Ci E’ Andata Anche Bene: Poteva Farlo Triplo! Morgan Wallen – Dangerous: The Double Album

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Morgan Wallen – Dangerous: The Double Album – Big Loud/Universal CD

A parte i dischi dal vivo, la pubblicazione di un album doppio è sempre stato un rischio sia per gli artisti che per le etichette discografiche. Certo, la storia del rock ha avuto diversi doppi che sono diventati capolavori immortali (Blonde On Blonde, The White Album, Electric Ladyland, Tommy, Exile On Main Street, The River) o comunque lavori di altissimo livello (Freak Out, Goodbye Yellow Brick Road, London Calling, The Wall, Tusk, Physical Graffiti), ma in generale si è sempre cercato di evitare una tipologia di pubblicazione problematica da gestire in quanto non è già facile garantire una qualità media alta in un disco singolo, figuriamoci in un doppio. E’ per questo che negli ultimi anni, anche per la lunghezza maggiore del CD rispetto all’LP, la pratica è quasi caduta in disuso (uno degli ultimi esempi è l’ottimo Hymns To The Silence di Van Morrison, che però risale ormai a trenta anni fa), e se artisti affermati non hanno più voglia di azzardare il formato multiplo, potete immaginare la mia sorpresa quando mi sono trovato per le mani il secondo album dell’ancora non conosciutissimo Morgan Wallen, un country singer che con il primo album If I Knew del 2018 ha subito fatto il botto andando al numero uno, ma che comunque non è ancora di certo una superstar da cui aspettarsi un doppio CD.

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E Dangerous: The Double Album (titolo quanto mai appropriato) è proprio questo: un lavoro decisamente lungo, trenta canzoni per cento minuti totali di musica, una mossa parecchio rischiosa dal punto di vista commerciale, ed ancora più strana perché ad avallarla è la Universal. Prodotto come il debutto da Joey Moi, Dangerous ci mostra quindi tutto lo spettro musicale di Wallen, un giovane musicista che però è depositario di un suono perfetto per le radio di settore e tipicamente nashvilliano, country sì ma con robuste iniezioni di pop. C’è da dire che le varie canzoni galleggiano tra il sufficiente e discreto in quanto gli arrangiamenti non sono esageratamente commerciali (niente schifezze alla Keith Urban quindi, a parte forse la “poppettara” Warning ed un paio di altre cosucce), ma a mio giudizio trenta brani sono veramente troppi, specie quando abbiamo a che fare con un artista che comunque non eccelle in personalità e carisma, ma anche per il fatto che Dangerous è al 75% un disco di ballate, che dopo un po’ finiscono con l’assomigliarsi tutte.

NASHVILLE, TENNESSEE: (FOR EDITORIAL USE ONLY) Morgan Wallen performs onstage at Nashville’s Music City Center for “The 54th Annual CMA Awards” broadcast on Wednesday, November 11, 2020 in Nashville, Tennessee. (Photo by Terry Wyatt/Getty Images for CMA)

NASHVILLE, TENNESSEE: (FOR EDITORIAL USE ONLY) Morgan Wallen performs onstage at Nashville’s Music City Center for “The 54th Annual CMA Awards” broadcast on Wednesday, November 11, 2020 in Nashville, Tennessee. (Photo by Terry Wyatt/Getty Images for CMA)

Qualche episodio che si eleva dalla media c’è, come l’iniziale Sand In My Boots, country ballad intensa dal mood toccante (forse la migliore del doppio) https://www.youtube.com/watch?v=ICWZfdZ5XI4 , l’elettrica More Suprised Than Me, con un refrain piacevole, la fluida Neon Eyes, Only Thing That’s Gone, con la seconda voce di Chris Stapleton a nobilitare un brano piuttosto nella norma https://www.youtube.com/watch?v=eiW_OPoM_SQ , una discreta rilettura di Cover Me Up di Jason Isbell https://www.youtube.com/watch?v=1RnChOf8RTs , le solari e rilassate 7 Summers e More Than My Hometown, l’ariosa Me On Whiskey, il gustoso rockin’ country Need A Boat https://www.youtube.com/watch?v=4uPUm4-RPTE  e l’acustica e gradevole Quittin’ Time. Il resto è musica dignitosa anche se lontana dal vero country e poi, ripeto, è abbastanza faticoso arrivare fino in fondo. Tre stelle quindi per il coraggio a Morgan Wallen, ma in tutta onestà devo ammettere che Dangerous: The Double Album è il classico disco che viene dimenticato sugli scaffali dopo un solo ascolto.

Marco Verdi

Un Lavoro Fatto Con L’Amore Dei Fans. The Steel Wheels – Everyone A Song Vol. One

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The Steel Wheels – Everyone A Song Vol. One – Big Ring CD

Pur non essendo mai entrati nelle parti alte della classifica, gli Steel Wheels sono ormai uno dei più affermati gruppi roots americani essendo in giro da più di quindici anni. Originari delle Blue Ridge Mountains in Virginia, i nostri fanno parte dell’apprezzato movimento delle “string bands” che ha come capostipiti Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turtles, anche se il loro approccio non è del tutto tradizionale dal momento che amano inserire spesso e volentieri una strumentazione elettrica, per non dire rock. Nel 2020 il quintetto (Trent Wagler, voce, chitarra e banjo, Jay Lapp, mandolino e chitarra, Eric Brubaker, violino, Brian Dickel, basso e Kevin Garcia, batteria e tastiere) non aveva in programma un nuovo album, dal momento che Over The Trees era ancora abbastanza recente, ma la pandemia ed il lockdown hanno dato al gruppo una brillante idea: hanno infatti aperto una piattaforma online a disposizione dei fans, ognuno dei quali avrebbe postato la richiesta di una canzone da dedicare ad una persona amata o ad un parente o amico portato via dal virus, canzone che poi la band avrebbe dovuto appositamente scrivere ed incidere.

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L’iniziativa, decisamente originale e lodevole, ha avuto un bel successo, cosa che ha “costretto” i nostri a scrivere più canzoni del previsto e ad inciderle rispettando le regole del lockdown (quindi ognuno a casa sua, per poi mixare tutto alla fine): Everyone A Song Vol. One è dunque la prima testimonianza tangibile di questa bella iniziativa, un dischetto nel tipico stile degli Steel Wheels, ma con i testi personalizzati a seconda del destinatario, che è stato anche diligentemente indicato sul retro della confezione. Nove belle canzoni, spesso malinconiche visti i presupposti non certamente allegri, ma che in più di una occasione sono portatrici di un gradito raggio di sole. L’iniziale My Name Is Sharon è una rock ballad suonata con strumenti tradizionali (ma non mancano né la sezione ritmica né la chitarra elettrica), con un motivo corale di matrice folk lento e nostalgico ed il violino ad insinuarsi nelle pieghe del suono https://www.youtube.com/watch?v=Nv_SaDhCvJc . The Healer, tra folk e bluegrass, è guidata da banjo, mandolino e violino e conserva una certa malinconia di fondo, al contrario di Don’t Want To come Back Down che pur mantenendo un ritmo lento ha un background sonoro solare e leggermente reggae.

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The Man Who Holds Up The World è un pezzo godibile che fonde molto bene country, folk ed un pizzico di cajun (vedo l’influenza della Band), voci limpide e melodia diretta e piacevole https://www.youtube.com/watch?v=tNfx4dwz34s , Water And Sky è nuovamente uno slow ma stavolta lo script è di qualità superiore, una splendida via di mezzo tra una folk song alla Woody Guthrie ed il brano Evangeline appunto della Band, mentre Florida Girl (Work For It) è una rock ballad elettrificata con un suggestivo uso delle voci ed un accompagnamento decisamente “californiano” https://www.youtube.com/watch?v=9n0fNUWdPbw . Lucy è country-grass puro e limpido, con i nostri che dopo un inizio attendista si lanciano in una canzone dal ritmo acceso e coinvolgente, e precede le conclusive Genevieve, altra ballatona di grande spessore, struggente e bellissima https://www.youtube.com/watch?v=SdhDop9xy5Y , e l’acustica e profonda Family Is Power, contraddistinta dall’ennesimo motivo di ottimo livello. Un dischetto riuscito ed originale quindi, scaturito da una encomiabile iniziativa che ha permesso agli Steel Wheels di stare vicino ai propri fans nonostante il distanziamento obbligato.

Marco Verdi

Un Affettuoso Tributo Al Figlio Scomparso, Nonché Un Bellissimo Disco. Steve Earle & The Dukes – J.T. Esce In CD Il 19 Marzo

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Steve Earle & The Dukes – J.T. – New West Download – CD/LP 19/03/21

Quando la scorsa estate, nel mese di agosto, il giorno 21 si è diffusa la notizia della morte di Justin Townes Earle, non si può dire che siamo rimasti molto sorpresi, purtroppo: il figlio di Steve Earle aveva avuto una lunghissima storia con la dipendenza da droghe, già iniziata quando aveva dodici anni e continuata per moltissimi anni, come lui stesso aveva dichiarato, “Avevo scoperto presto che il mio modo di approcciarmi alle cose della vita mi avrebbe messo nei guai, ma ho continuato a farlo, perché ho continuato per lungo tempo a credere nel mito che per creare grande arte dovevo distruggere me stesso”. E con perversa pervicacia ha continuato a farlo, nonostante ben nove ricoveri in cliniche di riabilitazione ogni volta ci ricascava, a brevi periodi di sobrietà ne seguivano altri dove i suoi fantasmi riprendevano a perseguitarlo; neppure la nascita della figlia Etta St. James Earle nel 2017 è riuscita a salvarlo. Proprio ad un trust destinato a raccogliere fondi per permettere alla figlia di raggiungere un futuro più sereno saranno destinati i proventi di questo J.T., il disco che Steve Earle ha voluto registrare in memoria del figlio e delle sue canzoni.

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E’ sempre devastante e triste quanto un padre sopravvive al figlio, specie se proprio lui è stato il “modello” con il quale Justin Townes ha dovuto misurare la propria vita: e non deve essere stato facile registrare un terzo album dedicato alle canzoni di un musicista che non c’è più, dopo Townes del 2009, dedicato a Townes Van Zandt e Guy, uscito nel 2017, ed incentrato sulle canzoni di Guy Clark, ecco J.T., altro titolo breve ed affettuoso che rivisita il repertorio del figlio attraverso alcune delle sue canzoni. Con la sola eccezione della canzone Last Words, scritta dalla stesso Earle, una canzone dalla bellezza dolorosa, quasi devastante, non dissimile da tante altre del suo repertorio, ma che in questo contesto assume una forza ancora maggiore, grazie anche alla maestria dei Dukes che lo hanno accompagnato in questo disco, e in questo brano in particolare il dobro di Ricky Ray Jackson che sottolinea lo scarno accompagnamento di una chitarra acustica e del violino della bravissima Eleanor Whitmore, che insieme a Chris Masterson, chitarre e mandolino e Jeff Hill, basso e contrabbaso, e Brad Pemberton, batteria, sono sublimi in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=RR2XPOYqSZI , Steve la canta con voce scarna e ruvida, ancora più dolente del solito e che nel verso finale “I Love you too” è ancora più struggente.

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Justin Townes Earle forse, anzi sicuramente, non ha mai raggiunto i vertici del padre, ma nel corso dei suoi album ha scritto parecchie belle canzoni che Steve rivisita con orgoglio e classe nel suo stile: dall’honky-tonk dai profumi bluegrass della spensierata I Don’t Care, con la seconda voce della Whitmore https://www.youtube.com/watch?v=PzFAztmFYXQ , al country-blues con uso di pedal steel di Ain’t Glad I’m Leaving che rimanda ai suoi migliori dischi, passando per il country-rock ruspante ed elettrico della vibrante Maria.. E ancora la delicata e splendida ballata Far Way In Another Town, con la Whitmore che passa all’organo e Jackson alla pedal steel, oltre a Masterson alla solista, creano una superba atmosfera sudista, mentre They Killed John Henry è uno di quei brani narrativi dal sapore folk in cui Earle (già ma quale?) eccelle https://www.youtube.com/watch?v=1TGssyFJAuk . La quasi profetica Turn Out My Lights è un’altra ballata costruita sulla acustica arpeggiata, la solita steel e il violino straziante della Whitmore; la rabbiosa Lone Pine Hill si dibatte tra echi dylaniani grazie al guizzante violino e ritmi più incalzanti da perfetto outlaw country https://www.youtube.com/watch?v=fRsPjoIC8lI , in parte ribaditi anche nella scandita Champagne Corolla, che però vira verso atmosfere più bluesate, grazie alla elettrica pungente di Masterson e alla ritmica più scandita e cattiva https://www.youtube.com/watch?v=JLYKGOeTSWo .

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The Saint Of Lost Causes (bellissimo titolo) è giustamente considerata una delle canzoni più belle di Justin Townes, una versione dall’alto tasso di intensità che mi ha ricordato certe ballate feroci di Lucinda Williams, con atmosfere sospese e minacciose, sferzate dalle chitarre e dal violino e un cantato quasi febbrile e “incazzato” di Steve https://www.youtube.com/watch?v=xeqGCbo6pFo . E infine Harlem River Blues, tra country e folk con echi fortissimi della musica texana di Guy Clark, Jerry Jeff Walker e soci, ma anche l’amore per il folk-rock dello Steve Earle più ispirato https://www.youtube.com/watch?v=YaK9ZLqqHRI . Veramente un disco bellissimo e un tributo affettuoso a questo figlio scomparso.

Bruno Conti

Un Piacevole Lavoro Di Moderno Bluegrass. Ray Cardwell – Just A Little Rain

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Ray Cardwell – Just A Little Rain – Bonfire CD

Ray Cardwell è un musicista figlio d’arte originario del Missouri: suo padre, Marvin Cardwell, negli anni sessanta era a capo di un gruppo bluegrass, e questo ha trasmesso al figlio la passione per quel genere fin dai primi anni. Ray ha poi iniziato a scrivere canzoni e a girare l’America con diversi gruppi fin dalla metà dei seventies, intraprendendo una vita quasi da nomade che lo ha portato a vivere in diverse città per poi tornare in Missouri allorquando ha messo su famiglia. Una gavetta lunghissima se pensiamo che Ray è riuscito soltanto nel 2017 a pubblicare il suo album d’esordio Tennessee Moon, facendolo seguire due anni dopo da Stand On My Own, due lavori che hanno attirato l’attenzione a livello locale per quanto riguarda la musica bluegrass. Ray infatti ha deciso di continuare l’opera del padre, ma aggiungendo un tocco personale: il genitore infatti aveva un approccio decisamente tradizionale con il tipo di musica proposta, mentre Ray ha optato per un taglio più moderno per quanto riguarda la struttura compositiva, dal momento che dal punto di vista strumentale le sonorità sono assolutamente vintage.

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Just A Little Rain, terzo e nuovo album del nostro, è perfettamente indicativo di quanto sto dicendo: dieci canzoni (otto nuove più due cover) che dal punto di vista sonoro non vanno oltre la classica configurazione tipica del bluegrass, un quartetto formato da chitarra, banjo, violino e mandolino, con Cardwell al basso (e non c’è la batteria), mentre dal lato compositivo la scrittura è attuale, contemporanea. Ed il disco è godibile dall’inizio alla fine, poco più di mezz’ora di musica pura suonata con grande perizia e con ottime armonie vocali che sono il vero quid in più che fa di Just A Little Rain un album che non deluderà gli appassionati del genere. Prendete l’introduttiva e vivace The Grass Is Greener: l’accompagnamento è tradizionale al 100% con le voci amalgamate alla perfezione, ma lo script è moderno ed il brano si reggerebbe sulle proprie gambe anche con una base strumentale rock. Standing On The Rock è la cover di un pezzo degli Ozark Mountain Daredevils, puro bluegrass godibile dalla prima all’ultima nota con assoli a raffica dei vari strumenti, ed anche se la melodia originale è di matrice blues qui siamo idealmente in piena mountain music. La creatività del nostro spicca ancora di più nella seguente rilettura del classico di Al Green Take Me To The River, canzone che qui viene spogliata dei suoi elementi soul-errebi per diventare una folk song di stampo tradizionale dal sapore d’altri tempi, con Ray che canta con voce limpida https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk .

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I Won’t Send You Flowers è una delicata ballad, una country tune moderna  in tutto e per tutto contraddistinta da un motivo toccante, ma con Born To Do siamo ancora in pieno bluegrass a tutto ritmo nonostante l’assenza della batteria, ed il brano è quasi un pretesto per lanciarsi in assoli al fulmicotone. La title track inizia come uno slow attendista, poi il tempo si fa più veloce ed il pezzo si tramuta in una riuscita miscela tra folk e blues; Rising Sun ricorda un po’ la Nitty Gritty Dirt Band più tradizionale, puro country nobilitato da un refrain diretto ed immediato https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk , mentre Shoulda Known Better è dotata di un motivo splendido, legato a doppio filo alle canzoni di settanta e più anni fa. Il dischetto si conclude con Thief In The Night, altra bluegrass tune suonata ai cento all’ora, e con la lenta e malinconica Constant State Of Grace (scritta insieme a Darrell Scott), che ha uno sviluppo melodico simile a certe cose di Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=FGI3uBuToyE . Ray Cardwell è quindi un musicista da tenere d’occhio, in quanto riesce a rendere attuale un genere musicale legato al passato grazie ad una scrittura piacevole e moderna.

Marco Verdi

Un Disco “Californiano” Per Una Veterana Di Nashville. Elizabeth Cook – Aftermath

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Elizabeth Cook – Aftermath – Agent Love/Thirty Tigers CD

Elizabeth Cook, singer-songwriter originaria della Florida, ha raggiunto nel 2020 i venti anni di carriera, due decadi nelle quali si è costruita un discreto seguito di fans grazie anche alla conduzione di uno show alla radio abbastanza popolare ed al fatto di essersi esibita per più di 400 volte alla mitica Grand Ole Opry di Nashville. I suoi sei album pubblicati tra il 2000 ed il 2016 hanno venduto bene pur non avendo raggiunto cifre stellari, e questo è dovuto principalmente al fatto che Elizabeth ha sempre voluto proporre una country music di qualità, certo con un occhio alla fruibilità radiofonica ma senza ricorrere a sonorità pop commerciali, anzi al contrario facendo spesso uso di arrangiamenti di stampo rock. Un chiaro esempio in tal senso è il nuovo album di Elizabeth, Aftermath (che arriva a quattro anni da Exodus Of Venus https://discoclub.myblog.it/2016/08/13/recuperi-estivi-gruppetto-voci-femminili-3-se-country-voglio-dischi-cosi-elizabeth-cook-exodus-of-venus/ ), un disco che più che country ha influenze pop-rock californiane, con una produzione solida a cura di Butch Walker ed un suono forte ed elettrico.

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La Cook è una brava songwriter e possiede una voce personale e grintosa, e questo nuovo lavoro mi ha ricordato in parte l’ultimo album di Margo Price, non come qualità di canzoni che qua è leggermente inferiore ma come tipo di sonorità: ogni tanto Elizabeth si fa prendere un po’ la mano ed in un paio di pezzi il sound è un po’ gonfio, ma va detto che non si scivola mai sotto il livello di guardia. L’iniziale Bones per esempio è quasi spiazzante, in quanto siamo di fronte ad una rock song elettrica dalle pieghe quasi psichedeliche e con un riff di stampo orientaleggiante, il tutto suonato con vigore da un manipolo di sessionmen sconosciuti ma indubbiamente validi https://www.youtube.com/watch?v=x3acSKlelJk . Con Perfect Girls Of Pop si ritorna con i piedi per terra per un pop-rock chitarristico dal ritmo spedito e melodia orecchiabile (il sound è di chiara matrice californiana, figlio di Tom Pettyhttps://www.youtube.com/watch?v=bAFyqfH36v0 , Bad Decisions è un midtempo cadenzato ancora tra pop e rock con un refrain immediato e strumentazione classica: non mi straccio le vesti se il suono è poco country, dal momento che stiamo comunque parlando di musica di qualità https://www.youtube.com/watch?v=J-rDhujsw60 .

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Daddy, I Got Love For You è una ballata davvero splendida sfiorata ancora dal rock ma con un motivo decisamente toccante ed un bel pathos di fondo  , a differenza della mossa Bayonette che ha un approccio strumentale godibile a base di piano e slide e la solita linea melodica piacevole che mette tutti d’accordo, mentre la limpida ed evocativa These Days ha un’atmosfera più country grazie al bellissimo uso della steel in sottofondo: la vedrei bene in un moderno film western. Stanley By God Terry è pop-rock di classe, ancora con la California sullo sfondo (praticamente ho tracciato il ritratto di Stevie Nickshttps://www.youtube.com/watch?v=XU71cez1y7A , Half Hanged Mary è l’ennesima rock song ben costruita, eseguita in maniera impeccabile e cantata con voce espressiva, When She Comes è più attendista e meno appariscente, ma dopo un paio di ascolti “arriva” anche lei. Il CD si chiude dopo cinquanta godibili minuti con Thick Georgia Woman, altro accattivante brano a metà tra rock e pop ed un mood trascinante https://www.youtube.com/watch?v=gaOI5djV36k , la languida ballata Two Chords And A Lie, nettamente la più country del lotto https://www.youtube.com/watch?v=mWDE4zrJQnM , e l’inatteso finale a tutto folk per voce e chitarra di Mary, The Submissing Years, un talkin’ vecchio stile con un chiaro rimando allo stile del grande John Prine, fin dal titolo che fa riferimento alla nota Jesus, The Missing Years. Bel disco, Mrs. Cook.

Marco Verdi

Tornano “Quella” Voce E “Quelle” Canzoni, In Versione Country-Pop. Barry Gibb – Greenfields Vol. 1

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Barry Gibb – Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol. 1 – Capitol/Universal CD

I Bee Gees sono stati senza dubbio uno dei gruppi più popolari di sempre e tra i pochi, insieme a Beatles, Rolling Stones e ABBA, ad essere conosciuti anche da chi compra sì e no un disco all’anno. Personalmente sono un estimatore del loro primo periodo, diciamo dal 1966 al 1971/72, quando i tre (i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb) erano fautori di un pop decisamente piacevole, elegante e melodicamente delizioso, prima di edulcorare in maniera eccessiva la loro proposta negli anni successivi fino a diventare nella seconda parte della decade i profeti assoluti della discomusic vendendo dischi a palate, per poi gestire la parte finale di carriera con una serie di album di pop commerciale abbastanza prescindibili. Barry è oggi rimasto l’ultimo dei fratelli ancora in vita dopo la scomparsa di Maurice nel 2003 e di Robin nel 2012 (mentre Andy, il quarto fratello che però non aveva mai fatto parte del gruppo, è morto appena trentenne nel 1988), ed invece di godersi una dorata pensione ha deciso di rifarsi vivo un po’ a sorpresa con un nuovo album.

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Anche se non si direbbe, Barry è sempre stato un appassionato di country e bluegrass, ed è proprio con un disco di country che ha deciso di tornare: tutto è avvenuto quando suo figlio Stephen, anch’egli musicista, gli ha fatto ascoltare una canzone di Chris Stapleton, brano che a Gibb Sr. è piaciuto così tanto da voler contattare subito il produttore Dave Cobb. I due hanno avuto l’idea di recarsi presso i mitici RCA Studios di Nashville ad incidere vecchie canzoni del songbook dei Bee Gees con nuovi arrangiamenti di stampo country-Americana e soprattutto con l’aiuto di numerosi musicisti di gran nome che hanno accettato di buon grado di duettare con Barry. Il risultato è Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol 1, dodici rivisitazioni di canzoni decisamente famose, alcune meno note ed anche un brano inedito, ad opera di un Barry in buona forma ed ancora titolare di una bella voce e di una serie di partner di indubbio livello (ma Stapleton non c’è, anche se quel Vol. 1 nel titolo lascia presagire un seguito), il tutto con l’ormai affidabilissima regia di Cobb, che ha cercato di togliere ai classici del nostro quella patina di pop radiofonico donando loro un sapore più americano, riuscendoci però solo in parte dal momento che, probabilmente, Gibb non se l’è sentita di abbandonare del tutto certe dinamiche musicali tipiche sue.

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Greenfields è comunque un album molto piacevole e ben fatto in cui il tasso zuccherino si alza notevolmente solo in due o tre brani, dimostrando che spesso il problema coi Bee Gees non erano le canzoni ma la loro veste sonora (va però detto che il periodo “disco” qui si limita ad un paio di ballate, e la maggior parte dei pezzi proviene dai primi anni della band). Il CD inizia bene con la classica I’ve Gotta Get A Message To You in una versione decisamente bella, fluida e suonata alla grande, dove perfino uno come Keith Urban riesce a non fare danni ricordandosi di avere comunque una buona voce https://www.youtube.com/watch?v=1mocrPhJBSM . Words Of A Fool è un inedito degli anni ottanta, uno slow profondo ed intenso dalla melodia splendida e con un organo a dare un sapore quasi southern soul, con l’aggiunta della voce e chitarra di Jason Isbell ad alzare ulteriormente il livello https://www.youtube.com/watch?v=OiBXS7q4qqY ; Run To Me è una delle ballate più belle dei Bee Gees, e qui viene nobilitata dalla bellissima voce di Brandi Carlile (sempre più brava ogni anno che passa), mentre l’arrangiamento è pop ma di gran classe. Too Much Heaven viceversa non mi ha mai fatto impazzire, troppo sofisticata per i miei gusti https://www.youtube.com/watch?v=PMOtZNeXUyU , e questo duetto tra Barry ed Alison Krauss non mi fa cambiare idea nonostante la voce splendida della cantante-violinista, ed inoltre gli archi sono piuttosto pesanti.

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Meglio la poco nota Lonely Days, in cui Gibb è doppiato dalle voci dei Little Big Town, uno slow pianistico che nel ritornello aumenta di ritmo ed è potenziato da una vigorosa sezione fiati; la famosa Words vede il nostro accompagnato da Dolly Parton per una rilettura di buona intensità ed un arrangiamento elegante tra country e pop https://www.youtube.com/watch?v=GnJqrLALsOc , mentre nella funkeggiante Jive Talkin’ Barry è raggiunto dalla strana coppia formata da Miranda Lambert e Jay Buchanan (cantante del gruppo hard rock Rival Sons, amici e protetti di Cobb), ma il trio funziona abbastanza bene. How Deep Is Your Love la conoscono anche i sassi: versione riuscita e piacevole, con il ritorno dei Little Big Town alle armonie vocali ed il cameo alla chitarra acustica del grande Tommy Emmanuel; Sheryl Crow non manca mai in dischi di questo tipo, ma è brava e fa di tutto per migliorare How Can You Mend A Broken Heart che non è un grande brano ed il suono è fin troppo raffinato. Per contro To Love Somebody è un capolavoro, forse la miglior canzone dei Bee Gees (ricordo una splendida rilettura dei Flying Burrito Brothers), e rimane bellissima comunque la si faccia (per la cronaca qui Barry è ancora con Buchanan) https://www.youtube.com/watch?v=b_kEQ9r-zuw . Finale con due rarità: Rest Your Love On Me (era un lato B dei fratelli Gibb), una discreta ballata nella quale ritroviamo la rediviva Olivia Newton-John, e Butterfly che è la prima canzone in assoluto scritta da Barry, Robin e Maurice ed è riproposta in una bellissima versione elettroacustica cantata a tre voci con Gillian Welch e David Rawlings: se tutto Greenfields fosse stato a questo livello avrebbe meritato le fatidiche quattro stellette https://www.youtube.com/watch?v=I12Ng0fz2ak . Invece dobbiamo “accontentarci” di un comunque piacevole compromesso tra il suono roots di Cobb e l’anima easy listening di Gibb, che in ogni caso è la cosa migliore messa su disco dall’ex Bee Gees dai primi anni settanta in poi.

Marco Verdi

Il Texano Stavolta Ha Fatto Fiasco! Granger Smith – Country Things

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Granger Smith – Country Things – Wheelhouse/BMG CD

E’ già da qualche anno che seguo il cammino di Granger Smith, countryman texano di Dallas autore dall’inizio del nuovo millennio di una manciata di discreti album: niente di particolarmente innovativo, ma una musica di buona qualità caratterizzata da una valida scrittura e da un approccio sufficientemente elettrico, con in più una giusta dose di umorismo che lo ha portato a crearsi un alter ego, tale Earl Dibbles Jr., che è un po’ la parodia del cowboy “redneck” reazionario. Da qualche anno Smith ha iniziato anche ad assaporare un certo successo (i suoi ultimi due lavori sono entrati nella Top Three country), e questo lo ha portato a prendere la via di Nashville, non solo fisicamente ma anche come suono https://discoclub.myblog.it/2018/02/06/country-texano-buona-musica-non-sempre-granger-smith-when-the-good-guys-win/ .

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Country Things è il suo nuovo album, un lavoro lungo e, almeno sulla carta, ambizioso, ben diciotto canzoni per quasi un’ora di durata, con uno stuolo interminabile di sessionmen al suo servizio e ben sette produttori diversi. Un’operazione in grande stile quindi, peccato che però il risultato finale si allontani abbastanza dal vero country che piace a noi, e si posizioni in quella fascia di mercato rivolta all’americano medio che si accontenta di un pop annacquato che di country ha molto poco. Il suono è moderno e fin troppo ricercato quando non eccessivamente prodotto, ed anche i testi sono piuttosto stereotipati (famiglia, buoni sentimenti, Dio, il baseball, allegre bevute di birra ed un Messico da cartolina in Mexico): non siamo ai livelli delle schifezze di uno come Keith Urban solo perché qualche canzone piacevole c’è, ma siamo comunque di fronte al classico disco che, una volta ultimato l’ascolto, non ti lascia nulla.

photo jeremy cowart

photo jeremy cowart

La title track è una country song pura ed abbastanza riuscita, bella voce e ritmo spedito https://www.youtube.com/watch?v=PamhiCVQeJE , Where I Get It From e Buy The Boy A Baseball sono orecchiabili e ben strutturate, ma brani come Hate You Like A Love You, I Kill Spiders, That’s What Love Looks Like e 6 String Stories https://www.youtube.com/watch?v=q2bSu04fszQ  sono decisamente pop, ed anche il finto southern Chevys, Hemis, Yotas & Fords non è il massimo https://www.youtube.com/watch?v=4X1EqzwZqqo . Perfino i cinque brani a nome Earl Dibbles Jr., che solitamente sono i più diretti e “texani”, qui sono altalenanti: se la robusta Country & Ya Know It ha dalla sua un refrain contagioso https://www.youtube.com/watch?v=qafB86EEfj0 , Workaholic è proprio brutta https://www.youtube.com/watch?v=9124xd6Rw1o  e la dura Diesel è tagliata con l’accetta. Peccato: fino ad oggi il nome di Granger Smith era sinonimo di musica country equilibrata e piacevole, ma in Country Things c’è davvero poco da salvare.

Marco Verdi

Vincitore Del Premio “Ciofeca Del Mese”! Russell Dickerson – Southern Symphony

russell dickerson southern symphony

Russell Dickerson – Southern Symphony – Triple Tigers CD

Russell Dickerson è un musicista del Tennessee che ha esordito nel 2017 con l’album Yours, un successo immediato dal momento che è volato di botto nella Top Five country, e lo stesso destino è toccato ai tre singoli da esso estratti. C’era quindi attesa per il secondo lavoro del nostro, ma dopo aver ascoltato Southern Symphony devo purtroppo ammettere che ci troviamo di fronte al tipico prodotto made in Nashville che di country ha molto poco, ma è bensì un disco di pop neanche di prima qualità, con un suono gonfio ed un livello compositivo abbastanza deficitario, ma che evidentemente va bene per la massa dei fruitori di questo genere di musica. Prodotto come il lavoro precedente da Casey Brown al quale si è aggiunto il famigerato Dann Huff (uno che passa con disinvoltura da Faith Hill ai Megadeth), Southern Symphony è dunque un album di scarso interesse per chi segue la vera musica country, infarcito com’è di sonorità sintetiche e radiofoniche e con dieci canzoni che una volta ultimato l’ascolto non te ne ricordi mezza.

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Recentemente ho ascoltato il nuovo album di Granger Smith che soffre più o meno degli stessi problemi, ma qui il livello è decisamente ancora più basso. L’iniziale Never Get Old è un pezzo dal sound “piacione”, con le chitarre elettriche in evidenza ma un ritornello un filo troppo easy: peccato che alla fine si rivelerà il brano migliore https://www.youtube.com/watch?v=X_taBQkA-7E . Home Sweet ha un suono bombastico che di country non ha nulla ma per il pubblico americano medio probabilmente va benissimo https://www.youtube.com/watch?v=oPZ1iL5LjAE , All Yours All Night è finta come le tette di Dolly Parton, Love You Like I Used To e Forever For A Little While sono due ballate pop, e neppure di buon livello, It’s About Time è brutta e basta https://www.youtube.com/watch?v=8-rzyrdQ80c . Inutile proseguire oltre: l’unico pregio di questo disco è che dura appena 32 minuti, anche se alla fine vi sembrerà che ne siano passati il doppio. Se volete un album recente di vero country rivolgetevi a Colter Wall, Tennessee Jet o Josh Turner, ma state alla larga da Russell Dickerson.

Marco Verdi

Come Si Diceva A Scuola: Il Ragazzo E’ Bravo Ma Può Fare Di Più! Ward Davis – Black Cats And Crows

ward davis black cats and crows

Ward Davis – Black Cats And Crows – Ward Davis CD

Ward Davis, singer-songwriter originario dell’Arkansas, è un nome poco conosciuto nonostante sia sulle scene da più di vent’anni. Dopo un ormai intorvabile album d’esordio datato 1998, Davis si è spostato a Nashville dove ha intrapreso il mestiere di scrittore per conto terzi, ed è riuscito a farsi un nome componendo canzoni per Trace Adkins, Wade Hayes, addirittura Willie Nelson e Merle Haggard (Unfair Weather Friend, dal loro splendido duet album del 2015 Django And Jimmie) e più di recente per Cody Jinks, che lo ha incoraggiato a riprendere in mano con convinzione la carriera di musicista. Black Cats And Crows è quindi il terzo album di Ward (a cinque anni dal secondo, 15 Years In A 10 Year Town), un disco di country duro e puro da parte di un artista che non ha mai nascosto di ispirarsi al movimento Outlaw Country degli anni 70, e che oggi potrebbe essere collocato nella stessa categoria di gente come Jamey Johnson, Whitey Morgan e lo stesso Jinks.

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Prodotto dall’esperto Jim “Moose” Brown, Black Cat And Crows è un lavoro di un musicista maturo, che ha fatto la sua gavetta senza però farsi attirare troppo dalle sirene di Nashville, e lo dimostra consegnandoci 14 canzoni di vero country, con chitarre e pianoforte sempre in evidenza ed un piglio energico anche nelle ballate: se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, devo ammettere che forse l’album è un filo troppo sbilanciato proprio verso i pezzi lenti, che a lungo andare potrebbero abbassare la tensione, ma fortunatamente non c’è spazio per momenti sdolcinati e mielosi. In poche parole un buon disco, che con una maggiore dose di rock’n’roll mezza stelletta in più se la sarebbe guadagnata con merito. L’iniziale Ain’t Gonna Be Today fa capire subito da che parte stiamo, una rock ballad chitarristica e cadenzata in cui il country è solo sfiorato (l’uso della steel), voce forte e refrain vincente https://www.youtube.com/watch?v=Slo2EpzSNek . La title track inizia lenta e pianistica, una ballatona dai toni drammatici suonata in maniera classica e con un crescendo notevole che culmina con un assolo di chitarra decisamente rock https://www.youtube.com/watch?v=T4kHtBQEfoI , e sullo stesso stile è Threads, ancora uno slow ma più morbido e gentile.

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Sounds Of Chains è invece elettrica e dal sapore sudista, con una tensione palpitante ed un ottimo contributo del classico ospite che non ti aspetti, ovvero il chitarrista Scott Ian della band trash metal Anthrax, che però qui si cala perfettamente nei panni richiesti https://www.youtube.com/watch?v=E_w6KNviYsg ; Get To Work Whiskey è un robusto rockin’ country figlio di Waylon Jennings, Colorado una deliziosa ballata impreziosita da un malinconico violino e con una melodia tra le migliori del CD https://www.youtube.com/watch?v=6tFBWjz6Tm8  , mentre Book Of Matches è ancora un lento caratterizzato come il precedente da un motivo vibrante e suonato con piglio da rocker. Tra i brani restanti (l’album dura cinquanta minuti) segnalo ancora la gustosa Papa And Mama, tra country, southern e swamp music, la toccante Lay Down On Love, di nuovo guidata dal piano, ed il bel valzerone lento Nobody. Black Cats And Crows è quindi un buon disco, anche se per il futuro auspico che Ward Davis lasci maggior spazio al suo lato rock.

Marco Verdi

Bella Voce Country Old School! Mandy Barnett – A Nashville Songbook

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Mandy Barnett – A Nashville Songbook – Melody Place/BMG Rights Management

La nostra amica non è una novellina: infatti il primo disco di Mandy Barnett risale al 1994, poi ne ha pubblicati altri, spesso entrati nelle classifiche country, ma senza mai avere grande successo a livello nazionale. Tanto che ha diversificato la sua carriera, entrando anche nell’ambito dei musical e degli show dal vivo alla Grand Ole Opry, nonché puree una carriera come attrice, pur continuando a pubblicare album, l’ultimo nel 2018, a livello indipendente, mentre nei primi anni di carriera uscivano per le grandi majors. Questo nuovo A Nashville Songbook, e il titolo già dice tutto, è una via di mezzo, in quanto il disco esce a livello autogestito per la Melody Place, con distribuzione BMG del gruppo Warner: quindi una pubblicazione che, prendendo spunto dallo spettacolo con lo stesso nome, è incentrata su una serie di brani scelti nel repertorio del country classico, non quello bieco e commerciale, stretto parente del pop dozzinale, che ammorba molte delle attuali produzioni, ma che attinge da autori celebri, in qualche caso anche celeberrimi, della country music, e non solo.

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Quindi troviamo canzoni di Roy Orbison, Kris Kristofferson, Boudleaux Bryant, Chips Moman, Harlan Howard, Hank Williams, Eddie Rabbitt, c’è perfino una versione di It’s Now Or Never, la nostra classica O’ Sole Mio, che tutti conosciamo nella interpretazione di Elvis Presley. A tenere le fila del progetto c’è Fred Mollin, uno dei grandi produttori di Nashville sin dalla fine anni ‘60, primi ‘70, di recente dietro la console per il recente album di Rumer Nashville Tears https://discoclub.myblog.it/2020/08/24/cambia-il-genere-ma-non-la-voce-sempre-calda-e-vellutata-rumer-nashville-tears/ , e anche se la Barnett non ha una voce vellutata e deliziosa come la cantante anglo-pakistana, si difende comunque bene, con il suo timbro squillante. Il sound è classico, senza scadere nello scontato, e tra i molti musicisti impiegati si distinguono Bryan Sutton, alle chitarre acustiche e mandolino, Eddie Bayers alla batteria, Larry Paxton al basso, Scotty Sanders alla pedal steel, l’ottimo Stuart Duncan al violino, e lo stesso Mollin a synth e chitarre, mentre una sezione archi e fiati cerca di non appesantire più di tanto gli arrangiamenti, con un risultato che profuma di country old style di buona qualità.

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I Love A Rainy Night, la traccia di apertura a firma Eddie Rabbitt è uno dei brani recenti, un pezzo pimpante a cavallo tra country e gospel pop , tipo la prima Shania Twain quando non si era ancora lanciata nella “dance”  , mentre It’s Over è uno dei super classici di Roy Orbison, e qui bisogna ammettere che, per quanto gli arrangiamenti cerchino di aiutare, la Barnett non ha una voce, sia pure dalla buona estensione, che comunque possa competere con quella del “Big O”, anzi la canzone è sin troppo carica, molto meglio Help Me Make It Through The Night di Kristofferson, con un arrangiamento che, senza rinunciare agli archi, risulta più intimo e contenuto https://www.youtube.com/watch?v=RtncXk8sg9c . A Fool Such As I faceva parte delle classiche ballate country di Elvis, e tra pedal steel e violini sfarfallanti è molto godibile https://www.youtube.com/watch?v=frQTg2gATMg , come pure la celebre End Of The World di Skeeter Davis, dove la voce cristallina ed espressiva di Mandy è decisamente più a suo agio https://www.youtube.com/watch?v=zdNc4eyaFpo , mentre It’s Now Or Never mi lascia sempre quel retrogusto pacchiano e anche The Crying Game mi sembra più adatta al repertorio di Celine Dion. Nell’ambito delle canzoni più riuscite, inserirei una intensa Love Hurts, la briosa e scintillante Heartaches By The Number di Harlan Howard, uno degli standard assoluti del country, che hanno cantato decine di artisti, e la versione della Barnett, di nuovo con violino e pedal steel sugli scudi, è molto godibile  , come pure la rilettura solo voce e piano di I Cant’Help It (If I’m Still In Love With You di Hank Williams https://www.youtube.com/watch?v=y3tF_HTVjeI , a chiudere un album onesto e di buona fattura, per amanti del country vecchia scuola.

Bruno Conti