Il 2020 Non E’ Ancora Finito: Il Giorno Di Natale E’ Morto Tony Rice, Maestro Del Bluegrass.

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Questo maledetto 2020 è agli sgoccioli, ma non ha ancora terminato di far sentire in maniera nefasta la sua presenza: tre giorni dopo la scomparsa di Leslie West dobbiamo infatti registrare un’altra grave perdita nel mondo della nostra musica, in quanto il giorno di Natale si è spento all’età di 69 anni (pare di infarto mentre si faceva il caffé, ma erano anni che si trascinava vari problemi di salute) David Anthony Rice, meglio conosciuto come Tony Rice, chitarrista acustico sopraffino ed uno dei musicisti più influenti di sempre in ambito bluegrass https://www.youtube.com/watch?v=-GdfCNKuJzo . Nato in Virginia ma cresciuto in California in una famiglia che mangiava pane e musica, il giovane Tony si interessa da subito al genere bluegrass che è anche il preferito dal padre Herb, ed in particolare all’opera dei Kentucky Colonels, band nella quale milita il futuro Byrd Clarence White. Diventato in pochi anni un eccellente chitarrista, Rice nel 1970 si sposta in Kentucky dove entra a far parte prima dei Bluegrass Alliance ed in seguito dei New South di J.D. Crowe, un gruppo in cui militano anche nomi del calibro di Jerry Douglas al dobro e Ricky Skaggs al mandolino, violino e voce: il loro omonimo album del 1974 è considerato uno dei capolavori del bluegrass dell’epoca.

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In particolare il nome di Rice (i cui tre fratelli sono ugualmente musicisti) inizia a circolare nell’ambiente grazie alla sua notevole abilità chitarristica, sviluppata per mezzo della tecnica del “flatpicking”, che consiste nel colpire le corde ad una ad una col plettro tenuto tra pollice ed indice. In pochi anni quindi Tony diventa un musicista molto richiesto ed entra a far parte del David Grisman Quintet, con il quale registra tre album tra il 1977 ed il 1981 ponendo quindi anche il suo marchio nella nascita e sviluppo della cosiddetta “Dawg Music” https://www.youtube.com/watch?v=x05z27blg80 ; ma Rice è anche un abile cantante e quindi comincia a costruirsi una carriera sia come solista che come capo del Tony Rice Unit, attraverso una serie di pregevoli album pubblicati in uno spazio di tempo molto ampio, dal 1973 al 2000 https://www.youtube.com/watch?v=TFBWOvSuCE8 . Come se ciò non bastasse, nel 1981 forma la Bluegrass Album Band, un supergruppo con Crowe, Todd Phillips, Doyle Lawson e Bobby Hicks, i quali si occupano di riprendere classici del passato di gente come Bill Monroe, Lester Flatt, Earl Scruggs, Ralph Stanley ed altri: The Bluegrass Album non è un successo di vendite (nulla nel corso della carriera di Rice lo sarà), ma i cinque si divertono a tal punto da pubblicare ben cinque seguiti fino al 1996  https://www.youtube.com/watch?v=8VEmXV8Dx_4.

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Instancabile, Tony riesce a trovare il tempo di registrare due pregevoli album con Norman Blake, altrettanti con i suoi fratelli a nome, appunto, The Rice Brothers, di unirsi a Grisman ed a Jerry Garcia per l’ottimo The Pizza Tapes (inciso nel 1993 e pubblicato nel 2000 https://www.youtube.com/watch?v=TXi5Wh_uDKQ ) e, tra il 1997 ed il 2001, di incidere tre splendidi lavori insieme al fratello Larry Rice, Chris Hillman e Herb Pedersen (Rice, Rice, Hillman & Pedersen: Out On The Woodward, Rice, Rice, Hillman & Pedersen e Runnin’ Wild, uno più bello dell’altro https://www.youtube.com/watch?v=DX0880QYhI8 ). Dulcis in fundo, nel nuovo millennio si unisce ad un altro grande chitarrista, Peter Rowan, per due album, l’ultimo dei quali (Quartet, 2007) è anche l’ultima testimonianza su disco della sua sublime tecnica chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=tyfRpnvbW8I .

Rest in peace, old pickin’ man.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 14. Forse Non E’ Un Album Come “Nessun Altro”, Ma Di Certo Andrebbe Rivalutato! Gene Clark – No Other

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Gene Clark – No Other – 4AD Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/BluRay/LP/45rpm Box Set

(*NDM: vorrei iniziare con una piccola premessa, e cioè che questa recensione, pur rientrando nella serie dedicata ai cofanetti, è fatta sulla base dell’ascolto del doppio CD, dato che questa volta proprio non me la sono sentita di prendermi il box sborsando circa 160 euro in più per avere un terzo dischetto aggiuntivo il cui contenuto è comunque simile a quello del secondo).

No Other, quarto album solista di Gene Clark dopo l’allontanamento dai Byrds (sesto se includiamo i due lavori con Doug Dillard usciti come Dillard & Clark), è un disco segnato da uno strano destino, in quanto è considerato da alcuni critici come il capolavoro assoluto del musicista originario del Missouri (mentre io personalmente preferisco ancora White Light e Roadrunner) e da altri forse con un po’ di esagerazione come uno dei migliori album mai pubblicati, ma all’epoca della sua uscita (1974) il successo fu praticamente nullo ed il fallimento economico fu notevole. Ciò avvenne principalmente per i costi altissimi del progetto, che vantava la presenza di un gruppo stellare di sessionmen che però vollero giustamente anche farsi pagare, ed in più le continue sovraincisioni e manipolazioni sonore volute da Clark stesso e dal produttore Thomas Jefferson Kaye non contribuirono certo a tenere le spese sotto controllo; inoltre Clark decise di non portare il disco in tournée, e questa fu la goccia che fece traboccare il vaso con la Asylum di David Geffen (l’etichetta che pubblicò l’album all’epoca), che in pratica si rifiutò di promuoverlo e lo mise addirittura fuori catalogo soltanto due anni dopo.

L’insuccesso di No Other fu una botta psicologica non da poco per Clark, che aveva puntato molto su quel disco per rilanciare una carriera fino a quel momento avara di soddisfazioni per quanto riguarda le vendite, nonostante critiche eccellenti: il nostro non si riprese per diverso tempo e cadde ancora di più nel tunnel della droga e dell’alcolismo, e gli abusi che ne deriveranno saranno tra le cause della sua prematura scomparsa avvenuta nel 1991, dopo solo altri due album solisti pubblicati (uno dei quali in duo con Carla Olson), uno inciso ma uscito solo postumo (Firebyrd) e la poco riuscita avventura con i vecchi compagni nel trio McGuinn, Hillman & Clark. No Other ha avuto poca fortuna anche con le successive ristampe in CD, la prima nel 1991 e quella targata Warner del 2003 con alcune bonus tracks, anch’esse sparite presto dalla circolazione. Devo quindi applaudire la 4AD, etichetta indipendente britannica, per aver messo a punto questa sontuosa riedizione dell’album in due configurazioni: un doppio CD in un’elegante confezione dalla copertina dura e ricchissima di testi, foto e dettagli ed il già citato cofanetto con un dischetto aggiunto, la versione dell’album in vinile argentato, un 45 giri, un BluRay con No Other in diverse vesti sonore nella parte audio ed un documentario inedito in quella video più un libro di 80 pagine, il tutto per poco meno di 200 euro.

Il suono è stato completamente remixato e rimasterizzato nientemeno che da Sid Griffin, leader dei Long Ryders e grande fan dei Byrds, e John Wood, leggendario produttore e tecnico del suono di artisti perlopiù britannici come Fairport Convention, John Martyn, Nick Drake, Cat Stevens e Richard Thompson. No Other torna quindi in una veste che ce lo fa apprezzare in tutta la sua bellezza: sì, perché nonostante la brutta copertina e le pose di Gene degne di una star del glam alla David Bowie nelle foto interne, stiamo parlando di un album davvero bello e coinvolgente, con Clark in ottima forma sia come songwriter che come cantante, ed una serie di brani come sempre in bilanciamento tra rock, country e folk (ed un pizzico di psichedelia) che non sono stati per nulla rovinati dalla produzione di Kaye, tendente al ridondante  ma comunque mantenendo i piedi per terra. Come ciliegina, i musicisti coinvolti nelle sessions, una serie impressionante di nomi che fanno tremare i polsi solo a leggerli: Chris Hillman, Timothy B. Schmit, Jesse Ed Davis, Danny Kortchmar, Ben Keith, Leland Sklar, Russ Kunkel, Stephen Bruton, Butch Trucks, Mike Utley, Craig Doerge, Cindy Bullens, Joe Lala e Clydie King. Il primo CD inizia con la splendida Life’s Greatest Fool, una canzone giusto a metà tra country e rock, ritmo cadenzato e melodia deliziosa, un brano che nel suo genere sfiora la perfezione in ogni dettaglio ed è dotata di un ritornello corale vincente. Silver Raven è una ballata distesa e limpida nel tipico stile elegante del suo autore e raffinatissima dal punto di vista strumentale, mentre la title track ha un’introduzione di stampo quasi psichedelico, ed il brano stesso ha più di un aggancio con il sound californiano di fine anni sessanta, compresa la voce trattata con l’eco e l’uso del coro femminile, ed in più c’è una bella performance di Utley al piano elettrico.

Strength Of Strings è introdotta da una slide e da un coro sognante molto CSN, poi il brano si rivela essere una sontuosa rock ballad dal grande pathos ed un accompagnamento solido e forte che si regge sulle splendide doppie tastiere di Utley e Doerge; lo squisito e toccante slow pianistico From A Silver Phial, servito ancora da un motivo di prim’ordine, precede il centerpiece del disco: la lunga Some Misunderstanding, più di otto minuti di grande musica che iniziano con semplici accordi di chitarra acustica, poi entra il resto della band con Gene che intona una melodia intensa e malinconica con la sua voce decisamente espressiva, il tutto in un crescendo sonoro di notevole impatto. Chiudono il primo CD nonché l’album originale la scintillante country song The True One, una delle più belle e dirette, e l’ariosa ballata Lady Of The North, dedicata da Clark all’allora moglie Carlie McCummings. Il secondo dischetto comprende versioni alternate inedite di tutti i pezzi dell’album, meno rifinite e senza parecchi degli overdubs aggiunti in seguito, per una visione da una prospettiva diversa ma indubbiamente interessante.

Alcuni brani sono simili a quelli poi messi sul disco (Lady Of The North, The True One, Strength Of Strings, No Other), altri sono abbastanza differenti, come una From A Silver Phial meno elaborata e forse più riuscita, una Silver Raven più lenta e rockeggiante (oltre che più lunga di due minuti), Life’s Greatest Fool più country e soprattutto Some Misunderstanding, più breve e con un arrangiamento maggiormente acustico, non ancora il “piece de resistance” che sarebbe diventato in seguito. Come bonus abbiamo una bellissima versione di Train Leaves Here This Morning, scritta da Gene con Bernie Leadon e già pubblicata dagli Eagles nel loro album d’esordio del 1972: puro country-rock anni settanta al suo meglio. Il terzo CD riprende gli stessi nove pezzi del secondo in altrettante takes alternate (più le single versions di Life’s Greatest Fool e Silver Raven) ma, come ho già scritto all’inizio, per ascoltarlo dovete accaparrarvi il box spendendo una piccola fortuna.

Marco Verdi

Un Capolavoro Non Lo E’ Mai Stato, Ma Forse E’ Il Caso Di Rivalutarlo! Byrds – Byrds

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Byrds – Byrds – Esoteric/Cherry Red CD

Nel 1973 i Byrds erano di fatto una “dead band walking”, dato che dopo il loro ultimo album (il non disprezzabile Farther Along del 1971, che però vendette pochissimo) si stavano stancamente trascinando in una attività live senza particolari guizzi, e con il leader assoluto Roger McGuinn sempre più scontento della line-up del gruppo. La palla al balzo fu colta da David Geffen, allora boss dell’emergente Asylum, che presentò ai cinque membri fondatori della band californiana (oltre a McGuinn, David Crosby, Gene Clark, Chris Hillman e Michael Clarke) la classica offerta non rifiutabile per un reunion album. I cinque misero da parte per un attimo gli antichi dissapori (e le relative carriere soliste) per registrare quindi un disco formato da nuove canzoni: il lavoro che ne risultò, appropriatamente intitolato Byrds, fu però molto criticato perché palesemente inferiore alle aspettative che erano prevedibilmente altissime, ed anche il successo di pubblico non rispecchiò affatto le speranze dei nostri, Geffen incluso che poi era quello che ci rimetteva di più.

Il problema vero era che Byrds fu il frutto della classica fusione a freddo di un gruppo che tornava insieme solo per motivi finanziari e non per reali esigenze artistiche, con i vari membri che a turno “usavano” i compagni come backing band per le loro canzoni, e quindi senza una vera collaborazione creativa: se aggiungiamo che dopo un po’ riaffiorarono, anche se solo in parte, le vecchie tensioni, si capisce benissimo perché questo disco invece di segnare un nuovo inizio mise la parola fine alla storia di uno dei gruppi più influenti degli anni sessanta (e per un breve periodo si venne a creare la strana situazione di una band che in studio aveva una line-up e dal vivo un’altra completamente diversa, con il solo McGuinn come elemento comune). Diciamo che la reunion non nasceva sotto i migliori auspici, dato che McGuinn, solitamente leader abbastanza dispotico, in questo album rimase stranamente nelle retrovie, Hillman confessò in seguito che si era tenuto le canzoni migliori per il suo debutto solista (che avvenne comunque tre anni dopo, prima ci fu la Hillman-Souther-Furay Band, altro esperimento non molto riuscito), mentre Clarke non aveva mai rappresentato un valore aggiunto per il gruppo, ma “solo” il batterista.

Gli unici “animatori” della reunion furono Crosby, che produsse anche il disco e figurava al centro in tutte le foto promozionali, e soprattutto Clark, che era in gran forma ed ottenne il materiale migliore dell’album. Oggi la Esoteric ha immesso sul mercato la ristampa di questo famoso disco, che non è certo la prima riedizione (l’ultima, targata Raven, è del 2014), ma sicuramente quella con il booklet più esauriente (con le note del noto giornalista e scrittore rock Malcolm Dome) e soprattutto con la rimasterizzazione migliore, tale da far sembrare queste incisioni risalenti a pochi mesi fa, e non vecchie di ben 46 anni. Risentendo il disco (va detto, senza bonus tracks) vorrei rivedere un attimo i giudizi dell’epoca, dato che ci troviamo di fronte ad un’opera di sicuro non imperdibile, e nemmeno ad un lavoro da isola deserta, ma comunque un bell’album con canzoni che vanno dal discreto all’ottimo, e che probabilmente nel 1973 deluse in quanto in quel periodo di dischi a cinque stelle ne uscivano con cadenza quasi mensile. Dicevo di Gene Clark, che ha l’onore di avere i due brani migliori tra quelli nuovi, a cominciare dall’opening track Full Circle (che in un primo momento sembrava dovesse essere anche il titolo dell’album), una splendida country song sostenuta da una melodia deliziosa, con le armonie vocali che ben conosciamo e la strumentazione elettroacustica perfetta; di stampo country è anche Changing Heart, altra bella canzone dal ritmo spedito, un bell’intreccio chitarristico (si sente distintamente anche la mitica 12 corde di McGuinn) e le solite magistrali backing vocals.

 

Dicevo anche di un Roger McGuinn quasi defilato, ed infatti la sua voce si sente solo in due brani, entrambi autografi: Sweet Mary, una ballata acustica dal sapore irlandese che sembra quasi un’anteprima di ciò che Roger farà decadi dopo con il progetto Folk Den, e Born To Rock’n’Roll, che nonostante il titolo è una ballata (rock, certo, ma pur sempre ballata), con un’improvvisa accelerazione ritmica nel ritornello, una buona canzone anche se un pochino al di sotto del potenziale del nostro. David Crosby propone Laughing, canzone splendida che però era già stata pubblicata (in versione diversa ovviamente) due anni prima sul mitico If I Could Only Remember My Name, e che qui comunque si conferma in tutta la sua bellezza, e l’elettrica e nervosa Long Live The King, un pezzo rock sullo stile di Almost Cut My Hair e Long Time Gone, ma non allo stesso livello. I due brani di Chris Hillman non sono poi così male: la roccata Things Will Be Better è comunque all’altezza di quanto poi finirà sul suo debutto solista Slippin’ Away (ed è nobilitata dal classico jingle-jangle sound), mentre Borrowing Time è una pimpante country song dal motivo immediato.

In ogni disco dei Byrds che si rispetti ci sono delle cover, e qui ne troviamo tre, la prima delle quali è un’intensa rilettura della bellissima For Free di Joni Mitchell, affidata alla voce dell’amico Crosby: splendida melodia e sonorità più alla CSN che Byrds. E poi c’è Neil Young che come autore prende il posto che abitualmente nei dischi dei nostri era destinato a Bob Dylan, con ben due composizioni, entrambe cantate da Clark (che quindi aumenta ulteriormente il vantaggio qualitativo sui compagni): Cowgirl In The Sand grandissima canzone in una interpretazione elettroacustica davvero squisita, più country e meno rock di quella del Bisonte canadese, ed una intesa e struggente See The Sky About To Rain, che all’epoca era ancora inedita (Young la pubblicherà l’anno seguente in On The Beach). Se non avete già una delle precedenti ristampe in CD di Byrds, disco che rappresenta il canto del cigno di una delle più grandi band di sempre, questa è quella da avere: non contiene inediti ma dona una veste sonora decisamente migliore ad un lavoro per troppi anni bistrattato.

Marco Verdi

Un Gradito Ritorno…Ma Ci Vorrebbe Un Produttore! Roger McGuinn – Sweet Memories

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Roger McGuinn – Sweet Memories – April First/CD Baby CD

Un disco elettrico con materiale nuovo da parte di Roger McGuinn è da considerarsi un piccolo evento. Molto attivo come solista negli anni settanta, e con lavori di ottimo livello (Cardiff Rose e Thunderbyrd i preferiti dal sottoscritto, mentre invece gli album pubblicati con Chris Hillman e Gene Clark, o anche in duo con il solo Hillman, non sono mai stati il massimo), totalmente assente negli anni ottanta, l’ex leader dei Byrds aveva fatto un ritorno in grande stile nel 1991 con lo splendido Back From Rio, un bellissimo album che richiamava come non mai il suono del gruppo che lo aveva reso celebre, e con ospiti del calibro di Tom Petty con Heartbreakers a seguito, ancora Hillman con l’altro ex compagno David Crosby, ed Elvis Costello. Dopo un live acustico, ma con due nuove (e belle) canzoni elettriche incise in studio (Live From Mars, 1996), Roger si è praticamente ritirato dal mondo rock che conta, iniziando ad esplorare la tradizione ed ad incidere brani folk di dominio pubblico, rendendoli disponibili solo online sotto il nome di Folk Den Project, un’operazione che è durata più di dieci anni e che ha visto la pubblicazione anche di CD a tema, tutti rigorosamente acustici, ma che non mi ha mai fatto impazzire in quanto ho sempre giudicato le sue interpretazioni piuttosto scolastiche e poco ricche di feeling. Per avere un altro CD elettrico con canzoni nuove dobbiamo saltare al 2004, quando Roger pubblica in via indipendente Limited Edition, un lavoro discreto ma che manca di una reale produzione, mentre CCD del 2011 è un altro lavoro di matrice folk a tema marinaresco, praticamente un’appendice del Folk Den.

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Oggi, un po’ a sorpresa, Roger fa uscire (sempre autoproducendosi) questo Sweet Memories, un CD con canzoni originali che mischia nuovo ed antico, in quanto vengono ripresi anche tre pezzi dei Byrds. Roger ha fatto di nuovo tutto da solo, dalla produzione alla strumentazione (c’è solo Marty Stuart alla chitarra in un pezzo), e questo è un po’ il limite del disco, in quanto McGuinn non è certo famoso per essere un polistrumentista: alla chitarra è come al solito validissimo, così come con tutti gli strumenti a corda in genere, ed in Sweet Memories il nostro si concentra quindi su questo tipo di suono in particolare, limitando al massimo l’uso di basso e batteria, e non prendendo neppure in considerazione piano ed organo. Il risultato è un album discreto, ma che avrebbe potuto essere molto meglio con qualche sessionmen in più, un suono più profondo ed una produzione più professionale e meno “piatta” (Stuart sarebbe andato benissimo, dato che è passato dallo studio). Anche i tre brani dei Byrds risentono del confronto con gli originali: se Mr. Tambourine Man è praticamente identica e suonata in maniera corretta, Turn, Turn, Turn per sola voce, basso e Rickenbaker suona un po’ stanca, e So You Want To Be A Rock’n’Roll Star è totalmente priva di pathos (e la canzone in sé non mi ha mai fatto impazzire). C’è anche una cover molto particolare: si tratta di Friday, un brano-parodia che Roger ha trovato su YouTube, un video nel quale un tale Nate Herman, fingendosi un serio musicologo, parla di questo fantomatico e rarissimo brano scritto da Bob Dylan ed inciso dai Byrds in gran segreto, mentre in realtà è tutta una presa in giro; Roger però pare si sia divertito a tal punto che ha voluto incidere la canzone (per sola voce e chitarra elettrica), che in effetti ha un motivo molto byrdsiano, anche se il testo è chiaramente parodistico.

I restanti otto brani sono tutti originali, scritti da McGuinn con la moglie Camilla, ma non sono tutti nuovi, in quanto alcuni di essi sono stati tirati fuori dal proverbiale cassetto (la title track risale addirittura ai primi anni ottanta), cosa che dimostra che Roger da anni non è più un autore prolifico. Chestnut Mare Christmas è il seguito di un’altra famosa canzone dei Byrds, Chestnut Mare appunto, ed è una country ballad bella e profonda, che mantiene la stessa struttura dell’originale (alternanza tra talkin’ e cantato), e ci regala un ottimo ritornello, con Stuart che ricama sullo sfondo: è anche il brano, tra quelli nuovi, più ricco dal punto di vista strumentale. Grapes Of Wrath è puro folk dal sapore irish, che richiama le atmosfere di Cardiff Rose (ma anche del Folk Den), con Roger che gioca con le voci e vari strumenti a corda; Sweet Memories è un tenue slow cantautorale, tutto incentrato sulla voce e su un paio di chitarre arpeggiate (ma in carriera il nostro ha scritto di meglio), mentre Catching Rainbows, pur mantenendo un’atmosfera languida ed un sound spoglio, è decisamente più riuscita, anche se il livello raggiunto in passato dall’ex Byrd resta lontano. Nella breve 5:18 spunta anche un banjo, ed è ancora puro folk, The Tears (scritta dalla sola Camilla) è un’altra ballatona dal passo lento e dalla suggestiva melodia di stampo western, una delle migliori del CD; restano ancora la toccante At The Edge Of The Water, con Roger che canta stratificando varie sue tracce vocali, e la deliziosa Light Up The Darkness, country-folk solare e diretto.

E’ sempre un piacere recensire un nuovo disco di Roger McGuinn, dato che stiamo parlando di uno dei “totem” della nostra musica, anche se sarebbe auspicabile l’affidamento delle mansioni sonore ad un vero produttore e la partecipazione di qualche musicista esterno, un po’ come ha fatto lo scorso anno il suo vecchio compare Chris Hillman (come nel recente tour per i 50 anni di Sweeetheart Of The Rodeo, e si vede nel video qui sopra).

Marco Verdi

*NDB Se poi aggiungiamo che il CD non è proprio di facile reperibilità e costa pure abbastanza caro, mi sembra il classico prodotto destinato solo ai maniaci di Roger McGuinn, come peraltro gli altri CD degli anni 2000

Gli “Esordi” Solisti Di Un Protagonista Della Nostra Musica. Chris Hillman – The Asylum Years

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Chris Hillman – The Asylum Years – Omnivore CD

Recentemente ho recensito su questo blog la ristampa dei due album degli anni ottanta di Skip Battin, constatando come mi stessi occupando di un artista che aveva attraversato buona parte della storia del rock senza però lasciare tracce tangibili http://discoclub.myblog.it/2018/02/01/il-periodo-italiano-di-un-altro-vero-outsider-skip-battin-italian-dream/ . Un parallelo con Battin si può fare parlando di Chris Hillman, quasi come se fossero due facce della stessa medaglia, dato che hanno avuto in comune la militanza nei Byrds e nei Flying Burrito Brothers, ovvero due delle band più influenti della loro epoca (oltre a condividere lo stesso strumento, il basso, anche se Hillman in seguito è diventato un provetto chitarrista/mandolinista), ma, a differenza di Skip, Chris ha sempre recitato un ruolo di primo piano, grazie principalmente al talento infinitamente maggiore. Con i Byrds, dopo essere stato abbastanza in ombra agli inizi, cominciò a ritagliarsi più spazio all’indomani dell’abbandono di Gene Clark, per poi contribuire a fondare i Burritos insieme a Gram Parsons. Ma Chris è sempre stato uno che non ha mai amato stare fermo, e così negli anni settanta ha partecipato a diversi progetti, come quello dei Manassas (il supergruppo di supporto a Stephen Stills), la poco fortunata reunion dei Byrds originali, il trio Souther-Hillman-Furay Band e la quasi ulteriore Byrd reunion di McGuinn, Hillman & Clark, due avventure con risultati ben al di sotto delle possibilità.

Negli anni ottanta il grande successo all’insegna del country-rock della Desert Rose Band, ed in seguito gli ottimi lavori più tradizionali insieme a Herb Pedersen (già con lui nella DRB), in duo o in quartetto con Larry Rice e Tony Rice. Il nostro è quindi sempre stato un musicista che ha sempre preferito far parte di una band, ed infatti i suoi album da solista si contano sulle dita di due mani: appena sette in sei decadi, l’ultimo dei quali, il meraviglioso Bidin’ My Time, è stato uno dei più bei dischi dello scorso anno nonché tra le cose migliori di tutta la sua carriera http://discoclub.myblog.it/2017/09/30/dopo-stephen-stills-e-david-crosby-ecco-un-altro-giovane-di-talento-lex-byrd-ha-ancora-voglia-di-volare-alto-chris-hillman-bidin-my-time/ . Ora la Omnivore, anche per sfruttare il successo di Bidin’ My Time, pubblica The Asylum Years, che ristampa in un singolo CD (senza bonus tracks, ma con un’intervista nuova di zecca al nostro nelle note del libretto) i due album che Chris pubblicò negli anni settanta per l’etichetta fondata da David Geffen, Slippin’ Away (1976) e Clear Sailin’ (1977), da tempo fuori catalogo. Ebbene, ci troviamo di fronte a due discreti album di country-rock californiano, non due capolavori ma comunque di piacevole ascolto, con il primo meglio del secondo, ed una lista di musicisti davvero incredibile, la crema della musica californiana (e non) dell’epoca, nomi che c’è da godere solo a leggerli: Herb Pedersen, Jim Gordon, Joe Lala e Paul Harris (entrambi ex Manassas), Bernie Leadon e Timothy B. Schmit (all’epoca il passato ed il futuro degli Eagles), gli ex Burritos Al Perkins e Rick Roberts, gli Mg’s Steve Cropper e Donald “Duck” Dunn, Russ Kunkel, Leland Sklar, il duo vocale Flo & Eddie, l’ex Byrd Michael Clarke, Sam Broussard, Byron Berline, l’ex bassista dei Blood, Sweat & Tears Jim Fielder ed il futuro cantautore da classifica Richard Marx.

Il primo dei due album, Slippin’ Away, non è, come ho detto, un masterpiece, ma comunque siamo in presenza di un validissimo lavoro di puro country-rock californiano, che paradossalmente assomiglia molto a quello che in quegli anni facevano gli Eagles, cioè una band che Hillman ha senz’altro contribuito ad influenzare: prendete la solare ed orecchiabile Step On Out e ditemi se ho torto. La fluida Slippin’ Away ha tracce di CSN e di nuovo quel suono così “californiamente” familiare, Take It On The Run è roccata e potente, con un’ottima slide a dare il tocco in più, mentre Blue Morning è una bellissima ballad, con piano e steel sugli scudi ed un motivo di prima scelta. Altri highlights sono l’intensa Witching Hour, una outtake dei Manassas scritta da Stills (e pubblicata nella versione originale solo qualche anno fa nell’album di inediti Pieces), il piacevole rifacimento di Down In The Churchyard dei Burrito Brothers, l’eccellente Love Is The Sweetest Amnesty, una canzone decisamente riuscita e coinvolgente, tra le più belle, ed il delizioso bluegrass finale (Take Me In Your) Lifeboat, con Hillman, Leadon, Berline e Pedersen che cantano all’unisono.

Il secondo album preso in esame da questa ristampa, Clear Sailin’, è come ho già detto un gradino sotto, più che altro a causa di un livello medio di canzoni leggermente inferiore, ma nel quale comunque non mancano gli episodi degni di nota, come la solare ed accattivante Nothing Gets Through, la squisita Fallen Favorite, puro sound californiano, la cristallina ballata elettroacustica Quits e la splendida ed ariosa Hot Dusty Roads, tra le più belle in assoluto dei due album, mentre il resto si barcamena tra brani troppo sofisticati (Clear Sailin’) o pasticciati (Ain’t That Peculiar, cover di un successo di Marvin Gaye, scritto da Smokey Robinson, con un insistente synth che non c’entra un tubo) e qualche pezzo in cui il nostro si aiuta col mestiere. Una ristampa forse non imprescindibile, ma con diverse belle canzoni soprattutto nella prima parte che direi ne giustificano ampiamente l’acquisto.

Marco Verdi

Dopo Stephen Stills E David Crosby Ecco Un Altro “Giovane” Di Talento: L’Ex Byrd Ha Ancora Voglia Di Volare Alto. Chris Hillman – Bidin’ My Time

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Chris Hillman – Bidin’ My Time – Rounder/Concord USA CD

Pochi nella storia della musica possono vantare un pedigree ricco come quello di Chris Hillman. Se escludiamo gli esordi con gli Scottsville Squirrell Barkers prima e con gli Hillmen poi, il riccioluto musicista di Los Angeles è stato uno dei membri fondatori dei leggendari Byrds, con i quali ha vissuto tutta la golden age per poi seguire Gram Parsons nei Flying Burrito Brothers, gruppo fondamentale per l’affermazione del country-rock come genere “nuovo” dell’epoca. Negli anni settanta ha poi fatto parte dei Manassas di Stephen Stills, della Souther-Hillman-Furay Band e, sul finire della decade, si è riunito con due ex compagni nei Byrds per formare un altro trio, McGuinn, Hillman & Clark, una band dalle potenzialità tutto sommato inespresse. Dopo qualche anno di pausa, sul finire degli anni ottanta l’ennesima zampata: la formazione, insieme all’amico di vecchia data Herb Pedersen (ex Dillards), della Desert Rose Band, un gruppo di country-rock tra i più di successo del periodo. E non ho citato tutti gli episodi “minori” della sua discografia, come i dischi in duo con Pedersen, quelli in quartetto con Larry Rice, Tony Rice ed ancora il vecchio Herb, e naturalmente il poco fortunato album di reunion dei membri originali dei Byrds uscito nel 1973.

Con tutti questi impegni, è comprensibile che la sua discografia solista sia abbastanza esigua, appena sei album tra il 1976 ed il 2005; oggi però Chris torna a far sentire la sua voce limpida dopo una lunga pausa, e lo fa in maniera sontuosa: Bidin’ My Time è infatti un grande disco, senza dubbio il migliore della sua carriera, un album che ci mostra un artista in forma smagliante e con una voce ancora splendida, suonato e prodotto alla grande da un manipolo di amici di chiara fama. Infatti alla produzione troviamo nientemeno che Tom Petty, uno che si muove solo se ne vale la pena (l’ultima sua collaborazione “esterna” era stato il bellissimo debutto degli Shelters), che dà al disco un suono potente, forte e quasi rock anche negli episodi più acustici, ed in session vecchi compagni del passato come gli ex Byrds Roger McGuinn e David Crosby, la Desert Rose Band quasi al completo (Herb Pedersen, che suona e canta in tutti i brani, John Jorgenson e Jay Dee Maness) e buona parte degli Heartbreakers (oltre a Petty, che però compare come musicista solo in due brani, abbiamo Mike Campbell, Benmont Tench e Steve Ferrone). Bidin’ My Time si divide tra brani nuovi scritti da Hillman insieme a Steve Hill, cover di varia estrazione e brillanti rivisitazioni di pezzi dei Byrds, il tutto dominato dalla grande voce del leader e da un suono davvero scintillante.

Il CD inizia proprio con un vecchio classico dei Byrds, cioè il brano di Pete Seeger Bells Of Rhymney: versione che parte lenta, voce più chitarre arpeggiate, poi entra il resto della band per un folk-rock diverso da quello del suo ex gruppo ma sempre splendido, con il tocco in più dato dalle voci di Crosby e Pedersen e dal sensazionale pianoforte di Tench. La title track è una sorta di valzer country, dalla melodia nostalgica ed evocativa e suono forte e vigoroso (d’altronde avere Petty in consolle vorrà pur dire qualcosa); Given All I Can See è pura e cristallina, un country-folk di assoluta bellezza (e che bella voce), sempre con l’aiuto dell’inseparabile Pedersen e di Petty all’armonica. Different Rivers è una deliziosa ballata, pochi strumenti ma tanto feeling, con Hillman che canta sempre meglio, Here She Comes Again è invece un vecchio pezzo scritto da Chris insieme a McGuinn e suonato poche volte dal vivo dal trio McGuinn, Hillman & Clark ma mai inciso in studio prima d’ora: Roger è presente con la sua Rickenbacker jingle-jangle e, manco a dirlo, dona un sapore byrdsiano ad un uptempo già bellissimo di suo: splendida. (NDM: particolare curioso, in questo brano Hillman torna a suonare il basso dopo una vita, proprio come faceva nei Byrds). La saltellante Walk Right Back è una canzone scritta da Sonny Curtis e portata al successo dagli Everly Brothers, e Chris lascia intatta la melodia tersa e l’arrangiamento d’altri tempi, Such In The World That We Live In è un gradevolissimo e coinvolgente bluegrass, altro genere in cui il nostro sguazza che è un piacere: mandolino, chitarre, violino e godimento assicurato.

La pura e cristallina When I Get A Little Money, altro eccellente esempio di country acustico, è scritta dal giovane songwriter dell’Indiana Nathan Barrow, e precede la rivisitazione di due brani dei Byrds: l’oscura She Don’t Care About Time, di Gene Clark (era sul lato B del singolo Turn! Turn! Turn!), con Jorgenson nella parte di McGuinn e Chris che canta al meglio un motivo decisamente fluido, e New Old John Robertson, riscrittura di un pezzo presente su The Notorious Byrd Brothers (il “new” nel titolo è stato aggiunto oggi), altro superbo bluegrass guidato stavolta dal banjo. Il CD, solo 32 minuti ma spesi benissimo, si chiude con l’intensa Restless, una sontuosa ballata suonata con grande forza e con Campbell e Tench protagonisti, e l’omaggio a Petty di Wildflowers, tra le più belle ballads del biondo rocker della Florida, in una meravigliosa versione che profuma di musica tradizionale. Alla tenera età di 72 anni (73 a Dicembre), Chris Hillman ci ha regalato l’album solista migliore della sua carriera, e senza dubbio uno dei più belli di quest’anno.

Marco Verdi