Doobie Brothers 1969-2019, Cinquanta Anni Di Rock Classico Americano. Parte Prima

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Qualche giorno fa sul Blog avete letto del bellissimo live relativo al concerto dello scorso anno https://discoclub.myblog.it/2019/09/13/dopo-quasi-50-anni-ancora-insieme-per-un-concerto-esplosivo-doobie-brothers-live-from-the-beacon-theatre/ , da oggi, in due puntate, tracciamo al storia del gruppo californiano dalle origini ai giorni nostri.

Ecco la prima parte della storia dei Doobie Brothers.

Come per quasi tutte le grandi storie del rock, anche questa in effetti inizia un paio di anni prima della pubblicazione del primo album della band californiana, nel 1969. Il nucleo iniziale, ovvero Tom Johnston, cantante e chitarrista, e il batterista John Hartman (che arrivava dalla Virginia) reduce da un incontro con Skip Spence per una ipotetica reunion dei Moby Grape.  Spence comunque presentò Johnston a Hartman per quello che poi sarebbe stato appunto il nucleo dei Doobie Brothers, all’inizio un power trio che operava nell’area di San Josè, occasionalmente anche con una sezione fiati. Si sa che queste cose richiedono tempo, e colpi di fortuna, come la scelta del nome Doobie Brothers (su suggerimento di un amico della band, che propose questo nome, anche se “doobie” era un nome gergale per marijuana ) che fu adottato in attesa di trovare qualcosa di meglio, ma poi è rimasto negli anni. Nel frattempo nel gruppo era arrivato anche colui che sarebbe stato l’altro grande membro storico, ovvero Patrick Simmons, chitarrista e cantante, nativo di Washington, ma anche lui cresciuto nella zona di tra San José e Santa Cruz, oltre al primo bassista Dave Shogren, che completava il quartetto iniziale, quello che registrerà il primo album omonimo.

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The Doobie Brothers – Warner Bros 1971 – ***

Registrato tra il novembre e il dicembre del 1970, con due produttori da urlo come Lenny Waronker e Ted Templeman, il disco in effetti è abbastanza “strano”: un sound nella prima facciata molto acoustic oriented, che si staccava dall’immagine, tutta giacche di pelle e motociclette, e dal tono gagliardo delle esibizioni live, in cui soprattutto gli Hell’s Angels erano tra i loro fan più accaniti, e la band privilegiava un suono di stampo decisamente rock. Ma per l’occasione si decise di orientarsi verso un mix di chitarre acustiche, influenze country e quelle armonie vocali a tre parti, influenzate dal soul e dal gospel, oltre che dal country, che poi sono rimaste per sempre nel loro DNA.

Nobody, il primo singolo, che però fallì miseramente nelle classifiche, fu comunque un ottimo esempio di questo approccio, tanto da venire poi ripubblicato con successo nel 1974, e comunque nella seconda facciata del vecchio LP i Doobie di tanto in tanto iniziavano a fare ruggire le chitarre, come nella eccellente Feelin’ Down Farther che comincia ad introdurre quel  rock suadente e raffinato, molto “riffato” e con interventi ficcanti della solista di Johnston, come nella sinuosa e countryeggiante The Master, o nella vigorosa e bluesata Beehive State, una cover di Randy Newman con una bella coda della solista di Tom. Per il resto ci sono alcune similitudini con i primi CSN o i Grateful Dead acustici.

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Toulouse Street – Warner Bros 1972 – ****

Ma l’anno successivo, dopo il rodaggio dei primi tour americani, e con l’ingresso in formazione del nuovo bassista Tiran Porter e del secondo batterista Michael Hossack, le cose si fanno serie. Il suono della doppia batteria e il basso rotondo di Porter, ottimo anche nei suoi interventi vocali, danno profondità e grinta al suono, in più Bill Payne (amico e collaboratore fin dagli inizi, poi quasi sempre presente negli anni a venire) aggiunge il tocco magistrale delle sue tastiere, che unito alla presenza di alcuni dei classici assoluti della band fanno sì che Toulouse Street sia uno tra i migliori esempi di rock californiano (e per estensione) americano.  Listen To The Music, un inno alla pace e alla gioia, è un brano godibilissimo, cantato da Johnston, con l’aiuto di Simmons nel bridge, un riff ascendente ed irresistibile, intrecci vocali sublimi, il tocco geniale del banjo, anche in phasing, fino al finale chitarristico che tuttora nei concerti è il tripudio conclusivo. Rockin’ Down The Highway è un’altra rock song formidabile a tutte chitarre, mentre la title track Toulouse Street, firmata da Simmons, e dedicata al quartiere francese di New Orleans, è una delicata ed intricata folk song di stampo tipicamente westcoastiano.

Cotton Mouth di Seals & Crofts e Don’t Start Me To Talkin’ di Sonny Boy Williamson prevedono l’uso dei fiati, nel primo caso in un brano solare quasi alla Jimmy Buffett primo periodo, nel secondo caso in un blues-rock molto allmaniano. Jesus Is Just Alright è l’altro grandissimo successo contenuto nell’album, un brano gospel  che riceve un trattamento sontuoso alla Doobie Brothers, con interscambi vocali e strumentali di grande pregio senza perdere quel tocco magico che la band aveva all’epoca, e senza dimenticare la piacevole ballata White Sun e la lunga Disciple dove il gruppo si rivela una macchina da guerra anche in quell’ambito rock a doppia chitarra che poi svilupperanno ulteriormente nel successivo The Captain And Me. Il disco arriva “solo” al 21° posto delle charts, ma vende da subito 2 milioni di copie e prepara la strada per

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The Captain And Me – Warner Bros 1973 – ****

Prodotto come il precedente dall’ottimo Ted Templeman, che conferisce all’album un suono strepitoso. tanto che ne verrà realizzata anche una versione quadrafonica, il disco è passato alla storia (oltre che per una bella e suggestiva copertina) per i due singoli stupendi che per certi versi sono l’essenza del rock americano: Long Train Runnin’ e China Grove, entrambi scritti da Tom Johnston, con dei riff iniziali indimenticabili, poi rimasti fino ai giorni nostri nell’immaginario collettivo dell’air guitar davanti allo specchio di casa vostra, tutto è perfetto, dal giro di basso, al lavoro intrecciato della doppia batteria e della doppia chitarra, all’arrangiamento vocale, unito ad una grinta e ad una melodia impeccabili. Anche il resto dell’album, per usare un eufemismo, non è male: l’iniziale Natural Thing prende ispirazione dai Beatles, con synth e archi maneggiati con cura da Malcolm Cecil e Robert Margouleff, due geniali precursori di questo tipo di sonorità lavorate e complesse, che la coppia stava sperimentando all’epoca anche in un ambito soul con l’ispiratissimo Stevie Wonder di quegli anni, e deliziosi gli inserti delle due elettriche suonate all’unisono;

Dark Eyed Cajun Woman è un brano bluesato dove si apprezzano anche i contributi degli ospiti Bill Payne e del nuovo arrivato Jeff “Skunk” Baxter che libero dagli impegni con gli Steely Dan si aggiunge in pianta stabile alla formazione con la sua maestria a tutti i tipi di chitarra, soprattutto pedal e lap steel. Clear As The Driven Snow, di Simmons, fa un neppure troppo velato riferimento alle sostanze “ricreative” in uso dalla band, attraverso un’altra piccola perla acustica del loro songbook, che poi si anima in un finale chitarristico tiratissimo. Without You, firmata collettivamente da tutta la band, è una jam rock trasformata in canzone o viceversa, un omaggio al suono degli Who, potente ed irresistibile, con chitarre fiammeggianti, South City Midnight Lady, scritta da Simmons, è un’altra eccellente ballata con Skunk Baxter che nel finale si sbizzarrisce alla pedal steel, Evil Woman, evidentemente un titolo che piace, di nuovo di Simmons, vira ancora sul rock. Ukiah, preceduto dall’intermezzo per sola chitarra acustica Busted Down Around O’Connelley Corners, è un ulteriore esempio dell’impeccabile ispirazione che ha sostenuto la band in tutto l’album, come conferma anche la corale title track conclusiva. Un disco bellissimo che arriva al 7° posto delle classifiche e vende altre due milioni di copie, risentito oggi non ha perso un briciolo del suo fascino.

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 What Were Once Vices Are Now Habits –Warner Bros 1974 – ***1/2

Squadra vincente non si cambia e anche il quarto album vende 2 milioni di copie arrivando fino al 4° posto: forse il disco è leggermente inferiore al precedente, niente mega successi direte voi? E invece si tratta del LP che contiene Black Water, il primo brano ad arrivare al numero 1 nei singoli USA, scritta da Patrick Simmons, anche in questo caso una canzone che parte da un riff iniziale, poi elaborato in una bellissima traccia ispirata dall’amore di Pat per la musica della Louisiana e da una notevole segmento cantato a cappella, oltre al tocco di classe della viola di Novi Novog. Bill Payne non manca nel disco, come pure Baxter, a cui si aggiungono Arlo Guthrie, i Memphis Horns, James Booker e Milt Holland.  Song To See You Through è un delizioso mid-tempo in puro stile soul proprio con i Memphis Horns, molto belle anche Spirit una bella country song elettroacustica di nuovo con la viola protagonista, il classico pezzo rock alla Doobies Pursuit On 53rd Street con fiati e Bill Payne in evidenza, e anche Eyes Of Silver è un gustoso brano tra errebì e rock, con la corale Road Angel di nuovo a tutto rock chitarristico.

In You Just Can’t Stop It Simmons prova anche la strada del funky, con chitarrine e fiati impazziti, poi ribadita da Pat nella malinconica Tell Me What You Want (And I’ll Give You What You Need) con Milt Holland alle percussioni e Baxter alla pedal steel ; Down in The Track, il brano con James Booker al piano, è un altro sapido esempio di rock guizzante quasi alla Little Feat, anche se non c’è Payne. Another Park, Another Sunday è un’altra occasione per la band e Templeman per esplorare interessanti soluzioni sonore, con le chitarre che vengono fatte passare attraverso i Leslie degli ampli con risultati suggestivi, in quello che doveva essere il lato A di Black Water e molto buono pure l’ultimo contributo di Simmons nella sinuosa Daughters Of The Sea. Alla fine del 1974 Tom Johnston comincia ad avere dei problemi di salute sia per la vita on the road che per altri Vizi, ma ci regala il suo ultimo lavoro di alta qualità prima dell’ingresso di Michael Mc Donald, con il brillante album successivo Stampede.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

“Predicatori”, Ma Innamorati Del Rock Classico E Sudista Anni ’70. Barefoot Preachers – Barefoot Preachers

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Barefoot Preachers – Barefoot Preachers – Same Label               

Vengono da Nashville, Tennessee, un paio di loro suonavano negli altrettanto “oscuri” Catawompus, e come forse lascia intuire il nome “I Predicatori Scalzi” fanno parte del filone del Christian Rock, e titoli di canzoni come Celebrate, Christ On My Pocket, Church Bell Groove e Just Another Hallelujah Song, lo confermano. Ma il quartetto musicalmente si affida ad un onesto e corposo southern rock, con molti elementi di classic rock anni ’70, e grazie all’uso di armonie vocali di ottima fattura l’insieme è assai gradevole, per quanto forse prevedibile e un po’ scontato. Il dischetto, tutto firmato da Jimmy Hamilton e Douglas Gery, che sono rispettivamente il cantante e il chitarrista della band, in teoria è uscito da un annetto abbondante circa, ma visto che non è che circoli o se ne sia parlato molto, diamogli una piccola spinta per fare conoscere questo gruppo. Si diceva che il genere si potrebbe inquadrare nel filone southern, magari tipo quello degli Atlanta Rhythm Section, che avevano appunto anche molti elementi di classic rock: potrebbero ricordare anche, tra le band più recenti i Needtobreathe, che all’inizio proponevano un rock gagliardo e chitarristico, salvo poi perdersi nelle tastiere e nella elettronica danzereccia del’orrido Hard Love (per quanto il recente live acustico apra più di qualche spiraglio di speranza).

Anche i Barefoot Preachers partono bene con l’iniziale See Me Electric, un robusto pezzo rock a tutto riff, cantato con voce stentorea da Jimmy Hamilton, con l’aiuto delle belle armonie vocali del resto della band, delle tastiere aggiunte sullo sfondo e la solista di Gery che fa il suo dovere con grinta, il suono ha un retrogusto vagamente commerciale da rock FM, ma nulla di pernicioso; Celebrate è una piacevole ed energica country-rock ballad, con un impianto chitarristico elettroacustico di buona fattura, con la solista sempre pronta a prendersi i suoi spazi, ben sostenuta dalle armonie vocali corali. Niente per cui strapparsi le vesti, ma anche quando il sound si fa più zuccherino come nella melodica I’m What It Looks Like non si scende comunque sotto il livello di guardia, anche se il suono becero della Nashville mainstream è giusto dietro l’angolo, ma gli elementi southern rimangono sempre prevalenti, come nella vivace Christ On My Pocket, portatrice oltre che di buoni sentimenti religiosi anche di buon rock americano sudista dalle chitarre distese. What If? alza ulteriormente il tiro rock che vira quasi verso il boogie, la band ci dà dentro di gusto con qualche elemento funky aggiunto al menu sonoro, ricco delle solite chitarre roboanti.

Le campane all’inizio di Church Bell Groove suonano ancora per chiamare a raccolta gli amanti del rock americano anni ’70, mentre Hamilton e Gery si fronteggiano sempre con grinta al centro del suono,  Love Is everything dopo un inizio acustico alquanto “ruffianetto” si perde in un arrangiamento un po’ banalotto, anche se la pimpante chitarra di Gery e le belle armonie vocali vengono in soccorso. Just Another Hallelujah Song introduce un riff tentatore alla Stones al Christian rock assai piacevole e corale della band, il classico brano da spararsi a tutto volume in macchina su qualche highway americana; Wait For You è una raffinata country ballad che poi vira forse in modo fin troppo ripetitivo nella ricerca di ganci melodici all’interno del“ solito” rock radiofonico tipico dei Barefoot Preachers, sempre scongiurando derive più becere, evitate per un pelo anche nella conclusiva Baggage Claim, dove i consueti intricati intrecci vocali rimangono un punto di forza della band, a fianco delle fiammate chitarristiche. Insomma se amate questo genere di rock americano targato anni ’70 e siete in crisi di astinenza, questo è un album che potrebbe fare al vostro caso.

Bruno Conti

Forse Più Rock “Sudista” Britannico Che Blues, Ma Non Sono Affatto Male. Wille And The Bandits – Steal

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Wille And The Bandits – Steal Jig-Saw Music

Vengono dall’estremo sud del Regno Unito, Devon, Cornovaglia, sono un trio, guidato dal chitarrista e cantante Wille (senza la i) Edwards, con Matt Brooks al basso e Andrew Naumann alla batteria: hanno pubblicato sinora quattro album, compreso questo Steal. Tra le loro influenze citano Ben Harper e Pearl Jam, ma anche Jimi Hendrix e i gruppi power-rock in generale. Varie volte indicati tra le migliori giovani band senza contratto e tra le attrazioni più interessanti del circuito live britannico https://www.youtube.com/watch?v=OIZ4U0fsHZE , sono tra i tanti che cercano di emergere, con passione e buona attitudine, nell’attuale scena blues-rock inglese. La presenza di Don Airey, all’organo e alle tastiere in tre pezzi di questo album (uno che ha suonato con chiunque, da Deep Purple e Black Sabbath, passando per Gary Moore e Whitesnake), indica che nel DNA di Wille And The Bandist, c’è anche parecchio hard-rock, e, secondo le loro biografie, pure folk (hanno partecipato anche a Cropredy) https://www.youtube.com/watch?v=Zs6s2rj9pm0 , roots music, blues e latin rock, praticamente a parte il tex-mex e il ballo liscio, qualsiasi genere musicale.

Detto che queste liste spesso lasciano il tempo che trovano, direi che applicando il sistema San Tommaso o Guido Angeli, ossia provare per credere, la prima cosa che si rileva è che Wille Edwards è un eccellente chitarrista, oltre che all’elettrica molto efficace anche a dobro, Lap Steel e Weissenborn, come evidenziato nell’iniziale Miles Away, dove il nostro si disimpegna con classe tra slide, Weissenborn, ed elettrica (con un eccellente assolo di wah-wah), mentre il resto del gruppo, compreso Airey all’organo, confeziona del sano rock targato ‘70’s, duro ma ben suonato, Anche Hot Rocks non è male, buona voce e sound ad alta densità di riff, molto Deep Purple ma non disprezzabile, energia e grinta non mancano e quando Edwards inizia a lavorare la sua solista veniamo catapultati nel vecchio sano rock progressivo inglese dei tempi che furono, neppure tanto rinnovato ma di buon valore.

Sacred Of The Sun, di nuovo con Airey all’organo e tastiere rimane in questo hard-rock classico e raffinato, in una sorta di ideale ponte con le formazioni dell’epoca d’oro del genere. Ai giorni d’oggi pensate a Blues Pills, Black Mountain, All Them Witches, No Sinner, Rival Sons, i vari gruppi della Grooveyard, la scelta è ampia. Se avevate dei dubbi, c’è persino un brano che si intitola 1970 che pare uscito da qualche vecchio vinile dei Free, o meglio ancora dei Bad Company, con Wille che “maltratta” la sua solista con e senza bottleneck, anche con elementi southern nel sound, d’altronde se non sono “sudisti” loro che vengono dalla Cornovaglia.

Atoned parte su un assolo di basso, poi diventa un pezzo dei “Deep Zeppelin”, un po’ come fanno spesso i Black Country Communion, che però hanno un’altra classe, anche se come potenza di suono e genere ci siamo e poi Edwards è un virtuoso dello stile slide; ma anche quando i tempi rallentano, come nell’elettroacustica Crossfire Memories, e il suono di dobro e Weissenborn, oltre alle tastiere di Airey, si presenta in prima linea, la band conferma la sua validità anche in questa dimensione più intima. Our World rimane su questa lunghezza d’onda, che per certi versi richiama lo stile del citato all’inizio Ben Harper, acustico ma con improvvise sferzate elettriche. Insomma, come dice il titolo, “rubano” qui e là, ma lo fanno con buoni risultati, come certificano anche le conclusive Living Free, un blues nuovamente con elementi rootsy e qualche influenza dei Zeppelin meno “feroci”, grazie alla riuscita miscela di strumenti elettrici ed acustici, e soprattutto la lunga Bad News, altro pezzo di buona fattura, che dopo una introduzione raccolta esplode in un classico ed epico hard-rock, dove si apprezzano nuovamente le tastiere di Don Airey, e se il cantato di Wille Edwards è forse per l’occasione fin troppo sopra le righe, il suo lavoro alla solista è sempre di notevole efficacia. In definitiva, come detto all’inizio, a parte il liscio, il resto direi che c’è tutto.

Bruno Conti