Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 7. Gli Inizi Di Uno Dei Gruppi Più Originali Degli Ultimi Anni. Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009

fleet foxe first collection 2006-2009

Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009 – Nonesuch/Warner 4CD – 4LP (1×12” + 3×10”)

I Fleet Foxes, band di Seattle capitanata dal vulcanico e geniale Robin Pecknold, sono indubbiamente tra i gruppi più originali e particolari degli ultimi quindici anni: la loro miscela di folk, rock, pop e sonorità californiane tipiche degli anni settanta, un suono elaborato ed accattivante nello stesso tempo, è quanto di più innovativo si possa trovare oggi in circolazione. Il loro secondo album, Helplessness Blues (2011), aveva ottenuto consensi ed ottime vendite ovunque https://discoclub.myblog.it/2011/05/03/una-attesa-conferma-fleet-foxes-helplessness-blues/ , ed il suo seguito uscito lo scorso anno, Crack-Up, pur essendo leggermente inferiore https://discoclub.myblog.it/2017/06/02/fortunatamente-non-si-sono-persi-per-strada-anteprima-fleet-foxes-crack-up/ , era comunque un lavoro più che buono. Ora, per quanti (sottoscritto incluso) hanno conosciuto la band solo con Helplessness Blues, Pecknold e compagni pubblicano questo box quadruplo (consiglio la versione in CD, che ha un prezzo contenuto) intitolato First Collection 2006 – 2009, che raccoglie i due rari EP d’esordio del gruppo, il loro primo album Fleet Foxes del 2008, ed un altro EP esclusivo intitolato B-Sides And Rarities.

fleet foxe first collection 2006-2009 vinile

Il cofanettino, almeno quello in CD, è piccolo e maneggevole, ma in ogni caso è molto curato e dotato di un bel libretto ricco di foto, informazioni e testi di tutte le canzoni, ed il suono è stato rimasterizzato alla grande: vediamo dunque il contenuto musicale disco per disco (il box presenta l’album come CD1 ed i due EP come CD2 e 3, ma io andrò in ordine cronologico, che è anche il modo in cui consiglio di ascoltare i vari dischetti). The Fleet Foxes EP (2006): mini album di sei pezzi venduto dalla band ai concerti, pare ne esistano solo 50 copie “fisiche”, mentre in download è più facile da reperire. Nonostante il gruppo fosse all’epoca già un quintetto, nel disco suona tutto Pecknold, tranne la batteria che è nelle mani di Garret Croxon; il suono è più rock e diretto che in seguito, ma qua e là ci sono già i germogli dello stile che verrà. She Got Dressed è una rock song potente ed elettrica, piuttosto rigorosa anche nella struttura melodica; anche meglio In The Hot Hot Rays, una deliziosa e solare canzone pop, dal ritmo sostenuto e con una chitarra decisamente “californiana”. Anyone Who’s Anyone è contraddistinta da una splendida chitarra twang e da una performance forte e vitale, con un uso delle voci molto creativo, mentre Textbook Love è ancora pop deluxe, con Robin che mostra già di avere una personalità debordante. Il mini album termina con la vigorosa ed elettrica So Long To The Headstrong, tra pop e rock e melodicamente complessa, e con Icicle Tusk, folk, cantautorale e più vicina ai Fleet Foxes di oggi.

Sun Giant (2008): secondo EP del gruppo, uscito appena due mesi prima del loro debut album (ma con il quale non ha pezzi in comune). Ed ecco i Fleet Foxes che conosciamo (a proposito, qua ci sono anche gli altri: Skyler Skjelset, chitarra, Casey Wescott, tastiere, Craig Curran, basso e Nicholas Peterson, batteria), con melodie quasi eteree, di stampo folk, ma con qualche elemento di psichedelia ed un vulcano di idee. La title track apre in modo suggestivo, con un canto corale a cappella, quasi ecclesiastico, seguito a ruota dall’intrigante Drops In The River, brano cadenzato, decisamente folk-rock nella struttura ed un motivo diretto, sempre giocato sull’uso particolare delle voci. Restiamo in territori folk con la saltellante English House, che ricorda un po’ lo stile dei Lumineers, ed anche con la splendida Mykonos, una canzone intensa, fluida e dalla melodia davvero suggestiva, con armonie vocali degne di CSN; chiusura con la lenta Innocent Son, solo per voce e chitarra. Fleet Foxes (2008): ed è la volta del primo album, che ha compiuto una decade esatta proprio quest’anno: inizio con la sognante e folkie Sun It Rises, ancora più vicina al suono odierno, un brano elettroacustico dal crescendo strumentale coinvolgente ed una melodia sospesa alla David Crosby; la corale White Winter Hymnal è davvero bellissima, ha un motivo circolare ed un sottofondo musicale di grande respiro, mentre Ragged Wood è sostenuta da un ritmo acceso e da uno sviluppo disteso e forte al tempo stesso, con decisi cambi di tempo e melodia tipici di Pecknold.

Sentite poi Tiger Mountain Peasant Song, folk ballad splendida, pura e cristallina, o la mossa Quiet Houses, sempre con un uso molto interessante delle voci e soluzioni melodiche mai banali, o ancora He Doesn’t Know Why, altra deliziosa canzone tra folk d’autore e pop adulto. Tra i pezzi rimanenti, non posso non segnalare lo strumentale (ma le voci non mancano) Heard Them Stirring, puro Laurel Canyon Sound, l’acustica ed intensissima Meadowlarks o la conclusiva Oliver James, in cui la voce di Robin è praticamente lo strumento solista. B- Sides And Rarities: EP di otto canzoni che contiene quattro brani usciti solo su singolo e quattro versioni inedite. False Knight On The Road è un folk etereo ancora caratterizzato da un motivo squisito e di facile assimilazione (canzone un po’ sprecata come lato B), mentre la rilettura del noto traditional Silver Dagger è semplicemente stupenda, solo voce e chitarra ma emozioni a profusione (e Pecknold canta in maniera sublime). La gentile White Lace Regretfully è più normale, ma Isles è ancora un delizioso bozzetto acustico di grande presa emotiva. Chiudono il dischetto tre interessanti demo inediti di brani presenti sul primo album e sul secondo EP (Ragged Wood, He Doesn’t Know Why, English House), che sembrano canzoni fatte e finite, ed un frammento strumentale di appena 52 secondi intitolato Hot Air.

Se vi piacciono i Fleet Foxes ma non conoscevate le loro origini (e poi sfido chiunque a possedere i primi due EP), questo cofanetto fa al caso vostro, anche perché una volta tanto non costa una cifra esagerata (in CD).

Marco Verdi

Da Ascoltare Molto Attentamente, Soprattutto Le “Celestiali” Armonie Vocali. David Crosby – Here If You Listen

david crosby here if you listen

David Crosby – Here If You Listen – Bmg Rights Management

Prosegue il filotto di David Crosby, sette dischi in quasi cinquant’anni, di cui però quattro sono usciti negli ultimi quattro anni, uno all’anno, e con una qualità sempre elevata, che quasi si innalza ad ogni nuova uscita. Here If You Listen non fa eccezione, se vogliamo questo potrebbe essere definito un album corale, visto che i nomi degli altri cantanti che appaiono nel disco, ovvero Michael League, Becca Stevens Michelle Willis, sono riportati anche nella copertina del disco, quasi alla pari con quello di Crosby. Definirli “solo” cantanti è forse riduttivo, in quanto la Lighthouse Band, come si sono autodefiniti (nome ispirato dal CD del 2016, Lighthouse appunto), suona anche tutta gli strumenti che appaiono nell’album, ma indubitabilmente quello che affascina in questa nuova opera è l’uso direi quasi celestiale delle voci, con intrecci tra i quattro protagonisti di grande seduzione, il tutto guidati da un David Crosby che sembra avere ritrovato quella serenità, conseguita attraverso un avvicinamento al Buddismo, che gli consente di mostrare una nuova vitalità e una prolificità che non erano mai stati tra i suoi segni distintivi nei suoi anni d’oro, ma anche una malinconia che gli fa dire in un testo di un suo brano “I’ve been thinking about dying/How to do it well”, salvo poi smentirsi in un disco che è comunque meno meditabondo e riflessivo del citato Lighthouse.

Rispetto al precedente Sky Trails, che era comunque un album molto bello, complesso e dalla strumentazione ricchissima https://discoclub.myblog.it/2017/09/28/lo-strano-caso-di-mr-david-crosby-tre-album-in-45-anni-e-poi-tre-in-tre-anni-sta-per-uscire-il-nuovo-sky-trails/ , qui si è optato per un approccio più scarno e disadorno, benché sempre ricco di nuances sonore complesse ed affascinanti, ancora una volta affidate soprattutto al lavoro di Michael League, il leader degli Snarky Puppy, che oltre al proprio strumento, ovvero il basso, suona anche molti tipi di chitarra, acustica, elettrica, fretless, 6 e 12 corde, oltre a diversi tipi di synth, nonché cura la produzione del disco. L’unico “ospite” è Bill Laurance, anche lui del giro Snarky Puppy, impegnato al piano, e coautore in un solo brano, mentre tutte le altre canzoni sono firmate coralmente da tutti i protagonisti e in particolare anche dalle due donzelle, Becca Stevens Michelle Willis, che sono (cant)autrici anche in solitaria di un pezzo ciascuna (la prima con Jane Tyson Clement), oltre a suonare pure diversi strumenti, chitarre, ukulele e charango la Stevens, vari tipi di tastiera, oltre al basso, la Willis.

L’apertura è affidata alla splendida Glory, una ballata che rimanda al repertorio storico di David, una chitarra elettrica “trattata”, poi l’acustica di Crosby e la sua voce, delle tastiere di supporto,un liquido piano elettrico in particolare, il basso di League, anche all’acustica, mentre le due voci femminili si alternano a quella di Crosby, prima di intrecciarsi in spericolate e corali armonie vocali di grande fascino, con dei rimandi ai vecchi CSNY ma anche alla Joni Mitchell migliore. Vagrants Of Venice ricorda vecchi incontri con la città italiana, sul suono quasi modale della 7 corde elettrica della Stevens, lo schioccare delle dita che dà il ritmo, e la voce di David tornata forte e sicura che si intreccia con quella delle due ragazze che mi hanno ricordato come timbro vocale e fascino quello che avevano le Roches, non dimenticate interpreti della scena newyorchese, città dove è stato registrato questo disco, la musica scorre fluida e con equilibri sonori perfetti; 1974 profuma sempre di nostalgia del passato proiettata però su un presente sereno e senza rimpianti, lo scat vocale del leader, intrecciato con una chitarra acustica, man mano si arricchisce di una 12 corde, del basso sinuoso di League, di organo e synth, e delle voci calde e guizzanti delle ragazze.

Your Own Ride, con il piano di Bill Laurance protagonista assoluto, è un altro notevole esempio di questo raffinato folk misto a chamber pop, in cui ogni nota, ogni inflessione vocale, solista e corale, è incastonata in melodie mai banali ma comunque godibili e dove la voce di Crosby si libra sempre sicura ed ottimista, anche nel brano che comprende il testo citato all’inizio e che abbraccia questa riscoperta spiritualità. Poi ribadita in Buddha On A Hill, dove il protagonista che aspetta sulla collina non è “lo sciocco” del famoso brano dei Beatles, con la Stevens, virtuosa della chitarra, che se nel precedente brano suonava il terrapatch (di qualsiasi cosa si tratti), qui è impegnata alla Hammertone Electric Guitar, mentre la Willis e League, suonano un impressionante numero di tastiere e strumenti a corda, in un brano nuovamente corale, dove l’arrangiamento si fa via via più complesso e incalzante con lo scorrere della canzone.I Am No Artist, benché il titolo vorrebbe farci credere il contrario, ci conferma la statura artistica di Becca Stevens, autrice di un brano che si affida comunque ancora alla voce di David Crosby, sorretto dalle solite armonie vocali scintillanti ed articolate, prima di lasciare spazio a Becca che canta la sua parte con il piglio della Joni Mitchell più matura, e pure la parte strumentale non scherza quanto a complessità; il ricordo del passato si spinge fino al 1967, per un brano senza parole, ispirato dalla vecchia Orleans, solo un paio di chitarre acustiche, un basso pulsante e poi le voci che entrano improvvisamente a rinverdire i fasti degli incroci sonori con i vecchi amici Nash e Stills, sotto una nuova forma sonora e con nuovi interpreti, ma ugualmente affascinanti.

Molto bella anche Balanced On A Pin, al solito introdotta dalla voce sognante di Crosby e da una chitarra acustica, a cui si aggiungono lentamente le altre voci e una strumentazione in questo caso più soffusa, ma sempre composita e ricercata nel suo dipanarsi; e anche Other Half Rule è una variazione su questa tema, e come la precedente, pur negli arrangiamenti vocali corali, vede una maggiore presenza della vocalità di Crosby. Che poi lascia spazio a Michelle Willis, per Janet, il brano scritto dalla brava artista canadese (che a livello almeno geografico fa la parte di Young e di Joni) che duetta con un ispirato David in uno dei pezzi più mossi, leggermente jazzato e funky, con Wurlitzer, organo e basso a rimandare “nuovamente” al suono della Mitchell più elettrica. Che viene poi omaggiata in una rilettura sontuosa di Woodstock, acustica ma ancora una volta decisamente complessa, con le quattro voci che si alternano alla guida e si intrecciano con un abbandono e una classe disarmante. Se Crosby voleva stupirci, ci è riuscito una volta di più.

Bruno Conti

Visto Che In Questi Giorni Sarà Anche In Tour In Italia, Ecco La Nuova Bellissima Antologia! Graham Nash – Over The Years…

graham nash over the years...

Graham Nash – Over The Years… – 2 CD Atlantic/Rhino

Proprio in occasione del breve tour italiano di Graham Nash, ieri è uscita una doppia antologia Over The Years, a prezzo super speciale per una volta, che contiene nel primo CD estratti da tutta la sua carriera, dagli anni con Crosby, Stills, Nash (& Young), passando con il suo sodalizio con David Crosby, e anche dai suoi dischi come solista.

graham nash refelections

Non è una raccolta completa come il box triplo riportato qui sopra, Reflections, uscito per la Rhino nel 2009, ma ha la particolarità di avere uno dei due dischetti che lo compongono con materiale inedito e raro proveniente da demos registrati nell’arco di tempo che intercorre tra il 1968 e il 1980. Tra poco andiamo ad esaminarlo, prima volevo ricordarvi le date del tour italiano che parte proprio da oggi.

30 giugno – Val di Fassa (TN), “I suoni delle Dolomiti”
1 luglio – Recanati (MC), Piazza Leopardi
2 luglio – Roma, Casa del Jazz / Summer Time 2018
4 luglio – Pistoia, Pistoia Blues
5 luglio – Milano, Villa Arconati

Ad accompagnarlo saranno Shane Fontayne alla chitarra e Todd Caldwell alle tastiere. Ecco il contenuto del doppio CD.

[CD1]
1. Marrakesh Express – Crosby, Stills & Nash
2. Military Madness – Graham Nash
3. Immigration Man – Crosby/Nash
4. Just A Song Before I Go – Crosby, Stills & Nash
5. I Used To Be King – Graham Nash *
6. Better Days – Graham Nash *
7. Simple Man – Graham Nash
8. Teach Your Children – Crosby, Stills, Nash & Young
9. Lady Of The Island – Crosby, Stills & Nash
10. Wind On The Water – Crosby & Nash
11. Our House – Crosby, Stills, Nash & Young
12. Cathedral – Crosby, Stills & Nash
13. Wasted On The Way – Crosby, Stills & Nash
14. Chicago/We Can Change The World – Graham Nash
15. Myself At Last – Graham Nash

* Previously unreleased mixes

[CD2: The Demos]
1. Marrakesh Express – London, 1968
2. Horses Through A Rainstorm – London, 1968
3. Teach Your Children – Hollywood, 1969
4. Pre-Road Downs – Hollywood, 1969
5. Our House – San Francisco, 1969
6. Right Between The Eyes – San Francisco, 1969 *
7. Sleep Song – San Francisco, 1969 *
8. Chicago – Hollywood, 1970 *
9. Man In The Mirror – Hollywood, 1970
10. Simple Man – Hollywood, 1970
11. I Miss You – San Francisco, 1972
12. You’ll Never Be The Same – San Francisco, 1972
13. Wind On The Water – San Francisco, 1975
14. Just A Song Before I Go – San Francisco, 1976
15. Wasted On The Way – Oahu, 1980

Come si rileva dalla tracklist qui sopra, I Used To Be A King Better Days sono degli unreleased mix, che però erano giù apparsi in Reflections, mentre dei 15 demos del secondo CD, ben 12 sono inediti in assoluto. Quindi direi che siamo di fronte ad una antologia ideale, sia per chi vuole conoscere la musica di Graham Nash, sia per chi è alla ricerca di versioni mai ascoltate di alcune delle sue più belle canzoni.

Si parte con Marrakesh Express, tratta dal primo album di C S N, poi Military Madness da Songs For Beginners, il suo primo disco come solista del 1971, Immigration Man fu pubblicata come singolo nel marzo del 1972, e poi nel disco Crosby & Nash, e rimane molto attuale anche ai giorni nostri. Just A Song Before I Go uscì nel secondo album omonimo del trio, CSN del 1977, mentre I Used To Be A King è di nuovo da Songs For Beginners, come pure Better Days Simple Man. Fino ad ora una canzone più bella dell’altra, ed ecco arrivare nella sequenza dei brani, quella che è forse la canzone più conosciuta di Nash, Teach Your Children, attribuita come autori coralmente a Crosby, Stills, Nash & Young, dal loro capolavoro Déja Vu, ma da sempre legata alla personalità gentile e sognatrice di Graham.

Si ritorna al primo Crosby, Stills & Nash, per la splendida Lady Of The Island, dedicata alla sua amante dell’epoca Joni Mitchell; non manca Wind On The Water dall’omonimo album del 1975 della coppia David Crosby/Graham Nash, e poi in questo avanti e indietro nel tempo Our House, ancora da Déja Vu e nuovamente dal disco del trio, quello con la barca, come è conosciuto da tutti, la bellissima Cathedral, un altro dei suoi capolavori assoluti.

Da Daylight Again, il terzo album album di CSN del 1982, arriva Wasted On The Way, e con un altro balzo temporale nel passato, nuovamente da Songs For Beginners, troviamo un altro dei suoi inni multigenerazionali, il medley di Chicago/We Can Change The World. E per completare il primo CD, l’unico brano che viene dal recente passato (molto poco rappresentato nell’antologia), Myself At Last, tratta da This Path Tonight, il disco del 2016 che lo ha riportato ai suoi livelli migliori https://discoclub.myblog.it/2016/04/13/la-classe-invecchia-anteprima-graham-nash-this-path-tonight/

Veniamo al secondo CD, che è per la quasi totalità incentrato su una serie di demo, voce e chitarra acustica, alcuni registrati anche prima della nascita di Crosby, Stills, Nash, in particolare una deliziosa Marrakesh Express, leggermente più lenta di quella che poi sarebbe finita sul primo album del supergruppo, e rifiutata dagli Hollies, per cui era stata concepita, a dimostrazione della lungimiranza che ogni tanto viene a mancare anche in coloro che fanno buona musica (giù apparsa in altra forma sul disco Demos di CSN), oltre ad un’altra ottima canzone come Horses Through A Rainstorm, prevista per Déja Vu, e pubblicata per la prima volta solo sul cofanetto antologico Carry On del 1991, in versione elettrica. Entrambe le canzoni furono registrate a Londra nel 1968. Da Hollywood, 1969, vengono due brani che invece sarebbero finiti sui dischi ufficiali, una “primitiva” e delicata Teach Your Children, poi su Déja Vu https://www.youtube.com/watch?v=fOQBfC6_gww  Pre-Road Downs sul primo album.

Da un’altra session a San Francisco del 1969, provengono altri tre piccoli gioiellini: una interessante Our House, questa volta per voce e piano, con qualche incertezza nell’esecuzione ed ancora incompleta. la “rara” Right Between The Eyes, che poi sarebbe finita su Four Way Street, tra le più belle del Nash minore, e anche una prima stesura acustica di Sleep Song, che sarebbe uscita su Songs For The Beginners. Di nuovo a Hollywood, questa volta nel 1970, vengono registrati i tre demos di altri cavalli di battaglia di Nash, come Chicago, già completa in tutto il suo splendore, Man In The Mirror, in una versione spoglia ed intima, ma che già lascia intuire lo splendore del brano, nonché una delle prime versioni, solo voce e piano, di Simple Man. I Miss You, registrata a San Francisco, e You’ll Never Be The Same, a Hollywood, entrambe nel 1972, sarebbero poi apparse su Wild Tales, l’album del 1973, che per il resto non è rappresentato in questa doppia antologia, bellissima soprattutto la versione della seconda. Da una registrazione del 1975 a San Francisco proviene la versione “alternata” di Wind On The Water, di nuovo solo piano e voce. Stesso formato anche per Just A Song Before I Go, prevista per il CSN del 1977, ma qui registrata in quel di San Francisco nel 1976. con l’aggiunta di una breve parte di armonica nella seconda parte del brano. Infine dal 1980, registrata a Ohau, proviene una incantevole versione di Wasted On The Way, dove alle armonie vocali appare anche Stephen Stills, l’unico ospite presente nelle 15 tracce del secondo CD.

Per vari motivi, contenuto, inediti e prezzo, finalmente una antologia assolutamente da avere, un giusto riconoscimento per un artista spesso ingiustamente sottovalutato.

Bruno Conti

Lo “Strano Caso” Di Mr. David Crosby: Tre Album in 45 Anni, E Poi Tre In Tre Anni! Ecco Il Nuovo Disco Sky Trails

david crosby sky trails

David Crosby – Sky Trails – BMG Rights Management 

David Crosby, come ricordo nel titolo del Post, da solista ha pubblicato 3 album in 45 anni circa di carriera, e poi, improvvisamente, dal disco del 2014 Croz a oggi, un filotto di ben 3 nuove uscite in tre anni. E’ ovvio che in tutto questo lungo periodo il nostro amico ha pubblicato altro materiale come CPR, Crosby & Nash, CSN, C S N & Y, oltre a varie partecipazioni a dischi di altri artisti, le più recenti quelle con Chris Hillman, Kenny White Becca Stevens, ma anche nel disco Family Dinner Vol.2 degli Snarky Puppy, di cui tra un attimo. E sapete una cosa, mi sono accorto che non abbiamo mai parlato estesamente dei due dischi precedenti, limitando la presenza di Crosby sul Blog a livello recensioni ad un vecchio disco dal vivo del 1970 http://discoclub.myblog.it/2014/12/24/dal-inviato-nel-passato-david-crosby-live-at-the-matrix-december-1970/  (scritta da Jimmy Ragazzon dei Mandolin’ Brothers) e all’inedito C S N Y 1974, pubblicato nel 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/07/26/sogno-o-son-desto-crosby-stills-nash-young-csny-1974/. Quindi l’uscita di questo nuovo Sky Trails è l’occasione gradita per parlare di questo grande artista che in tarda età sembra avere trovato una inattesa prolificità, e anche con album di ottimo livello qualitativo, come conferma il nuovo CD del 2017. A differenza del precedente Lighthouse dello scorso anno, che era un disco molto intimista e quasi acustico prodotto da Michael League degli Snarky Puppy, che suonava anche quasi tutti gli strumenti, quello nuovo è un album più “elettrico”, spesso full band, molto influenzato dal jazz contemporaneo (e dalle frange jazz-rock più moderne), con il figlio James Raymond che è il produttore per l’occasione, oltre a suonare le tastiere, affiancato dagli eccellenti Mai Agan, di origine estone, al basso (suonato in uno stile fretless alla Jaco Pastorius), Steve DiStanislao alla batteria, e Steve Tavaglione, al sax, che sono il cuore della band, che in vari brani si amplia con l’aggiunta dei altri musicisti.

Come per esempio nell’iniziale She’s Got To Be Somewhere, che nelle parole dello stesso Crosby è un brano alla Steely Dan, suona volutamente come certe cose di Donald Fagen, che è uno dei musicisti che David apprezza di più, un pezzo dove i nove musicisti impiegati ricordano moltissimo il sound dei Dan, quel raffinato ma mosso stile, dove jazz, rock e funky-soul convivono negli intrecci di piano elettrico, sax, chitarra e ritmica intricata: sostituite la voce di Crosby a quella di Fagen e sembra proprio un brano degli Steely Dan, grazie anche alle complesse armonie vocali e alle spruzzate improvvise di fiati, piacevole ed inconsueto per Croz. Che però ritorna al suo stile classico per una eterea e ricercata title-track, scritta con Becca Stevens, che è anche la voce principale e duettante, su una base di chitarra acustica arpeggiata si ricrea quel sound “spaziale” che è il marchio di fabbrica della musica del nostro, mentre il sax di Tavaglione è lasciato libero di improvvisare appunto negli spazi lasciati dalle voci stratificate ed in libertà dei due, molto interessante ed affascinante. Sell Me A Diamond è una deliziosa canzone che fonde lo stile jazzy dell’album con il classico sound alla CSN o Crosby & Nash se preferite, con bellissime armonie vocali e il lavoro notevole della lap steel di Greg Leisz e della solista di Jeff Pevar, oltre alla tessitura del piano di Raymond, per una canzone che mi pare tra le cose più vicine a rock e west coast sound, nonché migliori del disco, mentre Before Tomorrow Falls On Love è una ballata pianistica più introspettiva, firmata con Michael McDonald e cantata con splendida souplesse e voce angelica da David, brano dove si apprezza anche il lavoro di fino del basso fretless di Agan oltre al piano di Raymond, che si ripetono pure in Here It’s Almost Sunset, con il basso più marcato e il sax di Tavaglione che cerca di riprendere il ruolo che fu di Wayne Shorter in Hejira e Don Juan’s Reckless Daughter di Joni Mitchell, altra artista che Croz ammira molto ( e con cui aveva firmato, tantissimi anni fa, nel primo disco dell’artista canadese, Yvette In English) e che per certi versi omaggia (in)direttamente in queste canzoni.

Spingendosi poi fino a riprendere proprio la sua Amelia, in una cover che rivaleggia come bellezza con l’originale di Joni, anche per il tipo di suono jazz ma “californiano” al tempo stesso, con il piano e la lap steel di Leisz in evidenza, come pure la voce di Crosby che si libra ancora sicura e potente sulle note senza tempo di questa splendida canzone.Nel disco, prima del brano della Mitchell, troviamo Capitol, il brano più politicizzato della raccolta, sulla falsariga della vecchia What Are Their Names, che era nel primo disco solo del 1971 e che parlava delle “malefatte” della politica americana dei tempi, questa volta si parla nello specifico degli eletti al Congresso americano che Crosby considera i peggiori di sempre, corrotti, legati alle corporazioni, poco democratici nei loro comportamenti (ricorda qualcosa, mah, non saprei), e lo fa con un brano tra i più ritmati e mossi dell’album, con il classico sound del Crosby dell’ultimo periodo, vicino a Croz, ma con un occhio alle sonorità elettroacustiche del passato, comunque un altro brano decisamente sopra la media in un disco  tra i migliori in assoluto della discografia (non ricchissima) del nostro. Mancano ancora Somebody Home che è la canzone già presente nel disco dal vivo degli Snarky Puppy Family Dinner Volume Two, che viene riproposta in una nuova bellissima versione di studio, sempre accompagnato discretamente comunque dalla band di Brooklyn, con il pezzo che mantiene quell’aura sonora delicata, quasi sussurrata, tipica della migliori canzoni di David, calda ed avvolgente nella sua raffinata semplicità (non è un ossimoro); a seguire troviamo Curved Air, un brano abbastanza particolare, scritto con il figlio James  Raymond, un pezzo dall’impianto sonoro quasi flamenco, ma con la chitarra arpeggiata ricreata con le tastiere ed il gioco ritmico di percussioni e basso ispirato da quella musica, ma che confluisce in una melodia da cantautore “classico” quale possiamo e dobbiamo considerare David Crosby, uno degli ultimi grandi della musica americana, che ci congeda con Home Free, un altro affascinante tuffo nel suo migliore songbook, un brano dove chitarre acustiche, basso elettrico e poco altro si insinuano tra le pieghe di una serena riflessione vocale che sfiora quasi la perfezione sonora. Veramente un bel disco.

Esce venerdì 29 settembre.

Bruno Conti

Fortunatamente Non Si Sono Persi Per Strada! Anteprima Fleet Foxes – Crack-Up

fleet foxes crack-up

Fleet Foxes – Crack-Up – Nonesuch/Warner CD

A ben sei anni dal loro secondo album Helplessness Blues, uno dei dischi più sorprendenti e creativi del 2011, si rifanno vivi i Fleet Foxes, band di Seattle guidata da Robin Pecknold, carismatico musicista dalla personalità debordante, con un lavoro nuovo di zecca, intitolato Crack-Up (esce il 16 Giugno, questa recensione è in anteprima assoluta). Helplessness Blues aveva positivamente stupito per il suo contenuto, una serie di brani di ispirazione folk, ma con copiose dosi di rock, progressive ed un tocco di psichedelia, caratterizzati da complesse armonie vocali che rimandavano allo stile classico di Crosby, Stills & Nash: Pecknold è un leader vulcanico, una sorta di hippy fuori tempo (un po’ come Alex Ebert degli Edward Sharpe & The Magnetic Zeros o, se ve lo ricordate, Michael Glabicki dei Rusted Root), ed i suoi compagni di viaggio, tutti validi polistrumentisti (Skyler Skjelset, Carey Wescott, Morgan Henderson e Christian Wargo) sono il gruppo perfetto per la sua musica sognante, eterea, di chiara derivazione californiana, ma la California dei primi anni settanta, quando si credeva ancora che con la musica si potesse cambiare il mondo ed il Laurel Canyon era il centro nevralgico e cool di quei tempi. Dopo sei anni di silenzio assoluto temevo però una delusione, oppure un cambio netto di direzione verso sonorità più commerciali, un po’ la fine che hanno fatto di recente gruppi come Mumford & Sons, Arcade Fire, Needtobreathe e Low Anthem: fortunatamente Crack-Up continua il discorso intrapreso con il disco precedente, con le medesime atmosfere, lo stesso tipo di canzoni molto creative e personali caratterizzate da un gusto spiccato per la melodia e con ripetuti cambi di ritmo anche all’interno dello stesso brano, e lo stesso suono evocativo di un’epoca irripetibile della storia della nostra musica.

Se proprio vogliamo, rispetto a Helplessness Blues qui manca l’effetto sorpresa, i brani sono strutturati allo stesso modo, quasi Crack-Up fosse il secondo volume del medesimo progetto, anche se nel disco di sei anni fa mi sembra che le sonorità fossero più solari, mentre qui il mood è più intimo, riflessivo, quasi cupo in certi momenti: ma la cosa importante è che il livello delle composizioni e del suono sia sempre alto, e che i nostri non abbiano perso la via maestra. Quando poc’anzi ho detto che Crack-Up continua il discorso del disco precedente, intendevo proprio alla lettera, in quanto le prime note del brano iniziale, I Am All That I Need/Arroyo Seco/Thumbprint Scar, sono le stesse con le quali si chiudeva Grown Ocean, l’ultimo pezzo di Helplessness Blues (i ragazzi un po’ bizzarri lo sono…): il pezzo comincia in maniera straniante, con Pecknold che canta come se si fosse appena svegliato (o si fosse appena fatto una canna, più probabile…), poi entra una chitarra strimpellata con grande forza, il ritmo cresce e le voci intonano un motivo molto CSN (più dalle parti di David Crosby), ma con elementi quasi psichedelici, un brano un tantino ostico ed un po’ ripetitivo nonostante i cambi di ritmo e melodia, ma di certo non banale. Cassius parte ancora piano, ma qui le tipiche armonie della band entrano subito ed il brano si trasforma in una folk song bucolica, ma senza rinunciare alle atmosfere oniriche che collocano il pezzo proprio nel bel mezzo della California post-Summer of Love: bello il finale strumentale che confluisce nella gradevole Naiads, Cassidies, una ballata senza stranezze di sorta, nobilitata dalle solite ottime voci ed un mood evocativo e rilassato, uno stile quasi cinematografico; Kept Woman inizia come un lento alla Crosby, dagli accordi pianistici, al timbro di voce alla melodia, un brano affascinante e di grande intensità, un pezzo che potrebbe benissimo essere una outtake del mitico If I Could Only Remember My Name.

Molto bella la lunga, quasi nove minuti, Third Of May/Odaigahara, un folk-rock energico anche se con strumentazione acustica al 90%, un motivo godibile e lineare dove non mancano i soliti cambi di ritmo e melodia che sono un po’ il trademark del gruppo. Con If You Need To, Keep Time On Me siamo invece dalle parti di Neil Young, una ballad acustica e con un bell’uso del piano, con una certa malinconia di fondo ma anche feeling a profusione; Mearcstapa (titoli normali pochi) ricicla un po’ le stesse sonorità, con qualche rimando ai Pink Floyd bucolici di dischi come More e Obscured By Clouds: il disco si conferma in generale più cupo ed un po’ meno immediato del suo predecessore, ma non per questo meno interessante. La pianistica On Another Ocean è ancora sospesa e sognante (ma a metà diventa una rock song pura, ed anche bella), Fool’s Errand è folk-prog al 100%, ritmo alto, tappeto strumentale suggestivo e voci perfette, I Should See Memphis è interiore ed un pochino più involuta delle precedenti; il CD si chiude con la title track, anch’essa lunga, fluida, leggermente psichedelica ed impreziosita da un corno in sottofondo. Crack-Up è quindi un buon disco, che si lega a doppio filo con il lavoro che lo ha preceduto, anche se dopo sei anni forse le aspettative erano più alte (ma, come ho già detto, c’era anche il rischio-ciofeca): diciamo che il prossimo album sarà forse il più difficile per i Fleet Foxes, in quanto questa formula probabilmente non potrà reggere in eterno.

Marco Verdi

Cantautore, Produttore E Straordinario Pianista! Kenny White – Long List Of Priors

kenny white long list of priors

Kenny White – Long List Of Priors – Continental Song City

Dopo il giusto spazio della scorsa settimana dato a David Olney, oggi ci riproviamo con un altro artista sconosciuto ai più (mi auguro come al solito di sbagliare, ma non penso), che risponde al nome di Kenny White. Nome assai noto nel “sottobosco” musicale newyorkese, White, cantautore ed eccellente pianista, produttore (nella sua scuderia sono passati Marc Cohn, Peter Wolf, Shawn Colvin, Cheryl Wheeler, Jonathan Edwards, e Judy Collins, per citarne solo alcuni tra i più noti),  una prima parte della vita spesa nel mondo della pubblicità (jingle man), torna a deliziare gli amanti della buona musica con questo sesto capitolo della sua carriera, Long List Of Priors, a distanza di sette anni dall’eccellente Comfort In The Static (10). E così il buon Kenny dopo aver viaggiato in lungo e in largo gli States, e aperto i concerti, oltre che dei suoi assistiti Shawn Colvin e Peter Wolf, anche di gruppi come i Cowboy Junkies e Rolling Stones, si guadagna in breve tempo una reputazione che lo porta ad esordire con Uninvited Guest (02), a cui fa seguire un EP Testing 1,2 (03), pescando il jolly con il successivo Symphony In Sixteen Bars (04), che finito nelle mani della brava Judy Collins (è stato un colpo di fulmine musicale), lo porta al contratto con la Wildflower l’etichetta americana fondata dalla “signora del folk”, seguito da un altro EP Never Like This (06), e dopo una pausa per le sue attività collaterali (dimenticavo, è anche saggista), torna in studio per incidere il citato Comfort In The Static,e gli amanti di cantautori come Chuck E.Weiss, Randy Newman e affini,  non dovrebbero lasciarselo scappare.

A dimostrazione che il nostro inizia a raccogliere quanto ha seminato, oltre alla sua eccellente band composta da Duke Levine alle chitarre, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, porta per il nuovo album negli At Sear Sound Studios di New York City artisti e colleghi illustri quali David Crosby, Peter Wolf, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell, senza dimenticare un superbo trio di voci femminili che rispondono al nome di Catherine Russell, Angela Reed e Amy Helm (cantante degli Ollabelle e figlia del mai dimenticato batterista della Band, Levon Helm). Come i precedenti dischi Long List Of Priors è composto interamente da brani originali, partendo subito alla grande con il brano iniziale A Road Less Traveled con David Crosby ai cori, su un tessuto musicale arricchito dal pianoforte di Kenny White e dal violino di Campbell, a cui fanno seguito la suggestiva Che Guevara dove spicca la chitarra di  Duke Levine https://www.youtube.com/watch?v=6eietccd58Y , per raggiungere una delle vette più alte del disco con Another Bell Unanswered (dove ritroviamo ai cori Crosby), una ballata pianistica quasi sussurrata da White, che se fosse stata scritta da altri (non facciamo nomi), sarebbe diventata un classico, mentre Cyberspace è un brano su un tema sociale, costruito su una musica gioiosa suonata al meglio.

Si continua con una ballata elegante come The Other Shore, su un arrangiamento quasi di musica da camera https://www.youtube.com/watch?v=yTXWg7iWaCs , per poi passare al brano più “rock” dell’album Glad-Handed, con la partecipazione speciale dell’amico Peter Wolf https://www.youtube.com/watch?v=XMtQVA6sBow , seguito da un brano solo pianoforte, tromba e cori come Lights Over Broadway, lievemente in chiave “jazz”, mentre la vibrante e profonda Charleston, racconta di un sanguinoso fatto di cronaca ed è cantata in duetto con la brava cantante soul Ada Dyer. Come sempre la parte migliore di Kenny si manifesta nelle ballate piano e voce, ad esempio The Moon Is Low (starei ore ad ascoltarlo), a cui fa seguire un’intrigante West L.A., un brano quasi teatrale (con un testo figlio del Tin Pan Alley sound) che inizia in modo scanzonato, poi nel finale irrompe una sezione fiati e l’arrangiamento si apre in perfetto stile New Orleans; e che dire della delicata Color Of The Sky, dove brilla il clarinetto di Dan Block? Una piccola meraviglia! Come pure 4000 Reasons To Run, una folk-ballad che ricorda per certi versi il primo Bob Dylan, mentre la chiusura di questo disco magnifico, con una sorta di romanza pianistica, è affidata a  The Olives And The Grapes (un omaggio alla Toscana che l’ha premiato con il Premio Ciampi), dove oltre al piano di White sono in evidenza una sezione d’archi, composta da violini, viola e cello.

Ognuna delle tredici canzoni di Long List Of Priors è un piccolo gioiello di raffinato artigianato musicale, con temi (amore, protesta, vita e morte), che White riporta in musica con una scrittura decisa, che si manifesta magistralmente sulla tastiera, con una tonalità vocale (che a tratti ricorda anche James Taylor, ma pure Cat Stevens) che lo rende credibile in ogni sua interpretazione, e con una bravura tale da far apparire semplice, quello che semplice non lo è affatto, confermandolo come uno dei rari autori che riescono in pochi minuti a condensare emozioni. Mentre il pubblico (purtroppo) tende ad essere attratto da parecchie false stelle del rock, un personaggio di talento come Kenny White, nonostante una carriera quarantennale, risulta ancora molto poco conosciuto dal pubblico, ma tutto questo non deve comunque far passare inosservato un lavoro come questo Long List Of Priors, anche se forse richiede più ascolti per essere apprezzato, è in ogni caso una raccolta basilare da aggiungere alla vostra discoteca, per scoprire un autore e pianista eccellente come Kenny White!

Tino Montanari

75 Anni Così? Da Farci La Firma Subito! Joan Baez – 75th Birthday Celebration

joan baez 75th celebration

Joan Baez – 75th Birthday Celebration – Razor & Tie CD – DVD –  2CD/DVD

Quest’anno non solo Bob Dylan ha festeggiato il raggiungimento del settantacinquesimo anno di età, ma ancora prima di lui (il 9 Gennaio) è stata la volta di Joan Baez, che ancora oggi qualcuno associa al grande cantautore di Duluth nonostante i due non abbiano rapporti di alcun genere da almeno trent’anni, a causa del legame fortissimo, sia artistico che sentimentale, che unì Dylan e la Baez all’inizio degli anni sessanta, quando venivano identificati entrambi come i leader del movimento folk di protesta. Come sappiamo Bob deviò presto verso altre strade, mentre Joan ha sempre continuato con le sue battaglie fino ad oggi, con una coerenza rara nel mondo della musica, ma che le fa senz’altro onore, anche se qualcuno potrebbe etichettarla come personaggio anacronistico. A differenza di Dylan, da sempre refrattario alle auto-celebrazioni, Joan ha deciso di festeggiare il compleanno con qualche giorno di ritardo (il 27 Gennaio), con un concerto al Beacon Theatre di New York e con una serie incredibile di grandi ospiti presenti (tranne Bob, naturalmente, ma anche Joan aveva mancato la famosa BobFest al Madison Square Garden nel 1992), tutti in fila rispettosamente ad omaggiare una vera e propria leggenda vivente della nostra musica. E Joan, come si evince dal DVD allegato al doppio CD pubblicato da pochi giorni, per l’occasione (intitolato semplicemente 75th Birthday Celebration) è apparsa in forma eccezionale, sia fisica che vocale, intrattenendo magnificamente per tutti i cento minuti circa dello spettacolo, cantando da sola o con l’aiuto degli amici che vedremo tra breve una bella serie di classici del passato, suoi e di altri, oltre a diverse chicche https://www.youtube.com/watch?v=CvxdtlG3Q9g .

Vocalmente forse Joan non ha più la potenza dei primi anni (quando si diceva potesse rompere un bicchiere di cristallo solo con l’uso della voce), ma la purezza è rimasta intatta, ed in questa serata dimostra anche di essere una padrona di casa splendida, muovendosi sul palco con una classe immensa ed introducendo i vari ospiti con presentazioni brevi ma efficaci (ed è anche un’ottima chitarrista, il che non guasta). Il concerto è al 100% acustico, con pochi brani suonati full band, ma il feeling è talmente alto e le canzoni sono talmente belle che non solo la noia è totalmente assente, ma non si contano i momenti emozionanti o addirittura commoventi. Inizio splendido con l’intensa God Is God, un brano di Steve Earle che Joan esegue in perfetta solitudine, voce limpidissima e grande feeling, due strofe e ho già i brividi; There But For Fortune è uno dei classici assoluti di Phil Ochs, una delle più belle canzoni dello sfortunato folksinger, mentre Freight Train, il noto evergreen di Elizabeth Cotten, vede entrare il primo ospite, cioè il grande David Bromberg, che non canta ma si fa sentire eccome con il suo splendido pickin’. Per Blackbird, nota canzone dei Beatles, Joan è raggiunta sul palco, con acclusa prima grande ovazione, da David Crosby (e da Dirk Powell alla chitarra): i due armonizzano in maniera superlativa, anche perché David questo brano dal vivo con CSN lo fa da una vita; She Moved Through The Fair è una delle più famose ballate irlandesi, ed a Joan si unisce Damien Rice (che è irlandese pure lui), solo due voci ed un harmonium, ma che intensità! Joan omaggia anche Donovan con Catch The Wind (il brano più noto del periodo folk del cantautore, quando veniva chiamato il “Dylan inglese”), ed alla padrona di casa si aggiunge la bravissima Mary Chapin Carpenter per una buona versione, molto rigorosa.

Anche Hard Times, è stata fatta dalla metà di mille (è una canzone popolare composta da Stephen Foster, lo stesso di Oh, Susannah!), e qui Joan divide il microfono con Emmylou Harris, una delle poche che come voce non ha paura della Baez (e Powell si sposta al piano), altra rilettura da pelle d’oca; Joan ed Emmylou vengono poi raggiunte da Jackson Browne (che somiglia sempre di più a Carlo Massarini con la parrucca, ed i due tra l’altro sono amici), per una strepitosa versione a tre voci e tre chitarre di Deportee, una delle più belle canzoni di Woody Guthrie, ed uno dei momenti top della serata. Ed ecco Dylan (inteso come autore), ma Joan, dopo un’introduzione in cui sfotte bonariamente il vecchio Bob, sceglie un pezzo poco conosciuto, Seven Curses, suonato in totale solitudine, come anche la canzone successiva, una fluida interpretazione del traditional Swing Low, Sweet Chariot; la prima parte del concerto (e primo CD) si chiude con la grande Mavis Staples che si unisce a Joan per un medley di puro gospel eseguito a cappella dalle due artiste, Oh, Freedom/Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around, dove spicca il contrasto tra la potenza di Mavis ed il timbro cristallino di Joan.

The Water Is Wide è un altro splendido traditional che la nostra avrà cantato mille volte, ma stasera con le Indigo Girls (cioè Amy Ray ed Emily Saliers) ed ancora la Chapin Carpenter è tutta un’altra storia; le Ragazze Indaco restano sul palco per un altro pezzo di Dylan, la grandissima Don’t Think Twice, It’s All Right, altra versione da manuale, voci perfette e pathos a mille, un altro magic moment del concerto. Ed ecco il primo brano full band, ed è una eccezionale rilettura del classico House Of The Rising Sun, resa imperdibile dalla presenza di due chitarristi come David Bromberg e Richard Thompson, dire strepitosa è riduttivo. Thompson rimane per una versione a due di quello che è il brano più recente tra quelli proposti: infatti She Never Could Resist A Winding Road era una delle canzoni di punta dello splendido Still, album dello scorso anno del chitarrista inglese http://discoclub.myblog.it/2015/06/30/altro-disco-richard-thompson-still/ , ma la sua presenza in scaletta ha senso in quanto Joan preannuncia che sarà uno dei pezzi presenti sul suo prossimo disco di studio, e se il livello si manterrà così ci sarà da divertirsi; ancora Jackson Browne per una toccante versione di una delle sue signature songs, Before The Deluge (che Joan aveva inciso negli anni settanta), con solo Jackson al piano, più un violino ed una percussione: magnifica. Diamonds And Rust è sicuramente la più bella e famosa tra le (poche) canzoni scritte dalla Baez, e qui è riproposta con un’intensità incredibile, e con l’aiuto di Judy Collins, che ha solo due anni in più di Joan ma sembra sua nonna, anche se è sempre in possesso di una grande voce.

Gracias A La Vida, il noto brano di Violeta Parra ed uno dei maggiori successi di Joan, vede la nostra in compagnia del musicista cileno Nano Stern, per una scintillante versione che parte lenta ma poi si trasforma in un brano dalla ritmica molto vivace e “latina” che piacerà sicuro anche ai fans dei Los Lobos. Ci avviciniamo alla fine, ma c’è il tempo per una stupenda The Boxer eseguita proprio in compagnia di Paul Simon (e di Richard Thompson), un brano tra i più belli di sempre rifatto in maniera sublime; The Night They Drove Old Dixie Down, oltre ad essere uno dei classici assoluti di The Band, è stato anche il più grande successo commerciale di Joan a 45 giri, ed è perfetta per chiudere la serata in questa versione full band, con la Baez visibilmente emozionata quando il pubblico le canta spontaneamente “Happy Birthday To You”; come bis Joan sceglie ancora Dylan, e non poteva esserci canzone più appropriata per l’occasione di Forever Young, eseguita per sola voce e chitarra.

Un concerto magnifico, un atto dovuto per una cantante splendida: ritenendo che Totally Stripped degli Stones ed i volumi 2, 3 e 4 di It’s Too Late To Stop Now di Van Morrison siano comunque da considerarsi ristampe, a mio parere questo 75th Birthday Celebration è, fino a questo momento, il live dell’anno.

Marco Verdi

La Classe Non Invecchia! Anteprima Graham Nash – This Path Tonight

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Graham Nash – This Path Tonight – Blue Castle CD/Deluxe Download/CD+DVD

Certe convinzioni e certi stereotipi sono duri a morire: è infatti opinione comune che, nell’ambito del più famoso dei supergruppi, cioè Crosby, Stills & Nash (e Young, nei rari casi in cui si è degnato), Graham Nash rappresentasse l’anello debole. Certo, se paragonato agli altri due compagni di ventura forse l’ex Hollies ha un filo di talento in meno (Neil Young è di un altro livello o, come dicono gli esperti di calcio, fa reparto da solo), ma mi viene da ridere solo al pensiero di considerare uno che ha scritto brani come Marrakesh Express, Our House, Chicago, Cathedral, Just A Song Before I Go, Wasted On The Way (oltre al più grande classico di CSN, Teach Your Children) come una figura di secondo piano. Di certo non è mai stato un artista prolifico, dato che a parte i (pochi) album con il trio/quartetto di cui sopra, fino allo scorso anno aveva inciso solo cinque lavori da solista (ma per correttezza dovremmo ricordare anche i dischi in duo con David Crosby, comunque solo quattro), partendo nel 1971 con il bellissimo Songs For Beginners, inferiore al debutto del baffuto socio (il mitico If I Could Only Remember My Name) ma superiore all’esordio di Stills (che si rifarà di lì a breve con i Manassas), seguito nel 1974 dal discreto Wild Tales, dal claudicante Earth & Sky (1980), dal brutto Innocent Eyes (1986) e, dopo ben sedici anni, dall’ottimo Songs For Survivors, che anche nel titolo si riallacciava al disco di 31 anni prima e senza dubbio si piazzava appena alle sue spalle anche come qualità.

Negli ultimi anni Graham è stato molto attivo soprattutto dal punto di vista produttivo, in quanto ha curato la messa a punto degli splendidi cofanetti di Crosby, il suo e quello di Stills (nell’ordine), oltre al grandioso Live 1974 di CSN&Y, ma canzoni nuove nessuna: giunge quindi gradito questo album nuovo di zecca del musicista di Manchester, This Path Tonight (esce il 15 di Aprile, fra pochi giorni dunque), dieci canzoni (o tredici, come vedremo) proposte dal nostro con il suo consueto stile raffinato e gentile, un album sicuramente riuscito che, anche se non vale Songs For Beginners, si può tranquillamente mettere sullo stesso piano di Wild Tales.

Il disco giunge in un momento molto particolare della vita di Nash, e cioè la separazione, dopo ben 38 anni, dalla moglie Susan, e dell’innamoramento da parte del nostro per la giovane fotografa newyorkese Amy Grantham (che per quanto ne so, potrebbe anche essere la causa del divorzio, certi nonnetti ad un certo punto della vita non li tieni più, vedi anche l’ex compagno Neil con Daryl Hannah), evento che sicuramente ha dato nuova linfa ed ispirazione al nostro, il quale non manca però di portare alla ribalta anche i consueti temi di attualità (ed è un peccato non avere davanti i testi, mai banali nel caso di Nash). Il produttore (ed anche co-autore dei brani) è Shane Fontayne, chitarrista anche di CSN dal vivo, un ottimo musicista e valido anche in consolle: una produzione classica, con un suono mai invadente (tranne forse nella title track) e completamente al servizio della voce di Graham, sempre bella e pulita nonostante le 74 primavere; la band in studio è composta da gente che dà del tu ai propri strumenti, dal batterista Jay Bellerose al pianista Patrick Warren, passando per l’organo di Todd Caldwell ed il basso di Jennifer Condos.

This Path Tonight (la canzone) dà il via al disco in modo forte e deciso, con un arrangiamento rock e ritmo cadenzato, un inizio tonico e grintoso, anche se forse un tantino sopra le righe nel sound. Myself At Last la conoscevo già (l’hanno suonata CSN lo scorso anno a Milano), una ballata gentile e tipica del suo autore, ma non per questo non degna di nota (anzi, questo è il tipo di pezzi che mi aspetto in un disco di Nash), mentre Cracks In The City ha una struttura folk ed un ritornello molto intenso. La delicata Beneath The Waves, con un ricorrente arpeggio acustico ed un drumming complesso, è un brano d’atmosfera, sofisticato ma anche poco immediato, meglio Fire Down Below, elettrica e dominata dalla chitarra di Fontayne, anche se il cantato di Graham si mantiene su toni pacati.

Another Broken Heart è di un gradino superiore: Nash canta con la consueta classe, il ritmo è sostenuto e la melodia fluida e decisamente ben costruita (ed anche il suono, elettrico ma misurato, è perfetto); Target ci presenta un Nash vicino a quello degli anni settanta, una bella canzone dal timbro folk, motivo limpido e strumentata in maniera classica, con preziosi interventi di steel, piano ed armonica. Bella anche Golden Days, con il nostro che ricorda con affetto i bei tempi della sua gioventù artistica, un gradevole pastiche dalla base acustica e squisito gusto pop, con qualche riferimento beatlesiano (anche nel testo, in quanto Nash cita All You Need Is Love); Back Home, lenta e rarefatta, con sonorità quasi alla Daniel Lanois e la raffinata Encore, ancora con rimandi sonori al passato, chiudono il CD, almeno nella sua versione “fisica”.

Sì, perché esiste anche una edizione deluxe, ma solo per il download, con ben tre brani in più: Mississippi Burning (un brano che parla di contrasti razziali, condividendo anche lo stesso titolo di un famoso film di Alan Parker), che ha un andamento quasi da filastrocca folk ed un intenso ritornello corale, Soft Place To Fall, altro pezzo tipico per Graham, ma con una costruzione melodica di prim’ordine ed un accompagnamento elettrico guidato da una bella slide (meritava di entrare nel CD fisico, è una delle migliori) e The Last Fall, che chiude definitivamente il lavoro con una dolce ballata acustica, semplice ma a cui non difetta il pathos.

Un buon ritorno sulle scene per Graham Nash: spero solo che non sia il suo ultimo lavoro, ma considerando la regolarità con cui incide qualche dubbio in proposito mi viene.

Marco Verdi

*NDB E ne esiste un’altra versione, ancora più deluxe, senza le tre tracce extra, ma con un DVD aggiunto di oltre due ore, dove vengono riproposti venti classici dal songbook di Nash (qui potete leggere i titoli dei brani http://discoclub.myblog.it/tag/graham-nash/), che provvederemo ad illustrarvi con una post(illa) ad hoc, non appena lo avremo visto, visto che il tutto, come detto, esce il 15 aprile.