Un’Autocelebrazione Di Grande Classe. Rodney Crowell – Acoustic Classics

rodney crowell acoustic classics

Rodney Crowell – Acoustic Classics – RC1 CD

Rodney Crowell è dagli anni settanta uno dei songwriters più apprezzati sia dal pubblico che dalla critica, ma anche dai colleghi, che negli anni hanno “approfittato” più volte delle sue canzoni, e non sto parlando solo di gente che bazzica in territori country (due nomi su tutti: Bob Seger e Van Morrison). Ma Crowell ha anche una bella e prolifica carriera in proprio, e negli anni ottanta ha potuto assaporare perfino un certo successo ma senza mai scendere a compromessi con la qualità. Se negli ultimi anni le sue proposte non sono certo state campioni di vendite, il livello si è comunque mantenuto decisamente alto: Tarpaper Sky è stato per il sottoscritto uno dei migliori album del 2014, ed anche Close Ties dello scorso anno era un signor disco (in mezzo, due ottimi lavori di classico country-rock anni settanta con Emmylou Harris, Old Yellow Moon e The Traveling Kind). Ora Rodney decide di autocelebrarsi, ma alla sua maniera, e cioè staccando la spina: Acoustic Classics riprende infatti dieci brani del passato del nostro (più uno nuovo) dandone una rilettura decisamente fresca, creativa ed accattivante, e proseguendo il discorso sonoro intrapreso con Close Ties che era già in gran parte acustico https://discoclub.myblog.it/2017/04/22/un-disco-piu-da-cantautore-classico-ma-sempre-grande-musica-rodney-crowell-close-ties/ .

Ma Rodney non ha fatto come Richard Thompson che si è presentato da solo per i suoi tre dischi di rivisitazioni “unplugged”, bensì ha deciso di farsi accompagnare da una piccola band di quattro elementi (ai quali ha aggiunto tre voci femminili ai cori), formata da Jedd Hughes, Joe Robinson, Eamon McLoughlin e Rory Hoffman, i quali si sono cimentati con una bella serie di strumenti a corda (chitarre, violino, mandolino e cello), aggiungendo anche qua e là una fisarmonica ed una leggera percussione. Un suono quindi molto ricco, al quale hanno dato un contributo anche le tante voci, al punto che quasi non ci si accorge dell’assenza di una vera sezione ritmica. E poi naturalmente ci sono le canzoni del nostro, undici acquarelli di pura country music d’autore, alcune delle quali più note di altre, e che non sempre sono state rese note da Rodney medesimo. Earthbound introduce alla perfezione il mood del disco, una rilettura decisamente vitale e con intrecci di prim’ordine tra chitarre e mandolino, mentre Leaving Louisiana In The Broad Daylight, un successo per gli Oak Ridge Boys (ma l’ha fatta anche Emmylou) assume un delizioso sapore cajun grazie alla fisa di Hoffman ed è, manco a dirlo, splendida. Ma le canzoni sono tutte belle, e ne ha anche lasciate fuori tante (mancano ad esempio ‘Til I Gain Control Again, Stars On The Water, An American Dream), e questa veste spoglia e pura le valorizza oltremodo.

Anything But Tame (dalla country opera Kin, un disco che avevo quasi dimenticato) vede Crowell quasi in perfetta solitudine, ma il brano rimane bello, intenso e ricco di feeling, la toccante Making Memories Of Us era stata incisa sia da Tracy Byrd che da Keith Urban, ma Rodney è obiettivamente su un altro pianeta, mentre la vibrante Lovin’ All Night riesce ad essere trascinante anche senza basso e batteria. I due pezzi più famosi presenti nel CD sono senza dubbio Shame On The Moon (resa popolare da Bob Seger), riscritta nel testo ma con intatto il sapore honky-tonk che aveva in origine, e I Ain’t Livin’ Long Like This, che non ha bisogno di presentazioni, in quanto è uno dei classici assoluti del grande Waylon Jennings: rilettura strepitosa e trascinante, con un arrangiamento che si potrebbe definire “acoustic rock’n’roll”, ed il nostro che ci ricorda di essere anche un ottimo chitarrista. Ci sono poi ben tre pezzi da Diamonds & Dirt, il suo disco più famoso: la scintillante I Couldn’t Leave You If I Tried, puro country con violino, mandolini e quant’altro, il delizioso western swing di She’s Crazy For Leavin’ e la ballata After All This Time, intensa e struggente. Come già accennato, c’è anche un brano nuovo di zecca, una profonda folk song eseguita da solo ed intitolata Tennessee Wedding, scritta per il matrimonio della figlia più giovane.

Se la classe non è acqua, allora Rodney Crowell è un deserto. Texano, naturalmente.

Marco Verdi

Blues-Rock Veramente Di Prima Classe. Mike Zito – First Class Life

mike zito first class life

Mike Zito – First Class Life – Ruf Records

Questo First Class Life dovrebbe essere il 15° album di Mike Zito: dico dovrebbe, perché la sua discografia pubblicata a livello indipendente ad inizio carriera non è così conosciuta, ma è lo stesso artista di St. Louis, ormai texano di adozione, a dirlo anche sul suo sito, per cui sarà sicuramente così. Altra cosa certa è che il musicista, dopo una nomination nel 2014, ha appena vinto a maggio i Blues Music Awards a Memphis come miglior Artista Rock-Blues dell’anno, e direi che alla luce dell’album del 2016 Make Blues Not War il premio è più che meritato https://discoclub.myblog.it/2016/12/26/come-si-puo-dargli-torto-mike-zito-make-blues-not-war/ . E anche il nuovo album conferma il periodo di grande creatività di Zito, praticamente è dal Live From The Top del 2010 che non sbaglia un album (compresi quelli con i Royal Southern Brotherhood  e comunque pure i dischi precedenti non erano male), anzi ogni nuova uscita indica una crescita qualitativa rispetto al disco precedente e se Make Blues… era un signor disco First Class Life quanto meno lo pareggia.

Uno dei grandi amori di Mike è il Blues, visto che se lo è pure tatuato su una mano, ma rock, country, musica sudista, soul e R&B convivono tutti nella sua musica e l’hanno resa più ricca e corposa, cosa che conferma anche il nuovo CD: Zito è notevole chitarrista, ma è in possesso anche di una ottima voce, come ha detto il collega Anders Osborne “una voce che ti risuona nell’anima”. Mississippi Nights con un groove alla Creedence, una slide malandrina e tagliente, una voce alla Bob Seger, è una apertura di grande forza, la band lavora di fino e non manca comunque un forte spirito blues. Rispetto al disco precedente, che era prodotto da Tom Hambrdige, la band è cambiata completamente: i nuovi sono Matthew Johnson alla batteria, Terry Dry al basso e Lewis Stephens alle tastiere, l’unico che era già presente nei dischi dei Wheel, la produzione è affidata allo stesso Zito, ma il sound non cambia di molto, forse è maggiore l’influenza delle 12 battute classiche, come conferma il torrido slow Damn Shame con gran lavoro della solista e pure la cover di I Wouldn’t Treat a Dog (The Way You Treated Me), un vecchio brano di Bobby “Blue” Bland, non scherza, cadenzata e vicina allo spirito R&B dell’originale,  con la chitarra a sostituire le parti dei fiati, e con il risultato sonoro che mi ricorda ancora moltissimo le canzoni del miglior Bob Seger anni ’70 o anche il sound  soul meets blues-rock di Delbert MClinton.

The World We Live In sembra una di quelle blues ballads alla B.B. King, miste ad un stile “bianco”, diciamo blue eyed soul per intenderci, con una chitarra fluida che ricorda il tocco classico del vecchio Riley, mentre Mama Don’t Like No Wah Wah, scritta con Bernard Allison, che suona anche la seconda chitarra nel brano, nasce da un aneddoto raccontato dallo stesso Allison, che ricorda che Koko Taylor non amava l’uso di effetti nella chitarra e quando beccava i suoi musicisti a usarli, li mazziava, ma in questa versione molto funky e grintosa il wah-wah c’è e tira pure di brutto.  Nella title track Zito dice “I stole from the rich, and baby I gave to the poor”, nel ricordare le alluvioni che hanno colpito il Texas e per cui ha raccolto fondi per aiutare gli amici musicisti che vivevano nell’area di Houston, il tutto a ciondolante tempo di country meets rock, sempre con una bella slide e la voce in evidenza; Old Black Graveyard sin dal titolo è più buia e tempestosa, con una atmosfera sospesa ancora garantita dall’ottimo lavoro della slide, con Dying Day che è un brillante e pimpante shuffle dedicato alla moglie Laura, con la solista che viaggia sempre. Back Problems gioca sul doppio senso del testo ed è un super funky non memorabile ma solido, e Time For A Change torna al gagliardo Seger sound dei brani migliori del CD, un altro pezzo rock di quelli gustosi. A chiudere un ottimo album l’altra cover del disco Trying To Make a Living, un vecchio pezzo anni ’60 che dall’originale shuffle blues diventa un grintoso R&R a tutta velocità e grinta.

Bruno Conti

Il Leone Di Detroit Torna A Ruggire (Con Un Paio Di Stecche). Bob Seger – I Knew You When

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Bob Seger – I Knew You When (Deluxe Edition) – Capitol/Universal

Soltanto tre anni separano il nuovo album di Bob Seger dal precedente Ride Out, e questa è già una buona notizia per chi lo ha seguito con passione durante la sua lunga e gloriosa carriera, caratterizzata dagli esaltanti live shows (purtroppo solo in terra americana) in cui ha dato il meglio di sé, come testimoniano gli splendidi Nine Tonight del 1981 e, soprattutto, Live Bullet del ’76, considerato da molti uno dei più importanti live album della storia del rock a stelle e strisce. Da parecchio tempo ha diradato le sue uscite in studio, soltanto tre negli ultimi ventidue anni, fino a far temere un definitivo ritiro dalle scene. Che non se la passi benissimo fisicamente è comprovato dal fatto che abbia dovuto posticipare parecchie date dell’attuale Runaway Train Tour a causa di problemi alle vertebre, ma almeno la sua voce non ha perso un grammo della ruvida irruenza che l’ha sempre caratterizzata, come possiamo verificare in quest’ ultimo I Knew You When. Già nel pezzo d’apertura, Gracile, Bob ci fa intendere che non ha nessuna voglia di gettare la spugna dandoci dentro senza risparmiarsi in un rock blues dalla ritmica granitica che ricorda certi suoi anthems degli anni settanta. Ottima la scelta delle due covers presenti nell’album: Busload Of Faith,  tratta da New York, lo splendido affresco che Lou Reed  dedicò alla sua città nel 1989,e Democracy, ironica e visionaria traccia del talento poetico di Leonard Cohen, presente su The Future, del’92. Seger rivisita entrambe con passione e bravura, irrobustendo la prima con sezione fiati e cori femminili, oltre a due fulminanti assoli di chitarra (il primo del mago della slide Rick Vito), e la seconda con una ritmica più incisiva, da marcia militare, e un bel violino sullo sfondo a sostituire l’armonica dell’originale.

The Highway ha un bel passo, tipico di tante composizioni del rocker di Detroit perfette per l’ascolto in macchina. Un buon pezzo, nonostante la presenza di una tastiera un po’ invadente che ne appesantisce la melodia. Non possiamo procedere senza prima citare colui a cui Seger ha dedicato quest’intero lavoro, Glenn Frey, il leader degli Eagles deceduto nel gennaio 2016. Tra i due perdurava da mezzo secolo una profonda e sincera amicizia e Bob ha voluto celebrarla con due toccanti canzoni. La prima, dal titolo emblematico, Glenn Song, una delle tre bonus tracks della deluxe edition, è un malinconico ricordo dei tempi andati cantato con voce rotta dall’emozione. La seconda dà il titolo all’album ed è una di quelle stupende ballate che sono da sempre il vero marchio di fabbrica del rocker di Detroit. Melodia impeccabile, scandita dal pianoforte (presumo suonato dal grande Bill Payne) e ritornello che ti entra sottopelle per non uscirne più. Della stessa categoria, non sono niente male Something More con un bel solo centrale condiviso tra sax e chitarra elettrica, Marie, dall’incedere solenne e drammatico che rimanda allo stile del già citato Cohen, e I’ll Remember You, un lentaccio assassino con pregevoli cori femminili che avrebbe fatto la sua bella figura su qualunque disco delle aquile californiane.

Purtroppo troviamo anche un paio di episodi meno riusciti, che non intaccano il giudizio comunque positivo sull’album. The Sea Inside, dalla ritmica pesante e dalle chitarre roboanti che si mescolano ad una tastiera che sembra citare Kashmir dei Led Zeppelin, è un tentativo di fare hard rock in modo insipido ed anacronistico. Peggio ancora Runaway Train, che pare un pezzo rubato agli ZZ Top del  periodo più scarso, con batteria elettronica, coretti scontati e melodia anonima, malgrado il buon intervento del sax nel finale. Di ben altra levatura sono, per fortuna, le prime due tracce aggiunte nella deluxe edition: Forward Into The Past è un solido rock cantato a voce spiegata dal protagonista ben supportato come di consueto dalle coriste, con chitarre elettriche e piano che si alternano sapientemente. Ancora meglio si rivela Blue Ridge, che ti cattura subito con un’ accattivante struttura melodica scandita dal costante rullare della batteria e da un intrigante uso delle tastiere. Un brano che certamente farà la sua bella figura se inserito nelle scalette dei futuri concerti.

Diamo dunque il nostro bentornato a Bob Seger, nella speranza di poterlo ammirare un giorno anche dalle nostre parti. Intanto, godiamoci questo I Knew You When che ha in sé il giusto calore per contrastare le fredde giornate invernali che ci attendono.

Marco Frosi

Da Nashville, Tennessee Un Bravissimo Rock Troubadour Americano. Will Hoge – Anchors

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Will Hoge – Anchors – Edl Records/Thirty Tigers

Will Hoge non è un novellino, esordisce nel 2001 con Carousel pubblicato dalla Atlantic (ma ne aveva già pubblicato uno autogestito nel 1997 Spoonful – Tales Begin To Spin), presentandosi come un cantautore rock abbastanza tirato, non molto dissimile (salvo forse nel talento) dall’amico Dan Baird dei Georgia Satellites, che gli dà una mano in questo primo album per una major, discreto ma non memorabile, senza una direzione musicale ben definita. L’Atlantic gli dà fiducia e nel 2003 esce un nuovo album per loro, Blackbird On A Lonely Wire: Baird non c’è più, ma il chitarrista che lo sostituisce non scherza, tale Brian Layson, che oggi è uno dei sessionmen più apprezzati a Nashville, tra gli ospiti troviamo la rocker Michelle Branch, Rami Jaffee dei Wallflowers all’organo, e un sound che rimane energico ma vira verso un buon blue collar rock con elementi jangle. Naturalmente il disco non vende e Hoge viene scaricato, ma persiste con la sua musica, pubblicando un terzetto di album per la Rykodisc negli anni che vanno tra il 2007 e il 2009, tra cui Draw The Curtains, di nuovo con Baird e Jafee, ma anche Garrison Starr; Pat Buchanan Reese Wynans, che mostra una vena sudista e The Wreckage, forse il suo migliore fino ad oggi, prodotto da Ken Coomer dei Wilco, che suona anche la batteria nel disco, dove appare la futura Pistol Annie Ashley Monroe e il bravissimo chitarrista Kenny Vaughan dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, disco che vira verso un country(rock) di qualità, già presente comunque anche negli album precedenti e che contiene Even If It Breaks Your Heart, che gli frutterà un numero 1 nelle classifiche country nella versione della Eli Young Band.

Pure in Number Seven, a dimostrazione della stima di cui gode Hoge tra i colleghi arriva come ospite Vince Gill, e ad affiancare Vaughan come chitarrista ci sono anche Carl Broemel dei My Morning Jacket, Bucky Baxter alla pedal steel e Kenny Greenberg. Senza dimenticare che comunque nei dischi di Will suona spesso anche la band con cui gira l’America per concerti. Finito il periodo Rykodisc Hoge pubblica due ulteriori dischi a livello indipendente, Never Give In, che grazie alla presenza di Doug Lancio alla chitarra, tra i tantissimi musicisti impiegati, molti gli stessi dei dischi precedenti, indica una influenza di Hiatt, ma anche Mellencamp e Bob Seger vengono citati tra le fonti di ispirazione e l’ultimo Small Town Dreams,sempre per la piccola etichetta di Nashville, la Cumberland Records, disco che conferma le bontà delle sue composizioni (non a caso tra quelli che firmano i brani con lui c’è un certo Chris Stapleton) e le influenze country-rock, roots e blue collar, con una predilezione per le ballate.

Come si evince da questa lunghissima introduzione (ma il personaggio merita) Will Hoge è uno di quelli bravi, come conferma il nuovo Anchors, disco numero 10 della sua discografia, autoprodotto per la propria etichetta Edl Records e poi affidato alla eccellente Thirty Tigers che ne cura la distribuzione. Nel frattempo il nostro amico ha sciolto la band che lo accompagnava nei concerti, girando da solo nel 2016, solo voce, chitarra e tastiere (ma nei suoi dischi lo ha sempre fatto, suonando anche armonica e vibrafono) e preparando le canzoni per il nuovo album, dove si produce da solo, ma utilizza ancora una volta ottimi musicisti come Jerry Roe, batterista (Emmylou Harris & Rodney Crowell, ma anche l’ultimo ottimo di Shannon McNally) il bassista Dominic Davis (Jack White, Wanda Jackson; Luther Dickinson, Jim Lauderdale) e i due chitarristi Brad Rice (Son Volt, Rayn Adams) Thom Donovan (Ruby Amanfu e in passato Robert Plant), Dave Cohen al piano (anche lui con Shannon McNally di recente) oltre a Fats Kaplin, violino, mandolino e pedal steel, nonché una piccola sezione fiati in un brano. Come ospite, a duettare in un pezzo è presente Sheryl Crow, che è la seconda voce in Little Bit Of Rust, uno dei pezzi più country del disco, una bella ballata midtempo rootsy-rock con uso di mandolino e violino affidati a Kaplin e un tagliente assolo di slide che non guasta, tra le migliori del disco, che comunque mantiene un ammirevole elevato livello qualitativo in tutti i gli undici brani che lo compongono.

Per intenderci siamo dalle parti di quei troubadours alla Hayes Carll, Pat Green Jack Ingram, forse non dei numeri uno, ma comunque ottimi autori e cantanti. Will Hoge ha una voce leggermente roca e vissuta il giusto, come confermano brani come la splendida southern ballad Cold Night In Santa Fe, che ha profumi che rimandano addirittura alla Band. Ottima anche l’iniziale The Reckoning, una country song cadenzata che ricorda i primi Son Volt o i Wilco, quelli più melodici e avvolgenti, con un bel lavoro elettroacustico delle chitarre, oppure la deliziosa 17, una canzone dove qualcuno ha visto delle analogie con il miglior Bob Seger degli anni ’70, e quando entrano i fiati nel finale e una slide di nuovo a tagliare in due il brano, qualche elemento del Van Morrison californiano aggiungerei io, ebbene sì è così bella. Young As We Will Ever Be rimanda al jingle jangle del miglior Tom Petty, con le chitarre spiegate e un assolo alla Mike Campbell; groove e ambiente sonoro poi replicati anche nell’eccellente Baby’s Eyes che è più dalle parti di Wildflowers, con qualche tocco anche alla George Harrison, sempre bella comunque.

The Grand Charade è un’altra ballatona di quelle malinconiche e dolenti, brani come quelli che si trovano nei migliori dischi country dei cantanti californiani degli anni ’70, con un bel lavoro del piano di David Cohen. Non manca il R&R a tutte chitarre presente nei dischi precedenti e (This Ain’t) An Original Sin ne è un ottimo esempio, ritmo, grinta, sudore, coretti springsteeniani e riff a tutto spiano, per un brano da sentire a volume adeguato mentre viaggiate in automobile. Will Hoge veleggia per i 45 anni e tiene famiglia, ma ogni tanto gli scappa la ballata “amorosa” come la delicata Through Missing You, con un breve assolo di slide degno del miglior David Lindley. Per non dire della splendida Angels Wings una country ballad di quelle perfette nobilitata dal grande lavoro di Fats Kaplin alla pedal steel, brano che rimanda di nuovo alle canzoni più emozionanti del Bob Seger targato anni ’70 con una interpretazione vocale veramente ispirata di Will Hoge. Manca ancora la title-track Anchors (come avrete notato i brani non appaiono nella recensione nella sequenza del disco, ma in fondo chi se ne frega), un altro mid-tempo dall’andatura riflessiva e sobria, dove le chitarre acustiche ed elettriche costruiscono ancora una volta una sognante atmosfera sonora di grande impatto emotivo per l’ascoltatore, Per il sottoscritto, fino a questo punto, il disco è una delle più piacevoli sorprese del 2017. Peccato non averlo visto quando è venuto in Italia all’anteprima del Buscadero Day il 4 luglio scorso.

Bruno Conti

Lui Non Mi Fa Impazzire, Ma Stavolta Non E’ Malaccio! Eric Church – Mr. Misunderstood On The Rocks

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Eric ChurchMr. Misunderstood On The Rocks: Live And (Mostly) Unplugged – EMI Nashville EP/CD

Non sono un grande fan di Eric Church, country rocker del North Carolina in attività da poco più di dieci anni, ed oggi uno dei musicisti più popolari in USA, perlomeno in ambito country. Eric non era neppure partito male, esordendo con un discreto album di robusto country chitarristico (Sinners Like Me, 2006) e bissando tre anni dopo con l’altrettanto valido Carolina: peccato che, con l’aumentare delle vendite, Church sia scivolato disco dopo disco verso una musica sempre più commerciale, un country finto southern di grana grossa, ma in fin dei conti perfettamente allineato con quello che chiedono a Nashville. Il suo live album del 2013, Caught In The Act, era piuttosto buono, elettrico e roccato al punto giusto, ma sia The Outsiders che Mr. Misunderstood, i suoi due ultimi lavori in studio, non avevano certo le carte in regola per piacere a chi ama il vero country. Mr. Misunderstood tra l’altro ha venduto meno della metà del suo predecessore, segno che anche in America forse un certo tipo di musica fatta per le classifiche comincia a stufare: è forse per questo che Eric ha appena pubblicato un altro disco dal vivo, un EP con solo sette canzoni, che però si candida da subito come una delle sue cose migliori.

Mr. Misunderstood On The Rocks è intanto registrato nella suggestiva cornice del Red Rocks Amphitheatre in Colorado, un luogo capace di tirare fuori il meglio da chiunque, e poi Church sceglie di presentarsi in una veste spoglia, acustica al 90%, come recita il sottotitolo del CD. Non è da solo sul palco, anzi in un paio di brani c’è la sua band al completo, ma se si eccettua una occasionale chitarra elettrica, il suono è più intimo, più vero, meno legato alle sonorità dei dischi di studio; ed Eric si dimostra un buon performer, in grado anche di emozionare: peccato che il dischetto duri solo poco più di mezz’ora. Apre un medley decisamente interessante che, partendo dalla sua Mistress Named Music, tocca vari classici come Like A Rock di Bob Seger, Danny’s Song di Loggins & Messina, Willin’ dei Little Feat, Piano Man di Billy Joel (accolta da un’ovazione) e Troubadour di George Strait, il tutto eseguito solo con l’ausilio della chitarra acustica, ma senza rinunciare al feeling.

Con Chattanooga Lucy arriva la band, per una robusta canzone dal ritmo sostenuto e potente anche in questa versione stripped-down, con umori southern neanche troppo nascosti; Mixed Drinks About Feelings (bel titolo, molto Jimmy Buffett) vede il nostro in trio con il piano di Jeff Cease ed il controcanto femminile di Joanna Cotten, per una toccante ballata dalla melodia ulteriormente valorizzata dalla veste acustica (e che voce lei), mentre Knives Of New Orleans, ancora con Eric da solo sul palco, è comunque un pezzo con una certa vitalità. Kill A Word è ancora elettroacustica e con il gruppo al completo, maschia, vibrante e soprattutto privata delle diavolerie in studio per renderla commerciale; l’intensa Record Year, ancora in trio (ma con due chitarre ed il piano) e molto amata dal pubblico, conduce al brano conclusivo, una versione voce e chitarra (elettrica) del superclassico di Leonard Cohen Hallelujah, rilettura che tiene presente quella di Jeff Buckley ma rimane comunque personale e soprattutto sentita. Non sto dicendo che questo dischetto sia imperdibile, tutt’altro, ma se anche voi non siete estimatori di Eric Church sappiate che qui troverete solo la parte buona di lui.

Marco Verdi

Un Altro Dei Tanti “Piccoli Segreti” Del Cantautorato Americano. David Olney – Don’t Try To Fight It

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David Olney – Don’t Try To Fight It – Red Parlor Records

Con sorpresa mi sono accorto che di questo signore, David Olney, oltre quarant’anni di carriera, ventisette album registrati (compreso questo ultimo lavoro) di cui sei dal vivo, dalla nascita di questo “blog” non abbiamo mai recensito un disco, e quindi è giunto il momento di colmare questa grave dimenticanza. Il giovane Olney (nativo di Providence nel Rhode Island), si fa notare a soli 19 anni come leader di un gruppo che gravitava nell’area di Nashville, gli X-Rays, e nonostante un look “da ribelle” e una voce e una grinta alla Bob Seger (che spopolava in quei tempi), il buon David non riuscì ad imporsi sulla scena discografica, costringendolo quindi ad intraprendere una carriera da solista (con alle spalle, come detto, numerosi dischi, incisi con regolarità fin dagli anni settanta), con alcuni pregevoli lavori d’impronta acustica come Eye Of The Storm (78) e Deeper Well (88), passando anche attraverso il rock-boogie vicino a New Orleans nei solchi di Top To Bottom (91), prodotto da Fred James (Freddie And The Screamers), e edito dalla meritoria etichetta lombarda Appaloosa Records. Con l’ottimo Live In Holland (94) arriva il primo disco dal vivo, a cui seguiranno negli anni lavori importanti come Real Lies (97), Trough A Glass Darkly (99), The Well (03), Migration (05), senza dimenticare l’intrigante boxset di 3 EP che comprende Film Noir, The Stone e Robbery & Murder (12), fino ad arrivare ai più recenti lavori in studio Predicting The Past (con un bonus cd retrospettivo sulla sua carriera (13), e When The Deal Goes Down (14).

Per questo Don’t Try To Fight It David Olney (chitarra acustica e armonica), affida la produzione al polistrumentista Brock Zeman (pedal-steel e chitarre acustiche), per una strumentazione per lo più acustica, dove si possono ascoltare echi di valzer, il folk e il blues, che vengono suonati da fior di musicisti locali tra i quali Blair Hogan al basso, chitarre e mandolino, Tyler Kealey alla fisarmonica e pianoforte, Dylan Roberts alla batteria e percussioni, Steve Dawson al dobro, Michael Ball al violino, Wayne Mills al sassofono e alle armonie vocali la brava Kelly Prescott, per una decina di brani composti come sempre da Onley con John Hadley, di cui anche due scritti a quattro mani con due cantautori di cui ho perso da tempo le tracce, Kieran Kane e Kevin Welch. Il disco si apre alla grandissima con l’ottima If They Ever Let Me Out, un bellissimo rock-boogie dai sapori sudisti, impreziosito dalla voce di Kelly Prescott, a cui fanno seguito le atmosfere messicane, con fisarmonica d’ordinanza, di una serenata come Innocent Heart, il blues spettrale e spiazzante di Don’t Try To Fight It (dove si sente lo zampino di Kieran Kane), cantato con voce sgraziata à la Tom Waits da David, per poi passare ad una bellissima ballata elettroacustica come Ferris Wheel. con un arrangiamento “irlandese”composto da violino, dobro, fisarmonica e pedal steel. Si prosegue ancora con un blues inciso come “Dio comanda”, Crack In The Wall, voce in evidenza e chitarra elettrica trascinante, mentre la seguente Situation è una divertente country song; viene rispolverato pure il rock-blues d’annata, con una trascinante Sweet Sugaree, dove si evidenzia la bravura di Wayne Mills al sax, per poi tornare alle dolci atmosfere di Evermore, caratterizzate da un inconsueto binomio tra fisarmonica e cello. Ci si avvia alla fine con il country “bucolico” di una Yesterday’s News, e il blues lievemente sgangherato di Big Top Tornado (che vede come coautore Kevin Welch), eseguito in stile quasi alla John Trudell e affini.

Questo più che arzillo quasi settantenne, deve essere stato scaraventato a sua insaputa nella piscina di Cocoon,  ha avuto nel corso degli anni il riconoscimento di colleghi del calibro di Steve Earle, Emmylou Harris, Johnny Cash, Linda Ronstadt, e anche il meno noto Del McCoury, che hanno inciso e cantato alcune delle sue canzoni, facendolo diventare un artista di “culto”, uno che ha sempre inciso per il piacere di fare musica, senza mai cercare il successo o la visibilità commerciale. Come accennato nel titolo del Post, David Olney rimane un altro dei “grandi dimenticati” della canzone d’autore americana, uno “storyteller” (o cantastorie se preferite) straordinario, un grande visionario dalla voce calda e dal gusto melodico, un “camaleonte” capace di mantenere  negli anni un livello qualitativo elevato nelle sue canzoni che, sono sicuro, molti altri cantautori sopravvalutati (che ci sono purtroppo in giro), farebbero carte false per avere nel proprio repertorio. Questo “artigiano” della canzone d’autore Americana, sebbene nella sua carriera abbia raccolto meno di quello che ha seminato, con questo nuovo Don’t Try To Fight It ha dipinto forse un suo piccolo capolavoro, un disco che merita assolutamente di essere ascoltato, sicuramente un lavoro che tocca svariati generi, ma sappiamo che la buona musica, oltre a non avere età ne tantomeno stagioni non è di solito legata a stili specifici , il che certifica senza alcuna ombra di dubbio che David Olney (uno  che non ha mai fatto un disco brutto), è uno dei tanti tesori nascosti del panorama musicale, e quindi, come diceva il famoso maestro Manzi, non è mai troppo tardi per scoprirlo.

Tino Montanari

Una Delle Ultime Grandi Voci Della Soul Music “Vera”! Otis Clay – Live In Switzerland, 2006

otis clay live in switzerland

Otis Clay – Live In Switzerland, 2006 – 2 CD S’more Entertainment/Rockbeat Records

L’8 gennaio di quest’anno ci ha lasciato anche Otis Clay, due giorni prima della morte di David Bowie, notizia che ha però inevitabilmente oscurato la scomparsa del grande cantante soul (e blues). Una delle ultime grandi voci storiche dell’epoca d’oro della musica nera, forse dalla carriera non ricca di grandi successi discografici: lo si ricorda soprattutto per Trying To Live My Life Without You, un brano che comunque raggiunse una posizione solo intorno alla centesima delle classifiche, e che faceva parte dell’album omonimo pubblicato per la Hi Records di Willie Mitchell, pezzo che molti ricordano anche per la bella versione che ne fece Bob Seger sul Live del 1981 Nine Tonight. E proprio nei concerti dal vivo ha costruito la propria reputazione Otis Clay: con una serie di album pubblicati tra il 1978 e il 1985, culminati nello strepitoso Soul Man – Live In Japan, un doppio poi uscito anche in CD, che è la vera quintessenza del grande soul, del rhythm and blues più sanguigno, entrambi innervati da potenti dosi di gospel, la musica che Clay aveva praticato nella lunga fase precedente la sua “conversione” alla musica secolare.

In possesso di una grande voce Clay, nei due anni che hanno preceduto la sua morte aveva pubblicato una coppia di album di duetti, entrambi notevoli: il primo Soul Brothers con Johnny Rawls, un altro dei monumenti della musica nera, e l’altro This Time Is For Real, insieme al suo discepolo e amico bianco Billy Price. Entrambi vincitori di svariati premi di categoria nelle varie poll di categoria di fine anno. Questo Live In Switzerland, 2006, registrato a Bellinzona nel giugno di quell’anno è un giusto compendio e commiato per la carriera di un cantante spesso sottovalutato e poco ricordato, anche dagli appassionati del genere. Accompagnato da una ottima band, con tre musicisti ai fiati, tre voci femminili di supporto e la consueta formazione chitarra-organo-basso e batteria, il grande Clay sciorina il suo repertorio con una classe ed un carisma invidiabili: serata calda in quel di Bellinzona, con il concerto che si apre con il consueto brano strumentale per scaldare i muscoli dei musicisti, una Hard Working Man rilassata, tra jazz e R&B. la qualità sonora è molto buona senza essere eccelsa (non a livello del Live In Japan) ma si apprezza subito la vocalità del nostro nell’inizio affidato a Here I Am ( Come and Take Me), un mid-tempo dove la voce rauca e vissuta di Clay, sostenuta da coriste e sezioni fiati, comincia a spaziare tra soul e errebì energico, You’re The One I Choose è il primo brano dalla chiara impronta gospel, poi secolarizzata in un sincopato arrangiamento con i fiati ben in evidenza, la voce forse non ha più la potenza di un tempo ma il mestiere e la “gigioneria” del vecchio marpione emergono quando serve.

I Can Take You To Heaven Tonight, un lungo brano dal repertorio del grande Bobby “Blue” Bland, è la prima di una serie di ballate deep soul, sanguigne e di notevole intensità, Clay inizia a titillare il pubblico con le malizie del veterano soulman, poi virate verso il R&B energico di una A Nickel And A Nail che era il cavallo di battaglia del compagno di etichetta O.V. Wright, cantata con grande verve e incorniciata da un ottimo assolo di chitarra di John Randolph. Sho Wasn’t me era un pezzo di southern soul abbastanza recente di Ronnie Lovejoy, presente nel disco del 2005 di Clay Respect Yourself, altra grande ballata, sempre tratta dallo stesso disco che era quello in promozione nel concerto in Svizzera del 2006; seguita da For The Good Times, si tratta proprio del classico brano scritto da Kris Kristofferson e cantato da Ray Price (e da mille altri), introduzione e versione da brividi, con Clay che si immerge cuore, anima e polmoni nella canzone, interpretata in modo splendido, veramente da manuale del deep soul. E pure If I Could Reach Out, il brano di George Jackson, è un brano tra soul e R&B da applausi a scena aperta, cantata con grande abbandono da Otis Clay. Fine del primo CD, il secondo dura poco, circa 35 minuti, solo tre brani, ma con un medley colossale di Love And Happiness/Soul Man/I Just Wanna Testify e Respect Yourself, con introduzione e presentazione della band che sono quasi più coinvolgenti di interi concerti di altri artisti, e il lungo medley, oltre 23 minuti, è comunque preceduto da una magica When Heart Grow Cold, altro “lentone” dal repertorio di Bobby Bland, di quelli strappalacrime, buoni sentimenti e classe immensa. Ma il medley conclusivo è al limite della perfezione, difficile ai giorni nostri fare della musica soul così carica di energia, viva e vegeta, tra i picchi e la vallate continue della interpretazione, a dispetto del poco rispetto che il vero soul ha nei tempi odierni, sarebbe un peccato non ascoltare questa testimonianza sonora dell’arte di Otis Clay.

Bruno Conti

Pure In Michigan Sanno Fare Del Sano Country! Frankie Ballard – El Rio

frankie ballard el rio

Frankie Ballard – El Rio – Warner Nashville CD

Countryman originario del Michigan, terra di rockers più che di cowboys, Frankie Ballard è da anni emigrato a Nashville, ma si è subito sistemato dalla parte giusta della città, sfruttando abilmente anche connessioni non proprio impeccabili, come i Lady Antebellum, con i quali è andato in tour per farsi conoscere meglio: ed i risultati si sono visti, dato che il suo secondo album del 2014, Sunshine & Whiskey (che seguiva di tre anni il debutto, Frankie Ballard) è riuscito ad entrare nella Top 5 country. Tutto questo non certo a discapito della qualità, come dimostra il suo terzo lavoro, El Rio, destinato a proseguire il cammino del suo fortunato predecessore: Ballard è un countryman dal pelo duro, che affronta le canzoni con piglio da rocker, mettendosi alla testa di un combo ridotto ma solido, formato da Rob McNelley alle chitarre, Sean Hurley al basso, Aaron Sterling alla batteria e Tim Lauer alle tastiere. Niente violini e steel quindi (che pure sarebbero bene accetti), ma strumentazione classica per un suono forte, diretto e limpido (anche nelle ballate), al servizio della voce leggermente arrochita del nostro: le ciliegine sulla torta sono la produzione professionale di Marshall Altman (Amy Grant, Marc Broussard), che dona al disco un suono adatto alle radio ma senza annacquarlo troppo con derive pop, ed uno stuolo di rinomati songwriter che collaborano con Frankie alla stesura delle canzoni: Chris Stapleton su tutti, ma anche Craig Wiseman, Mando Saenz e Chris Janson.

El Camino dà il via al disco in maniera superlativa, un rockin’ country irresistibile, gran ritmo, melodia contagiosa, chitarre roboanti e ottimo ritornello, insomma quanto di meglio possa offrire un brano di questo tipo (è il primo dei due pezzi in cui è coinvolto Stapleton, e si sente) https://www.youtube.com/watch?v=tsbF4-IGr0s . Cigarette è un brano meno country e più rock, ben arrangiato e con la voce grintosa del nostro a dare il tocco in più https://www.youtube.com/watch?v=8xfBW3s5p5E ; Waste Some Of Mine è una solida ballata, ancora arrangiata in maniera diretta e piuttosto roccata, con un refrain fluido e ritmica sciolta, mentre Little Bit Of Both è un country-blues cadenzato  dal feeling decisamente sudista, maschia, grintosa e con gran lavoro di chitarra.

L.A. Woman (non è quella dei Doors) ha un suggestivo intro strumentale che rimanda a rockers come Tom Petty, e pure il resto del brano si difende alla grande, un trascinante rock’n’roll che di Nashville non ha nulla; It All Started With A Beer è per contro un ottimo slow, vibrante e con un motivo che cresce ascolto dopo ascolto, ma Sweet Time riporta subito il CD su territori più rock, una solida ballata senza sbavature e con un bel ritornello corale che la potrebbe anche proiettare in alto nelle classifiche. Good As Gold è rock allo stato puro, basta sentire la chitarra come ricama sullo sfondo, mentre Southern Side fonde mirabilmente un suono ruspante con un ritmo alla Little Feat, si potrebbe dire country-funk? https://www.youtube.com/watch?v=mUrcpIWdQ2M  Se sei del Michigan e fai musica non puoi prescindere dalla figura di Bob Seger, e qui troviamo uno scintillante omaggio al barbuto rocker con una bella rilettura di You’ll Accomp’ny Me, che mantiene il mood dei brani di Bob aggiungendo un sapore country-rock che mancava all’originale; il CD si chiude con You Could’ve Loved Me, uno slow elettroacustico intenso e toccante https://www.youtube.com/watch?v=4wQIXGTCquU , degno finale per un disco di buon valore che secondo me riesce nel non facile compito di accontentare un ampio spettro di ascoltatori.

Marco Verdi

Da Bob Seger Passando Per I Little Feat! Shaun Murphy – It Won’t Stop Raining

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Shaun Murphy – It Won’t Stop Raining – Vision Wall Records

Devo ammettere che ho sempre avuto negli anni una predilezione per le grandi voci rock-soul-blues femminili, e dopo Dana Fuchs e Susan Marshall (non dimenticando Beth Hart, Grace Potter, Ruthie Foster e molte altre), come promesso e “minacciato” pochi giorni fa, oggi parliamo di Shaun Murphy (da non confondere con un omonimo campione del mondo di biliardo, che oltre a tutto è pure un uomo). Di questa signora (e della sua storia, con dovizia di particolari), vi ha già parlato Bruno recensendo l’ottimo Live At Callahan’s Music Hall (11) http://discoclub.myblog.it/2011/11/16/e-proprio-lei-shaun-murphy-live-at-callahan-s-music-hall/ , a cui sono seguiti a breve distanza di tempo Ask For The Moon (12), Cry Of Love (13), Loretta (15), fino ad arrivare a questo nuovo lavoro It Won’t Stop Raining, per undici tracce che includono brani originali e una manciata di cover tutte di impronta blues, tutte registrate ai Colemine Studios di Nashville, con la produzione di tale TC. Davis, insieme a Randy Coleman al mixer come ingegnere del suono. Come sempre ad accompagnare Shaun in sala d’incisione è la sua attuale “Touring band”, composta da Tom DelRossi alla batteria, Larry Van Loon e John Wallum alle tastiere e John Marcus (Tim McGraw) al basso, Kenne Cramer (Dr.Hook), Shawn Starski (Otis Taylor) alle chitarre, con un suono vivace che fa quasi pensare di ascoltare un disco dal vivo, pur senza esserlo.

Il disco si apre con il ritmo “shuffle” di Spreadin’ The News, a cui fanno seguito il blues viscerale  di Your Husband Is Cheating… e Happy With The One I Got…, mentre con la title track It Won’t Stop Raining si viaggia verso la ballata ricca di atmosfere “soul”, per poi passare al ritmo febbrile di una indiavolata Running Out Of Time (con un bel lavoro delle chitarre), e ritornare di nuovo allo “shuffle” di Pays The Price Of Love e Hey Baby (Don’t You Remember Me), sotto l’impulso di batteria e tastiere. Con That’s How A Woman Loves (cover di un brano di EG. Kight, come Happy With The One), si ritorna alle tenere ballate del periodo Stax ((pezzo che sembra scritta apposta per essere cantato dalla magnifica voce della Murphy), poi bastano tre note della chitarra rovente di Kenne Cramer per identificare nel “soul-blues” di I Need Your Love So Bad  il brano migliore del lotto, passando ancora per il blues “roccioso” di una I Hate The Blues (But The Blues Sure Seems To Love Me), e terminare con ancora una canzone con le tastiere e la sezione ritmica in gran spolvero, Fool For You, ricordando sempre la primaria importanza della voce di Shaun.

Questo It Won’t Stop Raining canzone dopo canzone può diventare un acquisto quasi obbligato per gli amanti del Blues e delle belle voci, e permetterci di scoprire finalmente una grande cantante che dopo gli inizi come corista di Bob Seger (lo è tuttora, oltre a lavorare con numerosi altri artisti, ma prima ancora come Stoney & Meatloaf, lavorò alla Tamla Motown nel 1971 insieme al “Polpettone” pre-fama) è stata anche per oltre una quindicina d’anni (dal 1993 al 2009) la cantante dei grandi Little Feat https://www.youtube.com/watch?v=A2XyJD2N3m0 , prima di intraprendere una valida carriera parallela da solista, che la riporta alle sue influenze giovanili, iniziate con Big Mama Thorton e proseguite con Koko Taylor, Etta James, Sister Rosetta Tharpe (per citarne alcune), e rivaleggiare con loro in bravura.

In conclusione, per quanto riguarda i “fans” della Murphy sanno già cosa fare (anche se i CD non sono facili da reperire e piuttosto costosi), per tutti gli altri la meravigliosa voce di Shaun  può essere un valido motivo per andarsi a risentire i dischi di Bob Seger https://www.youtube.com/watch?v=9QrtSmaNjTo  e dei Little Feat e per avvicinarsi a questa signora puntualmente candidata agli equivalenti dei “Grammy” del Blues.

Tino Montanari