Una Bella Festa Musicale All’Insegna Del Miglior Country-Rock Californiano. Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour/Deliverin’ Again

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Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour /Deliverin’ Again– DSDK 2CD o DVD

Quando si pensa al country-rock californiano in voga a cavallo tra gli anni 60 ed i 70, la mente va subito agli Eagles (anche se il loro esordio avverrà solo nel 1972) e poi ai Byrds (gli ultimi anni), ai Flying Burrito Brothers e per molti anche a CSN&Y, nonostante nel famoso supergruppo la componente country non fosse molto presente. In pochi invece si ricordano dei Poco (scusate il bisticcio di parole), gruppo formato nel 1968 per iniziativa degli ex Buffalo Springfield Richie Furay e Jim Messina (quest’ultimo era entrato negli Springfield un attimo prima del loro scioglimento) ed autori di alcuni ottimi album specie nel primo periodo fino al 1976 (ma vi parlerà prossimamente del gruppo in maniera più dettagliata Bruno, con una retrospettiva ad hoc). Oggi i Poco sono ancora in vita con una formazione completamente rimaneggiata (l’unico membro presente in tutte le varie lineup, Rusty Young, è passato a miglior vita da neanche un mese, ma comunque si era già ritirato da qualche anno), e quindi l’unico ex componente a tenere alto il vessillo del gruppo è rimasto proprio Furay, che ha appena pubblicato un bellissimo doppio CD dal vivo, 50th Anniversary Return To The Troubadour, che celebra la stagione d’oro della band da lui fondata, e della quale fino al 1973 è stato uno dei principali autori e voci soliste.

A dire il vero in questo live, che documenta una serata speciale al Troubadour di Los Angeles nel 2018, non è ben chiaro cosa venga festeggiato, in quanto i 50 anni del titolo partono in effetti dal ’68, con i nostri che all’inizio si facevano chiamare Pogo ed al Troubadour avevano tenuto i loro primi concerti, ma poi nel secondo CD viene riproposto canzone per canzone il live Deliverin’, uscito in effetti a gennaio del 1971 ma che col Troubadour non c’entra una mazza essendo stato registrato nel 1970 a Boston e New York. Facezie a parte, 50th Anniversary Live At The Troubadour è un album davvero bellissimo, in cui un Richie in ottima forma ci fa rivivere una stagione unica e irripetibile della nostra musica, con una prima parte di concerto, intitolata Still Deliverin’, che offre una panoramica del meglio della sua carriera, mentre nel secondo dischetto (Deliverin’ Again), come ho già detto troviamo l’omaggio al live del ’70. Furay è ancora in possesso di una voce bella e giovanile, e viene accompagnato da una band solidissima che vede sua figlia Jesse Furay Lynch alle armonie vocali, Scott Sellen alle chitarre e banjo, Jack Jeckot alle tastiere, armonica e chitarra, Aaron Sellen al basso, Alan Lemke alla batteria, Dave Pearlman alla steel guitar e dobro e, nella seconda parte, un ospite speciale a sorpresa che vedremo a breve.

Si parte col botto con il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, scritta da Neil Young ma cantata da Richie anche in origine, preceduta da una lunga intro strumentale in crescendo e col ritmo subito alto: grande melodia e refrain, chitarre in palla e coretti che profumano di California. Dal repertorio degli Springfield in questa prima parte Furay suona anche Go And Say Goodbye (di Stephen Stills, ma l’avevano incisa anche i Poco), gustoso country-rock con banjo e chitarre in gran spolvero ed un eccellente ritornello corale, e quattro pezzi dei Poco, a partire dalla splendida Let’s Dance Tonight (dall’album Crazy Eyes, l’ultimo con Richie), rock song di livello assoluto con un motivo solare ed irresistibile, eseguita in modo grintoso e con ottimi intrecci vocali tra padre e figlia (e Furay dimostra di avere ancora l’ugola di un trentenne). Due brani provengono dall’omonimo secondo album della band, la slow ballad Don’t Let It Pass By, distesa, rilassata e con un bell’assolo di armonica, ed una strepitosa rilettura di quasi nove minuti della sontuosa rock ballad Anyway Bye Bye, piena di stop and go, cambi di ritmo, melodia superba, chitarra di Sellen in tiro ed anche un intermezzo pianistico quasi jazzato.

Stranamente Furay sceglie anche una canzone recente dei Poco, e che quindi non gli appartiene: Hard Country proviene dall’ultimo studio album del gruppo All Fired Up (2013), ed è una incantevole ed ariosa country ballad splendidamente eseguita e lasciata alla voce squillante di Jesse, una piccola ed inattesa gemma. Infine Richie propone quattro pezzi dal suo repertorio solista (purtroppo nessuno dal bellissimo The Heartbeat Of Love del 2006), che reggono molto bene il paragone con i pezzi classici, e di cui tre provengono dal suo lavoro più recente Hand In Hand, 2015: la pulsante e coinvolgente We Were The Dreamers, dedicata proprio ai suoi anni nei Poco e con un’altra melodia da applausi, la limpida e toccante ballata Wind Of Change, altri sei minuti di grande musica tra organo, chitarre ed armonie vocali da brivido, e l’incalzante Someday, puro country-rock che dimostra la sicura influenza che il nostro ha avuto sugli Eagles; per finire con il travolgente bluegrass elettrico Wake Up My Soul (una delle bonus track di studio inserite nel disco dal vivo Alive del 2016), ennesimo pezzo delizioso sotto ogni punto di vista, con il banjo ancora sugli scudi.

E veniamo alla seconda parte ed alla riproposizione di Deliverin’, che conteneva ben cinque canzoni inedite, una da Poco, quattro dall’esordio Pickin’ Up The Pieces e due dei Buffalo Springfield. Si inizia con un uno-due decisamente potente e rockeggiante formato da I Guess You Made It e C’mon, entrambe con il solito aroma country di base; a questo punto sale sul palco il già citato ospite, ovvero un applauditissimo Timothy B. Schmit, che dopo l’esordio del 1969 aveva sostituito nei Poco il bassista Randy Meisner (cosa che si ripeterà negli Eagles): il lungocrinito Tim impreziosisce con la sua voce angelica Hear That Music, da lui anche scritta, un altro country-rock assolutamente trascinante. E’ poi la volta della languida country ballad Kind Woman con la steel in grande evidenza, una delle più belle canzoni di Richie, scritta all’epoca degli Springfield per la sua futura moglie (con la quale è ancora insieme dopo 51 anni), seguita da tre pezzi suonati in medley esattamente come sul live del 1970: lo squisito country-grass Hard Luck e le note A Child’s Claim To Fame e Pickin’ Up The Pieces, due canzoni una più bella dell’altra. L’orecchiabile ed avvincente You Better Think Twice è un omaggio del nostro al suo autore Jim Messina, ed è seguita dal ruspante rockin’ country A Man Like Me; finale con un altro strepitoso medley di ben undici minuti che mette in fila Just In Case It Happens, Yes Indeed, lo strumentale Grand Junction e Consequently So Long, in un tripudio di ritmo, chitarre, steel e cori da pelle d’oca. Ma c’è spazio anche per un bis (ancora con Schmit sul palco a duettare con Richie), una fulgida versione della title track dell’album A Good Feelin’ To Know (1972, uno dei più belli dei Poco), che chiude definitivamente un concerto magnifico ed un live che sarà sicuramente tra i migliori dischi dal vivo del 2021.

Marco Verdi

Nel Periodo Dell’Isolamento Hanno Fatto Questo Breve E Piacevole Dischetto. Sammy Hagar & The Circle – Lockdown 2020

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Sammy Hagar & The Circle – Lockdown 2020 – F.W.O. Inc/Mailboat Records

Si moltiplicano i dischi registrati dai musicisti che se lo sono potuti permettere durante il periodo di isolamento: l’ultimo della lista, per ora, è Sammy Hagar, che insieme ai componenti della sua ultima band The Circle, ha realizzato questo nuovo album, significativamente intitolato Lockdown 2020, con ognuno che ha registrato la sua parte da remoto nella propria abitazione, poi grazie alla tecnica digitale il tutto è stato assemblato per creare un disco fatto e finito. Il gruppo, che nel 2019 aveva pubblicato l’album di debutto Space Between, arrivato fino al 4° delle classifiche, ed è comunque in attività dal 2014, è formato oltre che da Hagar dal bassista dei Van Halen Michael Anthony, dal batterista Jason Bonham, figlio di… e dal chitarrista Vic Johnson, già collaboratore di Sammy nei Waboritas. Ovviamente stiamo parlando di un album di hard’n’heavy, costituito però tutto da cover, meno un brano nuovo Funky Feng Shui, che è quello che ha dato il “la” al progetto (un po’ come aveva fatto nel 1985 il predecessore di Hagar nei Van Halen, David Lee Roth con il mini album Crazy From The Heat).

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Il nostro amico Sammy aveva esordito nel lontano 1973 nei Montrose, una delle band migliori di classic rock americano, autori di quattro dischi negli anni ‘70, guidati appunto da Ronnie Montrose, che in precedenza aveva suonato anche con il Van Morrison californiano nel 1971/’72, quindi non il primo pirla che passava per strada. E rock molto robusto troviamo anche nel nuovo CD (curiosamente distribuito dalla Mailboat, l’etichetta di Jimmy Buffett): lasciando perdere il dibattito se sia meglio lui o David Lee Roth (secondo me nessuno dei due, ma è un parere personale), Hagar, conosciuto come The Red Rocker, non ha più l’ugola di un tempo a 73 anni suonati, ma se la cava ancora, e il contenuto del disco, a chi piace il genere, è in ogni caso godibile e ben suonato. Funky Feng Shui come da titolo è un breve divertissement a tempo di funky https://www.youtube.com/watch?v=gzflDi1NH4Y , poi partono le cover, Won’t Get Fooled Again degli Who è solo un breve intramuscolo di due minuti (non il pezzo completo), come peraltro tutti i brani che faticano a superare i 3 minuti, assai simile all’originale, ma finisce quasi prima di iniziare, anche se il classico riff non manca https://www.youtube.com/watch?v=OyMAJ8JGxkU , Good Enough era su 5150, il primo disco dei Van Halen con Hagar, niente assoli devastanti ma un po’ di tapping di Johnson tipo quello che faceva Eddie.

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A seguire un tuffo nel repertorio di Bob Marley con Three Little Birds, un pezzo che era su Exodus, reggae music, ma sempre piuttosto robusta, nello stile dei Circle, seguita da uno dei classici assoluti dell’hard e degli AC/DC Whole Lotta Rosie, un vero festival del riff, con un Sammy Hagar che in tutte le sessions si dimostra in ottima forma vocale. In effetti per il disco sono stati realizzati una serie di video su YouTube, uno per ogni canzone. Si scava ancora di più nel passato per la classica For What It’s Worth dei Buffalo Springfield  con citazione di Walk On The Wild Side https://www.youtube.com/watch?v=QdY460-XBpY , e ancora più indietro per una scatenata Keep A-Knockin’ di Little Richard, dove nell’incipit Jason Bonham ruba al babbo una drum intro di quelle tipiche degli Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=vnRqIkwK_2w ; a seguire troviamo un altro terzetto di brani dei Van Halen, Right Now che era su For Unlawful Carnal Knowledge, ovvero F.U.C.K, uno dei rari brani dal testo social-politico del gruppo, seguito da Don’t Tell Me What Love Can Do da Balance del 1995, più duro e tirato, e infine Sympathy For The Human riportata come nel repertorio dei Van Halen, ma che era nell’album dei Waboritas del 1999. In chiusura troviamo una versione tirata e gagliarda di Heroes (dedicata agli eroi della pandemia) di David Bowie, con la band che ci dà dentro di gusto https://www.youtube.com/watch?v=CBAvI9IVF8Q ,come peraltro in tutto l’album, per una mezz’oretta piacevole e disimpegnata.

Bruno Conti

Un Neil Young Acustico Fa Sempre Bene Alla Salute! Neil Young – Songs For Judy

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Neil Young – Songs For Judy – Reprise/Warner CD – 2LP

Nuovo episodio delle Performance Series di Neil Young a pochi mesi di distanza da Roxy: Tonight’s The Night Live https://discoclub.myblog.it/2018/04/26/nessun-paradosso-solo-grande-musica-neil-young-roxy-tonights-the-night-live/ (ed entrambi i live probabilmente ce li ritroveremo anche sul prossimo volume degli Archivi, che a quanto dice il musicista canadese potrebbero uscire la prossima primavera, ma chissà perché non mi fido): Songs For Judy, si tratta di un live registrato nel novembre del 1976 durante una breve tournée che prevedeva una prima parte acustica prima di essere raggiunto sul palco dai Crazy Horse per concludere le esibizioni, ed è un disco che i fans del Bisonte favoleggiavano da anni, e che è anche noto come The Bernstein Tapes, in quanto molte delle canzoni presenti erano state incise su una cassetta di proprietà del celebre fotografo rock Joel Bernstein. Il 1976 era stato un anno molto impegnativo per Neil, che prima aveva pubblicato Zuma insieme ai Crazy Horse, uno dei suoi album migliori della decade, e poi aveva registrato l’acustico Hitchhiker, rimasto però nei cassetti fino al Settembre del 2017; Songs For Judy è come ho detto prima un album che vede il solo Young sul palco accompagnarsi con chitarra, armonica, pianoforte ed organo, non riferito ad un solo concerto ma bensì ad un collage del meglio di diverse date americane.

Ed il CD è notevole: Neil è in ottima forma, suona e canta con forza e partecipazione, senza le incertezze e le occasionali stonature presenti nei tour precedenti (ed anche all’interno del pur ottimo Roxy: Tonight’s The Night Live), e ci consegna un album lungo (quasi 80 minuti) ma che si ascolta tutto d’un fiato. Una performance dunque ricca di feeling e con più di un momento all’insegna della grande musica, nel quale il nostro ripercorre in 22 tracce la sua carriera fino a quel momento, inserendo anche diverse chicche e brani all’epoca inediti. Il titolo del CD non si riferisce a Judy Collins (che tra l’altro l’inciucio sentimentale lo aveva avuto con Stephen Stills), ma all’attrice Judy Garland, che oltre a comparire sull’immagine di copertina è anche la protagonista di un surreale e scherzoso racconto narrato da Neil ad inizio concerto. Le note del libretto interno sono a cura del già citato Bernstein, che era a seguito del tour, e del regista Cameron Crowe, che all’epoca scriveva come giornalista per la rivista Rolling Stone (ed appare anche nella foto interna del CD). Parlando del contenuto musicale, non mancano certo le hits ed i brani più noti del canadese, come Heart Of Gold, accolta da un prevedibile boato, la magnifica e sempre toccante After The Gold Rush, una Mr. Soul eseguita con grande forza (unico rimando al periodo Buffalo Springfield), la deliziosa Harvest, la drammatica The Needle And The Damage Done e la countreggiante Roll Another Number. C’è anche qualche classico minore: una applauditissima Tell Me Why, la maestosa A Man Needs A Maid, resa ancora più struggente dall’introduzione suonata con l’organo a pompa, Mellow My Mind, tra le più intense dell’album Tonight’s The Night, e Sugar Mountain posta in chiusura, che nonostante fosse in origine un lato B è molto popolare.

Chiaramente, dato che stiamo parlando di Neil Young, trovano spazio nella setlist anche canzoni più oscure, come The Laughing Lady e Here We Are In The Years dal suo primo album, Journey Through The Past, che non proviene dal film con lo stesso titolo ma dal live Time Fades Away, la fluida Give Me Strength, che non è inedita solo perché è stata pubblicata lo scorso anno su Hitchhiker, o The Losing End, che è uno dei pezzi meno conosciuti di quel capolavoro che è Everybody Knows This Is Nowhere; per la verità un inedito assoluto c’è, ed è una ballatona pianistica tipica del nostro intitolata No One Seems To Know, un brano discreto anche se non memorabile. E poi, dulcis in fundo, abbiamo un bel gruppetto di brani che all’epoca di questi concerti erano inediti, e che Neil renderà ufficiali solo in seguito, come il pezzo messo in apertura, Too Far Gone, una country song pura e bellissima che finirà su Freedom nel 1989, White Line, che in versione molto diversa e decisamente più rock andrà nel 1991 su Ragged Glory, la nota Human Highway, da anni già nel repertorio live di Neil, ma messa solo due anni dopo su Comes A Time, la già splendida Pocahontas, una delle migliori canzoni del lato acustico di Rust Never Sleeps (già presente anche su Hitchhiker), e due pezzi che di lì a pochi mesi Young inserirà tra gli inediti della compilation Decade, cioè la militaresca Campaigner e Love Is A Rose, che il pubblico mostra di conoscere in quanto l’anno prima era stata un successo per Linda Ronstadt.

Songs For Judy è il quinto live acustico pubblicato da Neil Young nell’ambito dei suoi concerti d’archivio e, sia per la scaletta che per la qualità della performance, può essere tranquillamente considerato uno dei migliori.

Marco Verdi