Tornano “Quella” Voce E “Quelle” Canzoni, In Versione Country-Pop. Barry Gibb – Greenfields Vol. 1

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Barry Gibb – Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol. 1 – Capitol/Universal CD

I Bee Gees sono stati senza dubbio uno dei gruppi più popolari di sempre e tra i pochi, insieme a Beatles, Rolling Stones e ABBA, ad essere conosciuti anche da chi compra sì e no un disco all’anno. Personalmente sono un estimatore del loro primo periodo, diciamo dal 1966 al 1971/72, quando i tre (i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb) erano fautori di un pop decisamente piacevole, elegante e melodicamente delizioso, prima di edulcorare in maniera eccessiva la loro proposta negli anni successivi fino a diventare nella seconda parte della decade i profeti assoluti della discomusic vendendo dischi a palate, per poi gestire la parte finale di carriera con una serie di album di pop commerciale abbastanza prescindibili. Barry è oggi rimasto l’ultimo dei fratelli ancora in vita dopo la scomparsa di Maurice nel 2003 e di Robin nel 2012 (mentre Andy, il quarto fratello che però non aveva mai fatto parte del gruppo, è morto appena trentenne nel 1988), ed invece di godersi una dorata pensione ha deciso di rifarsi vivo un po’ a sorpresa con un nuovo album.

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Anche se non si direbbe, Barry è sempre stato un appassionato di country e bluegrass, ed è proprio con un disco di country che ha deciso di tornare: tutto è avvenuto quando suo figlio Stephen, anch’egli musicista, gli ha fatto ascoltare una canzone di Chris Stapleton, brano che a Gibb Sr. è piaciuto così tanto da voler contattare subito il produttore Dave Cobb. I due hanno avuto l’idea di recarsi presso i mitici RCA Studios di Nashville ad incidere vecchie canzoni del songbook dei Bee Gees con nuovi arrangiamenti di stampo country-Americana e soprattutto con l’aiuto di numerosi musicisti di gran nome che hanno accettato di buon grado di duettare con Barry. Il risultato è Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol 1, dodici rivisitazioni di canzoni decisamente famose, alcune meno note ed anche un brano inedito, ad opera di un Barry in buona forma ed ancora titolare di una bella voce e di una serie di partner di indubbio livello (ma Stapleton non c’è, anche se quel Vol. 1 nel titolo lascia presagire un seguito), il tutto con l’ormai affidabilissima regia di Cobb, che ha cercato di togliere ai classici del nostro quella patina di pop radiofonico donando loro un sapore più americano, riuscendoci però solo in parte dal momento che, probabilmente, Gibb non se l’è sentita di abbandonare del tutto certe dinamiche musicali tipiche sue.

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Greenfields è comunque un album molto piacevole e ben fatto in cui il tasso zuccherino si alza notevolmente solo in due o tre brani, dimostrando che spesso il problema coi Bee Gees non erano le canzoni ma la loro veste sonora (va però detto che il periodo “disco” qui si limita ad un paio di ballate, e la maggior parte dei pezzi proviene dai primi anni della band). Il CD inizia bene con la classica I’ve Gotta Get A Message To You in una versione decisamente bella, fluida e suonata alla grande, dove perfino uno come Keith Urban riesce a non fare danni ricordandosi di avere comunque una buona voce https://www.youtube.com/watch?v=1mocrPhJBSM . Words Of A Fool è un inedito degli anni ottanta, uno slow profondo ed intenso dalla melodia splendida e con un organo a dare un sapore quasi southern soul, con l’aggiunta della voce e chitarra di Jason Isbell ad alzare ulteriormente il livello https://www.youtube.com/watch?v=OiBXS7q4qqY ; Run To Me è una delle ballate più belle dei Bee Gees, e qui viene nobilitata dalla bellissima voce di Brandi Carlile (sempre più brava ogni anno che passa), mentre l’arrangiamento è pop ma di gran classe. Too Much Heaven viceversa non mi ha mai fatto impazzire, troppo sofisticata per i miei gusti https://www.youtube.com/watch?v=PMOtZNeXUyU , e questo duetto tra Barry ed Alison Krauss non mi fa cambiare idea nonostante la voce splendida della cantante-violinista, ed inoltre gli archi sono piuttosto pesanti.

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Meglio la poco nota Lonely Days, in cui Gibb è doppiato dalle voci dei Little Big Town, uno slow pianistico che nel ritornello aumenta di ritmo ed è potenziato da una vigorosa sezione fiati; la famosa Words vede il nostro accompagnato da Dolly Parton per una rilettura di buona intensità ed un arrangiamento elegante tra country e pop https://www.youtube.com/watch?v=GnJqrLALsOc , mentre nella funkeggiante Jive Talkin’ Barry è raggiunto dalla strana coppia formata da Miranda Lambert e Jay Buchanan (cantante del gruppo hard rock Rival Sons, amici e protetti di Cobb), ma il trio funziona abbastanza bene. How Deep Is Your Love la conoscono anche i sassi: versione riuscita e piacevole, con il ritorno dei Little Big Town alle armonie vocali ed il cameo alla chitarra acustica del grande Tommy Emmanuel; Sheryl Crow non manca mai in dischi di questo tipo, ma è brava e fa di tutto per migliorare How Can You Mend A Broken Heart che non è un grande brano ed il suono è fin troppo raffinato. Per contro To Love Somebody è un capolavoro, forse la miglior canzone dei Bee Gees (ricordo una splendida rilettura dei Flying Burrito Brothers), e rimane bellissima comunque la si faccia (per la cronaca qui Barry è ancora con Buchanan) https://www.youtube.com/watch?v=b_kEQ9r-zuw . Finale con due rarità: Rest Your Love On Me (era un lato B dei fratelli Gibb), una discreta ballata nella quale ritroviamo la rediviva Olivia Newton-John, e Butterfly che è la prima canzone in assoluto scritta da Barry, Robin e Maurice ed è riproposta in una bellissima versione elettroacustica cantata a tre voci con Gillian Welch e David Rawlings: se tutto Greenfields fosse stato a questo livello avrebbe meritato le fatidiche quattro stellette https://www.youtube.com/watch?v=I12Ng0fz2ak . Invece dobbiamo “accontentarci” di un comunque piacevole compromesso tra il suono roots di Cobb e l’anima easy listening di Gibb, che in ogni caso è la cosa migliore messa su disco dall’ex Bee Gees dai primi anni settanta in poi.

Marco Verdi

La “Diversamente Giovane” Cowgirl Conferma Il Suo Gran Momento Di Forma! Tanya Tucker – Live From The Troubadour

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Tanya Tucker – Live From The Troubadour – Fantasy/Concord/Universal CD

Tanya Tucker è da tempo un’istituzione della country music americana: texana, ha esordito giovanissima, una vera enfant prodige, all’età di 13 anni con la sua prima hit Delta Dawn (ancora oggi la sua signature song), continuando ad incidere con successo per tutta la decade. Negli anni ottanta ha sofferto di una grave crisi personale che l’ha allontanata temporaneamente dalla musica, ma in pochi anni si è rimessa in carreggiata ed è riuscita a riabbracciare la popolarità dal 1986 e per tutti i novanta, anche se non più ai livelli iniziali. Nel nuovo millennio ha pubblicato poca roba, solo un album di inediti nel 2002 (Tanya) ed uno di standards nel 2009 (My Turn): l’anno scorso però è tornata tra noi in gran forma con l’ottimo While I’m Livin’, un disco di canzoni nuove di zecca prodotto (ed in gran parte scritto) da Brandi Carlile, album che ha riportato in auge il nome della Tucker risultando il suo lavoro più venduto degli ultimi 25 anni.

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Per battere il ferro finché è caldo Tanya ha da poco pubblicato il terzo album dal vivo della sua carriera: Live At Troubadour, registrato il 16 ottobre del 2019 nella famosa location di West Hollywood, è un disco riuscito e gradevolissimo, spesso anche trascinante, che dimostra che While I’m Livin’ non era un fuoco di paglia. La Tucker ha ancora una gran voce, e qui si fa accompagnare da una band solida, dal suono energico e potente, un sound senza troppi fronzoli perfetto per le ballate classiche della bionda cantante; il gruppo vede Andy Gibson e Brian Seligman alle chitarre, Jefferson Jarvis alle tastiere, il bravissimo Jake Clayton a violino e steel, Dino Villanueva al basso e Mike Malinin alla batteria, con in più la partecipazione speciale di Shooter Jennings al pianoforte in High Ridin’ Heroes. Il concerto inizia subito con cinque classici di Tanya (di cui ben quattro sono stati singoli andati al numero uno), a partire da Would You Lay With Me (In A Field Of Stone), splendida country ballad dalla melodia deliziosa e toccante, per proseguire con la squisita Jamestown Ferry, honky-tonk d’altri tempi immediato ed orecchiabile, e con il puro country della cadenzata What’s Your Mama’s Name, Child, ballata di stampo western che ci fa capire come mai in passato la Tucker fosse stata accostata al movimento Outlaw.

tanya tucker promo

La pimpante e grintosa Blood Red And Goin’ Down (ottimo lavoro di steel) https://www.youtube.com/watch?v=rN-YzyOJUDQ  e la coinvolgente Strong Enough To Bend, bella country song dal motivo diretto, precedono un interessante medley che fonde I’m On Fire di Bruce Springsteen, molto aderente all’originale, ed una vibrante ripresa dell’evergreen di Johnny Cash Ring Of Fire https://www.youtube.com/watch?v=vuWsYPC5cHA . Seguono ben sei pezzi da While I’m Livin’, che confermano l’ottima fattura dell’album dell’anno scorso dal momento che i vari brani non sfigurano neanche a cospetto dei classici di prima, canzoni come la splendida Mustang Ridge, western song contraddistinta da una linea melodica praticamente perfetta, la sontuosa ballata The Wheels Of Laredo (che chiudeva anche il bellissimo esordio delle Highwomen), il sanguigno honky-tonk I Don’t Owe You Anything, l’emozionante High Ridin’ Heroes, altro slow questa volta dal chiaro sapore texano https://www.youtube.com/watch?v=9I9irKVFy1M , l’elettrica e rockeggiante Hard Luck, trascinante, fino alla struggente e pianistica Bring My Flowers Now, tra le più belle ed intense del CD. Triplo tuffo nel passato per il finale, con Tanya che intona con sicurezza una dopo l’altra l’irresistibile Texas (When I Die), puro country-rock outlaw style, il quasi rock’n’roll di It’s A Little Too Late e naturalmente la classica Delta Dawn, introdotta dalla prima strofa di Amazing Grace e con un arrangiamento di matrice gospel https://www.youtube.com/watch?v=ziXOm63dsAI . Tanya Tucker è in un ottimo momento di forma, e Live From The Troubadour lo conferma pienamente.

Marco Verdi

*NDB Oggi c’è un problema tecnico del Blog con l’inserimento dei video, quindi in alternativa trovate delle foto e i video sono linkati all’interno della recensione.

Il Disco Country Dell’Anno? Anche Qualcosa In Più! The Highwomen

the highwomen

The Highwomen – The Highwomen – Elektra/Warner CD

Quando qualche mese fa ho visto che tra le pubblicazioni in arrivo c’era l’esordio di un supergruppo country al femminile che fin dal nome, The Highwomen, era un diretto omaggio agli Highwaymen di Willie, Waylon, Cash e Kristofferson ho inizialmente pensato che si stesse scherzando col fuoco, ma quando ho ascoltato il disco sono rimasto letteralmente fulminato. L’idea iniziale di formare una band del genere è venuta ad Amanda Shires un giorno che, durante un lungo viaggio, ha constatato che nelle radio country americane passavano molte più canzoni di artisti maschili che femminili; Amanda ne ha parlato col produttore Dave Cobb, che le ha suggerito di contattare Brandi Carlile (non il primo nome che mi sarebbe venuto in mente, non perché non sia brava, anzi la considero una delle migliori giovani songwriters in circolazione, ma perché non è prettamente country), che ha accettato all’istante con entusiasmo. Le due hanno poi chiamato Maren Morris, stellina del country in rapida ascesa, e Natalie Hemby che è la meno popolare delle quattro in quanto più nota nell’ambiente di Nashville come autrice per conto terzi.

Le quattro hanno trovato subito l’intesa e hanno cominciato a scrivere canzoni con estrema facilità, ed il risultato finale è a mio parere uno dei più bei dischi del 2019, e non solo in ambito country (tra l’altro il successo è stato immediato, dato che in America è balzato subito al numero uno in classifica). Un album intenso e godibile, con almeno cinque grandi canzoni ed una cover spettacolare, con la Carlile che è indubbiamente leader ed anima del progetto (al punto da sembrare una country artist in tutto e per tutto): non è il primo supergruppo country al femminile (penso alle Pistol Annies, o andando ancora più indietro al Trio Harris-Parton-Ronstadt), ma questo CD sprigiona una magia rara. La produzione è ovviamente nelle mani di Cobb, che compare come al solito anche come chitarrista, mentre Brandi ha portato con sé i gemelli Phil e Tim Hanseroth, suoi abituali collaboratori, ed Amanda ha fatto lo stesso con il marito Jason Isbell (completano il quadro il tastierista Peter Levin ed il batterista Chris Powell, un habitué di Cobb). Per rendere ancora più saporito il piatto, troviamo alla voce in un paio di pezzi Sheryl Crow e la bravissima cantante country-soul inglese Yola, che ha esordito pochi mesi fa con l’ottimo Walk Through Fire, prodotto da Dan Auerbach.

Il disco parte alla grandissima con Highwomen, che non è altro che Highwayman di Jimmy Webb con il testo cambiato al femminile da Brandi e Amanda (chiaramente col permesso dell’autore), in cui le protagoniste sono rispettivamente un’immigrata dall’Honduras, una guaritrice impalata a Salem come strega, una combattente per la libertà degli afroamericani nei sixties (ed infatti in questa strofa la voce solista è di Yola) ed una predicatrice. E la cover è semplicemente formidabile, eseguita con pathos enorme e cantata in maniera sontuosa: non arrivo a dire che questa versione è superiore a quella degli Highwaymen, ma non è di certo così distante. Redisigning Women è il primo singolo, un brano scritto dalla Hemby in cui le quattro si alternano al canto, ed è una splendida country song cadenzata e dalla melodia scintillante, di quelle che dopo mezzo ascolto non ti escono più dalla testa. E’ il turno della Morris con la deliziosa Loose Change, altro pezzo dal ritmo pulsante e con un ritornello vincente ed evocativo, impreziosito da un bel lavoro di steel ed organo, mentre Crowded Table, che vede ancora tutte e quattro alle lead vocals, è una toccante ballata corale con il suono che ha più di un rimando agli anni settanta ed un altro refrain strepitoso: quattro canzoni una più bella dell’altra, un grande inizio.

Le ragazze non danno tregua: My Name Can’t Be Mama è un trascinante honky-tonk che potrebbe benissimo provenire dal Texas, gran ritmo e voci superbe. If She Ever Leaves Me è un lento intenso che affronta con molta delicatezza il tema dell’amore tra donne, ed infatti il brano (che è scritto dalla Shires insieme al marito) è affidato alla Carlile, omosessuale dichiarata e paladina per i diritti femminili; Old Soul, di e con Maren voce solista, è una country ballad dal ritmo sostenuto e sviluppo disteso, e precede l’elettrica e chitarristica Don’t Call Me (Shires + Carlile), che sembra quasi una versione al femminile di Johnny Cash, boom-chicka-boom compreso. My Only Child è un languido slow con la Hemby protagonista ed il solito ritornello di notevole impatto emotivo, mentre Heaven Is A Honky Tonk (scritta insieme a Ray LaMontagne) è un altro strepitoso country-rock coinvolgente al massimo e con una strofa cantata dalla Crow: una delle più belle del disco. Finale con la tenue Cocktail And A Song, dedicata dalla Shires al padre, e con la maestosa Wheels Of Laredo, splendida ballatona di Brandi che ha lo stile epico di certe cose di Kristofferson.

Album bellissimo e sorprendente, che come dicevo prima va oltre il concetto di country, e che sono sicuro ci farà compagnia a lungo nei prossimi mesi.

Marco Verdi

Peccato Che Non Sia Previsto Il DVD (Per Ora). Joni 75: A Birthday Celebration Joni Mitchell Tribute Concert. Esce l’8 Marzo

Various Artists Joni 75 A Birthday Celebration Joni Mitchell tribute concert

Joni 75: A Birthday Celebration – Joni Mitchell Tribute Concert – Decca/Universal 08-03-2019

Lo scorso novembre, in due serate tenute al Music Center del Dorothy Chandler Pavillion di Los Angeles, si è tenuto questo concerto benefico in tributo a Joni Mitchell, per festeggiare il suo 75° compleanno, che è stato appunto il 7 novembre. Le serate sono state riprese dal regista Martyn Atkins, per un film di due ore che include anche interviste effettuate nel dietro le quinte dell’evento, e il tutto verrà trasmesso al cinema, solo in Canada e Stati Uniti, per un unico giorno, il 7 febbraio, poi andrà in onda sulla PBS, la televisione pubblica americana, ma, almeno per ora, purtroppo, niente DVD.

joni mitchell 75 movie

La lista completa dei brani eseguiti nel concerto, ed i musicisti presenti allo stesso, è la seguente:

 “Joni 75” setlist:

1. Court and Spark – Norah Jones 
2. Coyote – Glen Hansard 
3. For the Roses – Diana Krall
4. Blue – Rufus Wainwright 
5. Cold Blue Steel – Emmylou Harris 
6. The Magdalene Laundries – Emmylou Harris 
7. Help Me – Chaka Khan 
8. Dreamland – Los Lobos with La Marisoul, Cesar Castro, Xochi Flores and Chaka Khan
9. Nothing Can Be Done – Los Lobos with La Marisoul
10. River – James Taylor
11. Both Sides Now – Seal 

[Intermission]

1. Our House – Graham Nash 
2. A Strange Boy – Seal 
3. All I Want – Rufus Wainwright
4. Borderline – Norah Jones
5. Amelia – Diana Krall
6. The Boho Dance – Glen Hansard
7. A Case of You – Kris Kristofferson with Brandi Carlile
8. Down To You – Brandi Carlile
9. Two Grey Rooms – Chaka Khan
10. Woodstock – James Taylor 
11. Big Yellow Taxi – full cast

Ma purtroppo, come spesso capita per questi eventi, solo 16 delle esibizioni verranno pubblicate nel CD in uscita il prossimo 8 marzo (festa della donna, sarà un caso?). Dai resoconti che ho letto della serata i brani più apprezzati dal pubblico sono stati la versione di Seal di Both Sides Now, la cui presenza, come quella di altri artisti era stata espressamente richiesta dalla stessa Joni, e che ha ricevuto una standing ovation alla fine della canzone, come pure Brandi Carlile (una grandissima fan), che con la sua voce pura e cristallina da contralto è la più vicina come stile alla giovane Mitchell, ha cantato splendidamente Down To You, ed è risultata con Diana Krall, più vicina alla voce matura della Mitchell della seconda fase della carriera (alle prese con due capolavori come Amelia For The Roses), quelle che hanno raccolto i maggiori apprezzamenti dalla critica. Per il resto c’erano anche alcuni amici dell’epoca californiana dei primi anni ’70, nella fattispecie Kris Kristofferson JamesTaylor, che aveva suonato in due pezzi di Blue, non quelli interpretati nella serata, oltre alla vecchia fiamma Graham Nash che è stato l’unico a cantare un pezzo non composto da Joni Mitchell, quella Our House che raccontava la loro breve ma intensa storia d’amore. Nella pattuglia femminile presenti anche Emmylou Harris che ha candidamente confessato che la parte di chitarra di Cold Blue Steel (non presente nel CD) era decisamente superiore alle sue capacità tecniche, troppo complessa, Chaka Khan, che cantava nell’originale di Dreamland, qui eseguita dai Los Lobos, mentre lei ha cantato Help Me e Two Grey Rooms, infine Norah Jones. Quindi complessivamente un ottimo cast, con qualche mancanza significativa.

La house band che accompagnava i musicisti era strepitosa: guidata dal batterista Brian Blade e dal pianista Jon Cowherd, con l’aggiunta di Greg Leisz Marvin Sewell alle chitarre, Ambrose Akinmusire alla tromba, Jeff Haynes  percussioni, Chris Thomas basso, Bob Sheppard sax e fiati vari, e per la seria a volte ritornano, Scarlet Rivera al violino. Ecco la lista dei brani inclusi nel CD.

1. Dreamland – Performed by Los Lobos
2. Help Me – Performed by Chaka Khan
3. Amelia – Performed by Diana Krall
4. All I Want – Performed by Rufus Wainwright
5. Coyote – Performed by Glen Hansard
6. River – Performed by James Taylor
7. Both Sides Now – Performed by Seal
8. Our House – Performed by Graham Nash
9. A Case Of You – Performed by Kris Kristofferson & Brandi Carlile
10. Down to You – Performed by Brandi Carlile
11. Blue – Performed by Rufus Wainwright
12. Court And Spark – Performed by Norah Jones
13. Nothing Can Be Done – Performed by Los Lobos
14. The Magdalene Laundries – Performed by Emmylou Harris
15. Woodstock – Performed by James Taylor
16. Big Yellow Taxi – Performed by La Marisoul, James Taylor, Chaka Khan, and Brandi Carlile

Ne parleremo più diffusamente al momento dell’uscita, per ora prendete nota.

Bruno Conti

Un Bagno Rigenerante Nelle Acque Del Sud. Amy Ray – Holler

amy ray holler

Amy Ray – Holler – Daemon/Compass CD

Amy Ray, come saprete, è da più di trent’anni una metà del duo delle Indigo Girls insieme ad Emily Saliers ma, a differenza della compagna che ha pubblicato un solo album senza di lei, è titolare anche di una corposa discografia da solista che dal 2001 al 2014 ha prodotto cinque lavori. Ed Amy, che con le Ragazze Indaco porta avanti da anni un discorso fatto di musica folk-rock-cantautorale, da sola si cimenta a volte in generi differenti: per esempio, il suo primo disco, Stag, era quasi punk, mentre Lung Of Love aveva un suono da band di rock indipendente. Holler è il sesto solo album di Amy, e fin dal primo ascolto si pone come il più riuscito della sua carriera lontana dalla Saliers: infatti stiamo parlando di un lavoro davvero bello, nel quale la Ray va a riscoprire le sue radici del Sud (è nata in Georgia), mescolando abilmente rock, country, folk e addirittura mountain music, un cocktail stimolante e coinvolgente, che risulta riuscito anche grazie alle ottime canzoni che Amy ha scritto per il progetto.

Un disco impregnato nel profondo di suoni del Sud, che vede all’opera anche una serie di musicisti da leccarsi i baffi: oltre ai membri dell’abituale live band di Amy (Jeff Fielder alla chitarra, Matt Smith alla steel, Kerry Brooks al basso e Jim Brock alla batteria), abbiamo tre nomi legati a doppio filo alla Tedeschi Trucks Band, cioè il produttore Brian Speiser, il bravissimo Kofi Burbridge, alle tastiere in diversi pezzi, e soprattutto Derek Trucks stesso in un brano. In più, il determinante contributo della grande banjoista Alison Brown, ed una serie di guest vocals che rispondono ai nomi di Vince Gill, Brandi Carlile, The Wood Brothers e Justin Vernon, leader dei Bon Iver. Ma al centro di tutto c’è Amy, con le sue canzoni e la sua lunga esperienza come performer: Holler è dunque un piccolo grande disco, sicuramente il migliore della Ray, ma anche superiore alle ultime prove delle Indigo Girls (che, va detto, il livello di album come Rites Of Passage e Swamp Ophelia non lo hanno mai più raggiunto). Dopo un breve preludio strumentale che sa di country d’altri tempi (Gracie’s Dawn), l’album attacca con la potente Sure Feels Good Anyway, uno splendido country-rock dal ritmo alto, con chitarre, violino, steel e piano in evidenza ed una melodia importante: subito una grande canzone. Dadgum Down è un pezzo dall’approccio tradizionale (con il banjo della Brown a dominare) ma con un arrangiamento di stampo rock.

Last Taxi Fare invece è una ballata tersa e limpida, dal passo lento e con un chiaro sapore southern soul, impreziosita dai fiati e dalle armonie di Gill e della Carlile, mentre Old Lady è un toccante interludio che purtroppo dura solo un minuto, e che confluisce nella roccata Sparrow’s Boogie, un pezzo decisamente coinvolgente, sorta di bluegrass elettrico con lo splendido banjo della Brown doppiato ad arte dalla chitarra di Fielding, ed Amy che si dimostra in forma e perfettamente a suo agio. Niente male anche Oh City Man, canzone tra folk e country, con il solito banjo che viene affiancato da un bel dobro, il tutto in una limpida atmosfera bucolica; Fine With The Dark vede solo la Ray voce e chitarra, puro cantautorato di classe, Tonight I’m Paying The Rent è uno scintillante honky-tonk dal motivo irresistibile, con i fiati dietro la band ed un ottimo Burbridge: tra le più belle del CD. Notevole anche Holler, uno slow languido, accarezzato da una bella steel e con ricordi lontani dell’Elton John “americano” (quello di dischi come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water); che dire di Jesus Was A Walking Man? Uno spettacolare country-gospel, davvero coinvolgente, pura mountain music degna di Ralph Stanley (o della Nitty Gritty Dirt Band del primo Will The Circle Be Unbroken). Dopo i 54 secondi della struggente Sparrow’s Lullaby, troppo breve, il CD si chiude con Bondsman (Evening In Missouri), fluida e crepuscolare ballata di nuovo con piano e steel in prima fila, e con Didn’t Know A Damn Thing, altro splendido pezzo di puro southern country, dal bellissimo refrain e con la chitarra di Trucks a rilasciare un breve ma ficcante assolo.

Veramente una bella sorpresa questo Holler: se anche negli ultimi anni avete un po’ perso di vista le Indigo Girls, bypassarlo sarebbe un vero peccato.

Marco Verdi

Un Disco Di Una Bellezza Rara! Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You

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Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You – Elektra/Warner CD

Recensione tardiva di un disco uscito lo scorso mese di Febbraio (il classico caso di: lo fai tu – lo faccio io – non lo fa nessuno), ma talmente bello da meritarsi l’inclusione nella mia Top Ten di fine 2018. Brandi Carlile da quando ha iniziato a pubblicare dischi nel 2005 non ha mai sbagliato un appuntamento, ma fino ad oggi non aveva mai pareggiato la bellezza del suo secondo lavoro, The Story (2007), un album eccellente che contava su una serie di canzoni bellissime, a partire dalla magnifica title track, uno dei brani migliori in assoluto del nuovo millennio a mio parere. Give Up The Ghost (2009) era ottimo, ma non al livello di The Story, ed i seguenti Bear Creek (2012) e The Firewatcher’s Daughter (2015), pur validi, erano un gradino sotto (mentre l’unico disco dal vivo di Brandi, Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony, pur avendo ottenuto critiche contrastanti a me era piaciuto tantissimo). Lo scorso anno la songwriter originaria di Ravensdale (un sobborgo di Seattle) ci aveva regalato lo splendido Cover Stories, una sorta di auto-tributo per il decennale di The Story, in cui le canzoni del suo secondo album venivano rivisitate da una serie di artisti famosi, il tutto a scopo benefico. Quella esperienza deve aver fatto bene a Brandi, in quanto il suo nuovo album, By The Way, I Forgive You, è un disco davvero splendido, con dieci canzoni una più bella dell’altra, un lavoro ispiratissimo che personalmente colloco sullo stesso piano di The Story. L’album, che vede la nostra affrontare i brani con il consueto approccio folk-rock, vede alla produzione una “strana coppia” formata dall’onnipresente Dave Cobb e da Shooter Jennings, e proprio il suono è uno dei punti di forza del CD.

Infatti alcuni brani si differenziano dal classico stile di Cobb, fatto di suoni scarni e dosati al millimetro, quasi per sottrazione, in quanto ci troviamo spesso immersi in sonorità decisamente più ariose, anzi direi quasi grandiose, ma senza essere affatto ridondanti: un termine di paragone potrebbe essere il suono dei Fleet Foxes, folk elettrificato e potente dal forte sapore emozionale. E Brandi, forse spronata da questo tipo di sonorità, tira fuori alcune tra le sue performance vocali migliori di sempre, con un’estensione da paura; tra i musicisti, oltre ai due produttori (Cobb alla chitarra e Jennings curiosamente al piano ed organo, evidentemente deve aver imparato qualcosa anche da mamma Jessi Colter), troviamo i soliti collaboratori sia della Carlile (i gemelli Phil e Tim Hanseroth, co-autori anche di tutte le canzoni) che di Dave (il batterista Chris Powell), mentre ai cori partecipano Anderson East in un brano e le Secret Sisters in un altro, e due pezzi hanno un arrangiamento orchestrale ad opera del grande Paul Buckmaster (noto per le sue collaborazioni, tra gli altri, con Elton John, del quale Brandi è una nota fan), qui alla sua ultima collaborazione essendo scomparso nel Novembre del 2017. Il disco (a proposito, il bel ritratto di Brandi in copertina è stato eseguito da Scott Avett, proprio il leader degli Avett Brothers) inizia alla grande con Every Time I Hear That Song, una splendida ballata di ampio respiro, dall’incedere maestoso ed una melodia da pelle d’oca, con un arrangiamento semi-acustico e corale di sicuro impatto (il testo tra l’altro contiene la frase che intitola l’album).

The Joke è il primo singolo, ed è una scelta per nulla commerciale: si tratta infatti di un’intensa ballata pianistica, cantata dalla Carlile in maniera straordinaria, con un toccante motivo di pura bellezza, impreziosita da una leggera orchestrazione e da un crescendo strumentale emozionante. Hold On Your Hand è una folk song che inizia in modo quasi frenetico, con Brandi solo voce e chitarra, poi nel refrain entrano gli altri strumenti ed i cori, e ci ritroviamo di nuovo in mezzo a sonorità grandiose, atipiche per Brandi (e qui vedo parecchie somiglianze con i già citati Fleet Foxes), ma il ritornello è di quelli che colpiscono da subito, grazie anche al contributo essenziale dato da un coro di sette elementi (tra cui Brandi stessa, i due Hanseroth ed Anderson East). The Mother è dedicata dalla Carlile alla figlia Evangeline, avuta tramite inseminazione artificiale dalla sua compagna, e vede una strumentazione più raccolta, un folk cantautorale puro e cristallino, tutto giocato sulla voce, un accompagnamento molto classico ed un motivo anche stavolta splendido; la lenta Whatever You Do è dominata dalla voce e dalla chitarra di Brandi, poi a poco a poco entra il piano (Shooter si rivela un ottimo pianista), altre due chitarre e la sezione ritmica, ma il tutto assolutamente in punta di piedi, ed anche gli archi di Buckmaster accarezzano la canzone con estrema finezza.

Fulron County Jane Doe è più diretta e solare, ha perfino un feeling country (un genere poco esplorato da Brandi negli anni), e degli accordi di chitarra elettrica che curiosamente rimandano alla mitica For What It’s Worth dei Buffalo Springfield: la Carlile canta al solito in maniera impeccabile ed il brano risulta tra i più godibili. Sugartooth è l’ennesima fulgida ballata di un disco quasi perfetto, un lento dall’approccio rock, con uno scintillante arrangiamento basato su piano e chitarre ed il consueto refrain dal pathos incredibile; stupenda anche Most Of All, un altro pezzo dalla struttura folk e con una linea melodica fantastica, il tutto eseguito con un’intensità da brividi: anche questa la metto tra le mie preferite. Il CD, una vera meraviglia, si chiude con la spedita Harder To Forgive, altro pezzo folkeggiante, cantato alla grande ed arrangiato ancora in maniera corale ed ariosa (ancora similitudini con lo stile del gruppo di Robin Pecknold), e con Party Of One, un finale pianistico ed intenso, che ha dei punti di contatto con le ballate analoghe di Neil Young.

A quasi un anno di distanza dalla sua uscita By The Way, I Forgive You rimane un disco splendido, e fa parte di quei lavori che continuano a crescere ascolto dopo ascolto.

Marco Verdi

pegi young

P.S: a proposito di voci femminili (e di Neil Young), vorrei ricordare brevemente Pegi Young, scomparsa il primo Gennaio all’età di 66 anni dopo una battaglia di un anno contro il cancro. Nata Margaret Morton, la figura di Pegi è sempre stata legata a doppio filo a quella del grande musicista canadese, al quale è stata sposata per quasi quaranta anni prima che il Bisonte prendesse la classica sbandata della terza età per l’attrice Daryl Hannah.

Dal punto di vista musicale Pegi, che è stata in diverse occasioni in tour con il marito come corista, non ci lascia certo delle pietre miliari, ma una serie di onesti lavori di soft rock californiano https://discoclub.myblog.it/2014/12/08/laltra-meta-della-famiglia-o-piu-pegi-young-the-survivors-lonely-crowded-room/ : l’ultimo, il discreto Raw, è del 2017. Nel 1986 Pegi è stata anche la fondatrice con il famoso consorte della Bridge School, un istituto per la cura dei bambini con gravi tare fisiche e mentali (la coppia ha avuto due figli, entrambi con seri problemi: Ben è affetto da paralisi cerebrale, Amber da epilessia) https://discoclub.myblog.it/2011/10/04/25-anni-di-buone-azioni-e-di-belle-canzoni-the-bridge-school/ .

Vorrei ricordare Pegi con la bellissima Unknown Legend del marito Neil, brano che apriva l’album Harvest Moon nel 1993 e che era a lei ispirato: infatti quando i due si conobbero nel lontano 1974 lei lavorava come cameriera in un diner vicino al ranch di Young.

Un Onesto Album Rock Dalla Lunga Gestazione Per Il Popolare Gruppo Americano: Direttamente Al 1° Posto Delle Classifiche. Dave Matthews Band – Come Tomorrow

dave matthews band come tomorrow

Dave Matthews Band – Come Tomorrow – Rca Records

Come Tomorrow è il nono album di studio della Dave Matthews Band, arriva a circa sei anni di distanza dal precedente Away From The World, e a differenza appunto dei precedenti ha avuto una lunga gestazione. Nove dei quattordici brani contenuti fanno già parte del repertorio da tempo live della band, che come sappiamo è immane (esistono quasi una cinquantina di album dal vivo al loro attivo): due pezzi vedono ancora la presenza in studio di LeRoi Moore, il vecchio sassofonista scomparso nel 2009 e in uno appare Boyd Tinsley, il violinista che è stato licenziato dal gruppo per problemi legati a presunte molestie sessuali. Il CD è stato registrato con quattro diversi produttori,  John Alagia, Mark Batson, Rob Cavallo e Rob Evans, tra Seattle, Los Angeles e Charlottesville (che è la citta elettiva del sudafricano Matthews),  il suono è quello solito della DBM, che benché  spesso inserita nel filone jam band, in effetti oscilla tra rock classico, pop, funk, alternative, insomma pensate un genere e lo trovate nello stile e nel DNA di Matthews e soci, soprattutto dal vivo.

La partenza è affidata a Samurai Cop (Oh Joy Begin), un pezzo che potrebbe ricordare nella struttura certe canzoni degli ultimi U2 (insomma di quelle buone, senza essere memorabili), comunque decisamente rock e che ruota intorno al consueto eccellente lavoro della solista di Tim Reynolds; Can’t Stop è uno dei brani composti coralmente dal gruppo, viene dal passato e annovera tra gli autori anche Moore, presente al sax, e Tinsley, e ruota intorno al classico funky sound dei loro brani più influenzati dal R&B, dove si apprezza la voce calda e partecipe del nostro, oltre ad un lavoro di finezza complessivo della sezione ritmica, molto impegnata,  come pure i fiati https://www.youtube.com/watch?v=3c8uD6UeB9E . Here On Out è una delle classiche ballate di Matthews, con il sound che partendo dalla sua chitarra acustica arpeggiata, utilizza nella produzione un  grande impiego di archi e fiati, forse persino eccessivo nella sua opulenza orchestrale, non male comunque, con Dave che impiega saltuariamente anche il suo abituale falsetto, che poi viene spinto ai limiti nella successiva That Girl Is You, forse anche esagerandone l’uso in un funky-pop non memorabile. Meglio la successiva She, firmata con il produttore John Alagia, benché l’approccio decisamente rock con duri riff di chitarra sia inconsueto per la band, con coda strumentale finale che sicuramente verrà elaborata per lunghe improvvisazioni nelle esibizioni live https://www.youtube.com/watch?v=Nr1pwLhgf0A ; Idea Of You è l’altro brano con LeRoi Moore, e Boyd Tinsley al violino, con l’intro presa da un concerto, è uno di quei tipici brani sognanti che appartiene alla migliore tradizione della band, tra l’epico e l’intimista, con accelerazioni e rallentamenti improvvisi che evidenziano il suono corale della DMB.

Molto piacevole anche Virginia In The Rain, altra ballad mid-tempo dalle atmosfere sospese che girano attorno al suono di un piano elettrico e della solista di Reynolds, con la voce misurata di Matthews più intima e carezzevole, che poi in Again And Again sfodera un timbro vocale alla Sting (visto che il musicista inglese nel frattempo è impegnato a fare orrori musicali con Shaggy), per una pop song leggerina, tralasciamo il frammento funky Bkdkdkdd, che più che un brano è un codice fiscale. Decisamente più riuscita un’altra dolce e deliziosa ballata come Black And Blue Bird, dove Matthews mette a fuoco gli elementi più cantautorali della propria musica e anche Do You Remember ne illustra il lato più elettroacustico, prima di passare alla title track Come Tomorrow, semplicemente una bella canzone, con temi che vertono sul sociale e sul politico, e in cui Dave viene raggiunto da Brandi Carlile, che è ospite come seconda voce in questa deliziosa ode al futuro, dove l’arrangiamento orchestrale questa volta è perfetto per il mood trasognato del brano, forse fin troppo ottimista nel testo: “All the girls and boys will sing/Come tomorrow we fix everything/So as long as we survive today/come tomorrow we go and find a way”, ma d’altronde senza speranza cosa viviamo a fare? Chiude When I’m Weary, altra breve ode pianistica di buona fattura. Il disco è andato direttamente al 1° posto delle classifiche risultando il più venduto album rock degli ultimi quattro anni in una settimana e anche quello finora con le maggiori vendite nel 2018.

Bruno Conti

Diamo Il Bentornato Ad Uno Degli Ultimi Grandi Cantautori! John Prine – The Tree Of Forgiveness

john prine the tree of forgiveness

John Prine – The Tree Of Forgiveness – Oh Boy/Thirty Tigers CD

John Prine è sempre stato uno dei miei cantautori preferiti, anzi arrivo a sostenere che negli anni settanta sopra di lui c’erano forse solo Bob Dylan e Paul Simon, ed è uno che in carriera ha avuto solo un centesimo dei riconoscimenti che avrebbe meritato. Dagli anni novanta in poi Prine ha diradato di molto la sua produzione, ed è addirittura dallo splendido Fair & Square del 2005 che non avevamo sue canzoni nuove: dischi sì, ma o erano di covers, come il CD con Mac Wiseman Standard Songs For Average People o quello di duetti con interpreti femminili For Better, Or Worse https://discoclub.myblog.it/2016/11/15/recuperi-fine-stagione-altro-album-duetti-molto-meglio-del-primo-john-prine-for-better-or-worse/ , o erano dal vivo, come In Person & On Stage ed il recente live d’archivio September 78 https://discoclub.myblog.it/2017/10/02/un-buon-live-anche-se-monco-john-prine-september-78/ , o collezioni di demo di inizio carriera (The Singing Mailman Delivers). In questi anni ha avuto anche problemi di salute che lo hanno minato nell’aspetto, rendendolo quasi irriconoscibile e comunque fatto invecchiare molto male, e quindi era lecito pensare che avesse appeso la penna al chiodo in maniera definitiva. Una parte di merito per il suo ritorno sulle scene credo ce l’abbia Dan Auerbach, che lo ha coinvolto nella scrittura di alcune canzoni per il suo splendido album solista dello scorso anno: insieme i due hanno composto addirittura una ventina di brani, anche se poi Dan ne ha usata una sola (Waiting On A Song, la title track del disco) ed un’altra l’ha data a Robert Finley, del quale ha anche prodotto il bel disco Goin’ Platinum.

John dal canto suo si è rimesso a scrivere, da solo o con altri, tirando anche fuori dai cassetti qualche vecchia canzone mai incisa (ed altre due di quelle con Auerbach), ed è riuscito finalmente a dare un seguito a Fair & Square: The Tree Of Forgiveness è un album altrettanto riuscito, con dieci canzoni di qualità eccelsa che ci fanno ritrovare il Prine classico, quello che sa essere divertente ed ironico ma anche profondo e toccante, con una voce che a differenza del fisico non ha risentito più di tanto del tempo trascorso, al punto che non sembra che siano passati tredici anni tra un disco e l’altro. Buona parte del merito va anche al produttore, cioè il ben noto Dave Cobb (ormai un maestro nel dosare i suoni in dischi di questo tipo), il quale ha circondato John di strumentazioni misurate, mai eccessive, in modo da far risaltare sempre e solo la canzone in sé stessa: i musicisti coinvolti sono un mix tra i “regulars” di Prine, come Jason Wilber e Pat McLaughlin e quelli di Cobb, come Mike Webb e Ken Blevins, oltre ad ospitare interventi sempre all’insegna della misura da parte di Brandi Carlile, di Jason Isbell e della consorte Amanda Shires. Poche note di Knocking On Your Screen Door e già ritroviamo il John Prine che più amiamo, una cristallina e cadenzata ballata di ispirazione country, con una melodia tipica del nostro ed un accompagnamento scintillante: miglior inizio non poteva esserci https://www.youtube.com/watch?v=vqb6qKRN8j4 . I Have Met My Love Today è un delizioso brano elettroacustico impreziosito dalla seconda voce della Carlile (che adora John Prine), dal motivo semplice e diretto ed il gruppo che accompagna con discrezione https://www.youtube.com/watch?v=FzKZXEIW4YQ , mentre Egg & Daughter Nite, Lincoln Nebraska 1967 (Crazy Bone), titolo mica male, è una di quelle canzoni per cui il nostro è famoso, una folk ballad con voce, chitarra e poco altro, humor a profusione ed un gusto melodico squisito.

Summer’s End è una tenue slow song nella tradizione di pezzi come Hello In There, dal ritornello splendido e toccante, Caravan Of Fools è più spoglia, due chitarre acustiche, basso e mellotron, ed un mood più drammatico e quasi western di grande intensità, mentre l’ironica Lonesome Friends Of Science è puro Prine, motivo folk, organo alle spalle e brano che si ascolta tutto d’un fiato. No Ordinary Blue è una di quelle filastrocche countryeggianti che John ha sempre scritto con grande facilità (con ben quattro chitarre, tra cui l’elettrica di Isbell), Boundless Love è splendida pur nella sua voluta semplicità, ma il nostro riesce sempre ad emozionare anche solo con la voce e poco altro, e qui è servito da una scrittura di prim’ordine e dalla bravura di Cobb nel calibrare i suoni. God Only Knows non è una cover del classico dei Beach Boys, bensì un pezzo che John aveva scritto negli anni settanta addirittura con Phil Spector e poi dimenticato, e direi che ha fatto molto bene a ripescarla in quanto si tratta di una grande canzone, che beneficia anche di una strumentazione più vigorosa del solito, con la ciliegina della presenza dei coniugi Isbell, Jason alla solista ed Amanda al violino e seconda voce: se non è la più bella del disco poco ci manca https://www.youtube.com/watch?v=4E39NOnCS1U . La scherzosa When I Get To Heaven, che alterna talkin’ ad un cantato pimpante, chiude in maniera positiva un lavoro davvero bellissimo https://www.youtube.com/watch?v=OaDGYFNmtyY , grazie al quale mi rendo conto di quanto mi mancasse uno come John Prine.

Marco Verdi

Country(Rock) Di Classe E Sostanza In Una Delle “Mecche” Del Genere. Shooter Jennings – Live At Billy Bob’s Texas

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Shooter Jennings-  Live At Billy Bob’s Texas – Smith Music Group CD O DVD

Waylon Albright Jennings detto “Shooter”, a voler essere sinceri fino in fondo, non è bravo come il babbo, l’unico vero e unico Waylon, e probabilmente neppure come la mamma Jessi Colter, ma i geni di famiglia non possono avere fallito completamente, come dimostrano parecchi dei suoi album precedenti. Però da alcuni anni sembra aver perso un po’ la bussola: prima la collaborazione quasi “metal” con Stephen King in Heirophant, poi l’incrocio francamente imbarazzante di country ed elettronica, Countach (for Giorgio) dedicato a Moroder, inframezzato dal discreto EP Don’t Wait Up (For George), di quello “giusto”, Jones, non facevano sperare per il meglio ed erano pallidi ricordi dell’ottimo uno-due del 2013 The Other Life e The Other Live http://discoclub.myblog.it/2013/03/15/finalmente-degno-di-tanto-padre-shooter-jennings/ . Ovviamente il nostro amico è libero di avere i propri gusti e se a Shooter piace indulgere anche nei suoi piaceri dedicati agli ascolti giovanili, noi siamo altrettanto liberi di non acquistarli, basta saperlo. Nel frattempo Jennings almeno dal vivo continua però a fare ottime cose, come dimostra questo concerto, di cui tra un attimo, e anche la sua presenza in vari Live, tributi e dischi di colleghi (per esempio è già annunciato che il nuovo disco di Brandi Carlile, By The Way I Forgive You https://www.youtube.com/watch?v=2adTSxUqnc4 , in uscita a febbraio 2018, sarà prodotto da lui e Dave Cobb, bella accoppiata https://www.youtube.com/watch?v=z865nKpgH0Q ).

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https://www.youtube.com/watch?v=CtOn5WdwNzk

Il Billy Bob’s Texas, come è noto, è uno dei più grandi locali honky-tonk d’America, anzi il più grande, situato a Forth Worth, ci hanno suonato un po’ tutti, anche artisti non country, ma principalmente si pratica quella branca della musica; Waylon Jennings per esempio ci suonava già negli anni ’70, prima della nascita del figlio, e, di solito, i vari CD e DVD dal vivo registrati laggiù sono sempre stati degli ottimi album. E pure questo non manca il bersaglio: oddio, la giacchetta in copertina con la scritta From Here To Eternity, da uno dei titoli più noti di Moroder, di cui poi nel concerto appaiono tre brani, potrebbe far pensare al peggio, ma in effetti il concerto è ottimo e abbondante. Il tutto è stato registrato a novembre del 2016, Shooter Jennings è accompagnato da una eccellente band dal sound “robusto” e variegato, con Ted Russell Kamp, anche cantautore in proprio, al basso, la brava Aubrey Richmond, dei Calico The Band, al violino e armonie vocali, John Schreffler Jr. alla chitarra, Erik Deustch dei Leftover Salmon al piano e organo, e Jamie Douglass alla batteria: Poi al resto ci pensa Shooter, voce rauca e potente, ma anche suadente all’occorrenza, pure lui a chitarre e piano: nell’iniziale Electric Rodeo il suono è subito poderoso e grintoso, un southern rock dove le chitarre e le tastiere conferiscono una patina molto classic rock anni ’70, con il violino a colorire il sound. Steady At The Wheel, dal primo album Put The O Back In Country, è una giusta  miscela tra l’outlaw country del babbo e un rock sudista molto alla Marshall Tucker o alla Charlie Daniels Band per l’uso del violino, le chitarre ruggiscono, la ritmica picchia, ma le armonie vocali della band sono ottime, senza soluzione di continuità si passa alla dura Don’t Feed The Animals che era su Hierophant, una canzone scritta con Dave Cobb, che dal vivo, per quanto tirata, ha comunque un suo perché

shooter jennings

https://www.youtube.com/watch?v=ASRz22QUwgI

The Real Me da Family Man è una bella ballata elettroacustica di puro honky tonk country di qualità, con il violino e il pianoforte a ricamare, e anche la bellissima e guizzante Outlaw You, da The Other Life, probabilmente dedicata al padre, ha i profumi e le sonorità della migliore outlaw country music con i “grandi” citati nel testo. Anche Wild And Lonesome è una deliziosa country ballad dallo stesso album, e pure la mossa Nashville From Afar, uscita solo come singolo, conferma che la classe c’è. Il trittico dedicato a Giorgio Moroder è meno “letale” che su Countach, l’elettronica viene bandita a favore di un rock cattivo ma ben suonato dall’ottima band, e quindi I’m Left, You’re Right, She’s Gone, Born To Die (notevole questo brano) e Love Kills, che molti ricordano nella versione di Freddie Mercury https://www.youtube.com/watch?v=BXz86_9wKYw , scorrono senza troppe concessioni alla disco-rock dance, a parte il terzo brano; ma è un attimo e poi si ritorna al country classico, con The Door, un vecchio pezzo di Billy Sherrill per George Jones, anche se in questa versione sembra un pezzo dei Curved Air. Living In A Minor Key, solo voce, chitarra acustica e violino è un gioiellino country-folk e anche il valzerone romantico di The Other Life conferma che la classe non manca, come ribadisce la cowboy song Manifesto NO.1, ancora con il violino della Richmond grande protagonista. Il concerto ormai è decollato: notevoli anche le versioni di All Of This Could Have Been Yours, The Gunslinger in splendido crescendo chitarristico, 4th Of July, non quella di Dave Alvin, ma altrettanto bella https://www.youtube.com/watch?v=NIHe7LNVtzY  e per concludere una bellissima Goodtime Charlie, un grande brano di Danny O’Keefe, legato anche alla figura di Waylon Jennings. Veramente un bel concerto.

Bruno Conti

Crisi Del Terzo Disco? No, E’ Il Più Bello Dei Tre. The Secret Sisters – You Don’t Own Me Anymore

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The Secret Sisters – You Don’t Own Me Anymore – New West CD

Devo fare una doverosa premessa: questa recensione sarà ricca di aggettivi altisonanti, e prima che pensiate che ho esagerato vi confermo che sono tutti meritati. Le sorelle di Muscle Shoals Laura e Lydia Rogers, in arte The Secret Sisters, hanno fatto parlare molto di loro con i primi due album: il primo, omonimo, del 2010 è stato un fulmine a ciel sereno, un bellissimo disco di puro country e folk nel quale le due ragazze rivisitavano diversi brani della tradizione e canzoni di Hank Williams, George Jones, Bill Monroe e Buck Owens, oltre a comporne un paio per conto loro, seguite in studio nientemeno che da Dave Cobb (all’epoca non così “prezzemolo” come oggi) e T-Bone Burnett come produttore esecutivo http://discoclub.myblog.it/2010/10/30/a-dispetto-del-nome-chiaramente-country-the-secret-sisters/ . Un album che ha ricevuto critiche positive quasi ovunque, pur non conseguendo vendite soddisfacenti; ben quattro anni dopo ecco il seguito, Put Your Needle Down, ancora con Burnett in regia e con stavolta la maggior parte dei brani ad opera delle due sisters: il risultato commerciale è stato ancora più deludente, e c’è stata stavolta anche qualche critica qualitativa non positiva, al punto che la Universal ha poi deciso di sciogliere il contratto delle ragazze. A tre anni di distanza, e con un nuovo accordo con la New West, ecco il terzo album delle Sorelle Segrete, You Don’t Own Me Anymore, per il quale è stato chiesto l’aiuto in sede di produzione della brava Brandi Carlile (e anche dei gemelli Tim e Phil Hanseroth, da sempre inseparabili collaboratori della cantautrice di Washington): ebbene, sarà per l’apporto di Brandi (che ha scritto anche diversi brani insieme alle Rogers), la quale ha dato sicuramente nuovi stimoli ed una visione differente da quella di Burnett, sarà per la grande forma compositiva di Laura e Lydia, ma You Don’t Own Me Anymore non solo è il miglior disco delle Secret Sisters, ma è anche un grande album in his own right.

Lo stile di partenza è sempre lo stesso, una musica giusto a metà tra country e folk con uno stile che rimanda a sonorità d’altri tempi, ma qui troviamo anche canzoni dall’approccio più moderno, che in un paio di casi arrivano a sfiorare il rock, il tutto dovuto senz’altro alla presenza tra i musicisti della stessa Carlile e degli Hanseroth Twins (e le Sisters hanno restituito il favore partecipando con una canzone a Cover Stories, il bellissimo tributo all’album The Story della Carlile): ma quello che fa la differenza è certamente la bellezza delle canzoni, ispirate come non mai, e le splendide e cristalline armonie vocali di Laura e Lydia, vero punto di forza del duo. Per avere un’idea di come sarà il CD basta ascoltare l’iniziale Tennessee River Runs Low, con strepitoso attacco a cappella ed atmosfera subito vintage, poi entrano in maniera potente i musicisti (che però usano strumenti acustici, ma la sezione ritmica c’è e si sente), con il banjo a dare un sapore dixieland, ottimo uso del piano, grandi voci e suono splendido. Molto bella anche Mississippi, una ballata dal sapore folk ma con un arrangiamento di grande forza, un drumming secco ed una melodia bellissima, nobilitata da un notevole crescendo; Carry Me è un’altra ballata profonda e toccante, con un arrangiamento più moderno ma non per questo meno emozionante, con le voci purissime delle due ragazze ed una chitarra twang a guidarle, mentre King Cotton è un irresistibile country-folk dal sapore antico, che sembra balzato fuori dalla colonna sonora di O Brother, Where Art Thou?, davvero splendida anche questa.

Kathy’s Song è proprio il classico brano di Simon & Garfunkel, e le ragazze mantengono intatta la bellezza dell’originale, He’s Fine è semplicemente formidabile, una folk song in purezza, dal ritmo sostenuto ma strumentazione parca, melodia cristallina e pathos incredibile; To All The Girls Who Cry è uno slow pianistico di grande intensità, mentre Little Again è giusto a metà tra una western ballad ed una scintillante folk song, anche qui con un motivo di prim’ordine. La title track è una ballata dal delicato sapore anni sessanta, la sinuosa The Damage è invece una raffinata canzone tra country, folk e jazz, davvero squisita, ‘Til It’s Over è toccante, ancora purissima e cantata in maniera eccellente, Flee As A Bird, unico traditional presente, chiude l’album con una folk song incontaminata, solo due voci ed un banjo. Mi rendo conto, come ho scritto all’inizio, che ho speso diversi aggettivi “importanti” per descrivere questo terzo disco delle Secret Sisters, ma non ho dubbi che, se vorrete farlo vostro, la penserete come me.

Marco Verdi

*NDB Anche questo uscirà il prossimo 9 giugno, così concludiamo la trilogia delle anteprime della settimana, domenica un’altra.