Musica Indie Di Classe Per Orecchie “Mature”. The National – Sleep Well Beast

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National – Sleep Well Beast – 4 AD CD

Finalmente è giunta l’occasione di parlarvi per la prima volta sul Blog dei National (un gruppo di Cincinnati, Ohio, ma da tempo di stanza a Brooklyn), con la particolarità, in parte come i Radiohead, di formare  un quintetto a conduzione familiare, composto da fratelli e amici di scuola, come i gemelli chitarristi e tastieristi Aaron e Bryce Dessner, la sezione ritmica dei fratelli Scott e Bryan Devendorf al basso e batteria, a cui si aggiunge il cantante e compositore Matt Berninger, dotato di una voce baritonale e indiscusso leader del gruppo, senza dimenticare una figura chiave come il bravissimo musicista girovago e violinista australiano Padma Newsome, determinante nelle prime intuizioni armoniche del gruppo, nonché autore spesso degli arrangiamenti di archi e tastiere.

I National una volta approdati a New York, pubblicarono il primo album, l’omonimo The National  pochi giorni dopo la tragedia dell’11 Settembre 2001, un lavoro forse un po’ acerbo ma già ricco di idee musicali prettamente acustiche, mentre con il seguente Sad Songs For Dirty Lovers (03) il suono si fece più vicino a sonorità “alt-country” che richiamano alla mente i mai dimenticati Wilco e Uncle Tupelo, con perle come Cardinal Song e Thirsty, e dopo un EP meraviglioso come Cherry Tree (04), una breve raccolta di brani rimasti fuori dall’album precedente, arriva il fortunato Alligator (05), una serie di ballate per cuori infranti, situata tra i migliori Tindersticks e i Morphine. Con il bellissimo Boxer (07) i National  arrivano (per ora) al loro punto più alto, e concludono un ideale “trilogia” iniziata con Sad Songs… tra sfumature folk, atmosfere notturne e arrangiamenti orchestrali curati come detto da Padma Newsome, che vedono come ospite al pianoforte Sufjan Stevens (raggiungendo ai la vendita di 170mila copie negli Stati Uniti), a cui faranno seguire un altro EP The Virginia (08), una raccolta di brani inediti e cover registrati dal vivo, il crepuscolare High Violet (10),  una “colonna sonora” di 45 minuti con almeno due canzoni strepitose come England e Vanderlyle Crybaby Geeks, e per finire l’ultimo lavoro in studio Trouble Will Find Me (13), forse, a parere di chi scrive, il meno convincente, ma che nei brani finali Pink Rabbits e Hard To Find, certifica ancora una volta la genialità e la bravura dei National. Ora, dopo la lunga pausa, in cui hanno curato lo splendido tributo ai Grateful intitolato Day Of The Dead, tornano con nuovo album.

Questo nuovo lavoro Sleep Well Beast, prodotto dai fratelli Dessner e da Berninger, è stato registrato negli studi (di proprietà dello stesso Aaron) Long Pond a New York, per una dozzina di brani che parlano di separazione e desiderio, anche firmati dal barbuto “frontman” Matt Berninger  con la moglie Carin Besser, e si avvale in alcuni brani di ospiti di rilievo come Bon Iver e Marc Ribot. Il disco si apre con la “matrimoniale” Nobody Else Will Be There, una ballata notturna marchio di fabbrica del gruppo, a cui fanno seguito il flusso chitarristico iniziato dei fratelli Dessner in una tambureggiante “post punk-song” come Day I Die, dall’intrigante elettronica di una “berlinese” Walk It Back, e dal riff “assassino” di The System Only Dreams In Total Darkness con grande lavoro delle chitarre. Con l’intro iniziale di pianoforte di Born To Beg , si evidenzia ancora una volta la bravura di “crooner” di Berninger, per poi passare al rock duro e tirato di una “psichedelica” Turtleneck, alla melodia palpitante di Empire Line, e alla sperimentazione di una elettronica I’ll Still Destroy You, comunque splendida. La parte finale inizia con la raffinata e dolce Guilty Party, per poi farci commuovere come sempre con la pianistica Carin At The Liquor Store (dove Matt dà sfoggio della sua bravura), tornare ai tempi “confidenziali” con il delicato valzer di Dark Side Of The Gym (dal titolo stranissimo), e chiudere con la “title track” Sleep Well Beast, dal suono scarno e dark, canzone guida di quello che potrebbe essere il “sound” del prossimo album dei National, una formazione ambiziosa e in perenne movimento nel ricercare strade nuove.

Per chi scrive, i National di Matt Berninger sono una delle band “indie-rock” più atipiche e nello stesso tempo più significative del panorama musicale americano, e queste dodici canzoni di Sleep Well Beast sono da gustare in perfetta solitudine come un brandy d’annata, e non possono lasciare indifferente qualsiasi ascoltatore dotato di buon orecchio, e magari non di primo pelo.

Esce domani 8 settembre.  

Tino Montanari

Finalmente E’ Arrivato Anche Il Suo Momento! E Che Disco! Bob Weir – Blue Mountain

bob weir blue mountain

Bob Weir – Blue Mountain – Columbia Legacy/Sony CD

Era una vita che Bob Weir, 69 anni tra pochi giorni, non faceva un disco da solista: dopo la scomparsa nel 1995 di Jerry Garcia, Bob si è caricato sulle spalle la responsabilità di portare avanti l’eredità dei Grateful Dead, con le ristampe, i dischi dal vivo, come leader dei The Other Ones prima e dei The Dead dopo e, nell’ultimo periodo, è stato il promotore della tournée di addio dello scorso anno e del concerto tributo a Jerry (che uscirà tra un paio di settimane), oltre a girare ancora gli States con i Dead & Company. Il suo ultimo album di studio risaliva a ben sedici anni fa (Evening Moods, pubblicato con i Ratdog), ma se ci limitiamo ai dischi accreditati a lui da solo, senza quindi le sue varie bands come Kingfish e Bobby & The Midnites, dobbiamo andare indietro fino addirittura al 1978, allorquando usci il non eccelso Heaven Help The Fool. Per questo, ma non solo per questo, Bob non è mai stato considerato per quanto avrebbe meritato, in quanto è sempre stato visto un po’ nell’ombra di Garcia, obiettivamente più dotato di lui come compositore e chitarrista (ma come cantante non so), quasi come se fosse un miracolato: eppure, a ben vedere, di belle canzoni dentro e fuori dai Dead ne ha scritte molte anche lui, ed alcune sono diventati comunque dei classici (qualche titolo sparso: Sugar Magnolia, Cassidy, Jack Straw, Playing In The Band, Estimated Prophet, One More Saturday Night, Feel Like A Stranger). Ma un grande disco non lo aveva mai fatto, con la sola possibile eccezione di Ace del 1972: ma se quell’album era infarcito dalla prima all’ultima nota di puro Dead-sound (anzi, il gruppo era proprio usato come backing band, Garcia compreso), questo nuovo Blue Mountain è diverso da qualsiasi cosa mai fatta prima da Weir.

Infatti le dodici canzoni del CD, scritte tutte da Bob con l’aiuto del noto musicista Josh Ritter (che sostituisce il suo abituale partner John Barlow) hanno sì elementi rock, ma un rock classico, americano, con decisi elementi western e persino qualcosa di country e folk; Weir predilige le ballate, che vengono suonate con arrangiamenti ariosi, profondi, a volte quasi crepuscolari: suoni che fanno venire in mente spazi aperti, praterie infinite sferzate dal vento, paesaggi al tramonto. Weir (che appare invecchiatissimo sulla copertina, ma secondo me se si tagliasse barba e baffi qualche anno se lo toglierebbe) si accompagna solo alla chitarra acustica, mentre il resto è nelle sapienti mani, tra i tanti musicisti presenti, di Josh Kaufman, che suona alla grande il pianoforte e produce anche il disco, Sam Cohen alle chitarre, Joe Russo e Ray Rizzo alla batteria, oltre ai due leader dei National, Aaron e Bryce Dessner, che in atmosfere come in quelle di questo disco ci sguazzano, presenti in parecchi brani. Indicativa del sound del disco la canzone d’apertura, Only A River, una ballata dal tono epico (pare che Bob avesse iniziato a scriverla più di 50 anni fa!), strumentata con misura e caratterizzata dal timbro profondo del nostro (in ottima forma vocale), un brano quasi rarefatto ma di grande fascino, che nel ritornello ripropone il testo e la melodia della mitica Shenandoah: splendido l’uso del piano da parte di Kaufman ed il crescendo progressivo. Già da questo pezzo si capisce che i Dead sono lontani anni luce. Cottonwood Lullaby è splendida, una western song moderna, profonda, notturna, con un suggestivo coro tra una strofa e l’altra ed ancora la voce di Bob, vera sorpresa del disco, al centro di tutto: canzone perfetta per un cowboy movie girato oggi, ma in bianco e nero; Gonesville è più spedita, una godibilissima miscela tra country, western e rockabilly, con Weir che nel cantato, parole sue, si è ispirato ad Elvis: incredibile che sia lo stesso Bob Weir che suonava con il Morto Riconoscente.

Lay My Lily Down è leggermente più elettrica e roccata, tendente al blues, con un mood annerito ed un’anima quasi southern, mentre Gallop On The Run, ancora lenta e rarefatta, rimanda alle atmosfere tipiche di Daniel Lanois, con una melodia che va dritta al cuore e la voce di Bob senza la minima sbavatura. Anche Whatever Happened To Rose è lenta e riflessiva, con un altro splendido coro alle spalle ed una melodia di stampo quasi tradizionale: è possibile che la frequentazione da parte di Weir dei National abbia avuto qualche influenza su di lui, qui c’è molto delle atmosfere dei fratelli Dessner. Ghost Towns è più elettrica e cadenzata, e possiede un’andatura proprio da musica per film western: Bob canta con sicurezza un motivo fluido, che sfocia in un affascinante ritornello corale. Darkest Hour è ancora splendida, una turgida ballata dalla melodia quasi country, poco strumentata (ma che bel pianoforte), ma eseguita con un feeling incredibile; bellissima anche la folkeggiante Ki-Yi Bossie, seppur eseguita dal solo Bob con la sua chitarra, ma con la partecipazione straordinaria del leggendario Ramblin’ Jack Elliott e di un coro alle backing vocals (e yodel): alla fine vi troverete senza accorgervene a canticchiare il ritornello assieme a Bob. La maestosa Storm Country ha tracce di psichedelia, ma non nel senso dei Dead, ma piuttosto somiglia al genere molto Laurel Canyon di uno come Jonathan Wilson, con quelle sonorità sospese e circolari; il CD si chiude con la title track, ancora con Bob in perfetta solitudine, e con l’intensa One More River To Cross (si finisce come si è iniziato, con una canzone che parla di un fiume), nella quale il nostro trova un’altra melodia vincente, l’ennesima di un disco che definire sorprendente è riduttivo.

E’ finalmente giunto il momento che il mondo si accorga di Bob Weir: anche se non siete mai stati dei fans dei Grateful Dead, Blue Mountain è un disco da tenere in forte considerazione. Perfetto per le prossime serate autunnali, da alternare magari con l’ultimo Van Morrison ed il prossimo Leonard Cohen.

Marco Verdi