George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte I

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Anche se, a quanto dicono alcuni dei suoi detrattori, “…i dischi di George Thorogood sono tutti uguali e non c’è mai un vero assolo di chitarra”, il nostro amico, soprannome Lonesome George, oltre che Mr. Bad To The Bone, in effetti è uno degli axemen più travolgenti in circolazione, con quel suo stile che coniuga blues, rock and roll, boogie e rock classico, ed un altro nickname con il quale viene ricordata la sua tecnica prepotente al bottleneck è “The Satan Of Slide”. La maggior parte delle biografie riportano come luogo di nascita Wilmington, nel Delaware, ma il nostro amico dovrebbe invece essere nato a Baton Rouge, in Louisiana, dalla quale si trasferì con la famiglia per essere cresciuto poi appunto nel Delaware: la certezza è la data di nascita, il 24 febbraio del 1950, quindi pure lui ha tagliato il traguardo dei 70 anni nel 2020. Nell’anno 1970 ci fu l’evento discriminante che trasformò un fervente praticante e appassionato del baseball, nel quale forse vedeva anche una futura carriera, in un bluesman a tutto tondo (benché per alcuni anni, anche se era già quasi una rock star, continuò a livello semi-professionale a frequentare i campi di baseball), grazie alla musica che era la sua altra grande passione, quando assistette a NY ad un concerto di John Hammond Jr, e pure lui, come Jake Joliet Blues a.k.a. John Belushi, ricevette l’illuminazione divina che lo portò su quella strada, dove tuttora si trova, a cinquanta anni di distanza dagli esordi.

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Esordi con una bella gavetta, anche come roadie di Hound Dog Taylor, che era uno dei suoi eroi, insieme a Chuck Berry, John Lee Hooker, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Elmore James, tutta gente della quale nel corso degli anni ha saccheggiato il repertorio (insieme a quello di molti altri, in quanto il repertorio del nostro è composto per la quasi totalità di cover): già intorno al 1973, tra un concerto e l’altro, forma la prima edizione dei Destroyers, agli inizi Delaware Destroyers, con il fedele compagno Jeff Simon, il batterista che ancora oggi divide con lui i palchi (e le sale di registrazione). Comunque con la prima line-up in essere, si spostano in quel di Boston, dove cominciano ad infiammare la scena dei club locali e già nel 1974 registrano un primo demo, che poi verrà pubblicato anni dopo dalla MCA come Better Than The Rest, ma ne parliamo nella disamina della discografia.

Gli Inizi 1974-1980

Nel 1976 arriva al basso Billy Blough, anche lui ancora oggi nella formazione dei Destroyers, che hanno eliminato il Delaware dalla ragione sociale, e messi sotto contratto dalla Rounder entrano in studio per registrare il primo album.

George Thorogood And The Destroyers

George Thorogood and the Destroyers – 1977 Rounder **** con la produzione di Ken Irwin, nei Dimension Sound Studios di Boston: dieci brani, con due soli originali di George, una vera schioppettata di energia, che esce a fine 1977 in piena esplosione punk, tanto che vista la potenza e la ruvidità del suono venne addirittura accostato ai tempi proprio al punk che nasceva in quel periodo, anche se la foto di copertina con Gibson di ordinanza, ed un repertorio che per autocitarmi da una vecchia recensione “è la reincarnazione dello spirito della trinità del rock’n’roll e del blues di Chuck Berry, Bo Diddley e John Lee Hooker che da sempre vivono in lui”: l’apertura è affidata ad un pezzo di un altro Hooker, Earl, You Got To Loes riff insistito e sound che ricorda i primi Stones, che a loro volta prendevano a piene mani da Chuck Berry, ottima Madison Blues un brano di Elmore James, altro mito, dove George va di bottleneck alla grande https://www.youtube.com/watch?v=LIh6I_0bmNw , seguito da una versione travolgente di One Bourbon, One Scotch, One Beer di Mastro “Hook”, con il tipico incalzante stile boogie del grande bluesmen del Mississippi, e l’assolo, al contrario di quanto dicono i suoi detrattori, c’è, mentre Blough pompa alla grande con il basso, per quanto aggiunto in seguito alla registrazione https://www.youtube.com/watch?v=obJpegVB5zk . Kind Hearted Woman di Robert Johnson, con acustica slide in bella mostra, ricorda di nuovo certe sonorità degli Stones tipo Love In Vain, Cant Stop Lovin’ è il secondo brano di Elmore James, anche questo tipico dello stile impetuoso di George, che per certi versi impugnava la chitarra come una clava o, appunto, una mazza da baseball, colpire precisi e con forza.

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Non manca ovviamente un brano dell’amato Ellas McDaniel a.k.a Bo Diddley, boogie, riff e ritmo, tre elementi immancabili del nostro, che vengono esplicati in una rutilante Ride On Josephine https://www.youtube.com/watch?v=A_FD3bvjfDs , che poi nelle volute di bottleneck di Homesick Boy, dimostra che volendo, raramente e con parsimonia, era in grado anche di attingere al proprio songbook, comunque sempre stretto parente di quello dei suoi ispiratori, e all’occorrenza anche ricorrere al patrimonio tradizionale della grande canzone popolare, come in John Hardy, un pezzo dai profumi folk solo per chitarra acustica, voce e armonica, prima di tentare anche la strada della ballatona blues in I’ll Change My Style dal repertorio di Jimmy Reed. Ma in chiusura scatena tutta la potenza dei suoi Destroyers nell’autoctona Delaware Slide, un nome, un programma https://www.youtube.com/watch?v=Z30ArnxgD4o . *NDB Nel 2015 il primo album viene ripubblicato come George Thorogood And The Delaware Destroyers ****, come era stato registrato in origine, senza le parti di basso, aggiunte in fase di mixaggio, quasi un disco nuovo. Esattamente un anno dopo, esce

George Thorogood MoveItonOver

Move It On Over – 1978 Rounder ****, degno successore del formidabile esordio, due dischi che per molti sono i migliori della sua carriera. Di nuovo dieci brani, tutte cover, perché evidentemente George era spossato dopo avere composto ben due canzoni per il disco precedente: ma non importa, materiale da cui scegliere ce n’è a iosa, e la band prende d’infilata prima la title track, un pezzo di Hank Williams, che subisce il classico trattamento à la Thorogood, poi una fenomenale Who Do You Love? di Bo Diddley, a tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=k6fGcpp3KzE , e ancora una formidabile The Sky Is Crying con il bottleneck che scivola, scivola, scivola…  https://www.youtube.com/watch?v=qGBbsQ6QTsc Cocaine Blues è uno standard della canzone americana, Thorogood goes country, in una canzone che si ricorda soprattutto in diverse versioni di Johnny Cash, alle quali si è sicuramente ispirato il nostro. Chuck Berry mancava ancora all’appello, ma anche senza leggere il nome dell’autore It Wasn’t Me è R&R all’ennesima potenza e George e soci ci danno dentro alla grande e pure That Same Thing di Willie Dixon per Muddy Waters, viene “thorogoodizzata”.

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So Much Trouble di Brownie McGhee conferma l’assunto del suo autore, “the blues had a baby and they called it rock and roll”, con la solista che impazza, poi una pausa di riflessione per la splendida I’m Just Your Good Thing di Slim Harpo, sempre con influenze stonesiane. Si torna a rollare e roccare in Baby Please Set A Date di Homesick James, di nuovo con la slide in azione, che poi accelera ulteriormente in New Hawaiian Boogie, il titolo dice tutto, un altro brano d’annata di Elmore James https://www.youtube.com/watch?v=dlZXnG8RgCg . Il disco entra nella Top 40 americana e vende mezzo milione di copie (alla faccia di chi dice che Thorogood è un musicista di culto poco conosciuto al di fuori della cerchia degli appassionati , ma che nella sua carriera ha venduto più di 15 milioni di dischi) e a questo punto sbuca la MCA che pubblica

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Better Than The Rest – 1979/1974 MCA *** Diciamo un episodio minore, registrato nel 1974 quando GT era un illustre sconosciuto: le solite dieci canzoni, ma per complessivi 27 minuti, il suono è molto più ruspante, comunque abbastanza già ben definito: In The Night Time un pezzo garage sbucato da Nuggets, e anche I’m Ready un R&R frenetico, Howlin’ For My Darlin’ non può competere con l’originale di Howlin’ Wolf, fin troppo sguaiata e poco rifinita, You’re Gonna Miss Me non è quella dei 13th Floor Elevators ma un blues acustico di Memphis Slim, solo slide e voce, mentre Worried About My Baby è un’altra canzone di Howlin’ Wolf che riceve il trattamento Garage/R&R grintoso ma embrionale, con Huckle Up Baby di John Lee Hooker, qui in veste acustica, con un eccellente lavoro di Thorogood alla chitarra. Nel corso del 1980 Thorogood registra, e pubblica a fine anno, quello che sarà il suo ultimo album per la Rounder

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More George Thorogood And The Destroyers – 1980 Rounder ***1/2 Ancora un ottimo album, con le classiche e canoniche dieci canzoni, nove cover ed una firmata dallo stesso George come Jorge Thoroscum, per non “farsi riconoscere”! Il disco nella versione in CD è uscito anche come I’m Wanted, ma sempre quello è: il menu è il solito, ma c’è una novità, l’ingresso di Hank Carter al sax, che poi rimarrà fino al 2003, nello stile di Thorogood, come per esempio nella iniziale I’m Wanted di Willie Dixon, sempre in veste rock and roll, con assolo di sax aggiunto, le note vengono allungate per creare quell’effetto che poi permetterà al nostro una sorta di rito, ovvero quello di “battezzare” i fans nelle prime file ai suoi concerti, pratica alla quale ho partecipato anch’io, quando l’anno successivo George è venuto in Italia per il suo primo concerto nel Belpaese https://www.youtube.com/watch?v=UpewYYtheB8 .

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Tornando al disco Kids From Philly è uno strumentale frenetico, chi ha misurato dice 180 bpm, ma è comunque un bel sentire https://www.youtube.com/watch?v=Jwk0-oZH070 , One Way Ticket è il classico blues alla e di John Lee Hooker, declamato da Thorogood, Bottom To The Sea è un Muddy Waters d’annata, che evidenzia similitudini con un altro che praticava un blues ruspante sull’altro lato dell’oceano Rory Gallagher, anche la voce è tipicamente roca e vissuta, come chitarrista l’irlandese era decisamente superiore ma George si difende con onore. Night Time è proprio quella degli Strangeloves, un pezzo tra psych e garage, che diventa più R&R nelle mani di George, con il sax entrano anche elementi R&B nel sound dei Destroyers, vedi Tip On In di Slim Harpo, mentre Goodbye Baby è il classico lento in modalità slide di Elmore James, e una turbolenta House Of Blue Lights è puro Rock’n’Roll all’ennesima potenza https://www.youtube.com/watch?v=UenvtCLHIbQ , con Just Can’t Make It che rende omaggio al maestro Hound Dog Taylor e la vertiginosa Restless a Carl Perkins.

Gli Anni Della Consacrazione 1981-1999

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Con questo disco finisce il trittico per la Rounder, forse i suoi dischi migliori ancora oggi, nel 1981 Thorogood realizza il 50/50 Tour dei record, ovvero 50 concerti in 50 giorni nei 50 Stati americani e in un giorno tenne pure due concerti nella stessa giornata. Lo stesso anno fece anche da supporto agli Stones nella loro tournée, e vennero anche in Europa, puntata a Milano compresa, come ricordato, tra l’altro il 13 aprile, due giorni dopo la storica data di Springsteen all’HallenStadion di Zurigo, all’Odissea 2001, locale basso e stretto, dove dopo il rito della “benedizione” ricordo che già in pochi minuti eravamo tutti schiacciati contro la parete opposta al palco, per essere lontani da una onda sonora micidiale con rischio tinnito, e comunque due giorni di fischi alle orecchie. Però gran concerto. Nel 1982 firma per la EMI, quindi una major, ed esce il “mitico”

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Bad To The Bone – 1982 Emi America Music ***1/2-**** La differenza nel giudizio verte sul fatto che riusciate a trovare o meno la versione Deluxe uscita nel 2007, con sette bonus tracks re-incise quell’anno, ma va bene anche quella normale. Il repertorio si fa più vario, George scrive “ben tre brani”, tra i quali la leggendaria title track, che nel corso degli anni è diventata la sua signature song, ma sin da allora è diventata una canzone di culto, senza vendite clamorose (come l’album, che arrivò comunque al 43°posto delle classifiche USA, con la rispettabile cifra di mezzo milione di copie vendute), ma prima, grazie al divertente video su MTV, dove giocava a biliardo con il suo idolo Bo Diddley, che però in Europa non è disponibile su YoTube, quindi https://www.youtube.com/watch?v=8KciRaANKmo. poi con l’utilizzo nella colonne sonore di Christine e Terminator 2, e nel corso degli anni in decine di altri film e spot pubblicitari, si è trasformata in un tormentone. Alla riuscita del disco contribuì sicuramente anche la presenza del “sesto” Rolling Stone, ovvero Ian Stewart, al pianoforte in tutto l’album: il repertorio è consistente, dall’iniziale Back To Wentzille, sempre firmata da Thorogood, con sax, pianino e chitarra scatenati, Blue Highway scritta da Nick Gravenites per Brewer & Shirley illustra il lato cantautorale del nostro amico.

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Nobody But You un pezzo soul tipo Shout degli Isley Brothers, diventa una volata R&R a rotta di collo, mentre It’s A Sin di Jimmy Reed è una ballata blues, seguita dal super classico di John Lee Hooker New Boogie Chillum, dove George insegna il boogie ai suoi seguaci https://www.youtube.com/watch?v=uVHJNdzZIhA , di Bad To The Bone abbiamo detto, Miss Luann il terzo originale di Thorogood, pesca dal R&B anni ‘50, As The Years Go Passing By è uno dei grandi blues lenti delle 12 battute, e dimostra che il musicista del Delaware sa essere anche raffinato con assolo d’ordinanza, ma quando può scatenare tutta la potenza dei suoi Destroyers in una devastante No Particular Place To Go di Chuck Berry non ce n’è per nessuno, sentire anche Stewart please https://www.youtube.com/watch?v=hFyCxJuhEB0 , in chiusura una fantastica e trascinante ripresa di Wanted Man di Bob Dylan https://www.youtube.com/watch?v=4tbSbzCwrvU , per un album che rivaleggia con i suoi migliori, anche grazie alle riprese di alcuni brani nelle bonus tracks.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

Torna Lo Springsteen Della Domenica: Una Full Immersion Nella Leggenda! Bruce Springsteen & The E Street Band – London 11/24/1975

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Bruce Springsteen & The E Street Band – London 11/24/1975 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Il fatto che Bruce Springsteen sia uno dei migliori performer dal vivo nella storia della nostra musica è un fatto che si dà ormai per acquisito, ma c’era un tempo in cui il rocker del New Jersey era ancora un artista emergente che cercava di affermarsi con tanta fatica e tanto sudore. Se il tour del 1978 è giustamente diventato leggendario, stiamo comunque parlando di un musicista che era già famoso (almeno nel suo paese d’origine), e sono quindi gli show del 1975 quelli che hanno contribuito più di tutti a creare tale leggenda. In quell’anno Bruce era impegnato in una lunga ed estenuante tournée americana a supporto del suo terzo album Born To Run, ed aveva da poco avuto l’onore della famosa doppia copertina su Time e Newsweek, ma in novembre aveva fatto una breve puntatina in Europa per quattro concerti, due all’Hammersmith Odeon di Londra, uno a Stoccolma e l’altro ad Amsterdam, show che rimarranno gli unici in tutta la decade nel Vecchio Continente (infatti tornerà solo nel 1981).

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Lo show londinese del 18 novembre era già uscito nel 2005 come DVD (ed in seguito anche in doppio CD) all’interno del box set del trentennale di Born To Run, ma la seconda serata di sei giorni dopo era ancora inedita, almeno fino ad oggi,  visto che è stata scelta come nuova pubblicazione nell’ambito della benemerita serie di concerti live del Boss. E non si sarebbe potuto fare scelta migliore, in quanto London 11/24/1975 ci riporta letteralmente indietro con la macchina del tempo in un periodo in cui Bruce e la sua E Street Band avevano veramente i proverbiali occhi della tigre ed erano già un gruppo formidabile di musicisti, “il futuro del rock’n’roll” come aveva dichiarato nel ’74 il critico musicale e futuro produttore proprio del Boss Jon Landau. Non solo, ma questo secondo spettacolo londinese, oltre ad essere molto più lungo del primo (22 canzoni contro 16), è sempre stato ritenuto migliore sia dai fans che dallo stesso Springsteen, che il 18 novembre aveva a suo dire fornito una performance non del tutto soddisfacente innervosito dalla presenza delle telecamere. A me il doppio CD che documentava la prima serata era comunque piaciuto molto, ma questo del 24/11 è una vera bomba, con un Boss che regala ai presenti una performance fenomenale ben coadiuvato da un gruppo che era già una macchina da guerra, con la ciliegina di una setlist pazzesca specie nella parte finale.

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Un cocktail irresistibile di rock’n’roll, rhythm’n’blues e lunghe e fluide ballate pianistiche, con i nostri che rivisitano il meglio dei primi tre album di Bruce ed aggiungono una serie di cover da paura. Dopo un inizio con due pezzi dal nuovo disco (Thunder Road per sola voce, armonica, piano di Roy Bittan e glockenspiel di Danny Federici ed una Tenth Avenue Freeze-Out potente e concisa), il nostro guarda al suo passato prossimo con la soulful Spirit In The Night ed una drammatica e struggente Lost In The Flood https://www.youtube.com/watch?v=8DvTeI7-kLM , per poi tornare ai tempi recenti con l’uno-due formato da She’s The One e Born To Run (che non aveva ancora preso posto tra i bis). Dopo una sorprendente versione di undici minuti della hit dei Manfred Mann Pretty Flamingo https://www.youtube.com/watch?v=2OMF9B-UnLc  (che comunque ai tempi, a sua volta, con la Earth Band aveva inciso alcune eccellenti cover di Springsteen, contribuendo a spargere il verbo)), ecco un altro tuffo negli esordi con una breve ma sentita Growin’ Up ed una It’s Hard To Be A Saint In The City più vibrante che mai. A seguire, uno dei magic moments della serata, che vede i nostri (con Bittan su tutti) proporre due spettacolari riletture degli inni pianistici Backstreets e Jungleland, separati dai tre minuti scarsi della coinvolgente Sha-La-La delle Shirelles https://www.youtube.com/watch?v=8vWOaFPRXAo .

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Dopo le prevedibili ma sempre gradite Rosalita e 4th Of July, Asbury Park (Sandy) ecco il momento in cui lo show da grandissimo diventa leggendario: si parte con un raro omaggio ad Elvis con Wear My Ring Around Your Neck (suonata del Boss solo 14 volte in carriera), a cui fanno seguito i dieci fantastici minuti del Detroit Medley ed i nove di una commovente For You con Bruce da solo al pianoforte. Ma questo è solo l’antipasto, in quanto subito dopo arriva la classica When You Walk In The Room dei Searchers https://www.youtube.com/watch?v=qqJfsa1_wZg , una sontuosa Quarter To Three di Gary U.S. Bonds, i quasi undici minuti della sempre travolgente Twist And Shout ed un doppio tributo finale a Chuck Berry (ed al rock’n’roll) con Carol https://www.youtube.com/watch?v=dD7meTrv7YY  e Little Queenie. Un concerto che anche a distanza di 46 anni è in grado di mettere k.o. una mandria di tori, ed in più avrete la piacevole sensazione di rivivere in prima persona la nascita di un mito del palcoscenico. Alla prossima uscita, che riguarderà uno show newyorkese molto più recente (2009), ma con una notevole sorpresa in scaletta.

Marco Verdi

Ecco Cosa Mancava: Un Bel Live Dei Dead! Grateful Dead – June 1976

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Grateful Dead – June 1976 – Rhino/Warner/Grateful Dead Records 15CD Box Set

Quando conclusero il loro tour autunnale del 1974, i Grateful Dead sembravano una band sul punto di sciogliersi a causa di qualche frizione interna e all’apparente scelta dei due membri principali Jerry Garcia e Bob Weir di privilegiare le rispettive carriere soliste. L’ipotesi di una band in dismissione prese poi ulteriore corpo nel 1975, quando nonostante la pubblicazione dell’album Blues For Allah i nostri suonarono solo quattro concerti in tutto l’anno, cosa inaudita per un gruppo che aveva fatto della frequente attività live uno dei suoi punti di forza. Nel 1976 fortunatamente le divergenze si appianarono, ed i sette (oltre a Garcia e Weir, i coniugi Keith e Donna Jean Godchaux, il bassista Phil Lesh ed il batterista Bill Kreutzmann, ai quali si ricongiunse l’altro drummer Mickey Hart dopo cinque anni d’assenza) ripresero a girare l’America con una nuova tournée che prese il via nel mese di giugno, e che riconsegnò ai fans una band tirata a lucido ed in grande forma: il ’76 non è unanimamente considerato uno degli anni “top” per i Dead, e questo in parte è dovuto al live uscito quell’anno, Steal Your Face, un disco che ritraeva un gruppo stanco e svogliato e per di più con un suono ed un missaggio pessimi (tanto che i nostri quando pubblicarono nel 2004 il box riepilogativo Beyond Description lo ignorarono bellamente, in pratica rinnegandolo), ma non tutti sanno che i concerti dai quali era tratto quel doppio album erano quelli finali del 1974.

Oggi invece la parte iniziale di quel “reunion tour” è documentata in questo cofanetto nuovo di zecca intitolato semplicemente June 1976, che comprende cinque concerti completi in quindici dischetti complessivi (questa volta non c’è nessuna versione “ridotta” in tre CD come è successo per altri box del recente passato) e che, e questo la dice lunga sulle priorità degli ascoltatori americani in tempi di coronavirus, non è andato esaurito quasi subito come sempre ma è ancora disponibile sul sito del gruppo. Il box si presenta molto bene, con un elegante confezione delle dimensioni di un libro (diciamo di quelli spessi, di 700/800 pagine) con apertura a scrigno ed all’interno un bel booklet ed i cinque concerti separati tra loro in altrettanti digipak; le cose però più importanti sono la performance, che è davvero notevole ed in crescendo (infatti gli ultimi due concerti sono i migliori), e la qualità di registrazione che è perfetta, come capita d’altronde ogni volta che esce un prodotto dei Dead targato Rhino. Non siamo ai livelli del biennio 1971-1972, nei quali Garcia e soci diedero il loro meglio sul palco, ma non siamo neppure troppo lontani: ecco dunque qui di seguito una rapida disamina serata per serata.

CD 1-3: Boston Music Hall, Boston (10/6/76). Inizio a tutto rock’n’roll con Promised Land di Chuck Berry, che vede Garcia subito in partita (ma anche Godchaux, solitamente un po’ bistrattato dalla critica, mostra di essere in gran forma con un assolo strepitoso), poi i nostri esplorano alcune delle pagine migliori del loro songbook come le splendide Sugaree e Brown-Eyed Women, le ballate Row Jimmy e Looks Like Rain e la chicca Mission In The Rain, brano del repertorio solista di Jerry che diventerà un classico delle esibizioni future della Jerry Garcia Band ma che i Dead suoneranno solo in questa porzione di tour. L’highlight della seconda parte è lo streordinario medley che apriva Blues For Allah (Help On The Way/Slipknot/Franklin’s Tower), mentre il finale è appannaggio di una Playing In The Band di un quarto d’ora (con un intermezzo di pura psichedelia), una discreta Dancing In The Street di Martha & The Vandellas e ancora ottimo rock’n’roll con U.S. Blues.

CD 4-6: Boston Music Hall, Boston (11/6/76). Secondo show consecutivo a Boston, che parte con una pimpante Might As Well e che presenta altri classici come Tennessee Jed, Scarlet Begonias, le bellissime ballate It Must Have Been The Roses e Ship Of Fools, mentre Brown-Eyed Women è sempre un piacere ascoltarla. Weir è più in palla della sera prima, e lo dimostra soprattutto con due solide rese di Cassidy e Looks Like Rain, oltre che con una buona cover della hit di Merle Haggard Mama Tried. C’è anche una concessione ai sixties con la classica St. Stephen, ed una parte finale sontusa nella quale spiccano la trascinante Sugar Magnolia, i magistrali tredici minuti di Eyes Of The World, una canzone che dal vivo è sempre stata tra le mie preferite per quanto riguarda i Dead, ed il finale travolgente di Johnny B. Goode, con Jerry che dà spettacolo alla sei corde.

CD 7-9: Beacon Theatre, New York (14/6/76). La prima parte della scaletta è simile a quelle di Boston, con ottime rese dell’iniziale Cold Rain And Snow (versione splendida), Row Jimmy, Tennessee Jed ed una vigorosa cover di Big River di Johnny Cash. Nel prosieguo troviamo la bella The Wheel ed una notevole High Time di dieci minuti, subito seguita dall’altrettanto riuscita Crazy Fingers. Finale con il country-rock psichedelico di Cosmic Charlie, il medley di Blues For Allah ancora meglio di quello della prima serata e la solita trascinante conclusione con l’uno-due Around And Around (di nuovo Berry) e U.S. Blues.

CD 10-12: Beacon Theatre, New York (15/6/76). Nonostante i non particolari stravolgimenti nella setlist (a parte le “nuove” Let It Grow e Not Fade Away) e l’inclusione della soporifera Stella Blue (forse il brano più noioso del binomio Garcia-Hunter), questo show è il migliore del cofanetto, una di quelle serate magiche che hanno fatto dei Dead la band leggendaria che sono, e che supera di una leggera attaccatura il seguente per merito di una sequenza finale da urlo. Qui troviamo versioni magistrali di Promised Land, Sugaree, It Must Have Been The Roses, Tennessee Jed, St. Stephen e Friend Of The Devil, con un Garcia scatenato ottimamente seguito dai suoi compagni, Godchaux in testa (a differenza della moglie che, cosa che ho sempre pensato, si conferma un corpo estraneo al gruppo). Il finale come ho già detto è una goduria, con una sequenza micidiale formata da The Wheel, Sugar Magnolia, Scarlet Begonias, Sunshine Daydream e Johnny B. Goode.

CD 13-15: Capitol Theatre, Passaic (19/6/76). Altro concerto super, nel luogo che da lì a due anni vedrà Bruce Springsteen costruire parte della sua fama di straordinario performer dal vivo. Il medley Help On The Way/Slipknot/Franklin’s Tower stavolta è posto in apertura di serata, mentre gli altri highlights sono le “solite” Brown-Eyed Women, Tennessee Jed, la migliore Might As Well del box ed una superba Playing In The Band di diciannove minuti (con una parte centrale “acida” che ci riporta per un attimo ai tempi di Live/Dead). Nel finale troviamo due brani suonati solo in questo show (rispetto al resto del cofanetto, non del tour), e cioè il coinvolgente rock’n’roll di Weir One More Saturday Night ed una sontuosa Goin’ Down The Road Feeling Bad che rasenta la perfezione.

Un box quindi di livello eccelso questo June 1976, ed il fatto che alcune delle 12.000 copie totali siano ancora disponibili potrebbe rappresentare una ghiotta tentazione.

Marco Verdi

Se Elvis Era Il Re Del Rock’n’Roll, Chuck Era…Il Rock’n’Roll! Un Sentito Omaggio Da Uno Stone In Libera Uscita. Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry

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Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry – BMG CD

In questo mese di Novembre sono usciti ben due tributi al grande Chuck Berry, uno dei pionieri assoluti del rock’n’roll, nonostante non ricorrano particolari anniversari riguardanti il musicista di St. Louis scomparso nel 2017: dell’ottimo album del bluesman Mike Zito intitolato Rock’n’Roll (con una marea di ospiti) se ne occuperà prossimamente Bruno, mentre io oggi vi parlo di questo Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry, che documenta appunto un concerto tenutosi circa un anno fa, il 13 Novembre 2018, al Tivoli Theatre di Wimborne (una cittadina nel sud dell’Inghilterra) ad opera di Ronnie Wood e dei suoi Wild Five. Dei membri attuali dei Rolling Stones Wood è sicuramente quello che negli anni è stato più attivo da solista, con più di dieci album tra studio e live (anche se un paio pubblicati prima di prendere il posto di Mick Taylor all’interno della storica band britannica), con una qualità media anche più alta di quella di Mick Jagger, cosa bizzarra se consideriamo che gli Stones molto raramente hanno consentito all’ex Faces di collaborare con loro alla stesura delle canzoni (a memoria credo non si arrivi a cinque brani, con Black Limousine come episodio più famoso).

Per questo album però Ronnie ha voluto fare qualcosa di diverso, omaggiando uno dei suoi eroi musicali di sempre, un lavoro che dovrebbe rappresentare il primo disco di una trilogia di tributi a grandi del passato che hanno avuto per il nostro un’importanza particolare (al momento non è dato sapere chi siano gli altri due artisti interessati, anche perché i relativi concerti si terranno a detta di Wood negli anni a venire: io punterei due euro sul fatto che uno possa essere Bo Diddley). Mad Lad è un album davvero piacevole e riuscito, con il nostro che assume il ruolo di band leader con buona autorevolezza, accompagnato da un gruppo, I Wild Five appunto, formato da elementi validissimi (lo strepitoso pianista Ben Waters, la sezione ritmica di Dion Egtved e Dexter Hercules, i sax di Antti Snellman e Tom Waters, ed i cori femminili di Amy Mayes e Denise Gordon); Ronnie, poi, è un chitarrista eccellente ed un cantante discreto, con una voce tra il dylaniano e lo scartavetrato: non sarà Jagger, ma tecnicamente se la cava meglio del collega Keith Richards. E poi in questo concerto Ronnie non è da solo, in quanto in tre pezzi chiama sul palco la brava Imelda May (gliel’ha presentata Jeff Beck?), che riscalda ulteriormente l’ambiente con la sua ugola scintillante https://discoclub.myblog.it/2010/11/24/musica-tradizionale-dall-irlanda-imelda-may-mayhem/ …anche se io una telefonatina all’amico Rod Stewart l’avrei fatta.

Prima di partire con la disamina del contenuto di questo album vorrei evidenziare l’unica magagna: il CD contiene 11 canzoni per circa 40 minuti di musica mentre nel concerto intero sono stati suonati 21 brani, comprendendo però anche cover di altri autori, ma almeno si potevano inserire tutti i pezzi di Berry, dato che di spazio sul dischetto ce n’era ancora (in particolare mancano Around And Around, No Particular Place To Go, Run Rudolph Run e Bye Bye Johnny, oltre a Roll Over Beethoven e Nadine che erano state suonate all’inizio dalla band senza il leader per riscaldare l’ambiente). L’album comincia con l’unico brano scritto da Wood per l’occasione, cioè Tribute To Chuck Berry, in realtà un pretesto per introdurre la serata citando ripetutamente il celebre riff chitarristico con il quale il rocker di colore apriva molte sue canzoni. I pezzi di Chuck iniziano con Talking About You, un rock’n’roll suonato con classe e rispetto, Ronnie sicuro e la band che lo segue spedita (e Waters che fa correre da subito le dita sulla tastiera a modo suo): il brano non è tra i più noti di Berry, ma l’alternanza tra classici e canzoni meno famose sarà il tema della serata.

Ronnie passa alla slide per la gustosa Mad Lad, uno strumentale suonato in maniera formidabile, con il nostro che fa i numeri e ci porta per qualche minuto nel più profondo Mississippi; arriva la May e si prende il microfono per una sontuosa Wee Wee Hours, un raffinatissimo blues lento, suonato dai Wild Five con una maestria degna di una band dei peggiori bar di Chicago, Waters strepitoso ed Imelda che ci mette una grinta notevole. La cantante irlandese resta sul palco per unirsi alle altre due coriste in una saltellante Almost Grown, in cui Wood si diverte un mondo nel botta e risposta vocale con le tre donzelle, cantando in maniera distesa e suonando la chitarra da vero rock’n’roller, mentre Waters continua con la sua eccezionale performance personale. Back In The USA è puro rock’n’roll, spigliato, trascinante e suonato come Dio comanda (e mi immagino Ronnie ad imitare il passo dell’oca di Berry), Blue Feeling è un altro strumentale di livello eccelso, puro blues con la premiata ditta Wood & Waters che è una delizia per il palato, mentre Worried Life Blues non è scritta da Chuck bensì da Maceo Merriweather (ma Berry l’aveva incisa per il lato B del singolo Bye Bye Johnny): altro blues eseguito con classe, eleganza ed uno stile misuratissimo da parte del leader.

Finale splendido a tutto rock’n’roll con un trittico da urlo formato da Little Queenie, Rock’n’Roll Music (questa ancora con la May alla voce solista) e Johnny B Goode, chiusura travolgente per un CD divertentissimo che omaggia con gusto e classe uno di quelli che il rock’n’roll lo ha letteralmente inventato.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 24. Non Uno Ma Addirittura Due Tributi A Chuck Berry In Uscita: Il Primo Di Mike Zito & Friends Il 1° Novembre, Quello Dal Vivo Di Ronnie Wood Con I Wild Five Previsto Per Il 15 Novembre

mike zito a tribute to chuck berry ronnie wood mad lad a live tribute to chuck berry

Mike Zito And Friends – A Tribute To Chuck Berry – Ruf Records – 01-11-2019

Ronnie Wood With His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry with guest Imelda May – BMG – 15-11-2019

Per scrupolo ho controllato, ma prossimamente non ricorre alcun anniversario di Chuck Berry, né della data di morte e neppure di quella di nascita, evidentemente si tratta di una coincidenza, entrambi i musicisti hanno pensato che fosse giunto il momento di dedicare un tributo al grande musicista di St. Louis, uno degli inventori del Rock And Roll, e quindi a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro pubblicano i loro CD incentrati sullo stesso argomento, le canzoni di Chuck Berry.

In effetti Mike Zito (anche se ha svolto la sua attività tra Tennessee, Louisiana e, negli ultimi anni; Texas) è nato proprio nella città del Missouri che ha dato i natali anche a Berry: chitarrista e cantante (ah già, pure l’altro) è uno dei preferiti del sottoscritto e quindi del Blog, dove le recensioni dei suoi dischi, spesso eccellenti, sono di casa, l’ultimo, lo scorso anno è stato https://discoclub.myblog.it/2018/06/02/blues-rock-veramente-di-prima-classe-mike-zito-first-class-life/ ,, ma se seguite i link all’interno del Post, a ritroso potete andare a rileggervi tutti quelli dedicati a lui..Zito è anche un ottimo produttore e spesso comunque nei suoi dischi si trova la presenza di diversi ospiti, e altri sono quelli a cui ha prestato i suoi servigi, comunque la lista di quelli presenti in questo A Tribute To Chuck Berry, in uscita per la Ruf il 1° novembre è veramente impressionante. Registrate le basi ai Marz Studios di sua proprietà, situati a Nederland (?!?) la piccola cittadina del Texas dove vive Mike, con l’aiuto dell’ingegnere del suono David Farrell, ha poi provveduto ad inoltrarli ai 21 chitarristi, dicasi ventuno, che hanno provveduto ad aggiungere le proprie parti (come si usa quando non ci sono i soldi per trovarsi tutti insieme a registrare nella stessa sala) e rispedirle a Zito, che ha poi provveduto ad assemblarle, ed il risultato finale è quello che ascolteremo tra breve.

A parte un paio di presenze di cui francamente avrei fatto a meno (Testament, Guns N’ Roses? Ma per favore) la lista degli ospiti, come detto, è veramente impressionante. I brani sono 20, perché in uno, oltre allo stesso Mike, i solisti sono due, Josh Smith e Kirk Fletcher: del nipote di Chuck, tale Charlie Berry III, ignoravo l’esistenza, ma evidentemente è un segnale di continuità col passato, però non si possono non citare Walter Trout, Joe Bonamassa, Anders Osborne, Robben Ford, Eric Gales, Luther Dickinson, Sonny Landreth, Tinsley Ellis, Tommy Castro. In ogni caso ecco la lista dei brani e dei rispettivi solisti che appaiono in ciascuna canzone. E dai due brani che potete ascoltare il risultato mi sembra veramente notevole,

1. St. Louis Blues – Charlie Berry III
2. Rock N Roll Music – Joanna Connor
3. Johnny B Goode – Walter Trout
4. Wee Wee Hours – Joe Bonamassa
5. Memphis – Anders Osborne
6. I Want To Be Your Driver – Ryan Perry
7. You Never Can Tell – Robben Ford
8. Back In The USA – Eric Gales
9. No Particular Place To Go – Jeremiah Johnson
10. Too Much Monkey Business – Luther Dickinson
11. Havana Moon – Sonny Landreth
12. Promised Land – Tinsley Ellis
13. Downbound Train – Alex Skolnick
14. Maybelline – Richard Fortus
15. School Days – Ally Venable
16. Brown Eyed Handsome Man – Josh Smith/Kirk Fletcher
17. Reeling And Rocking – Tommy Castro
18. Let It Rock – Jimmy Vivino
19. Thirty Days – Albert Castiglia
20. My Ding A Ling – Kid Andersen

Il 15 novembre invece è prevista l’uscita di Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry, un album di cui si parlava già da qualche tempo: si tratta di un concerto registrato nel 2018 al Tivoli Theatre di Wimborne, in Inghilterra, e il cui repertorio non consta integralmente di canzoni scritte da Chuck Berry, ma ci sono anche Tribute to Chuck Berry, scritta dallo stesso Ronnie Wood, Worried Life Blues di Maceo Merriweather, che era il lato B di Bye Bye Johnny..Chi cacchio suoni nel gruppo His Wild Five francamente non lo so, e forse, come ha detto qualcuno, se un tributo così lo avesse fatto l’altro gruppo in cui suona Ronnie, tali Rolling Stones, oppure se a cantare avesse chiamato quell’altro suo vecchio amico scozzese Rod Stewart, forse il risultato sarebbe stato ben altro. Comunque saggiamente Wood ha chiamato a cantare in tre bravi la bravissima vocalist irlandese Imelda May (probabilmente conosciuta tramite Jeff Beck), e al piano appare come ospite Ben Waters.

In ogni caso, come si può ascoltare qui sopra il risultato non è per nulla disprezzabile. E volendo, se avete tanti soldi, oltre alle edizioni in CD e vinile, usciranno anche delle versioni per collezionisti, una deluxe CD+LP+una artcard 12×12 dell’artwork della copertina, oppure una super deluxe con CD, LP, Stampa della parte grafica, Set List dei contenuti numerata e firmata e T-Shirt. Ecco la lista completa dei contenuti dell’album.

  1. Tribute to Chuck Berry
  2. Talking About You
  3. Mad Lad
  4. Wee Wee Hours Feat Imelda May
  5. Almost Grown Feat Imelda May
  6. Back In The USA
  7. Blue Feeling
  8. Worried Life Blues
  9. Little Queenie
  10. Rock ‘N’ Roll Music Feat Imelda May
  11. Johnny B Goode

That’s All Folks, alla prossima.

Bruno Conti

Il Classico Disco Che Non Ti Aspetti, Veramente Una Bella Sorpresa! George Benson – Walking To New Orleans

george benson walking to new orleans

George Benson – Walking To New Orleans – Mascot/Provogue

George Benson ormai non è più un giovanotto, quest’anno a marzo anche lui ha compiuto 76 anni: agli inizi di una carriera che comprende quasi una quarantina di album, questo è il numero 45, e parte proprio con una serie di dischi di jazz negli anni ‘60, in principio prevalentemente strumentali, ma poi inserendo l’uso della voce, morbida e piacevole, anche usata in modalità scat, agli albori degli anni ’70 approda alla CTI, l’etichetta di Creed Taylor, per cui registra alcuni dischi di nuovo strumentali, prima della svolta di metà anni ’70, quando firma per la Warner Bros, con la quale pubblica alcuni album che avranno un successo clamoroso ed inaspettato, a partire da Breezin’ , prodotto da Tommy LiPuma, che approda nelle classifiche di Billboard, entrando nella Top 10 e vendendo più di 3 milioni di copie, con uno stile che mescola smooth jazz e soul, dischi piacevoli e molto raffinati dove si apprezza sia la sua voce, sempre morbida ed elegante, come lpuro ’uso delle chitarre, sia Ibanez che Gibson, in grado di improvvisare all’impronta nella rivisitazione di brani anche di provenienza pop e R&B, come ad esempio nel celeberrimo doppio disco dal vivo Weekend In L.A, dove compare una cover deliziosa e, forse,  definitiva di On Broadway., la canzone all’origine dei Drifters, che grazie allo scat tra chitarra e voce di Benson è diventata una sorta di standard senza tempo https://www.youtube.com/watch?v=dQdiEe7TkfI ; ma comunque tutto il disco è estremamente gradevole e suonato in modo impeccabile, tra brani mossi e ballate sinuose.

Negli anni successivi il sound si fa più “lavorato” e commerciale, almeno per me molto meno valido ed interessante, anche se il disco in coppia con Al Jarreau e Big Boss Man con la Count Basie Orchestra non erano male. L’ultimo disco, un tributo alle canzoni di Nat King Cole, uscito nel 2013, anche grazie alla scelta del repertorio è risultato molto elegante e ben riuscito. Ora, Benson, che approda anche lui alla Mascot/Provogue, ha deciso di incidere questo Walking To New Orleans, dove rivisita alcuni pezzi di Chuck Berry e Fats Domino, una sorta di tributo a due leggende, con un tipo di sound molto rootsy, grazie alla presenza dietro la console di Kevin Shirley, il produttore di Bonamassa e Hiatt, e l’utilizzo di un gruppo, anzi proprio di un quartetto di musicisti diciamo dei “nostri”: Greg Morrow, batteria Rob McNelley, seconda chitarra, Kevin McKendree, piano e Alison Prestwood al basso,  più una sezione fiati e alcune vocalist di supporto, quindi un omaggio agli eroi della sua gioventù, eseguito con grande classe e verve, quasi inaspettato ma non per questo meno gradito. La voce, a dispetto dell’età, è forte e chiara, come dimostra subito una ripresa a tutto R&B di Nadine (Is It You?), dove la band rolla alla grande, e Benson va subito anche in modalità scat e poi di chitarra, come ai giorni migliori. .

Ain’t That A Shame è anche meglio, con il pianino vorticoso di McKendree ad omaggiare Fats Domino, mentre coriste e fiati sostengono un George veramente ispirato, grande musica, se New Orleans deve essere tanto vale farlo bene; sempre dal “Fat Man” arriva una swingante e in pieno mood New Orleans (che sembra non passare mai di moda) Rockin’ Chair, brillante l’intervento della solista di Benson che duetta sempre con il piano di McKendree. Forse non potevamo aspettarci che You Cant’t Catch Me fosse fatta alla Stones o alla Thorogood (e se vi ricorda Come Together dei Beatles, non vi state sbagliando), ma ritmo e grinta non mancano di certo, e la band e il loro capo tirano alla grande, con fiati sincopati d’ordinanza aggiunti alle procedure e un McKendree sempre scatenato, manco fosse Johnnie Johnson https://www.youtube.com/watch?v=fn1x7LC-gFI , e anche Havana Moon, sempre di Berry, è suonata con eleganza e grande raffinatezza degli arrangiamenti, mentre la chitarra di Benson non manca un colpo https://www.youtube.com/watch?v=hyAyMg8Dl1s . I Hear You Knocking è praticamente perfetta, con l’errebì anni ’50 di Fats Domino reso nuovamente alla perfezione https://www.youtube.com/watch?v=JxmkhfV-vrA , prima di scatenarsi di nuovo collettivamente a tutto R&R con una esuberante ripresa di Memphis,Tennessee ed eccellente anche la vellutata ripresa, con tanto di archi, di una raffinata Walking To New Orleans, che ha i profumi  che dovevano uscire dagli studi di Cosimo Matassa nella Louisiana degli anni ’50, e, a proposito di super classici, cosa possiamo dire di una stupenda Blue Monday, se non meravigliarci per i suoni paradisiaci che escono dalle casse dell’impianto. Forse How You’ve Changed non è uno dei brani più conosciuti di Chuck Berry, una ballata notturna tra blues e jazz, ma la versione di Benson e soci è ancora una volta da manuale, come peraltro tutto l’album. Veramente una bella sorpresa.

Bruno Conti

Torna Lo Springsteen Della Domenica: Giovane, Affamato E Già Grandissimo! Bruce Springsteen & The E Street Band – The Roxy 1975

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Bruce Springsteen & The E Street Band – The Roxy, West Hollywood, CA October 18, 1975 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Le scorse feste natalizie hanno rallentato le spedizioni e gli arrivi dei nuovi volumi degli archivi live di Bruce Springsteen (io non scarico, ordino ancora il caro vecchio CD), al punto che mi sono ritrovato in arretrato di quattro pubblicazioni, che recupererò tra oggi e le prossime settimane. La prima di esse è anche quella con la data di performance più “antica” di tutta la serie finora, e cioè il concerto del 18 Ottobre 1975 al Roxy di Los Angeles: era già uscito un live del ’75, ma si riferiva allo show di Capodanno a Philadelphia, e quindi successivo. All’epoca di questi sei concerti al Roxy (in quattro serate, quello di cui mi accingo a parlare è il primo dei due spettacoli della terza sera) Springsteen era considerato non più il futuro del rock’n’roll ma già il presente, avendo stupito l’America pochi mesi prima con la pubblicazione di Born To Run, ed essendo a pochi giorni dalla celeberrima simultanea apparizione sulle copertine di Time e Newsweek.

Gli show del Roxy sono sempre stati tra i più amati dai fans del Boss, e dopo l’ascolto di questo doppio CD (14 brani, poco meno di due ore) mi è facile capire il perché, in quanto ci troviamo di fronte ad una di quelle prestazioni che hanno creato la leggenda del nostro come live performer, una festa musicale fatta di grande rock’n’roll e di struggenti ballate, con la E Street Band che girava già a mille (erano solo in sei più Bruce, sia Patti Scialfa che Nils Lofgren sarebbero arrivati molto dopo). La serata è subito magica, con una versione intima di Thunder Road, solo Bruce alla voce e armonica e Roy Bittan al piano: è anche l’unica canzone già nota del concerto, essendo quella che apriva il famoso cofanetto quintuplo Live 1975/85; la band al completo entra per una spumeggiante ancorché sintetica (quattro minuti) Tenth Avenue Freeze-Out, per poi intrattenere il pubblico già caldo con due rimandi ai suoi esordi, una fulgida Spirit In The Night dal primo album e soprattutto, dal secondo, una splendida The E Street Shuffle di ben 14 minuti e dal mood quasi southern soul, specialmente grazie all’organo di Danny Federici ed alla slide di Little Steven, e con un finale in cui viene accennato il tema di Havin’ A Party di Sam Cooke.

Scintillante è la parola giusta per definire la cover di When You Walk In The Room (scritta da Jackie DeShannon e portata al successo dai Searchers), complice una chitarra jingle-jangle che la fa sembrare suonata dai Byrds: davvero bellissima. Dopo una fluida e coinvolgente She’s The One, brano chiaramente influenzato da Bo Diddley, il primo CD si chiude con Born To Run, che seppur con pochi mese sulle spalle è già un classico (e fa un certo effetto non trovarlo tra i bis), e con la sempre toccante 4th Of July, Asbury Park (Sandy), contraddistinta come di consueto dalla splendida fisarmonica di “Phantom Dan” Federici. Il secondo dischetto presenta le performance che rendono il concerto imperdibile: le straordinarie e potenti Backstreets e Jungleland, entrambe con uno strepitoso Bittan, già basterebbero, ma in mezzo c’è l’highlight della serata, e cioè una monumentale Kitty’s Back di ben 17 minuti, in assoluto la più bella versione da me mai sentita di questo classico minore del Boss, elettrica, pulsante, trascinante e magnifica. Finale con la poderosa Rosalita, 12 minuti, e con altre due cover che chiudono lo show: una rarissima Goin’ Back (di Carole King e Gerry Goffin), mai più suonata da Bruce dopo questi show al Roxy, e lo scatenato rock’n’roll Carol (dedicato al suo autore Chuck Berry dato che era il suo compleanno), altri sette minuti irresistibili.

Ancora un live imperdibile dunque per Bruce Springsteen: nella prossima puntata andrò avanti di qualche anno, non molti per la verità, e mi occuperò di due show che potrei definire “nucleari”.

Marco Verdi

Niente Hard Rock, Ma Il Divertimento E’ Assicurato! Ian Gillan And The Javelins

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Ian Gillan And The Javelins – Ian Gillan & The Javelins – Ear Music/Edel CD

I Javelins erano una delle varie band giovanili nelle quali aveva militato Ian Gillan ben prima di raggiungere la fama mondiale come cantante dei Deep Purple (e prima anche degli Episode Six): un gruppo che nella prima metà degli anni sessanta si esibiva nei club di Londra proponendo esclusivamente cover di rock’n’roll e rhythm’n’blues, senza mai aver lasciato alcuna testimonianza su disco. Una prima reunion della band avvenne nel 1994 con l’album Sole Agency & Representation, un lavoro composto solo da cover che però passò praticamente inosservato un po’ perché era accreditato semplicemente ai Javelins, senza specificare il nome di Gillan in copertina, ed un po’ perché Ian ed i Purple erano appena usciti a pezzi dall’ultima reunion della formazione “Mark II”, con Ritchie Blackmore che aveva abbandonato definitivamente il gruppo nel bel mezzo del tour seguito all’album The Battle Rages On. Oggi Gillan ci riprova con questo Ian Gillan And The Javelins (quindi mettendo il suo nome bene in evidenza stavolta) e, per quanto mi riguarda, centra perfettamente il bersaglio, tra l’altro riuscendo a coinvolgere tutti gli elementi originali del gruppo, che sono ancora vivi e vegeti: Gordon Fairminer alla chitarra solista, Tony Tacon alla ritmica, Tony Whitfiled al basso e Keith Roach alla batteria (e con ospiti Don Airey, attuale tastierista dei Purple, al pianoforte, ed una piccola sezione fiati).

Un disco che è da intendersi come un piccolo divertissement per Ian e compagni, ma fatto con grande classe e professionalità, con un esito finale di grande divertimento per l’ascoltatore. I sedici brani sono nuovamente tutte cover di classici più o meno noti del rock’n’roll e del soul, con un pizzico di blues, trattati con grande amore dal quintetto e con arrangiamenti del tutto rispettosi degli originali, interpretati con feeling e vitalità. Anche se negli ultimi anni Gillan ha perso un po’ di smalto soprattutto quando si tratta di affrontare le note più alte, ha pur sempre una gran voce, ed in questo disco canta splendidamente: non lo sentiamo gorgheggiare come nei Deep Purple, non avrebbe avuto senso, ma modulare la voce con misura e, perché no, classe. L’album parte con la notissima Do You Love Me  dei Contours, che coinvolge da subito: gran ritmo, accompagnamento vintage ma grintoso e Ian che canta benissimo, mantenendo la sua tipica inflessione. Abbiamo detto dei pezzi di matrice soul-errebi, che sono la maggior parte: Little Egypt (Ying-Yang) non è certo il brano più famoso dei Coasters, ma si lascia ascoltare con piacere, per contro Save The Last Dance For Me (The Drifters) è celeberrima, e Ian e soci la trattano con grande rispetto, in stile bossa nova (e che voce); Chains è più nota del gruppo che l’ha lanciata, i Cookies (ma è scritta dalla coppia Goffin-King, e poi l’hanno fatta anche i Beatles sul loro primo album), ed è un errebi trascinante e suonato in maniera deliziosamente vintage, mentre Another Saturday Night è una delle più belle canzoni di Sam Cooke, e rimane tale anche nelle mani dei Javelins, rivelandosi tra le più azzeccate dell’album.

E poi c’è Ray Charles, rappresentato da due classici assoluti, due vivaci riletture di Hallelujah I Love Her So e What I’d Say, entrambe rifatte con gusto e partecipazione (la seconda con una lunga introduzione strumentale che vede Airey protagonista indiscusso). Non manca ovviamente il rock’n’roll, come Dream Baby, con Gillan che non fa il verso a Roy Orbison ma ci mette il suo sigillo, un doppio Chuck Berry (Memphis, Tennessee, corretta ma un po’ scolastica, e Rock And Roll Music, decisamente più coinvolgente), Jerry Lee Lewis (High School Confidential, travolgente e godibilissima) e doppietta anche per Buddy Holly (la sempre splendida It’s So Easy, molto vicina all’arrangiamento originale, e la meno nota ma deliziosa Heartbeat). C’è anche un accenno al blues, e sono due tra i brani migliori del CD: You’re Gonna Ruin Me Baby è un pezzo poco noto di Lazy Lester (bluesman abbastanza oscuro, scomparso tra l’altro a fine Agosto, quindi da un paio di settimane), un brano energico e saltellante, eseguito in maniera eccellente con Ian che si cimenta pure all’armonica, e l’elettrica e grintosa Smokestack Lightnin’ (Howlin’ Wolf); chiude il dischetto un vibrante omaggio a Bo Diddley con l’immancabile Mona.

Quindi un piacevolissimo viaggio nelle origini della nostra musica, da parte di un veterano che nonostante l’età non ha perso la voglia di divertirsi.

Marco Verdi

Soprattutto Per Strettissimi Osservanti Del Garage Rock. The Shadows Of Knight – Alive In ’65

shadows of knight alive in '65

The Shadows Of Knight – Alive In 1965! – BlueRocket/Sundazed Music Mono

In questo continuo viaggio a ritroso nella musica degli Shadows Of Knight arriviamo ai primordi della band di Chicago. Nonostante la provenienza non parliamo di blues, qui siamo più in ambito garage rock, antesignano della musica psichedelica (e infatti li troviamo tra i protagonisti dei vari Nuggets), ma anche di omaggio alla musica della British Invasion e al primo rock and roll. E infatti in Alive in 1965! siamo all’incirca un anno prima della pubblicazione del loro primo album Gloria e la formazione quindi non è ancora quella definitiva. Il repertorio è composto solo di cover, dove non appare ancora il classico di Van Morrison e neppure i molti brani blues che caratterizzeranno il disco di esordio, ma nel tourbillon di canzoni che si susseguono nel concerto al Cellar Door di Arlington troviamo un piccolo Bignami della musica dell’epoca, tanto british beat ruvido e gagliardo, grinta “punk” e le prime avvisaglie di quello poi diverrà rock. La qualità del suono,  primitiva e ruvida, è comunque accettabile, direi quasi buona per un live del 1965, come in tutti i prodotti Sundazed, peccato per la voce un po’ lontana, quasi in cantina, forse perché è in Mono, ma gli strumenti sono ben definiti.

E’ ovvio che un prodotto del genere è molto di nicchia, indirizzato soprattutto agli appassionati di garage e psych, per quanto si ascolti in modo piacevole: la band è ancora embrionale, non ha sviluppato del tutto la potenza del successivo biennio 1966-1967, però  le canzoni scorrono pimpanti e veloci, 12 brani, 30 minuti scarsi in totale, ma un concerto a quei tempi durava così. Si parte con una interlocutoria Not Fade Away che finisce un po’ bruscamente, il pubblico che si intuisce pare veramente sparuto, ma la band li ripaga con una gagliarda Money (That’s What I Want) a metà strada tra Beatles e Stones, e a seguire una You Really Got Me molto fedele all’originale dei Kinks, peccato per le voci non perfettamente microfonate. Segue la presentazione della band che allora si chiamava ancora soltanto Shadows, e avrebbe cambiato nome per non confondersi con l’omonimo gruppo inglese, ottima versione a tutto riff di Carol , e una cover tra surf e garage della popolare Rawhide, ancora Chuck Berry di cui riprendono pure Memphis, Tennessee, non manca la intermission con breve sigletta musicale, prima di riprendere a darci dentro di gusto con It’s All Right.

Diciamo che la tecnica non è il loro forte ma l’entusiasmo non manca, e rispetto ai due Live del 1966 non c’è nessun brano in comune. Heart Of Stone è un altro brano degli amati Rolling Stones, uno dei rari momenti in cui il ritmo rallenta e ci scappa anche un assolo di chitarra di Warren Rogers, mentre anche i Kinks vengono nuovamente saccheggiati con All Day And All The Night. A voler proprio essere pignoli nessuno dei brani proposti si avvicina alla qualità degli originali, tutto molto minimale per quanto selvaggio, come conferma il finale con I’m A King Bee, l’unica concessione ad un blues “bastardo” e dove fa capolino perfino una slide appena accennata, nonché uno degli inni del movimento garage-psych ovvero Louie Louie che precede la stonesiana (Get Your Kicks On) Route 66 di nuovo carpita dal maestro Chuck Berry. Saluti frettolosi al pubblico, ma zero applausi e fine delle trasmissioni: un CD, lo ribadisco, indirizzato soprattutto agli stretti osservanti del garage rock.

Bruno Conti

Ancora Un Bellissimo “Bootleg” Radiofonico…Peccato Sia Solo Singolo! Tom Petty & The Heartbreakers – Strange Behaviour

tom petty strange behaviour

Tom Petty & The Heartbreakers – Strange Behaviour – Hobo CD

Come ho già avuto modo di scrivere in altre occasioni, non sono un grande fan dei CD tratti da vecchi broadcast radiofonici, in pratica dei bootleg sotto falso nome, non tanto per la qualità che spesso è eccellente, e nemmeno per il valore storico di certe performances che è indiscutibile, ma per una mera ragione finanziaria: le mie (nostre) finanze di music lover(s) sono già abbastanza provate da album nuovi, live ufficiali, edizioni celebrative e cofanetti super deluxe, e non c’è il bisogno di aggiungere altra carne sul fuoco. Uno dei rari artisti per il quale faccio, e non sempre, un’eccezione è Tom Petty, soprattutto perché con i suoi Heartbreakers dal vivo era un’autentica meraviglia: dalla tragica ed improvvisa scomparsa del biondo rocker avvenuta lo scorso Ottobre si sono ovviamente moltiplicate le uscite per così dire semi-ufficiali, ed il culmine artistico si è avuto verso la fine del 2017 con il formidabile triplo San Francisco Serenades, uno dei migliori live degli ultimi trent’anni (ignoriamo per un attimo il fatto che sia un bootleg), esaltato giustamente da Bruno su questo blog http://discoclub.myblog.it/2018/01/07/supplemento-della-domenica-il-piu-bel-disco-dal-vivo-dello-scorso-anno-anche-se-non-e-ufficiale-ed-e-registrato-nel-1997-tom-petty-and-the-heartbreakers-san-francisco-serenades/ .

Oggi vorrei parlarvi di questo Strange Behaviour, che se non raggiunge e neppure sfiora le vette del poc’anzi citato triplo CD, è comunque uno splendido live album, che ha l’unico difetto di essere singolo: registrato il 13 Settembre del 1989 a Chapel Hill (North Carolina), questa serata fa parte del tour seguito a Full Moon Fever, primo album registrato da Tom come solista (con la collaborazione di Jeff Lynne), anche se dal vivo non manca l’apporto degli inseparabili Spezzacuori. La qualità sonora è strepitosa, sembra un live ufficiale, peccato come ho già detto che non sia almeno doppio: le note del foglietto allegato al CD parlano di concerto completo, ma non credo proprio che all’epoca gli show di Tom durassero solo 72 minuti (forse si riferiscono alla parte trasmessa per radio). Inizio a tutto rock’n’roll con la trascinante Bye Bye Johnny (Chuck Berry), con Tom subito caldo e gli Heartbreakers già lanciati come treni ad alta velocità; l’incalzante The Damage You’ve Done era uno dei brani migliori del sottovalutato Let Me Up (I’ve Had Enough), un disco poco amato anche da Tom (ma a me piace), e ci dà un primo assaggio di come i nostri riuscivano a trasformare una canzone on stage: sinuoso, cadenzato e dominato dal basso pulsante di Howie Epstein, il pezzo risulta decisamente riuscito. Breakdown, uno dei classici che Tom usava per improvvisare sul palco, ha una bella intro jazzata, poi entra il brano vero e proprio per la gioia del pubblico, che ci dà dentro con il singalong; Free Fallin’ è il primo dei pezzi tratti da Full Moon Fever, e non la scopro certo io oggi: grandissima canzone, riproposta qui in maniera davvero scintillante.

The Waiting è puro Petty sound, ed è dotata di uno dei ritornelli più immediati del nostro: per l’occasione Tom la propone senza accompagnamento ritmico, solo voce e chitarre elettriche, ma poi al momento dell’assolo di Mike Campbell  entra anche il resto della band. Benmont’s Boogie è un breve showcase strumentale per l’abilità di Benmont Tench, uno dei migliori pianisti rock della nostra epoca, mentre Don’t Come Around Here No More è la chiara dimostrazione di come Tom e i suoi potevano cambiare un pezzo sul palcoscenico: un ottimo brano rock diventa una straordinaria jam di otto minuti, tra rock e psichedelia, con Campbell devastante specie nel pirotecnico finale. Southern Accents è una delle più toccanti ballate pettyiane, e qua il pubblico, anch’esso del sud, va letteralmente in visibilio; Even The Losers è invece uno dei grandi pezzi rock di Tom, che stasera decide di suonarla con un arrangiamento acustico, ed il brano non perde un grammo della sua forza (e questo è il sintomo di una grande band). Stesso trattamento viene riservato a Listen To Her Heart, in origine un pezzo di stampo byrdsiano e qui trasformato in una sorta di folk ballad, mentre A Face In The Crowd, già elettroacustica nella versione di studio, è solo un filo più lenta. Something Big non è molto nota, ma ha un bel tiro anche in questa veste “stripped-down” (stavolta anche con la sezione ritmica), mentre I Won’t Back Down (si torna elettrici) non ha bisogno di presentazioni: una delle signature songs di Tom, che soprattutto dopo la sua morte è destinata a diventare un classico della musica americana, un pezzo che non stufa nemmeno al millesimo ascolto. Finale a tutto rock’n’roll con la potente I Need To Know, il superclassico Refugee è la torrida Runnin’ Down A Dream, quasi un quarto d’ora complessivo a tutta elettricità, con Campbell assoluto protagonista.

Un altro superlativo live album che, anche se non ufficiale, ha il merito di tenere vivo il ricordo di Tom Petty, un musicista che ci manca già da morire.

Marco Verdi