Anche Se Non Lo Trovate Nei Negozi, Vale La Pena Procurarselo! Uncut – Dylan Revisited

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VV.AA. – Dylan Revisited – Uncut/Bandlab UK CD

Tra meno di un mese, il 24 maggio, il grande Bob Dylan compirà 80 anni, e gran parte delle testate musicali nel mondo sono già da tempo in fibrillazione per festeggiare a modo loro l’evento. L’unico che sta brillando per il suo assoluto silenzio è proprio il diretto interessato, ma direi una bugia se mi dichiarassi sorpreso dal momento stiamo parlando di un personaggio che ha sempre detestato le autocelebrazioni (il famoso concerto-tributo del 1992 al Madison Square Garden era stato voluto dalla Columbia, e le immagini facevano capire benissimo che Bob avrebbe preferito di gran lunga essere da un’altra parte). Siccome anche la Sony non ha finora annunciato nulla a livello discografico, e non è detto che ci sia qualcosa in programma, vorrei parlarvi di un CD molto particolare oltre che bello, che non si trova nei negozi ma che non è neppure così difficile procurarsi. E’ tradizione delle riviste musicali inglesi, specialmente Classic Rock, Mojo ed Uncut, gratificare i suoi lettori con CD gratuiti allegati alle varie mensilità, perlopiù compilation di materiale già edito riguardanti solitamente uno specifico argomento.

Nel suo ultimo numero però Uncut ha fatto le cose in grande, regalando un dischetto intitolato Dylan Revisited che non è il solito tributo low-cost costruito con performances già note, ma una compilation di incisioni nuove di zecca realizzate apposta per la rivista, con la chicca di un inedito assoluto dello stesso Dylan! Una succosa opportunità di portarsi a casa un dischetto esclusivo, tra l’altro con una spesa minima: infatti l’uscita è acquistabile direttamente sul sito di Uncut, e per soli 12 euro (non pagate neanche la spedizione) riceverete a casa un numero molto interessante della rivista, oppure lo trovate nelle edicole e librerie piuù fornite. Un omaggio a Dylan a 360 gradi attraverso i ricordi di musicisti e produttori che lo hanno conosciuto, con più di un aneddoto divertente. E poi ovviamente c’è Dylan Revisited, in cui il Premio Nobel viene omaggiato da 14 belle riletture da parte di musicisti perlopiù emergenti, anche se non mancano i nomi di prima fascia, ma con tutte cover rispettose degli originali e nessuno sconfinamento in sonorità bislacche. Il CD si apre con il già citato inedito dylaniano: Too Late è una ballata acustica con una leggera percussione alle spalle tratta dalle sessions di Infidels (e che dovrebbe anticipare il sedicesimo volume delle Bootleg Series, dedicato proprio alle prolifiche sedute dell’album del 1983, in uscita pare entro l’anno, forse a luglio, visto che è in uscita anche un estratto in vinile per il Record Store Day), un brano che poi si sarebbe evoluto nella già nota Foot Of Pride. Una bella canzone eseguita in modo rilassato da Bob, che non somiglia molto a ciò che sarebbe diventata né come testo né come melodia (forse ricorda di più George Jackson, il raro singolo del 1971): dopo l’ascolto ho ancora più voglia del nuovo episodio delle Bootleg Series.

E partiamo con il tributo vero e proprio, che inizia col botto: Richard Thompson è un fuoriclasse assoluto, e This Wheel’s On Fire viene proposta con un bell’arrangiamento elettroacustico con l’ex Fairport che suona tutti gli strumenti, nel suo tipico stile tra folk e rock; Courtney Marie Andrews è ancora giovane ma già esperta, e ci delizia con un’interpretazione voce e chitarra della splendida To Ramona, forse un po’ scolastica ma meglio così che stravolta, mentre i Flaming Lips rivestono di una leggera patina pop-psichedelica l’eterea Lay Lady Lay, che mantiene però la sua struttura acustica. I canadesi Weather Station propongono Precious Angel, dal periodo “religioso” di Bob, in una rilettura molto diversa, pianistica e lenta, con la voce solista femminile di Tamara Lindeman quasi sussurrata che accentua il tono di preghiera del brano; rimaniamo in Canada con i grandi Cowboy Junkies, che fanno una scelta non scontata prendendo dal recentissimo Rough And Rowdy Ways la bella I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You, che fanno diventare uno splendido valzer dal sapore folk con la voce inconfondibile di Margo Timmins che come al solito si rivela l’arma in più del quartetto: sembrano tornati di botto i Junkies di inizio carriera, una cover magnifica, meglio anche dell’originale.

L’ex Sonic Youth Thurston Moore non si perde in sonorità strane e rilegge Buckets Of Rain per voce e chitarra, da perfetto folksinger, la cantante e chitarrista originaria del Mali Fatoumata Diawara offre una versione tutta ritmo e colori di Blowin’ In The Wind (registrata a…Como!), molto diversa dall’originale ma piacevole, mentre invece la giovane irlandese Brigid Mae Power nel riproporre la bella One More Cup Of Coffee ricalca abbastanza le atmosfere di Desire, violino a parte. Knockin’ On Heaven’s Door è materia pericolosa, ma la indie band Low (che ha in comune con Dylan la città d’origine, Duluth) se la cava benissimo con una interpretazione convincente, lenta e ricca di pathos, facendola diventare una rock ballad notturna e misteriosa. Il duo folk formato da Joan Shelley e Nathan Salsburg rifà Dark Eyes in maniera rigorosa, Patterson Hood e Jay Gonzalez dei Drive-By Truckers sono bravi e lo dimostrano con una Blind Willie McTell sofferta, bluesata e desertica (ma l’originale dylaniano è insuperabile), e lo stesso fa l’ex Be Good Tanyas Frazey Ford con un’ottima The Times They Are A-Changin’ in veste folk-rock ballad elettrica, con chitarre ed organo al posto giusto.

Finale con Jason Lytle, frontman dei Grandaddy, che ci regala una buona versione rilassata di Most Of The Time, con chitarra acustica e piano a scontornare la melodia, e con Weyes Blood (nome d’arte di Nathalie Laura Mering) che affronta in maniera classica la lunga ed impegnativa Sad Eyed Lady Of The Lowlands, riuscendo a fornire una prova decisamente efficace. Un tributo perfettamente riuscito questo Dylan Revisited, serio e ben fatto, che meriterebbe una distribuzione ben più capillare che come allegato ad una rivista mensile.

Marco Verdi

Meglio Tardi Che Mai! Suzanne Vega – An Evening Of New York Songs And Stories

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Suzanne Vega – An Evening Of New York Songs And Stories – Cooking Vinyl CD

Mi accingevo a scrivere questa recensione verso la fine del mese di aprile, quando all’improvviso, per gli effetti del lockdown, il disco, che era annunciato in uscita per il primo maggio, venne rinviato a data da destinarsi. Alla fine è stato pubblicato pochi giorni fa, e visto che si tratta di un bel dischetto dal vivo eccoci a parlarne. Suzanne Vega non è certo nuova ai dischi Live. In una carriera che ormai tocca quest’anno i 35 anni di attività discografica, compreso questo An Evenng Of New York Songs And Stories, i dischi registrati in concerto arrivano a quota sei (e solo nove in studio nello stesso periodo). La cantante newyorchese (anche se nativa di Santa Monica, in California) non è forse una performer straordinaria, celebre per i suoi spettacoli turbolenti, ma ha comunque un suo charme e gusto nelle esibizioni dal vivo, mutuato dai suoi studi giovanili in danza moderna e dalle sue frequentazioni, ad inizio carriera, dei locali del Greenwich Village, dove proprio al “celebre” Cornelia Street Cafe ha mosso i primi passi, celebrati nelle pubblicazioni della rivista e nei dischi della serie Fast Folk, grazie ai quali ottenne un contratto con l’etichetta A&M, che pubblicò il suo omonimo album di esordio nel 1985.

In un periodo in cui perlopiù imperava un tipo di musica tra il bombastico e il danzereccio, si segnalò per una sua diafana ed eterea bellezza, anche se poi il suo stile da folksinger voce e chitarra acustica, venne adornato dalla eccellente e ricercata produzione affidata a Lenny Kaye (ex Patti Smith Group) e al chitarrista Steve Addabbo, entrambi presenti anche nel successivo Solitude Standing. Due dischi di grande successo, il primo vendette circa trecentomila copie sia negli Stati Uniti che in in Inghilterra, il secondo un milione di copie in USA e 5 milioni in tutto il mondo, generando anche due singoli di enorme successo come Marlene On The Wall e Luka. Uno potrebbe pensare che le grandi hit vengano riservate per la conclusione del concerto e invece, a sorpresa, sono poste entrambe in apertura di questo CD dal vivo, estrapolato da due serate registrate al Cafe Carlyle di New York il 12 e il 14 marzo del 2019. Accompagnata da un piccolo gruppo, un trio per la precisione, con Jeff Allen al contrabbasso, Jamie Edwards alle tastiere, più vibrafono, archi sintetici e altri strumenti assortiti, e dal chitarrista Gerry Leonard, che si occupa anche della produzione, Suzanne Vega sciorina 24 perle delle sua produzione, tutte con argomento che verte sulla città di New York (una in effetti è Walk On The Wild del suo amico Lou Reed e alcune tracce sono solo degli intermezzi parlati).

Niente uso di batteria, ma le canzoni hanno comunque una “elettricità” latente come quella presente in una limpida e vibrante Marlene On The Wall, raffinata canzone d’amore degna discendente di quelle della Joni Mitchell meno cerebrale e ricercata, anche se il testo è poetico ed intricato, con la chitarra elettrica di Leonard e il piano di Edwards a fornire un elegante supporto alla vocalità delicata ma sicura di Suzanne. Che poi in Luka affronta un tema a lei molto caro, quello della violenza e dell’abuso sui bambini, che forse stride nell’ambiente molto upper class del Carlyle, locale frequentato da un pubblico probabilmente non uso agli argomenti della canzone, ma che ha comunque una affinità con le tematiche rappresentate dalla celebre concittadina, e poi la canzone ha in ogni caso una melodia deliziosa ed irresistibile, non intaccata dallo scorrere del tempo. Preceduta dal piccolo siparietto in cui chiede al pubblico quante persone vengono da fuori città, ecco arrivare la dolce New York Is A Woman, un brano del 2007 che sembra uno standard della canzone americana, per poi raccontare la travagliata storia d’amore di Frank And Ava, ovvero Sinatra e Gardner, il tutto si svolgeva in un appartamento della 59° Strada, e l’arrangiamento è più teso e movimentato per rappresentare le baruffe che avvenivano tra i due.

Senza fare un elenco di tutte le canzoni presentate nella serata, vorrei ricordare il valzer sognante della deliziosa Gypsy, sempre da Solitude Standing, la dura presa di posizione di The Pornographer’s Dream, confezionata però a tempo di bossa nova per contrasto al testo molto intenso. New York My Destination dall’impianto jazzy e rilassato, tratta dall’ultimo album Lover, Beloved: Songs from an Evening with Carson McCullers del 2016, e che ricorda certe cose di Carole King, l’omaggio a Lou Reed in una adorabile ed affettuosa rilettura di Walk On The Wild Side che fa il paio con la versione di Sweet Jane dei Cowboy Junkies , preceduta da un breve ricordo del suo primo incontro con Lou, come spettatrice a un concerto, e con un bellissimo assolo della chitarra elettrica di Leonard, la quasi angosciante e sospesa Ludlow Street, su un amore finito male, Tom’s Diner, con il celebre vocalizzo che poi è stato utilizzato come base di partenza della versione hip-hop del duo DNA e la conclusiva Thin Man, dove l’intervento di una base ritmica, un giro di basso marcato e una chitarra elettrica in evidenza che interagisce con le tastiere, crea una atmosfera sonora più complessa ed elaborata che non sarebbe dispiaciuta a Donald Fagen.

In definitiva un bel dischetto dal vivo per chi ama le emozioni meno forti e più rarefatte e distillate.

Bruno Conti

Una Sorpresa Nell’Uovo Di Pasqua! Cowboy Junkies – Ghosts

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Cowboy Junkies – Ghosts – Latent Recordings / Download + Streaming

Nell’ultimo periodo c’è stata una notevole uscita di dischi “fantasma” (nel senso che fisicamente non sono reperibili in CD, ma si possono scaricare o ascoltare nei vari siti di musica digitale), e noi sul sito ci siamo occupati dei lavori dell’ultimo Matthew Ryan, di Jeff Black, Natalie Merchant, con la speranza prossimamente di recensire anche Amidst The Alien Cane di William Topley (parlo per me), e per stare in tema non poteva certamente mancare anche questo inaspettato Ghosts dei Cowboy Junkies. A soli due anni di distanza dall’ottimo All That Reckoning (18), questo Ghosts non è altro che una raccolta di canzoni su cui i Cowboy Junkies avevano incominciato a lavorare mentre erano in giro in tournée per promuovere il citato ultimo lavoro in studio, e l’improvvisa morte della madre due mesi dopo, è stata la scintilla che ha portato i tre fratelli Timmins ad elaborare il lutto portando a termine questi otto brani, decidendo poi di farli ascoltare in “streaming” a chi era interessato, in attesa di un eventuale futura edizione in doppio vinile, allegandolo ad ATR.

Oggi come ieri la formazione della band è sempre la stessa: con Margo Timmins alla voce, i fratelli Michael alle chitarre e Peter alla batteria, con l’inserimento dell’amico Alan Anton al basso, per una buona mezzora di musica dove si respirano metaforicamente rabbia, rimorso e dolore. Dolore che si nota subito nella traccia di apertura Desire Lines, con la meravigliosa voce di Margo che declama il testo della canzone, seguita dalle affascinanti note della pianistica Breathing https://www.youtube.com/watch?v=hez9al5ny50 , e dal suono caldo e avvolgente di Grace Descends, che viene accompagnata dal basso di Alan Anton. Le emozioni ripartono con il suono cinematografico e leggermente “psichedelico” dell’intrigante (You Don’t Get To) Do It Again, per poi passare alla soave malinconia di una struggente e accorata The Possessed (il brano finale di All That Reckoning, lasciato fuori nella versione in vinile), mentre il fascino della voce di Margo si manifesta ancora una volta in Misery, con un accompagnamento in primo piano fluido e diretto. Ci si avvia alla fine dei ricordi e del dolore con una ballata romantica, notturna e rarefatta come This Dog Barks (marchio di fabbrica del gruppo), impreziosita dalle note di un violino “tzigano” impazzito https://www.youtube.com/watch?v=g6-rRG9tTJU , per terminare con un dolcissimo e sentito omaggio al sassofonista jazz Ornette Coleman, un giusto riconoscimento della famiglia Timmins ad uno dei “padri” della propria formazione musicale https://www.youtube.com/watch?v=QvBmZgF7_DY .

Stilisticamente questi otto brani rispecchiano il suono del precedente All That Reckoning, e per chi scrive, che ascolta i Cowboy Junkies da tempi di Trinity Session(88) non poteva essere altrimenti: un gruppo che nella sua lunga carriera ha saputo estrarre il meglio della tradizione americana, passando dalle radici blues ad un “country-rock” ovattato e moderatamente “roots”, facendo rivivere con le loro canzoni malinconiche atmosfere da sogno e paesaggi sonori che si stringono e prendono forma con la suggestiva voce di Margo Timmins che non si può non riconoscere. I CJ sono in pista ormai da più di trenta anni, e dopo 18 album in studio (compreso questo Ghosts) e 6 album Live, continuano a credere nella loro proposta, che non è certamente quella di una musica commerciale, quindi senza guardare in faccia a nessuno cercano comunque di proporre sempre musica di grande qualità, come anche in questo ultimo lavoro.

Tino Montanari

Un Altro Gruppo (Anzi, Duo) Che Non Tradisce Mai. Over The Rhine – Love & Revelation

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Over The Rhine – Love & Revelation – Over The Rhine/GSD CD

Ridendo e scherzando, anche gli Over The Rhine si avviano a celebrare i trent’anni di carriera. Infatti il duo originario dell’Ohio e formato dai coniugi Karin Bergquist e Linford Detweiler ha esordito nell’ormai lontano 1991 con l’autogestito ed ormai introvabile Till We Have Faces, anche se il sottoscritto ha cominciato a seguirli  esattamente dieci anni dopo, e per l’esattezza dall’ottimo Films For Radio, un album che mi aveva impressionato per le sue ballate crepuscolari, intense e profonde, che mi avevano fatto pensare che i due fossero più canadesi che americani: infatti nel loro suono trovavo più di una somiglianza con i Cowboy Junkies più classici e meno sperimentali, grazie anche alla seducente voce della Bergquist che non era molto distante da quella di Margo Timmins. Da Films For Radio in poi non ho più perso un solo album degli OTR, a partire dallo splendido doppio Ohio del 2003, per proseguire con titoli come l’autobiografico Drunkard’s Prayer (con brani ispirati dalla crisi coniugale dei due e dalla successiva riconciliazione), The Trumpet Child e gli ultimi due bellissimi lavori in studio (dischi natalizi esclusi) The Long Surrender e Meet Me At The Edge Of The World, entrambi prodotti addirittura da Joe Henry, il cui stile si era rivelato perfetto per le ballate autunnali dei nostri (senza dimenticare l’ottimo live a tiratura limitata https://discoclub.myblog.it/2017/05/02/nella-vecchia-fattoria-over-the-rhine-live-from-the-edge-of-the-world/.)

Love & Revelation è il titolo del nuovo lavoro di Karin e Linford, e dopo qualche attento ascolto non ho problemi a metterlo nel gruppo dei loro album più riusciti. Non c’è più Henry, che però ha lasciato ai coniugi Detweiler più di un insegnamento sui segreti di produzione, al punto che i due sono riusciti a non far rimpiangere la mano di Joe: l’album è poi stato pubblicato grazie ad una meritoria opera di crowdfunding, con tutti i contribuenti diligentemente elencati in uno dei due libretti acclusi. Ma la cosa più importante di Love & Revelation è che è composto da undici splendide canzoni, tutte originali e rappresentative dello stile dei nostri: musica intensa, lenta ma mai soporifera, con i suoni calibrati alla perfezione, arrangiamenti tra folk e rock, e come ciliegina le interpretazioni dense di pathos e classe da parte di Karin, la cui voce è il vero strumento aggiunto del disco. Dulcis in fundo, ad accompagnare i nostri (la Bergquist suona la chitarra acustica come il marito, il quale però si destreggia alla grande anche con il pianoforte) troviamo una serie di musicisti di livello egregio, la cosiddetta Band Of Sweethearts formata dalla sezione ritmica di Jennifer Condos (basso) e Jay Bellerose (batteria, un “residuo” della collaborazione con Joe Henry), dalle chitarre di Bradley Meinerding, le tastiere ed orchestrazioni a cura di Patrick Warren e la splendida steel guitar di Greg Leisz, grande protagonista del disco.

Che Love & Revelation (dotato anche di una bellissima foro di copertina) non sia un album qualsiasi lo si capisce subito da Los Lunas, una ballata dal passo lento ma dotata di un’intensità notevole, con gli strumenti che, pur essendo appena sfiorati, garantiscono un suono forte e presente, con la ciliegina della voce suadente di Karin e della splendida steel di Leisz che tesse con maestria sullo sfondo. Given Road inizia per voce e chitarra acustica, alle quali si aggiunge una leggera orchestrazione e la steel in lontananza, un brano rarefatto e profondo che cresce a poco a poco; Let You Down, cantata a due voci, è ancora una ballata anche se il tempo è leggermente più cadenzato, il motivo potrebbe far pensare ad un brano di stampo country ma l’arrangiamento è in bilico tra rock e cantautorato puro, con un suggestivo assolo di slide da parte di Meinerding. Broken Angels è splendida, con Karin che canta divinamente una melodia da pelle d’oca accompagnata solo da chitarra e pianoforte del marito (ma il resto della band entra al terzo minuto, anche se con molta discrezione): emozione pura; la title track è vivace, anche se c’è solo Karin, la Condos al basso e Bellerose alle percussioni, un pezzo ritmato e con un ritornello accattivante ed immediato, che dimostra che i nostri sanno scrivere musica a 360 gradi.

Making Pictures è un’altra bella canzone, uno slow pianistico con i suoni dosati e centellinati al millimetro (e qui si vede l’esperienza fatta con Henry), con un uso geniale dell’orchestrazione e la solita languida steel, mentre Betting On The Muse è un mezzo capolavoro, una rock ballad intensa e potente dalla melodia fantastica (vedo qualche influenza di The Band), guidata da piano e chitarre, i due coniugi che si alternano alle lead vocals con disinvoltura ed un ispirato assolo elettrico centrale: una meraviglia. Leavin’ Days è pura, cristallina e di stampo folk, con un ricco suono basato sugli strumenti a corda (due chitarre, due mandolini ed una slide acustica), Rocking Chair è solare e quasi pop, una sorta di filastrocca elettroacustica diretta e piacevole, al contrario di May God Love You (Like You’ve Never Been Loved), ennesimo brano struggente cantato dalla Bergquist con voce da brividi, anche questa tra le migliori del CD. Chiusura in tono soffuso con An American In Belfast, uno strumentale di grande forza espressiva per sole chitarra e steel. Gli Over The Rhine sono ormai da tempo un gruppo (o come ho specificato nel titolo del post, un duo) sul quale contare a scatola chiusa, e Love & Revelation ne è l’ennesima conferma.

Marco Verdi

Tra Canada E California, Un Disco Niente Male. The Once – Time Enough

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The Once – Time Enough – The Once/Factor CD

The Once sono un trio di musicisti canadesi, originari di Terranova, in circolazione più o meno da un decennio, e con quattro album ed un EP alle spalle. Sono stati paragonati ad una via di mezzo tra i Cowboy Junkies (per il fatto di avere una cantante femminile, Geraldine Hollett) ed i Blue Rodeo (per gli elementi californiani nel sound). Io sinceramente, dopo aver ascoltato il loro nuovo album Time Enough, ho trovato poche somiglianze con entrambi i gruppi, mentre invece diversi elementi del loro suono mi hanno fatto venire in mente i Fleetwood Mac nella formazione classica con Lindsay Buckingham e Steve Nicks, sia per le sonorità che comunque qualcosa di californiano hanno, sia per il fatto che anche gli altri due membri della band, i polistrumentisti Phil Churchill ed Andrew Dale, si alternano saltuariamente come voce solista alla Hollett, e tutti e tre insieme creano delle ottime armonie, che sono tra i punti di forza del loro suono.

La seconda parte del disco è più riflessiva, più cantautorale, in un certo senso più “canadese”, ma l’insieme del CD è molto piacevole e di buon impatto: nove canzoni tra pop, rock e folk che non hanno momenti di stanca o tentennamenti, anzi in alcuni casi vengono toccati punti abbastanza elevati di creatività, grazie anche ad una strumentazione ricca ma mai ridondante. A proposito di California, basta sentire l’opening track per trovarci già in zona Fleetwood Mac, un pop-rock raffinato ed orecchiabile in cui cori, melodia ed arrangiamento hanno molto da spartire con la band di Rumours. Anche meglio Before The Fall, una rock ballad elettrica dall’incedere insinuante, un ritornello corale di sicuro impatto ed un crescendo finale emozionante, in cui si respira ancora aria di Golden State. Ancora pop di classe, e di nuovo con i Mac in mente, con Any Other Way, un pezzo dallo sviluppo intrigante ed il solito gusto per le melodie dirette; Lead Me Lover è caratterizzata da una ritmica pulsante e da un motivo nuovamente a più voci, anzi in cui le voci sono protagoniste assolute e l’accompagnamento strumentale è quasi di raccordo: il risultato finale è affascinante.

La lenta Another Morning è più rarefatta, quasi eterea, e si ricollega alle tipiche atmosfere canadesi, pur mantenendo uno stile ben definito, You Don’t Love Me prosegue con lo stesso mood, anche se il brano è più acustico e dalle sonorità più dirette, con la voce espressiva di Geraldine ancora in primo piano ed una confezione raffinata, mentre Foreign Shore è quasi folk, delicata, con un motivo di alto profilo ed un arrangiamento semplice ma delizioso, tra le migliori del disco, grazie anche ad un suggestivo assolo chitarristico ed alla partecipazione di una piccola sezione fiati. Chiusura con la bucolica We Look Back, pochi strumenti ed il solito bell’uso delle armonie vocali, e con la toccante Some Lies, con una melodia di indubbio pathos, anch’essa tra le più riuscite di un album comunque bello, personale e, perché no, sorprendente.

Marco Verdi

Nella Vecchia Fattoria…! Over The Rhine – Live From The Edge Of The World

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Over The Rhine – Live From The Edge Of The World – Great Speckled Bird – 2 CD Limited Edition

Fin dalla prima volta che li ho visti dal vivo, e precisamente a Chiari (BS), se non ricordo male nel lontano 2001, ho subito pensato che c’era più di una ragione che accomunava gli Over The Rhine ai Cowboy Junkies: ballate lente, malinconiche, costruite su un gioco di coppia complice e silenzioso che, oggi come ieri, sono unicamente nelle corde di due personaggi dalle chiarissime idee musicali, come la brava cantante Karin Bergquist e il bravissimo polistrumentista Linford Detweiler (coppia in arte come pure nella vita), con la differenza che il suono dei primi è fondato sulla voce di Karin e le tastiere di Linford, (più folk), mentre quello dei secondi gira attorno ai fratelli Timmins, la bella Margo e Michael, rispettivamente voce e chitarre (più blues). Gli Over The Rhine sono attivi dall’inizio del ’91, e fino ai giorni nostri hanno prodotto qualcosa come 22 album, di cui sei dal vivo e tre raccolte, tutti lavori che a livello artistico hanno tracciato una parabola in costante ascesa (con una menzione particolare per il doppio Ohio (03), fino ad arrivare ai più recenti The Long Surrender (11) e Meet Me At The Edge Of The World (13), recensiti puntualmente su queste pagine dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2013/08/29/a-prescindere-dal-genere-gran-disco-over-the-rhine-meet-me-a/ . Per festeggiare i venticinque anni del loro sodalizio, la bionda Karin e il marito Linford hanno radunato nella loro fattoria dell’Ohio un gruppo di musicisti, definiti The Band Of Sweethearts, composto da Jay Bellerose alla batteria e percussioni, Jennifer Condos al basso, Eric Heywood alla chitarra elettrica e pedal steel e Bradley Meinerding alle chitarre elettriche e acustiche e mandolino, per registrare due esibizioni fatte nel corso di un week-end e tenute nel fienile di famiglia il 24 e 26 Maggio del 2015, dando così vita ad un concerto straordinario che tende vieppiù a caratterizzare le sonorità elettroacustiche della band e la voce della bionda Karin.

Idealmente diviso in due parti, il concerto parte con un set prevalentemente più “rootsy,” con brani tratti prevalentemente dall’ultimo album in studio Meet Me At The Edge Of The World, a partire dalla title track, una magnifica ballata country-folk d’atmosfera, seguita dall’ispirata melodia di Sacred Ground, con il mandolino di Bradley ad accompagnare la voce di Karin, il breve folk acido dello strumentale Cuyahoga, il ritmo sincopato di Gonna Let My Soul Catch My Body, rifatta in una bella versione unplugged, e una Suitcase (recuperata dal capolavoro Ohio), con un arrangiamento ridotto all’osso. Con la strepitosa ballata soul Called Home si alza decisamente il livello del concerto, seguita ancora dalla dolce I’d Want You, dove ritornano le atmosfere “agresti”, per poi andare a rivisitare brani datati e poco eseguiti in concerto, come la travolgente All I Need Is Everything (da Good Dog, Bad Dog), farci sempre commuovere con la melodia vincente di una ballata come Born (la potete trovare su Drunkard’s Prayer), introdotta dalle note del pianoforte di Linford, e cantata con la straordinaria voce di Karin, e rispolverare, sempre da un grande album come il citato Good Dog, Bad Dog, una delicata Poughkeepsie che viene eseguita come una sorta di “ninna nanna” country.

Dopo una breve pausa che viene usata, si presume, per gustare la produzione della fattoria (pane, salumi e uova con del buon vino e birra), si riparte con una deliziosa Making Pictures cantata a due voci da Karin e Linford, per poi rivoltare come un calzino Baby If This Is Nowhere, che viene rifatta in una versione country-blues, nonché riproporre uno dei brani più belli della coppia, I Want You To Be My Love (cercatela sempre su Drunkard’s Prayer), una ballata sorretta dalla scansione ritmica di una chitarra acustica, con la voce suadente della cantante ad intonare una melodia profonda ed emozionante, mentre la seguente Trouble (da The Trumpet Child) è una briosa divagazione in chiave jazz, e passare alle atmosfere sospese fra lounge e jazz della lunga e bellissima All My Favorite People (da The Long Surrender), dove si manifesta ancora una volta la bravura al piano di Detweiler. Nella parte finale del concerto vengono proposte un paio di “cover”, a cominciare dalla notissima It Makes No Difference (di Robbie Robertson della Band), riproposta in versione delicata e notturna, mentre la seguente  The Laught Of Recognition, viene ripescata dall’ottimo The Long Surrender, una meravigliosa ballata folk come The Laugh Of Recognition, con la pedal-steel di Eric Heywood in evidenza, prendere ancora dai solchi di Ohio una nuovamente notturna e “jazzata” Cruel And Pretty, con un piano che suona come ce si trovasse a New Orleans, omaggiare alla grandissima il Neil Young dei primi tempi con una grintosa Everybody Knows This Is Nowhere, e andare a chiudere il concerto, come era iniziato, con una versione solenne e struggente di una ballata stratosferica come Wait, (che era anche il brano di chiusura del citato Meet Me At The Edge Of The World), dove la voce della Bergquist raggiunge vette emotive di grande pathos.

Commozione e applausi nel fienile della fattoria Over The Rhine. Inutile dire che la carta vincente del gruppo è Karen Bergquist che possiede una voce tra le più duttili ed importanti del cantautorato americano (anche se pure Detweiler è un musicista di vaglia), e che riesce ad interpretare con grande classe liriche intense e musica profonda, entrambe costruite su temi melodici e drammatici, malinconici ed evocativi. Come in questo ultimo lavoro live, ma anche di fronte ad ogni disco degli Over The Rhine, viene da chiedersi perché questa band continua ad essere poco considerata e con CD tanto difficilmente reperibili ( in questo caso ancora più degli altri), un disco da non perdere assolutamente, sia per chi già li segue e li conosce, sia per chi non ha ancora avuto questa fortuna:  un approccio ed uno stile per chi ama la musica soffusa e intensa, quindi, come detto poc’anzi, per chi ama il suono onirico alla Cowboy Junkies, una musica per palati ed orecchie fini, ma anche per gli amanti delle atmosfere notturne dalle melodie intense, magari da gustare un po’ alla volta e con ascolti ripetuti, meglio se a notte fonda e in dolce compagnia. Un altro regalo dall’America e dalla fattoria targata  Over The Rhine dove la musica, anzi, per la precisione, la buona musica, è ancora un patrimonio culturale.

Tino Montanari

25 Canzoni Per Festeggiare 25 Anni Di Carriera: Un Altro Gioiellino Folk-Rock, Dal Cuore Dell’Australia. The Waifs – Ironbark

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The Waifs  – Ironbark – 2 CD Jarrah/Compass Records

Quest’anno il trio australiano dei Waifs festeggia i 25 anni di carriera: anche se poi a ben vedere il loro esordio discografico, con un album omonimo, pubblicato a livello indipendente, risale al 1996, e quindi i dieci dischi (otto in studio, compreso il nuovo Ironbark, e due dal vivo) in fondo sono una cospicua eredità sonora.

Nati nel 1992, dall’unione di Josh Cunningham, allora un 18enne chitarrista di belle speranze e le due sorelle Vikki Simpson, ai tempi 16 anni, chitarra e armonica, e Donna Simpson, 20 anni, che avevano iniziato girare l’Australia su un pulmino Kombi, facendosi chiamare Colours, ma che presto cambiarono nome in Waifs, continuando comunque a girare il continente australiano per altri 4 anni prima di pubblicare il disco di esordio. Dopo altri due album per la piccola Outside Music, fondano la loro Jarrah Records insieme al collega John Butler, mentre negli Stati Uniti firmano per la Compass Records. Cunningham, che suona tutti i tipi di strumenti a corda, è anche il principale autore del trio, nonché l’unico membro rimasto sempre a vivere in Australia, mentre le due sorelle, Vikki, che nel frattempo ha cambiato cognome in Thorne e Donna, si alternano come principali voci soliste, spesso in armonie vocali mozzafiato, e per qualche anno ritornavano dagli States in patria ogniqualvolta c’era da registrare un nuovo album, ma dal 2012 anche Donna è tonata a vivere in Australia.

Stranamente, per l’occasione, sono passati solo due anni dal precedente Beautiful You, che aveva segnato una svolta, secondo alcuni, verso un suono più pop e arrangiato (non per chi scrive http://discoclub.myblog.it/2015/08/23/il-miglior-folk-rock-dallaustralia-the-waifs-beautiful-you/ ), ma anche un riavvicinamento dopo anni di relazioni abbastanza tese tra i tre. Addirittura per il nuovo album si sono trovati, tutti e tre (e la loro abituale sezione ritmica, formata dal bassista Ben Frantz e dal batterista David Ross MacDonald) ad incidere il nuovo album nella cucina della casa di Josh Cunningham, per l’occasione trasformata in un piccolo studio di incisione e con l’albero di eucalipto nel giardino, Ironbark, che ha dato il titolo al nuovo lavoro. Un doppio album con 25 canzoni, una per ogni anno di carriera, e con Vikki Thorn che ne ha composte ben dieci, oltre ad una scritta in coppia con la sorella, dopo essere stata per anni la meno prolifica del gruppo. Come al solito ci sarà chi dirà che se ne avessero scritte meno l’album sarebbe stato più organico e meno dispersivo (ma lo dicevano anche del White Album dei Beatles o di Exile On Main Street degli Stones, tanto per volare bassi, pur se non siamo, ovviamente, a questi livelli): ma rispondendo con un’altra ovvietà, i latini dicevano “melius abundare quam deficere”, e allora abbondiamo!

Ma non nel sound, che viste le circostanze in cui è stato registrato l’album, segna un ritorno verso atmosfere più folk-rock: con l’iniziale Ironbark, scritta da Cunningham, ma cantata a turno da tutti e tre, in un florilegio di mandolini, chitarre acustiche, armonica, contrabbasso e percussioni, oltre alle proverbiali e splendide armonie vocali del gruppo, con Donna che è quella che ha la voce più roca e vissuta, Vikki, quella più acuta e squillante, e il barbuto Josh che è il Lindsey Buckingham della situazione; Higher Ground, ancora di Cunningham, cantata deliziosamente quasi all’unisono dalle due sorelle è un altro piccolo gioiellino folk-rock, con l’armonica di nuovo in evidenza, ma anche un dobro che aggiunge un tocco country all’insieme. Not The Lonely, l’unica firmata in coppia dalle sue sorelle, è quella che mette in luce l’aspetto più pop, ma deluxe, alla Fleetwood Mac, del gruppo americano, con ritmica, chitarre elettriche e acustiche come piovesse, e belle melodie tutte al loro posto, pensate anche alle Dixie Chicks al meglio delle loro capacità (a proposito di gruppi con sorelle). I Won’t Go Down, ancora scritta da Josh, ma cantata da tutti, è uno dei brani che più risentono dell’ambiente naturale della location, nata da una gita sulla spiaggia di Cunningham per trovare l’ispirazione e rovinata dal tempo pessimo, però non la canzone, che è un’altra splendida folk song intensa ed avvolgente, dalle ricchissime armonie, mentre Important Things ancora di Josh, è un brano molto vicino al classico West Coast sound di James Taylor.

Insomma mi pare la varietà sonora non manchi, Lion And Gazelle, la prima delle composizioni di Vikki Thorn, è una magnifica ballata, lenta e maestosa, mentre Done And Dusted, scritta da Donna, è una sorta di blues acustico, leggero e danzante e pure Dirty Little Bird, costruita dalla Thorne intorno ad un tenue giro di banjo conferma l’ispirazione ritrovata appieno dalla band. Senza citarvi tutte le canzoni, alcune delle quali già apparse negli album precedenti, vige peraltro un livello complessivo decisamente elevato, anche tra le 11 presenti nel 2° CD e presentate come “bonus tracks”, che ci regalano comunque uno degli album migliori del trio: vorrei ricordare ancora la dolcissima Grand Plans, la più bella di Cunningham, il country spensierato di Something’s Coming, la lunga e complessa Syria, dedicata al dramma della nazione mediorientale e delle sue popolazioni e la malinconica Long Way From Home. Nel secondo CD ancora un ottimo brano di Cunningham, Song For Jacqueline, illuminato dalle consuete splendide armonie vocali, la intensa The Strangest Thing, scritta dalla Simpson, con un lavoro chitarristico deciso, elettrica e pedal steel, che rimanda alle atmosfere bucoliche dei Cowboy Junkies, un’altra ballata magnifica come Take Me To Town, cantata splendidamente da Vikki Thorn, e di nuovo con una pedal steel sognante. Che “imperversa” anche in The Coast, sempre di Vikki, mai così ispirata nei dischi precedenti. Ma pure i cosiddetti episodi “minori, tipo una delicata ninna-nanna folk come Shiny Apple o il rock mosso e grintoso di una quasi “cattiva” Don’t You Ever Feel, confermano il ritorno dei Waifs ai livelli che loro competono, cioè quelli di una delle migliori band australiane.

Bruno Conti

Cantautrice Di “Culto” E Di Sostanza! Chris Pureka – Back In The Ring

chris pureka back in the ring

Chris Pureka – Back In The Ring – Sad Rabbit Records 

Anche Chris Pureka a livello discografico era ferma da parecchi anni: l’ultimo album (a parte un Live autogestito pubblicato nel 2012 e l’EP Chimera II dell’anno successivo) risale al 2010, How I Learned To Sing In The Dark, che a detta di molti era il suo migliore in assoluto http://discoclub.myblog.it/2010/11/01/tutto-vero-quello-che-si-dice-su-di-lei-chris-pureka-how-i-l/ . Proprio in quegli anni la Pureka si era trasferita a vivere a Portland, Oregon, dove aveva iniziato a scrivere le prime canzoni che poi avrebbero fatto parte del suo album successivo, tra cui la title-track Back In The Ring, che raccontava di conflitti, periodi bui e fine di relazioni, anche se col tempo gli angoli si sono smussati. Poi però nel panorama musicale attuale bisogna trovare i fondi per incidere gli album e anche Chris si è rivolta al sistema del crowdfunding attraverso Pledge Music per finanziare il nuovo album e grazie ai suoi fans ha potuto registrare quello che a chi scrive sembra un album molto interessante, autoprodotto da lei stessa La Pureka in passato è stata accostata, musicalmente, a gente come Patty Griffin, Neko Case, Dar Williams, i Cowboy Junkies (comunque tutte più brave, per essere onesti fino in fondo) quindi non solo una semplice folksinger acustica, ma una cantautrice dagli arrangiamenti ricchi e complessi, con una bella voce in grado di fare vivere le sue storie attraverso una musica molto raffinata ed intrigante, che la aveva fatta molto amare dallo scomparso promoter italiano Carlo Carlini.

Direi che questo album conferma quelle impressioni, dalla risonante chitarra elettrica che si schiude nelle prime note di Back In The Ring (la canzone) si capisce che ancora una volta siamo a bordo per un viaggio sonoro, dove le storie cupe e frammentate si accompagnano ad un tessuto sonoro ricco e sfaccettato, la voce avvolta in una leggera eco che la moltiplica, ma sempre con questa aria di vulnerabilità pur nel sicuro timbro sonoro della nostra amica. Le canzoni sono scritte quasi tutte attorno al suono di una chitarra elettrica, discreta ma quasi sempre presente, un po’ come è stato anche in tempi recenti per Laura Marling, lo strumento non prevarica mai il suono, ma è comunque una delle costanti dei brani, con tocchi di tastiere, una sezione ritmica discreta, comunque ben evidente, volendo c’è qualche similitudine con le band o i solisti che vengono dalla scena di Portland, penso a Laura Veirs o alle cose più quiete dei Decemberists, oltre naturalmente ai nomi citati prima: Holy è una folk song arricchita da una melodia melanconica, con un ritornello che si può persino canticchiare, in modo sommesso e la presenza dell’unico nome “celebre” Gregory Alan Isakov, alle armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=Vi-NpKTbSG4 , Betting On The Races è addirittura l’idea di una canzone pop nelle intenzioni della Pureka, un brano gentile me coinvolgente che può ricordare certe cose meno mainstream di Brandi Carlile (con cui condivide l’orientamento sessuale, anche se non è importante nell’ambito musicale).

Silent Movie ha un’urgenza elettrica, con le chitarre ben delineate e la voce più in primo piano che nel passato, per un sound quasi indie-rock, mentre Blind Man’s Waltz, fin dal titolo, potrebbe essere una canzone à la Cowboy Junkies, con le sue atmosfere sospese, la voce che si impenna leggermente ma poi rientra nel corpo della canzone, anche se l’approccio vocale è meno “sussurrato” rispetto a quello di Margo Timmins. Bell Jar ritorna all’approccio acustico e folk dei primi album, almeno nella parte iniziale, poi entrano una elettrica, la sezione ritmica e un violino lancinante (Max Voltage) e la canzone prende corpo, con Crossfire (The Matador) di nuovo sofferta e più ricca di grinta, che si avvolge intorno all’interpretazione vocale della Pureka, molto partecipe e intensa. Tinder, più oscura e misteriosa è forse la più folk del lotto, indie-folk ok, ma pur sempre prettamente acustica, ed anche Cabin Fever mi sembra si possa avvicinare di nuovo alla Brandi Carlile più intimista e raffinata. Pure in Midwest ricorre questo approccio del piano/forte, tipico della musica indie, con la musica che sale improvvisamente e poi si quieta, con picchi e valli continui che si alternano spesso, come è caratteristica comune anche nel resto dell’album, tra violini, chitarre acustiche, forse un cello o una viola (Nathan Crockett) che rivestono la voce della Pureka. A concludere il tutto Crossfire II (The Dirge), brano che , come altri, potrebbe avere punti di contatto anche con la musica e la vocalità di Sinead O’Connor, quella meno trasgressiva e più strutturata. Una buona prova per Chris Pureka che si conferma cantautrice di “culto” e sostanza, da tenere d’occhio e a portata di orecchio.

Bruno Conti