fine anno ad inserirlo tra i miei dieci preferiti del 2015. I Sonics, storica garage band proveniente da Tacoma, stato di Washington, erano inattivi discograficamente addirittura dal 1967 (il peraltro rinnegato Introducing The Sonics, in quanto Sinderella del 1980 era composto da rifacimenti di alcune loro canzoni, ma nulla di nuovo), e gli anni diventano 49 se si conta dal loro secondo LP, Boom, che seguiva di un anno il bombastico esordio di Here Are The Sonics. I Sonics sono il prototipo della band di culto per antonomasia, di scarso (per non dire nullo) successo, ma di grande influenza per le generazioni di musicisti a venire: il loro suono, un rock’n’roll grezzo, potente ed aggressivo, viene considerato il progenitore del punk degli anni settanta e del grunge dei novanta, ed i due dischi del biennio 1965-1966 sono la punta di diamante del movimento garage sotterraneo, insieme agli album di band quali The Wailers, The Kingsmen e Paul Revere & The Raiders (questi ultimi però il successo lo conobbero eccome), anticipando di diversi anni l’effetto della storica compilation Nuggets (dalla quale erano peraltro assenti, ma furono inclusi con la loro Strychnine nella riedizione espansa in box del 1998).

I musicisti che hanno più o meno fatto riferimento negli anni al gruppo di Tacoma sono molteplici: i nomi più noti sono quelli dei Nirvana, White Stripes, Dream Syndicate, Flaming Lips e perfino Bruce Springsteen, che ha più volte proposto dal vivo la cover di Have Love, Will Travel di Richard Berry nell’arrangiamento proprio dei Sonics. This Is The Sonics non è però un disco di settantenni bolsi e patetici che si sono rimessi insieme per ricordare i vecchi tempi, ma una vera e propria bomba sonora che mi ha lasciato senza fiato, una scarica elettrica che attraversa le dodici canzoni del CD con la stessa forza di una scossa tellurica. I membri originali sono tre su cinque (Gerry Roslie, voce, piano e organo, Larry Parypa, chitarra solista e voce, Rob Lind, sassofono, armonica e voce), coadiuvati da Freddie Dennis (Kingsmen) al basso e voce e da Dusty Watson (Dick Dale Band) alla batteria, e con questo disco ci dimostrano che nonostante l’età sono in grado di dare dei punti (e tanti) anche a gente di due o tre generazioni successive.

Ma il disco, che si divide tra cover e brani originali, non è solo musica suonata a volume alto, ma anche con grande energia e feeling, un muro sonoro dominato dalla chitarra di Parypa che mena fendenti e riff a destra e a manca e dal sassofono impazzito di Lind, con una sezione ritmica che definire rocciosa è poco, un rock’n’roll quasi primordiale, con elementi blues ed errebi che colorano maggiormente il tutto. Fare una disamina dettagliata brano per brano in questo caso è quasi inutile, in quanto tutto il disco è una fucilata dal primo all’ultimo pezzo, a partire dall’uno-due iniziale da k.o., con la cover di I Don’t Need No Doctor (Ray Charles), un rock-blues tirato allo spasimo che ricorda il suono del disco dello scorso anno di Roger Daltrey con Wilko Johnson (ma con un sound ancora più “primitivo”), e la devastante Be A Woman, suonata a ritmo indiavolato e con il ritornello letteralmente sparato in faccia dell’ascoltatore.

La grezza Bad Betty precede uno degli highlights del CD, cioè una cover incredibilmente energica di You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie Dixon (però portata al successo da Bo Diddley), con il sax in evidenza, ed una The Hard Way che spazza via in un sol colpo l’originale dei Kinks (non certo gli ultimi arrivati). Tra le mie preferite ci sono anche il rock’n’roll suonato ai duecento all’ora Sugaree, la furiosa Look At Little Sister (Hank Ballard, peraltro rifatta mirabilmente negli anni ottanta da Steve Ray Vaughan), la roca Livin’ In Chaos (mi brucia la laringe solo ad ascoltarla) e le conclusive Save The Planet e Spend The Night, che mettono definitivamente al tappeto chiunque sia ancora in piedi a questo punto.

E’ da molto tempo che un disco non mi dava questa adrenalina: per me album rock’n’roll dell’anno.

Marco Verdi