Né Disco Nuovo Né Ristampa: Solo Grandissima Musica! Dave Alvin – From An Old Guitar

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Dave Alvin – From An Old Guitar: Rare And Unreleased Recordings – Yep Roc CD

Sono ormai diversi anni che Dave Alvin non ci regala un nuovo album di inediti, e per l’esattezza da Eleven Eleven del 2011, peraltro uno dei suoi lavori migliori https://discoclub.myblog.it/2011/07/04/elementare-watson-undici-album-undici-canzoni-dave-alvin-ele/ . Non è però che in questi nove anni l’ex chitarrista e principale compositore dei Blasters se ne sia stato con le mani in mano, dal momento che ha pubblicato due dischi di cover insieme al fratello Phil e, nel 2018, il riuscito Downey To Lubbock in partnership con Jimmie Dale Gilmore https://discoclub.myblog.it/2018/06/11/la-non-poi-cosi-tanto-strana-coppia-funziona-alla-grande-dave-alvin-jimmie-dale-gilmore-downey-to-lubbock/ . E quest’anno è uscito anche un altro ottimo disco https://discoclub.myblog.it/2020/03/06/un-dave-alvin-diverso-ma-sempre-notevole-the-third-mind/ . Ora il musicista californiano torna tra noi con From An Old Guitar, il cui sottotitolo Rare And Unreleased Recordings lascia capire che anche questa volta non siamo di fronte ad una proposta nuova di zecca, ma nello specifico ad una raccolta di brani pubblicati in passato ma di difficile reperibilità.

Infatti tra i sedici pezzi del disco troviamo canzoni provenienti da tribute albums da tempo fuori catalogo, brani pubblicati solo in forma “liquida” (e quindi mai in CD) ed anche due inediti assoluti. Un po’ come aveva fatto a fine 2018 John Mellencamp con Other People’s Stuff, che però era troppo breve (mentre From An Old Guitar dura 67 minuti) e raccoglieva diversi brani non così rari. Alvin è un grandissimo musicista, uno dei paladini del genere Americana, ed il bello del CD di cui mi accingo a parlare è che ha un’unitarietà ed una compattezza, oltre ad essere splendido, che lo fanno sembrare proprio un disco nuovo e non un collage di incisioni passate. From An Old Guitar è composto principalmente da cover (i brani originali sono solo tre), ed è un fantastico mix di rock’n’roll, folk, parecchio blues, country e ballate, tutti generi in cui Dave è in grado di dire la sua in maniera più che autorevole sia che si esibisca in veste acustica sia a capo di una rock band.Nelle varie canzoni troviamo qua e là membri dei Guilty Men e delle Guilty Women, l’ex sezione ritmica dei Blasters John Bazz e Bill Bateman, l’amico Chris Gaffney, scomparso ormai da diversi anni, gli abituali collaboratori Greg Leisz e Rick Shea oltre a luminari come Bill Frisell, i bassisti Dave Roe e Bob Glaub, il pianista Gene Taylor e l’ex BR5-49 Chuck Mead.

I pezzi meno rari dell’album sono due canzoni tratte dall’edizione “expanded” di Eleven Eleven (entrambe scritte da Alvin), ovvero il travolgente boogie chitarristico Beautiful City ‘Cross The River, con la fisarmonica di Skip Edwards che crea un accattivante contrasto sonoro (ma sentite che due assoli che piazza Dave) ed il sinuoso ma solido blues elettrico Signal Hill Blues, suonato in maniera molto classica con due chitarre, basso e batteria. Cinque pezzi sono presi da vari tributi, a partire da Link Of Chain di Chris Smither, sontuosa ballata in bilico tra country e blues con uno splendido interplay chitarristico tra l’acustica di Dave e la slide di Danny Ott ed un motivo di prima scelta. Amanda di Waylon Jennings (ma scritta da Bob McDill) è rifatta in perfetto stile valzerone texano, cantata alla grande e suonata anche meglio, Mobile Blue (Mickey Newbury) è puro country-rock elettrico dal ritmo spedito e melodia diretta e coinvolgente, molto Blasters, mentre la folkeggiante e cristallina On The Way Downtown di Peter Case è uno dei tanti momenti magici di un disco che è un piacere continuo: Gaffney si unisce a Dave nel ritornello ed il brano viaggia spedito che è una meraviglia.

Il quinto ed ultimo brano tratto da un tributo è il formidabile rockin’ country Dynamite Woman, un classico di Doug Sahm che Alvin fa suo con una performance decisamente contagiosa. Ed ecco una delle parti più interessanti del CD, vale a dire sette pezzi pubblicati solo sul sito web della Yep Roc e quindi mai prima di oggi in formato fisico: si parte con un’ottima rilettura del classico di Bob Dylan Highway 61 Revisited, con Dave che usa il talkin’ alla John Lee Hooker (e la sua voce baritonale aggiunge fascino), mentre la parte strumentale tra blues e boogie è una goduria. Variations On Earl Hooker’s Guitar Rumba è uno strepitoso strumentale dal ritmo latineggiante scritto dal musicista citato nel titolo, con un sublime assolo pianistico di Joe Terry subito doppiato dalla fisa di Gaffney e Dave che ci regala fraseggi che sembrano uscire da una revue degli anni 50, al punto che mi aspetto quasi l’entrata della voce di Raul Malo da un momento all’altro. Albuquerque, di Papa Link Davis, è rifatta in puro spirito rock’n’roll con il nostro che va giù dritto di wah-wah ben sostenuto da una ritmica granitica ed un’armonica bluesy.

Perdido Street Blues (antico brano dei New Orleans Wanderers scritto da Lil Hardin, seconda moglie di Louis Armstrong) è un altro strumentale godurioso e swingatissimo, con prestazioni superbe di Dave alla chitarra, Taylor al piano e Leisz alla steel, un divertimento unico sia per loro che suonano che per noi che ascoltiamo; Krazy And Ignatz, terza ed ultima canzone composta da Alvin, è uno splendido duetto blues ancora strumentale tra la national guitar del leader ed il dobro di Cindy Cashdollar. Chiudono i sette brani pubblicati per la prima volta su CD una cadenzata e sanguigna rilettura del blues di Willie Dixon Peace ed una ripresa di Man Walks Among Us di Marty Robbins in veste di moderna western ballad. Dulcis in fundo, ecco i due inediti assoluti: Inside è la toccante cover di un brano dello scomparso Bill Morrissey, un pezzo fluido e disteso che dimostra la bravura di Dave anche in veste di balladeer, mentre Who’s Been Here è un duetto tra Alvin e Christy McWilson su un vecchio blues di Bo Carter trasformato in un trascinante country’n’roll con chitarre e dobro in evidenza. E’ un peccato che From An Old Guitar non sia un vero “nuovo” album: saremmo infatti di fronte ad uno dei dischi dell’anno.

Marco Verdi

Grande Rock & Roll, Da Parte Di Uno Che Sa Come Farlo! Robert Gordon – Rockabilly For Life

robert gordon rockabilly for life

Robert Gordon – Rockabilly For Life – Cleopatra CD

Robert Gordon alla bella età di 73 anni non ha ancora perso la voglia di fare musica, ed a più di un lustro dal suo ultimo lavoro (I’m Coming Home, 2014) si rifà vivo con uno dei dischi più importanti della sua carriera. Rockabilly For Life è un titolo che racchiude perfettamente la visione musicale di Gordon, che a parte un breve periodo punk-rock negli anni settanta ha sempre avuto nel rock’n’roll degli anni cinquanta il suo genere di riferimento. Anzi, Gordon è un personaggio per il quale il tempo si è davvero fermato alla seconda metà dei fifties, sia per il suo look da eterno “teddy boy” sia soprattutto per la musica che ha sempre proposto con alterne fortune ma con un’invidiabile coerenza artistica, collaborando spesso con grandi chitarristi (Link Wray https://discoclub.myblog.it/2014/10/25/peccato-la-qualita-sonora-perfetta-il-concerto-fantastico-robert-gordon-link-wray-cleveland-78/  e Danny Gatton, tanto per citarne due) e facendo la musica che lo divertiva di più.

Rockabilly For Life, pubblicato dalla controversa etichetta californiana Cleopatra (che però questa volta non sembra avere fatto danni fatto danni), è un viaggio da parte del rocker del Maryland attraverso quindici canzoni del bel tempo che fu, una serie di brani che però non sono classici assodati del rock’n’roll bensì pezzi piuttosto oscuri appartenenti al repertorio di artisti che molto spesso non vengono neppure citati nelle enciclopedie specializzate, nomi come Benny Joy, Billy Eldridge, Bobby Lord, Wynn Stewart, Bob Luman, Tony Orlando, Roy Hall e Johnny Burnette (forse il più “famoso” di tutti). Inciso ad Austin tra gennaio e febbraio del 2019 con la produzione di Danny B. Harvey e la collaborazione della Reference Mix Band (lo stesso Harvey alla chitarra, Pierre Pelegrin al basso e Paul Vezelis alla batteria), l’album presenta quindici pezzi che vedono la presenza di un ospite diverso in ogni canzone, con diversi nomi a noi molto noti e perfino qualche vera e propria leggenda vivente della nostra musica. Un disco importante fin dalla sua presentazione quindi, ma una volta ascoltato devo fare un plauso allo stesso Gordon che nonostante gli anni e la non più assidua attività è ancora un rocker coi fiocchi, capace di intrattenere e coinvolgere senza problemi l’ascoltatore (ospiti o non ospiti), e tuttora in possesso di una grinta che musicisti che potrebbero essere suoi nipoti si sognano.

Il CD si apre subito in maniera trascinante con Steady With Betty, un movimentato boogie con un uso del basso molto pronunciato ed un assolo tagliente da parte di James Williamson (ex Stooges), un brano tra punk, surf e rockabilly. Chris Spedding è stato per anni partner di Gordon, e qui torna a fianco del suo amico di lunga data per una Let’s Go Baby saltellante ed assolutamente godibile, sullo stile di pionieri come Gene Vincent e Eddie Cochran; il grande Albert Lee lo si riconosce dopo due note, e qui mette il suo “chicken pickin’ style” al servizio della limpida Everybody’s Rockin’ But Me, un country’n’roll perfetto per il vocione del nostro, mentre Linda Gail Lewis, sorella mai troppo considerata del leggendario Jerry Lee, ci fa ascoltare il suo pianismo debordante e la sua voce grintosa nella cadenzata She Will Come Back, altro pezzo giusto a metà tra rock’n’roll e country. Paul Shaffer è stato per decenni il direttore della house band del Late Show With David Letterman, un musicista ed arrangiatore formidabile che in Try Me si “limita” a suonare il pianoforte (ma sentite il suo assolo, da paura), mentre Gordon rockeggia che è un piacere in mezzo a chitarre a manetta e ritmo forsennato: strepitosa.

Dale Watson è un countryman tra i più bravi e la sua voce baritonale si integra benissimo con quella di Robert in I’m Glad My Baby’s Gone Away, un honky-tonk elettrico tutto da godere; Kathy Valentine era la chitarrista delle Go Go’s di Belinda Carlisle, e nel travolgente boogie-swamp Please Give Me Something dà dei punti a tanti maschietti con una performance da consumata axewoman, ed il ritmo non molla neppure nella seguente Black Cadillac, un jump-blues irresistibile dove alla batteria troviamo Clem Burke dei Blondie. Ed ecco il grande Dave Alvin, manco a dirlo l’avvincente Three Alley Cats sembra al 100% una outtake dei Blasters, mentre la cadenzata If You Want It Enough vede Jimmy Hall, cantante dei Wet Willie, doppiare all’armonica la voce del nostro con ottima perizia; la brava Rosie Flores porta un po’ di Texas rock’n’roll all’interno del disco, prestando la sua voce e chitarra solista nell’adrenalinica Hot Dog That Made Her Mad. Siamo quasi al termine, ma c’è ancora spazio per il granitico rock-blues One Cup Of Coffee che vede il grande Joe Louis Walker far cantare splendidamente la sua solista https://www.youtube.com/watch?v=RSbAn6kHQEM , a cui fanno seguito il rockabilly swingato I’ve Had Enough con il countryman Steve Wariner alla lead guitar ed il gradevole e ritmato country-rock Would Ja in cui Robert duetta con Emanuela Hutter, per concludere con una leggenda, Steve Cropper, che arrota da par suo nella guizzante rock ballad fifties-oriented Knock Three Times.

Come bonus abbiamo le stesse canzoni presentate come “reference mixes”, cioè Gordon e la house band senza gli ospiti, in pratica due volte di fila lo stesso album. Ma basta ed avanza la prima parte, quindici canzoni di puro intrattenimento rock’n’roll che vanno a formare uno dei dischi più divertenti degli ultimi mesi.

Marco Verdi

Il Ritorno, Inatteso, Di Uno Dei Gruppi Di Culto Per Antonomasia Degli Anni Ottanta, Ora Anche In CD. X – Alphabetland

x alphabetland

X – Alphabetland – Fat Possum Download/CD da fine luglio/inizio agosto

Durante la lunga e maledetta quarantena alla quale buona parte del mondo è stata costretta negli ultimi mesi, diversi musicisti hanno pensato di alleviare le pene di chi era costretto a casa anticipando via streaming e download uscite discografiche che si spera saranno seguite anche dal supporto “fisico” (come per esempio Phish, Cowboy Junkies e Joe Ely) o pubblicando a sorpresa nuovi singoli, sempre in formato digitale (Bob Dylan e Rolling Stones). Tra le varie anticipazioni (le versioni in CD e vinile escono tra fine luglio e agosto, anche se su Bandcamp sono già ordinabili) questo nuovo Alphabetland degli X è da considerarsi un piccolo evento, in quanto la punk-rock band di Los Angeles non pubblicava un nuovo album di studio da ben 27 anni, che diventano 35 se andiamo a cercare l’ultimo disco con la formazione originale (Ain’t Love Grand): infatti in questo Alphabetland troviamo proprio i quattro membri che fondarono il gruppo nel lontano 1977, e cioè i cantanti ed ex coniugi John Doe (anche bassista) ed Exene Cervenka, il chitarrista Billy Zoom ed il drummer DJ Bonebrake.

I quattro in realtà avevano ricominciato ad esibirsi insieme dal vivo con tour sporadici e spettacoli “one-off” già dal 2004, ma un album nuovo non sembrava nei programmi nemmeno quando lo scorso anno era uscito il singolo Delta 88 Nightmare, che tra parentesi è l’unico pezzo tra quelli presenti su Alphabetland a risalire ai tardi anni settanta, in quanto gli altri dieci sono stati scritti tutti negli ultimi 18 mesi. Prodotto da Rob Schnapf (Elliott Smith, Beck), Alphabetland ci fa ritrovare un gruppo che non è mai stato popolarissimo ma che negli anni ottanta era arrivato ad un buon livello di culto, oltre a godere della stima di molti colleghi (Dave Alvin aveva perfino fatto parte della band, anche se per un solo disco). I quattro sono in ottima forma, e ci consegnano un lavoro che fonde in maniera esplosiva punk e rock’n’roll, con brani suonati a mille all’ora, le chitarre sempre in tiro e la sezione ritmica che non molla un secondo: per chi non li conoscesse (o se li fosse dimenticati), la loro musica si potrebbe paragonare a quella dei Ramones, anche se forse la band dei Queens era più monotematica per ciò che riguarda il songwriting.

Un album fresco, corroborante ma anche di piacevole ascolto, benché la durata di 27 miseri minuti sia forse fin troppo esigua, in pratica un minuto di musica per ogni anno che li separava dal loro ultimo album di inediti, Hey Zeus. Il lavoro inizia con la title track (canta Exene), che dà subito il via al ritmo sostenuto e con la chitarra che riffa alla grande, ma il brano non è affatto ostico ed anzi si rivela godibile, con tanto di ritornello a due voci e coretti nel bridge. Free vede Doe alla voce solista, ed è di nuovo una scarica elettrica con le chitarre che fendono l’aria, ma il motivo di fondo mantiene il marchio di rock’n’roll song suonata con foga da punk band. Water & Wine è puro punk’n’roll, divertente, trascinante e con un assolo di chitarra breve ma godurioso (e spunta anche un sax), Strange Life, cantata a due voci, è coinvolgente sin dalle prime note e presenta un riff accattivante, così come I Gotta Fever che nei suoi due minuti e mezzo scarsi non fa prigionieri, mostrando che la grinta è ancora quella di un tempo.

La già citata Delta 88 Nightmare è una corsa forsennata ai 200 all’ora che si ferma ben al di sotto dei due minuti, Star Chambered, pur mantenendo un ritmo acceso, ha una struttura più lineare ed un motivo ben definito, mentre Angel On The Road ha una delle melodie più articolate del lavoro, e sembra uscita dal periodo classico della band. L’album si chiude con Cyrano DeBerger’s Back, che è il pezzo più diverso essendo un funk-rock cadenzato ed orecchiabile, la forsennata Goodbye Year, Goodbye e la bizzarra All The Time In The World, uno strano talkin’ con sullo sfondo un piano suonato in modalità jazz-lounge e licks di chitarra da parte dell’ospite Robby Krieger, che conferma il legame degli X con i Doors dato che Ray Manzarek aveva prodotto i loro primi quattro album.

Un ritorno quindi inatteso e di buon livello questo degli X: Alphabetland è un lavoro che nonostante la scarsa durata ci procura una salutare scarica di adrenalina, molto utile in questi tempi cupi.

Marco Verdi

Un Dave Alvin “Diverso” Ma Sempre Notevole. The Third Mind

the third mind

The Third Mind – The Third Mind – Yep Roc CD

Penso che non ci siano dubbi sul fatto che Dave Alvin sia uno dei campioni mondiali del genere roots rock/Americana, e che appartenga alla ristretta cerchia di musicisti che non hanno mai sbagliato un disco, sia come leader dei Blasters insieme al fratello Phil che come solista. Questa volta però il rocker californiano ha voluto fare qualcosa di diverso, andando a ricreare le atmosfere psichedeliche del periodo 1967-69: il risultato è The Third Mind, che oltre ad essere il titolo dell’album è anche il nome del supergruppo dietro il quale Dave ha deciso di “nascondersi” (nome ispirato da un libro scritto da William S. Burroughs, famoso artista della Beat Generation, insieme a Brion Gysin), un quartetto in cui l’ex Blasters è coadiuvato dall’altro chitarrista David Immergluck, noto per i suoi trascorsi con Camper Van Beethoven, Counting Crows e John Hiatt Band (e più di recente con James Maddock), dal bassista Victor Krummenacher, anch’egli dei Camper Van Beethoven, e dal batterista Michael Jerome (Richard Thompson, John Cale, Blind Boys Of Alabama).

I quattro si sono dati appuntamento in uno studio in Connecticut e hanno registrato sei brani (cinque cover ed un originale) usando un approccio, a detta di Alvin, alla Miles Davis (nel periodo in cui sperimentava con il suo produttore Teo Macero), cioè scegliendo una tonalità di partenza e suonando in presa diretta e senza seguire alcun spartito o vincolo musicale. Il risultato è un eccellente disco che ci riporta idealmente indietro di cinquanta anni, quando San Francisco era la capitale mondiale della musica rock e gli acid test a base di LSD e quant’altro erano all’ordine del giorno, e l’elenco dei musicisti ai quali l’album è dedicato è emblematico: Gary Duncan, John Cipollina, Roky Erickson e Mike Bloomfield. Grande musica, con le chitarre dei due leader che si scambiano licks e assoli come se piovesse e la sezione ritmica che li asseconda in maniera solida e potente: un suono che non ti aspetti da uno come Alvin (ma anche Immergluck si muove solitamente in territori “roots”), ma il disco risulta comunque riuscito, coinvolgente e per nulla ostico. L’iniziale Journey In Satchidananda (brano strumentale del 1970 di Alice Coltrane, musicista di estrazione jazz moglie del grande John Coltrane e scomparsa nel 2007) parte piano, con i nostri che sembrano accordare gli strumenti e lanciano vibrazioni psichedeliche alla Grateful Dead, poi il brano prende corpo a poco a poco ma sempre in modo soffuso: basso e batteria procedono con fare attendista, ma i due chitarristi iniziano a fendere l’aria con svisate elettriche notevoli, con Dave che si produce in un lungo e lirico assolo subito doppiato da uno acidissimo di Immergluck.

The Dolphins (Fred Neil) è nettamente più distesa e rilassata, con Alvin che ci fa sentire la sua ugola baritonale: il brano, splendido, mantiene l’anima folk originale con l’aggiunta però della chitarra dell’ex Blasters, che ci regala momenti formidabili di pura psichedelia. La breve, meno di tre minuti, Claudia Cardinale è l’unico pezzo originale, una canzone dedicata ad un’icona della bellezza degli anni sessanta (Bob Dylan fece inserire addirittura una sua foto nella copertina interna di Blonde On Blonde) che è uno strumentale per chitarra dall’andamento ipnotico ma nello stesso tempo profondamente melodioso e godibile, con un finale in deciso crescendo. Il CD arriva alla sua parte cruciale con i nove minuti della nota Morning Dew, folk song di Bonnie Dobson ma resa famosa dai Grateful Dead, dal testo post-apocalittico che mette i brividi ancora oggi: la versione dei nostri è strepitosa (la voce femminile è di Jesse Sykes, ospite speciale solo in questo brano), con la base che rimane folk, il tempo lento e Dave che fornisce la parte rock con la sua magica chitarra, ed un crescendo strumentale fantastico ed emozionante https://www.youtube.com/watch?v=sOzHXb-u92s . Niente psichedelia, solo grande musica rock.

Ma ecco il centerpiece del disco, cioè una sensazionale rilettura di sedici minuti del capolavoro della Butterfield Blues Band East-West (l’originale durava tre minuti di meno), un tour de force incredibile in cui ascoltiamo un’esplosione di rock, psichedelia, blues e musica orientale in un tripudio di chitarre (c’è anche un’armonica, suonata da Jack Rudy) e con la sezione ritmica che pare un treno in corsa: una jam fluidissima nella quale i nostri mostrano di poter suonare qualsiasi cosa riuscendo sempre a farci godere come ricci. Il CD si chiude con una versione potente, roccata e coinvolgente di Reverberation, un classico dei 13th Floor Elevators di Roky Erickson, forse il brano più diretto ed immediato dell’album. Questo per quanto riguarda il disco “normale”, ma la prima tiratura (che credo si trovi ancora) presenta due bonus tracks, ovvero due versioni alternate di East-West: la prima è un remix ad opera del noto produttore Tchad Blake, mentre la seconda è una take differente e forse ancora più roccata e trascinante. Un gran bell’esordio questo dei Third Mind, un album da consigliare non solo ai fan di Dave Alvin: c’è solo da sperare che non si tratti di un evento estemporaneo.

Marco Verdi

Il Primo Disco Da “Top Ten” Del 2020? Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick

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Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick – Paradise Of Bachelors CD

Sinceramente non pensavo che Terry Allen, grandissimo cantautore texano attivo dagli anni settanta, avesse ancora voglia di scrivere ed incidere canzoni alla sua veneranda età (quest’anno sono 77 primavere), anche perché nel nuovo millennio ha dato alle stampe solo un album di materiale nuovo, l’ottimo Bottom Of The World del 2013. E invece Allen (che si dà ancora molto da fare come pittore, scultore ed artista multimediale) non solo ha appena pubblicato quasi a sorpresa un disco nuovo di zecca, Just Like Moby Dick, ma è riuscito a darci un lavoro di qualità eccelsa, probabilmente il suo migliore almeno da Human Remains del 1996 (qualcuno lo ha giudicato il suo album più riuscito dopo il capolavoro Lubbock (On Everything) del 1979, altri addirittura il suo migliore in assoluto: io direi più prudentemente che è meglio di tutto quello che Terry ha pubblicato tra Lubbock e Human Remains e anche dopo, e stiamo parlando di uno che non ha mai sbagliato un colpo).

Just Like Moby Dick ci consegna un artista lucidissimo ed in forma strepitosa, ancora in grado di scrivere canzoni splendide e di interpretarle con un feeling straordinario che non risente per nulla dell’età avanzata: i suoi brani partono sempre dal country per toccare quasi tutti i generi della musica americana (qui forse un po’ meno che in Lubbock), tra folk, rock, blues e ballate, e non mancano i testi tra il surreale ed il sarcastico, altro marchio di fabbrica del nostro. La voce di Terry con gli anni è diventata più profonda (ricorda un po’ quella di Kris Kristofferson), ed in questo disco si fa aiutare spesso e volentieri dall’ugola squillante della brava Shannon McNally https://discoclub.myblog.it/2017/07/12/cosi-brave-ce-ne-sono-poche-in-giro-shannon-mcnally-black-irish/ , che spesso diventa la voce solista, mentre alla produzione non c’è il solito Lloyd Maines (che però suona nel disco, slide acustica e dobro) ma un altro nome-garanzia: Charlie Sexton. Oltre ai tre musicisti appena citati la Panhandle Mystery Band in questo album è completata dal figlio di Terry, Bukka Allen, al piano e soprattutto fisarmonica, Richard Bowden al violino e mandolino, Glenn Fukunaga al basso, Davis McLarty alla batteria e Brian Standefer al violoncello.

Just Like Moby Dick è quindi un disco di canzoni pure, senza le stranezze della ristampa dello scorso anno Pedal Steal + Four Corners https://discoclub.myblog.it/2019/04/12/una-ristampa-interessante-ma-di-certo-non-per-tutti-terry-allen-pedal-stealfour-corners/: solo grande musica. Houdini Didn’t Like The Spiritualists (titolo super) è una splendida ballata dal chiaro sapore texano, limpida e distesa, in cui Terry duetta alla grande con la McNally in un tripudio di chitarre acustiche, slide, fisarmonica e violino ed un ritornello delizioso: un inizio notevole. Abandonitis è più ritmata, elettrica e spigolosa, ma è smussata dalla fisa e dalla slide di Maines, e poi l’incedere del brano tra country e rock è decisamente coinvolgente; Death Of The Last Stripper, scritta da Terry con la moglie Jo Harvey Allen e con Dave Alvin, è un’altra Texas ballad pura e cristallina, di nuovo servita da una melodia di prima qualità e da un’intensità non comune, merito anche della voce carismatica del nostro. All That’s Left Is Fare-Thee-Well prosegue sullo stesso stile, una canzone di confine dal pathos incredibile eseguita a tre voci (canta anche Sexton, che è co-autore del pezzo con Terry e Joe Ely) e con intermezzi strumentali da pelle d’oca, grazie all’onnipresente fisa di Bukka e a Maines, qui al dobro.

La lenta Pirate Jenny alterna strofe intense e profonde in cui Allen quasi parla al solito squisito refrain a due voci, mentre American Childhood è uno dei punti cardine del disco, una sorta di mini-suite in tre movimenti che fa crescere ulteriormente di livello il lavoro, e che inizia con la trascinante Civil Defense, elettrica e bluesata, prosegue con l’incalzante Bad Kiss e termina con la mossa e vibrante Little Puppet Thing, altro brano dallo sviluppo strumentale splendido ed influenze quasi tzigane. La pianistica All These Blues Go Walkin’ By è semplicemente meravigliosa, una ballatona cantata (solo da Shannon) e suonata in modo sontuoso, da brividi lungo la schiena, che contrasta apertamente con la saltellante City Of The Vampires, quasi cabarettistica nell’accompagnamento ma dannatamente seria nell’insieme ed indubbiamente coinvolgente. Il CD si chiude con la languida Harmony Two, una incantevole country song d’altri tempi, direi anni cinquanta, e con Sailin’ On Through, altra irresistibile ballata tipica del nostro, nuovamente intrisa di Texas fino al midollo.

Un grande disco questo Just Like Moby Dick, un lavoro che, pur essendo uscito alla fine di Gennaio, ritroveremo a Dicembre in molte classifiche di fine anno.

Marco Verdi

E Da Questo Disco In Poi La Sua Carriera Cambiò Passo! Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary

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Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary – Craft/Universal CD

All’indomani dello scioglimento dei Blasters avvenuto a metà degli anni ottanta, tutti avrebbero scommesso su una fulgida carriera del cantante del gruppo, Phil Alvin, che invece si infilò in un vicolo cieco ed è tuttora fermo a County Fair 2000 del 1994 (anche se ci sono state reunion sporadiche con gli stessi Blasters, con o senza Dave Alvin, ed i due recenti album proprio in duo con il fratello). Quello che invece ha avuto un percorso costante e fatto di album di qualità media sorprendentemente alta è stato proprio Dave, che nei Blasters era il chitarrista e l’autore delle canzoni: mancava la voce, ma fin dal suo debutto solista Romeo’s Escape (Every Night About This Time in Europa) rivelò di possederne una bellissima, profonda e baritonale, completamente in contrasto con quella nasale ed un po’ chioccia di Phil. I due lavori successivi, Blue Blvd. e Romeo’s Escape, erano due ottimi esempi di rock americano al 100%, ma è con King Of California del 1994 che Dave fece il botto (di critica, non di vendite purtroppo), un album davvero splendido, uno dei primi e più fulgidi esempi di quel roots-rock che nei primi anni novanta andava per la maggiore in decisa contrapposizione con l’imperante movimento grunge. Prodotto da Greg Leisz, King Of California vedeva Dave rivisitare alcune pagine del suo passato, proporre una manciata di cover ed anche introdurre un paio di pezzi nuovi, ma con un approccio perlopiù acustico ed una visione che andava dal folk al blues al country, in cui il rock veniva solo sfiorato.

Da lì in poi Dave venne giustamente considerato come uno dei principali esponenti del rock d’autore made in USA, ed oggi la Craft, etichetta distribuita dalla Universal (in origine il CD uscì per la Hightone), ristampa quel disco fondamentale per il venticinquesimo anniversario, rimasterizzandolo ad arte ed aggiungendo tre bonus tracks. E, se possibile, King Of California è cresciuto ancora in tutti questi anni migliorando ulteriormente: le sonorità cristalline ad opera di Dave (che qui suona solo la chitarra acustica) e di Leisz, superbo musicista che si occupa di tutti ali altri strumenti a corda, risplendono magnificamente anche a distanza di cinque lustri, grazie alla bravura degli altri sessionmen coinvolti (tra cui segnalerei Bob Glaub e James Intveld al basso, Donald Lindley alla batteria, Skip Edwards alla fisarmonica ed organo e Steve Van Gelder al violino) e soprattutto alla bellezza delle canzoni. Come ho accennato prima i brani nuovi sono soltanto due ed il primo è proprio la title track con la quale inizia l’album, una splendida folk ballad con il vocione caldo di Dave a tessere un motivo che profuma di tradizione, con il solo accompagnamento di una chitarra acustica arpeggiata con forza, la slide acustica e il mandolino di Leisz ed una leggera percussione; anche meglio Goodbye Again, meravigliosa canzone dal sapore messicano in cui Alvin duetta con Rosie Flores (che è anche co-autrice del pezzo), una melodia cristallina e grande lavoro di fisa di Edwards: grandissimo brano, me lo ero (colpevolmente) dimenticato.

Dave ripropone anche un paio di pezzi dai suoi primi album solisti: Fourth Of July rimane una splendida canzone anche in questa versione più roots, con ritmo sempre sostenuto ed ottime parti di chitarra (l’elettrica è di Leisz) ed organo, ed anche Every Night About This Time non è da meno neppure in questa rilettura lenta ma piena di pathos, dotata di un crescendo degno di nota. Alvin ci delizia poi con quattro cover: una gustosa East Texas Blues (di Whistlin’ Alex Moore) eseguita in totale solitudine, voce e chitarra alla Mississippi John Hurt, una bellissima Mother Earth di Memphis Slim, sempre blues ma con un godurioso arrangiamento a base di slide acustica, mandolino, basso e batteria (e sentori di old-time music), la tenue Blue Wing, scritta dall’amico Tom Russell ma fino a quel momento inedita (un tipico pezzo del cantautore californiano, con profumo di frontiera), ed uno splendido duetto con Syd Straw sulle note di What Am I Worth (vecchio brano di George Jones), versione formidabile che mantiene intatto lo spirito country dell’originale. Dulcis in fundo, Dave riprende in mano cinque canzoni dei Blasters, a partire da Barn Burning, originariamente una robusta rock song che qui viene spogliata di ogni parte elettrica ma mantiene il suo approccio coinvolgente, diventando uno scintillante boogie acustico (con sezione ritmica) degno di un consumato bluesman. Bus Station diventa una deliziosa country ballad con tanto di steel e fisarmonica, Little Honey un folk elettrificato di grande forza e guidato dalla slide elettrica di Leisz, degna di Ry Cooder, mentre (I Won’t Be) Leaving è un lento fluido e disteso.

Ma il vero capolavoro di re-interpretazione è senza dubbio la celebre Border Radio, che da scatenato rock’n’roll si trasforma in una folk ballad lenta e di incredibile intensità, con solo due chitarre, un basso ed un feeling enorme: praticamente un’altra canzone. Le bonus tracks iniziano con l’inedita Riverbed Rag, squisito strumentale di stampo bluegrass, un brano originale di Dave che sarebbe stato benissimo nell’album del 1994, con Leisz strepitoso al dobro; The Cuckoo è un traditional in duetto con Katy Moffatt (tratto da un album della cantante texana), bellissima e folkeggiante, mentre il CD si chiude definitivamente con la toccante rilettura da parte di Dave di Kern River, brano di Merle Haggard di recente incluso anche nel tributo dedicato dalla Ace al grande countryman, Holding Things TogetherKing Of California si conferma quindi in tutto il suo splendore anche dopo 25 anni, anzi forse è ancora più bello: se uscisse oggi sarebbe disco dell’anno a mani basse.

Marco Verdi

Tra I Tributi Della Ace Questo E’ Uno Dei Più Belli. VV.AA. – Holding Things Together

merle haggard holding things together

VV.AA – Holding Things Together: The Merle Haggard Songbook – Ace CD

La Ace è una meritoria etichetta indipendente londinese che si è specializzata in tributi ad artisti famosi, compilati però assemblando cover già edite, anche se molto spesso rare ed introvabili (ricordo i due omaggi a Bob Dylan, uno con solo cantanti di colore ed l’altro con cover inglesi degli anni sessanta, uno a Chuck Berry, uno ai primi anni dei Bee Gees, oltre a varie compilation a tema blues, rock’n’roll, doo-wop, eccetera). La due pubblicazioni più recenti targate Ace sono Hallelujah, tributo a Leonard Cohen, e questo Holding Things Together, che come recita il sottotitolo è dedicato alle canzoni del grande Merle Haggard.

Ed il disco è davvero ben fatto e godibile dalla prima all’ultima canzone: sono presenti ovviamente le canzoni storiche del songbook del grande countryman californiano, ma anche episodi meno noti, e la scelta delle cover è parecchio eterogenea, in quanto sono stati selezionati artisti di varia estrazione. C’è parecchio country chiaramente, ma anche soul, rock’n’roll, swing e blues (una diversificazione che aumenta il piacere dell’ascolto) e su 24 canzoni totali almeno la metà sono decisamente rare, come per esempio il brano di apertura, una registrazione del 1968 di Swinging Doors ad opera di Jerry Lee Lewis, uscita soltanto nel 1986 su un box della Bear Family: versione essenziale, solo piano, una sezione ritmica e la voce inconfondibile del Killer, puro honky-tonk. Okie From Muskogee, a parte il testo controverso, è una grande canzone, e la rilettura del singin’ cowboy Roy Rogers è splendida: voce profonda, arrangiamento western e la famosa melodia che svetta maestosa; il soul singer Barrence Whitfield si cimenta magnificamente anche con il country, e la sua Irma Jackson (presa dal tributo collettivo del 1994 Tulare Dust) è semplicemente deliziosa, e che voce, mentre Bettye Swann con Just Because You Can’t Be Mine si muove su territori a lei abituali, un soul-gospel intenso e di sicuro pathos, con la canzone che non perde un grammo della sua bellezza.

The Knitters, estemporaneo supergruppo degli anni ottanta con Dave Alvin e John Doe, forniscono una rilettura elettroacustica e molto rispettosa del superclassico Silver Wings, solo voce e varie chitarre, la grande Tammy Wynette rifà molto bene The Legend Of Bonnie And Clyde, con un coinvolgente arrangiamento bluegrass ed un coro maschile quasi gospel, la stupenda White Line Fever è invece presente nella nota versione dei Flying Burrito Brothers, puro country-rock in una delle sue migliori accezioni. La lenta Kern River era uno dei brani più belli e toccanti di West Of The West di Dave Alvin, esecuzione e voce da pelle d’oca, seguita dalla nota ripresa di Honky Tonk Night Time Man dei Lynyrd Skynyrd (era su Street Survivors), tra boogie e blues, e dall’altrettanto famosa Life In Prison dei Byrds, contenuta sul capolavoro Sweetheart Of The Rodeo (ma è sempre un piacere riascoltarla). Abbiamo anche lo stesso Haggard in persona con il brano che dà il titolo alla raccolta, un pezzo del 1974 finito all’epoca sulla b-side di un singolo e comunque una gran bella canzone in puro stile honky-tonk classico, mentre Brenda Lee si destreggia con la languida Everybody’s Had The Blues, gran voce ma arrangiamento un po’ troppo ridondante e nashvilliano. I Grateful Dead hanno suonato Mama Tried dal vivo un’infinità di volte, e qui è tratta del famoso live del 1971 soprannominato Skull & Roses; anche Chip Taylor è uno dei grandi, e lo dimostra con una rara Farmer’s Daughter del 1976, bella, intensa ed ottimamente eseguita.

Perfino Dean Martin si è cimentato con il songbook di Merle, e i Take A Lot Of Pride In What I Am è rifatta con gusto e swing, nel classico stile del crooner italo-americano, mentre con Dolly Parton torniamo ovviamente in territori country, con la limpida e solare Life’s Like Poetry. Wynn Stewart rifà in maniera classica la famosissima Today I Started Loving You Again, puro country, gli Everly Brothers alle prese con la mitica Sing Me Back Home (dal loro album Roots del 1968) non sbagliano il colpo e forniscono una interpretazione di gran classe e molto sentita, mentre Elvin Bishop lascia da parte per un attimo il blues e ci delizia con una splendida I Can’t Hold Myself In Line, country al 100%. Ecco Country Joe McDonald con l’incisione più recente del CD (2012), una discreta Rainbow Stew per voce e chitarra, seguita da George Thorogood che offre una rilettura guizzante ed estremamente godibile di Living With The Shades Pulled Down, tra country e rock’n’roll. Finale con il vocione di Hank Williams Jr. alle prese con una bella I’d Rather Be Gone, la International Submarine Band (il gruppo pre-Byrds di Gram Parsons) con la cristallina I Must Be Somebody Else You’ve Known, ed una deliziosa Emmylou Harris d’annata con The Bottle Let Me Down. Un ottimo tributo, che vale la pena accaparrarsi sia per la difficoltà di trovare molte delle registrazioni incluse, sia per il bel libretto che fornisce esaurienti note su tutti i pezzi, ma soprattutto per l’assoluta bellezza delle canzoni di Merle Haggard.

Marco Verdi

L’Avventura “Post-Blasters” Cominciò Così. Phil Alvin – Un”Sung Stories”

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Phil Alvin – Un”Sung Stories” – Big Beat/Ace CD

Nel 1985 i Blasters, grande rock’n’roll band californiana tra le più influenti della decade, pubblicarono il loro ultimo disco, lo splendido Hard Line, all’indomani del quale i fratelli Phil e Dave Alvin presero strade separate. All’epoca si pensò che dei due quello che sarebbe andato incontro ad una luminosa carriera solista fosse Phil, frontman e voce solista della band, dimenticando che le canzoni venivano scritte da Dave: il risultato è che oggi Dave è giustamente considerato uno dei migliori musicisti americani in circolazione, e con una discografia di tutto rispetto, mentre Phil ha avuto diversi problemi ad affermarsi al di fuori del suo gruppo originario. Nel 1986 fu però proprio Phil ad esordire per primo (Dave avrebbe risposto l’anno dopo con Romeo’s Escape), con l’album Un”Sung Stories” (scritto proprio così), un lavoro di buon livello che però non mancò di spiazzare gli ascoltatori, in quanto era il classico caso di artista che non dava al pubblico ciò che il pubblico stesso voleva. Tutti infatti si aspettavano da Phil un vero rock’n’roll record, sulla falsariga di quelli pubblicati con i Blasters, ma il nostro invece rispose con un lavoro più complesso ed articolato, nel quale rivisitava brani (spesso oscuri) degli anni venti e trenta, esibendosi o in perfetta solitudine, da vero bluesman, o a capo di una big band.

 

Un disco tra blues e jazz quindi, con dieci pezzi che poi erano tutte cover di vecchi brani di gente come Cab Calloway, Bing Crosby, Hi Henry Brown, William Bunch ed Alec Johnson: l’unico brano “recente” era una rivisitazione di Daddy Rollin’ Stone di Otis Blackwell. Alvin, nei brani con la big band, scelse poi di farsi accompagnare da gruppi all’apparenza lontanissimi dal mondo Blasters, cioè la Dirty Dozen Brass Band in un pezzo ed in altri tre addirittura da quel pazzo scatenato di Sun Ra e la sua Arkestra, dando quindi a quelle canzoni un deciso sapore jazz. Com’era prevedibile il disco non ebbe un grande successo, e la Slash non lo pubblicò neppure in CD (all’epoca agli albori): oggi la Big Beat mette fine a questa mancanza di più di trent’anni e rende finalmente disponibile Un”Sung Stories” anche come supporto digitale (finora esisteva solo una rara e costosa edizione giapponese), con una rimasterizzazione degna di nota e nuove esaurienti liner notes, anche se senza bonus tracks. Ed è un piacere riscoprire (o scoprire, se come il sottoscritto non possedete il vinile originale) questo lavoro, che vede un Phil Alvin in ottima forma divertirsi con un tipo di musica che in America a quel tempo non era popolare per nulla. L’unico brano con la Dirty Dozen è posto in apertura: Someone Stole Gabriel’s Horn è jazzata e swingatissima, un muro del suono che si adatta benissimo ed in maniera credibile alla vocalità di Phil, con un pregevole assolo di sax ad opera di Lee Allen.

Poi ci sono i tre pezzi con Sun Ra (il cui pianoforte è deciso protagonista) e la sua Arkestra di 14 elementi, a partire dallo splendido medley di brani di Calloway The Ballad Of Smokey Joe (che comprende Minnie The Moocher, Kicking The Gong Around e The Ghost Of Smokey Joe): Alvin canta benissimo ed il gruppo lo accompagna con classe sopraffina, una goduria in poche parole. Le altre due canzoni con Herman Blount (vero nome di Sun Ra) e compagni sono The Old Man Of The Mountain (di nuovo Calloway), vibrante ed ancora ricca di swing, ed una lenta e drammatica rilettura di Brother Can You Spare A Dime?, noto brano risalente al periodo della Grande Depressione. C’è poi l’Alvin solitario, proprio come un bluesman degli anni trenta (ma la chitarra con cui si accompagna è elettrica), che suona tre blues cristallini (Next Week Sometime, in cui anche per come canta mi ricorda David Bromberg, Titanic Blues e Gangster’s Blues) e la folkeggiante e bellissima Collins Cave (per la quale Woody Guthrie si è sicuramente ispirato per scrivere la sua Pretty Boy Floyd, anche se si parla di un Floyd diverso), con in aggiunta il violino di Richard Greene.

Completano il quadro il coinvolgente gospel Death In The Morning, con David Carroll (che negli anni novanta si unirà ai riformati Blasters) alla batteria e soprattutto con l’eccellente contributo vocale dei Jubilee Train Singers, e la già citata Daddy Rollin’ Stone, sempre con Carroll, il piano dell’ex Blasters Gene Taylor e le chitarre di Mike Roach e Gary Masi, un pezzo cadenzato e ficcante, unico caso in cui Phil si avvicina parecchio al suono della sua vecchia band. Il seguito della carriera di Phil sarà piuttosto avaro di soddisfazioni, con l’aggiunta nel nuovo millennio di gravi problemi di salute che verranno fortunatamente superati: un solo altro disco da solista (County Fair 2000 del 1994, altro album che andrebbe rispolverato), varie reunion coi Blasters sia con che senza Dave Alvin, e due splendidi album recenti condivisi a metà con il più talentuoso fratello. Un”Sung Stories” non sarà un capolavoro ma vale sicuramente l’acquisto: nel 1986 la riscoperta delle radici e dei brani dell’anteguerra era di là da venire, e quindi possiamo anche dire che Phil Alvin era avanti coi tempi.

Marco Verdi

La (Non Poi Così Tanto) Strana Coppia Funziona Alla Grande! Dave Alvin & Jimmie Dale Gilmore – Downey To Lubbock

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Dave Alvin & Jimmie Dale Gilmore – Downey To Lubbock – Yep Roc CD

Devo confessare di non essere mai stato un grande fan di Jimmie Dale Gilmore, avendolo sempre considerato un personaggio di seconda fascia, forse anche terza. Uno che ha pubblicato appena otto album in trent’anni, nessuno dei quali imprescindibile, ed il progetto migliore in cui è stato coinvolto è quello del super trio dei Flatlanders, ma grazie soprattutto al contributo degli altri due membri, Joe Ely e Butch Hancock; in più, non ho mai sopportato molto la sua voce, a mio giudizio troppo sdolcinata e mielosa. Difficilmente mi sarei quindi avvicinato a questo disco se non fosse stato per la presenza di Dave Alvin, uno che invece non ha mai sbagliato un disco, sia con i Blasters che da solo (e tralascio tutti i progetti collaterali a cui ha partecipato, tipo Knitters e Pleasure Barons). Entrambi erano fermi dal 2011 in quanto ad album solisti https://discoclub.myblog.it/2011/07/04/elementare-watson-undici-album-undici-canzoni-dave-alvin-ele/  (ma nel frattempo Dave ha pubblicato due ottimi lavori con il fratello Phil), e questo Downey To Lubbock (dal nome delle città di origine dei due) è nato quasi per caso, pare su sollecitazione del presidente della Yep Roc, Glenn Dicker. E l’intuizione è stata giusta: Downey To Lubbock è un gran bel disco, un album in cui Dave e Jimmie ripropongono in maniera scintillante diversi brani del passato, con qualche decennio alle spalle fino a quasi un secolo, aggiungendo due brani scritti per l’occasione.

Non è la prima volta che Alvin si dedica al recupero di canzoni che appartengono alla storia della musica americana, lo aveva già fatto con Public Domain per quanto riguarda la tradizione e con West Of The West, nel quale si rivolgeva ad autori californiani contemporanei, ed anche nel primo dei due lavori in duo con Phil, Common Ground, che vedeva riprese alcune canzoni di Big Bill Broonzy. E Dave è stato il motore che ha dato il via a Downey To Lubbock, ha scelto le canzoni, ha portato in session musicisti a lui affezionati (tra cui nomi noti come Don Heffington, David Carpenter, la batterista delle Guilty Women, Lisa Pankratz, il bravissimo pianista Skip Edwards, ed in più una mezza leggenda come Van Dyke Parks) e ha arrangiato i brani con un taglio moderno, con una concezione simile a quella dell’ultimo Ry Cooder, anche se musicalmente siamo su livelli differenti. Gilmore si è “limitato” a cantare e a suonare la chitarra, ma devo dire che, pur non essendo diventato di colpo un suo estimatore, ho maggiormente apprezzato in questo disco la sua voce, in quanto invecchiando il suo timbro è migliorato e ha acquistato profondità, almeno a parer mio. Non siamo di fronte ad un disco di duetti, che non mancano comunque, ma spesso canta uno solo dei due e l’altro si occupa delle armonie: quello che però più importa, è che siamo di fronte ad un album di livello eccelso, con i nostri in gran forma e con un affiatamento difficile da prevedere se pensiamo che fino a non molto tempo fa i due si conoscevano appena.

Il CD inizia con la title track, canzone nuova di zecca scritta dalla coppia, un brano decisamente elettrico, un boogie-blues sanguigno e viscerale, forse nulla di nuovo dal punto di vista del songwriting ma suonato alla grande, con un ottimo intervento di Gilmore all’armonica e soprattutto un sensazionale assolo chitarristico di Alvin. Silverlake è una deliziosa ballata di Steve Young, suonata con classe e quasi in punta di dita: la voce di Jimmie Dale qui è perfetta, più vissuta di come la ricordavo, la melodia è splendida di suo, e come ciliegina abbiamo la fisarmonica di Parks ed i soliti, sontuosi ricami di Dave. Stealin’ Stealin’, brano degli anni venti del secolo scorso della Memphis Jug Band (ma l’hanno rifatta in mille, tra cui i Grateful Dead e Bob Dylan) è un blues elettroacustico coinvolgente e di grande presa, con le due voci che si intendono alla perfezione ed un arrangiamento che, pur rimanendo ancorato alla tradizione, dona freschezza ad un brano vecchio di un secolo; July, You’re A Woman, di John Stewart, è un’altra stupenda canzone di puro cantautorato: versione classica, ariosa (canta solo Alvin), calda e di grande pathos, specie nel ritornello corale. Buddy Brown’s Blues è una grandiosa versione di un blues reso popolare da Lightnin’ Hopkins, che parte acustica ma la band entra quasi subito: rilettura fluida e potente, con grandi interventi di sax (Jeff Turmes) e del piano di Edwards, con l’unica nota leggermente stonata della voce di Gilmore, forse non adattissima al blues.

The Gardens, cantata da Dave, è a mio giudizio il capolavoro del disco, una meravigliosa ballata in puro stile tex-mex, scritta dallo scomparso Chris Gaffney, sul genere di classici come Across The Borderline e She Never Spoke Spanish To Me, davvero splendida, una delle cover dell’anno. Abbiamo quindi tre classici in fila, tratti da un passato più o meno remoto: la famosa Get Together, scritta da Chet Powers (cioè Dino Valenti) ma portata al successo dagli Youngbloods, altra grande canzone ed altra versione bellissima, chitarristica e con uno strepitoso refrain a due voci, l’antico blues K.C. Moan, eseguito in maniera piuttosto canonica (ma Dave rilascia un paio di assoli torcibudella), ed il rock’n’roll Lawdy Miss Clawdy di Lloyd Price, in una festosa rilettura “alla Blasters”, ancora con l’ottimo piano di Edwards in evidenza (ed Alvin alla chitarra non lo dico nemmeno più). Billy The Kid And Geronimo, scritta da Dave, è una folk ballad tipica delle sue, cantata con voce calda e con un accompagnamento soffuso e di grande intensità, ed anche la parte vocale di Jimmie fa la sua bella figura; Deportee (Plane Wreck At Los Gatos) di Woody Guthrie non ha bisogno di presentazioni, è una delle più belle canzoni americane di sempre, ed i nostri la rifanno in maniera toccante, dandoci un altro highlight del CD (anche se avrei preferito la cantasse Alvin). Chiusura con un altro pezzo che ha diversi anni sul groppone: Walk On, di Brownie McGhee, in una scintillante versione tra rock’n’roll e gospel, con ancora Edwards grande protagonista.

Non trascurate questo Downey To Lubbock: siamo forse di fronte alla cosa migliore della carriera di Jimmie Dale Gilmore, mentre per Dave Alvin essere a questi livelli è “business as usual”.

Marco Verdi